loader
menu
© 2025 Eddyburg

Nel groviglio delle contraddizione e delle menzogne, delle vacuità e delle solite grinfie sulla citta, forse una speranza per Roma. Se trovano, come stanno cercando un accordo largo con un programma convincente. Il manifesto, 11 marzo 2016

Anche le primarie del Pd hanno finito per entrare, con le loro schede bianche, nell’imbuto dei tanti misteri della città; una piccola tragedia che conferma il carattere dissipativo di questa città; a Napoli è andata assai peggio. Il Pd arranca: troppe ombre nelle gestioni passate delle giunte di sinistra non hanno avuto giustificazioni, sono state semplicemente rimosse dall’affannoso dibattito politico; e ora esse si riaffacciano chiedendo il conto.

Quale rapporto avere con gli avidi costruttori mai sazi di cemento? Quale futuro si prospetta per le immense periferie entro e oltre il raccordo anulare? E il traffico, diventato vero e proprio incubo dei romani? E la raccolta differenziata (a che punto sta?)? Dove si discute del tema dell’accoglienza, un tempo l’arma segreta della Roma imperiale? E così via. Unica promessa: quella di imitare, a Roma, il “successo” del Modello Expo a inaugurare il “nuovo corso” della capitale: replicare un Nuovo Modello (dopo quello “Roma”) è tutto ciò che viene invocato.

Tutto sommato che Giachetti, e il Pd con lui, non abbiano neppure presentato un programma per la città, è comprensibile. Che c’è da dire? Ricostruiamo dalle fondamenta? Tappiamo i buchi? Modernizziamo (lo slogan di Rutelli)? Sostituiamo il vecchio modello con uno nuovo? Le parole (e i Modelli) si sono consumate tutte (e con loro i programmi), e manca persino un’idea di come si vorrebbe gestire e amministrare questa città. Che dire dello Stadio della Roma (con annessi grattacieli e centri commerciali) e della sua invocata candidatura alle Olimpiadi? Dove si parla, in città, di tutto questo? Che fine ha fatto l’indagine di Fabrizio Barca a proposito dei circoli del Pd? E’ volato qualche straccio (circolo), e poi? Non ne era emerso un panorama devastante di collusioni e beghe interne tale da paralizzare l’intero Pd romano?

Anche sui Fori si discute a vuoto e si dimentica la grande lezione di Petroselli e Nicolini: loro i Fori pedonali non li avrebbero voluti per soddisfare l’ingordigia dei turisti, tantomeno per farne il salotto bello della città dei benestanti. Li volevano per regalarli ai borgatari, per accorciare le distanze tra loro e la Grande Bellezza.

Da questo gnommero, come lo avrebbe chiamato Gadda, non si esce; neppure con il perturbante Giachetti con la sua barba incolta stile disoccupato engagé, la cui immagine vuole apparire (persino nella pronuncia dialettale) lontana da quella dell’algido Marino sempre in giacca e cravatta. Ce la mette tutta Giachetti per convincersi che qualcosa si possa ancora fare per questa città; ma non convince i romani che si sono tenuti lontani dai seggi, sia pure in una giornata che sembrava promettere tuoni e temporali che non ci sono stati. La sua fedeltà a Renzi gli nuoce. E i romani, si sa, sono cinici e spietati: cedono facilmente alle lusinghe ma poi, al momento giusto, sono pronti ad abbandonare il carro del vincitore senza pietà: «Non c’è più niente da fà pe’ sta’ città», mormorano risentiti nei bar delle periferie.

Fassina ci ha messo molto coraggio. Ha girato in lungo e in largo la città; ha presentato un programma, tenta di raccogliere le voci disperse a sinistra del Pd, senza retorica, senza squilli di tromba ed è subito incappato nello gnommero delle beghe romane, così che dal cilindro sono spuntate altre candidature: Marino e Bray. Ce n’era proprio bisogno? Semmai c’e ancora bisogno di loro per allargare il cerchio del consenso intorno a lui.

Così ancora una volta il carattere tragico della città ha divorato speranze ed emozioni. I romani, diceva Pasolini, hanno una sola espressione per manifestare la loro emozione: “Anvedi o’”, e sembra che questa volta neppure riescono a pronunciarla.

Ma, a parte la figuraccia delle fasulle schede bianche, il fatto è che l’entusiasmo che accompagnò la vittoria di Marino non c’è più. Ed è solo consolatorio (ancorché penoso) attribuire questa freddezza alle vicende di Roma mafiosa. Adesso ripartirà il tormentone (e la dittatura) del “voto utile”. C’è spazio a sinistra, abbiamo detto in coro; non sbattiamo la porta in faccia a chi sta aspettando da tempo e occupiamolo questo invocato spazio.

Nulla accade per caso: i dati taroccati nelle primarie di Roma sono il sintomo di una malattia, grave, che affligge il partito democratico. Un commento di Walter Tocci, ripreso da waltertocci, online (m.b.)

Chi ha ordinato di gonfiare i dati delle primarie non può passarla liscia. Ha danneggiato il partito nel modo più stupido che si possa immaginare, e ha prodotto nuovo sconcerto tra gli elettori. Il risultato non è inficiato e, tutto sommato, la partecipazione non è stata neppure bassa rispetto alla povertà di contenuti nel confronto tra i candidati. Certo, se il Pd avesse promosso una lista civica di centrosinistra aperta alle competenze più innovative, alle forze sociali e alla cittadinanza attiva, avrebbe ottenuto una partecipazione al voto superiore alla soglia dei centomila. Sarebbe stata una festa democratica, avrebbe dato al candidato lo slancio decisivo per vincere le elezioni.
Era l'occasione per far vedere un vero partito democratico, e invece ha vinto la miopia del ceto politico. Quando prevale il piccolo cabotaggio, non ci sono più strumenti politici per innalzare la partecipazione e restano solo i trucchi contabili. Nulla accade per caso; anche uno stupido episodio come questo è il sintomo di una malattia. E far finta di niente, ridimensionare, sopire e sperare che passi non è la terapia giusta. Anzi, la patologia si aggrava se i responsabili restano ignoti, se chi sbaglia rimane ai posti di comando. Mi aspetto che gli organi di garanzia prendano provvedimenti senza guardare in faccia a nessuno.
I “notabili” hanno portato alla crisi del partito romano, prima con Mafia capitale, poi con le firme dal notaio, e da tempo con la palese impreparazione nel programma di governo. Ora sappiamo che possono far male al Pd non solo per arroganza ma anche per idiozia.

Sappiamo anche che il commissariamento non ha risolto il problema. Anzi, per non riformare la struttura di partito ha sviato l'attenzione sui circoli, i quali proprio nelle primarie si sono confermati, invece, come l'unica forza capace di mobilitare i militanti e gli elettori. È tempo di commissariare il commissariamento affidando le gestione della campagna elettorale a un Consiglio dei Garanti, da scegliere tra le personalità più autorevoli, indipendenti e libere da incarichi parlamentari o politici. In tal modo si evitano altre figuracce e si crea il clima sereno per un impegno corale a sostegno di Giachetti che ha vinto le primarie ed è pienamente legittimato come candidato sindaco.
Al Consiglio spetta anche il compito di preparare il congresso per organizzare il Pd romano secondo un modello mai visto prima. Sarà un lavoro lungo e difficile, ma la direzione da prendere è indicata proprio dalle ultime vicende.
C'è da domandarsi perché da diverso tempo non si riesca a festeggiare il risultato di questi appuntamenti, spesso offuscati dagli errori e da scene desolanti ben vive nella memoria di tutti. Si alza subito la richiesta di nuove regole, poi cala il sipario e non se ne fa più nulla. Eppure non è colpa delle primarie, ma del partito che non riesce a rappresentarne l’etica democratica. Si è ormai generato un contrasto tra la forma politica e la sua regola fondativa. È un'organizzazione gerarchica diretta dai leader mediatici e dai padroni del territorio, ma proprio questo modello frena la partecipazione che pure viene evocata dall'invenzione delle primarie. È un partito verticale con una regola orizzontale. L'attuale PD è ortogonale a se stesso. Per questo, gli capita, anche inconsapevolmente, di smentire le aspettative del suo popolo.

Si tratta allora davvero di cambiare verso, di mettere il partito in parallelo con la partecipazione politica, chiamando i militanti e gli elettori a scegliere non solo i candidati ma anche i punti salienti del programma di governo. L’innovazione potrebbe cominciare proprio da Roma. Laddove è il rischio è anche ciò che salva.

La Repubblica, 3 marzo 2016



GIROLAMINI, IL TESORO PERDUTO
“UN DANNO ALL’ITALIA DA 20 MILIONI”
di Conchita Sannino

La Corte dei Conti quantifica il saccheggio subito dalla storica biblioteca Il Senato dà l’ok per l’utilizzo delle intercettazioni di Marcello Dell’Utri
«Piena conferma». I giudici d’appello della Corte dei Conti ribadiscono il “prezzo”. Lo scandalo dei Girolamini deve essere definitivamente risarcito da coloro che ne furono predatori trasvestiti da custodi.

La spoliazione più vasta e sfacciata inferta, in età moderna, a una storica biblioteca italiana, lo splendido complesso monumentale che si apre nel cuore della Napoli antica a due passi dal Duomo, deve essere ripagata così come stabilito già in primo grado dai magistrati contabili campani a carico dell’ex direttore del complesso, Marino Massimo De Caro, e dell’ex conservatore Sandro Marsano, già condannati dalla sezione campana al pagamento di oltre 19 milioni di euro, in favore dei Girolamini.

La sentenza della prima sezione giurisdizionale centrale è stata depositata lo scorso 4 febbraio, presidente Nicola Leone, con i magistrati Mauro Orefice, Emma Rosati, Piergiorgio Della Ventura e Fernanda Fraioli. Sono loro a riaffermare il verdetto e a respingere l’appello di De Caro che, assistito dall’avvocato Italo Spagnuolo Vigorita, aveva lamentato la «mancata considerazione da parte del primo giudicante dello stato di incuria e degrado in cui già versava la biblioteca », oltre che la «mancata chiamata in causa dei dirigenti e funzionari ministeriali». Ma per la Corte dei Conti, questa ed altre «doglianze si appalesano prive di pregio e devono essere disattese». Sciocchezze, tradotto dalla lingua del diritto.

Per i giudici, l’opera di spoliazione architettata e realizzata da De Caro è stata «tanto scientifica e pianificata da inglobare e travolgere ogni possibile pregressa incuria o disattenzione». D’altro canto, per le responsabilità di De Caro come regista del clamoroso saccheggio, parlano interi faldoni di atti processuali a carico dell’ex direttore così benvoluto dall’allora ministro Galan, e amico devoto del noto bibliofilo ed ex potentissimo senatore Marcello Dell’Utri, anch’egli coinvolto nello scandalo e indagato per concorso in peculato. De Caro è infatti già stato condannato a sette anni, con sentenza passata in giudicato, per peculato, mentre è ancora imputato in un altro processo con le accuse di associazione per delinquere, devastazione e saccheggio.

Una storia che aveva sconvolto il mondo della cultura internazionale, e i più grandi studiosi del libro antico. E parallelamente all’inchiesta penale, il sostituto procuratore Francesco Vitiello della magistratura contabile mette nel mirino l’enorme danno originato dalla spoliazione pianificata da De Caro, complice don Marsano. Almeno 4mila testi preziosi volati via dagli antichi scaffali. Spuntano varie intercettazioni. E ora il Senato dà l’ok al loro utilizzo. In una, Dell’Utri chiede sornione a De Caro: «Massimo, fammi il prezzo ». Stavolta lo hanno deciso i giudici.


E ORA STIAMO ATTENTI
A NON DIMENTICARLA DI NUOVO
di Tomaso Montanari

La Corte dei Conti condanna i saccheggiatori per «l’amputazione delle pagine recanti note di possesso; la devastazione patita dai libri malamente stipati in scatoloni o esposti alla luce, o all’umidità; l’asportazione di tavole; i tagli, abrasioni, strappi, scompaginamenti, lavaggi corrosivi...». Quale ‘bibliofilia’ anima quel mercato internazionale che ha tanto beneficiato del massacro dei Girolamini? C’è bisogno di un amore diverso: non il possesso esclusivo, ma la condivisione più larga. Altrimenti, quando la Procura toglierà i sigilli alla Biblioteca, il rischio è che essa ricada nella marginalità che è stata la premessa della devastazione.

Questa volta, l’università potrebbe fare la differenza. Andrea Mazzucchi (filologo della letteratura italiana presso la Federico II di Napoli) sta lavorando ad un progetto che collochi ai Girolamini la prima Scuola di filologia materiale d’Italia: dove ogni anno una ventina di laureati si formi sullo studio dei manoscritti (paleografia, diplomatica, filologia), catalogando (e dunque mettendo in sicurezza) l’enorme quantità di codici conservati nelle biblioteche meridionali, a partire proprio dai Girolamini. Accanto a questo cuore pulsante, una struttura che redistribuisca la conoscenza: le sale e i chiostri dell’enorme complesso tra Via Duomo e il decumano si aprirebbero alla cittadinanza. Non un museo, ma il primo grande centro per il libro del Meridione: dove i ragazzi delle scuole, i pensionati e i bambini possano partecipare a letture pubbliche, spettacoli, caffé letterari. Il progetto ha il sostegno dell’Ateneo, e ha un parziale finanziamento: se il Ministero per i Beni culturali vorrà, potrà partire subito.

In fondo era il sogno di Giuseppe Valletta (1636-1714), padre del pensiero illuminista napoletano: che spiegò ad un papa che l’In-quisizione si era incattivita perché finalmente «si erano fuori de’chiostri dilatate le lettere, e propagata nella nostra patria la filosofia». I libri di Valletta sono ai Girolamini: a perorarne l’acquisto fu il più illustre frequentatore della biblioteca, Giovan Battista Vico. Dilatando fuori da quei chiostri l’amore per i libri si avvererebbe anche un altro sogno. Nell’ottobre del 1980 il governo decise di fare dei Girolamini una scuola di studi filosofici, diretta da Gerardo Marotta: «un provvedimento coraggioso — scrisse Luigi Firpo — illuminato dalla fede laica nell’intelligenza e nella volontà rivolte al bene comune ». Nemmeno un mese dopo, il terremoto dell’Irpinia cancellò quella svolta, riducendo i Girolamini a ricovero per gli sfollati.

Stavolta ci si deve riuscire. Roberto Saviano ha spiegato perché Napoli è un buco nero, che inghiotte il proprio futuro. Poche cose possono cambiare il destino di una comunità quanto la produzione di conoscenza: non il marketing dei capolavori che sradica i Caravaggio, non la fabbrica degli eventi. Un centro per la formazione alla lettura piantato nel cuore di Napoli, invece, sarebbe più potente di qualunque presidio militare, più carico di futuro di qualunque tattica politica.


COSA c'è di peggio che fare uno stage da 430 euro netti al mese, dopo anni di studio, e con una laurea o anche un dottorato in tasca? Ovvio: non riuscire nemmeno a farseli dare.

È questa la paradossale situazione in cui si trovano, da gennaio, i famosi '500 giovani per la cultura': quelli che il 21 ottobre 2013 Enrico Letta andò ad annunciare a Otto e mezzo, presentandoli come una specie di svolta epocale. Finalmente un governo che investiva sulla cultura: non proprio creando lavoro, non esageriamo, ma selezionando "cinquecento giovani laureati da formare, per la durata di dodici mesi, nelle attività di inventariazione e di digitalizzazione del patrimonio culturale italiano, presso gli istituti e i luoghi della cultura statali" (così il bando).

Ebbene, né a gennaio né a febbraio quei «500 giovani» hanno ricevuto il loro 'stipendio'. Perché? Perché il combinato disposto della 'riforma' che ha gettato il ministero per i Beni culturali nel caos e la cronica incomunicabilità burocratica tra ministeri (in questo caso, appunto, il Mibact e l'Economia) ha fatto sì che nessuno ora sappia chi deve erogare gli 'stipendi'. Non solo: la confusione è stata tale che le ritenute finora applicate non erano quelle giuste, cosicché i «500 giovani» dovranno pure restituire i soldi al governo. Finalmente, una circolare della direzione Mibact per l'Educazione e Ricerca ha annunciato la soluzione: i centri di spesa saranno "i Segretariati regionali e gli istituti dotati di autonomia". Ma questi ultimi hanno già messo le mani avanti: non hanno i fondi, non hanno i capitoli di spesa, né i conteggi giusti. Morale: i 500 giovani non saranno pagati neanche a marzo, e anzi fonti sindacali dicono che lo stallo potrebbe durare fino a giugno.

Quando Letta annunciò il bando, sulla rete ci fu un'insurrezione, e fu coniato l'hashtag #500schiavi: profetico, vista l'incredibile conclusione che calpesta quel che rimaneva della dignità di chi ha deciso di dedicare la propria vita al nostro patrimonio culturale.

Ma il significato di questa vicenda va anche oltre. Perché vi si può leggere tutta intera l'incapacità di una classe politica che invece di cambiare i meccanisimi inceppati del
sistema, preferisce avanzare per provvedimenti eccezionali e una tantum, comunicando nel modo più enfatico bandi ad effetto con numeri tondi: a quei 500 giovani sono infatti seguiti i 1000 stage del governo Renzi, i 500 professori da riportare in Italia, i 500 posti di ruolo per il patrimonio culturale... Ognuna di queste infornate, decisa dal ministro di turno per andare in televisione, accende una piccola speranza, ma finisce col determinare un inaudito caos amministrativo, risolvendosi in un boomerang.

Perché quello di cui c'è davvero bisogno non è questa specie di residuale speranza da lotteria ('uscire' tra i 1000, o i 500), ma invece la certezza di un processo ordinato e continuo di reclutamento, trasparente e fondato sul merito. Certo, per ottenere questo risultato bisognerebbe avere la capacità e la volontà di cambiarlo davvero, il sistema: ma è solo questa la prospettiva che può dare fiducia a chi deve decidere se rimanere o no nel Paese in cui è nato. Una fiducia difficile da avere, quando non riesci neanche a farti dare quei miserabili 430 euro al mese che ti spettano per contratto. #500schiavi: fino in fondo.

Che il progetto del nuovo aeroporto di Firenze sia un autentico imbroglio perpetrato ai danni dei cittadini è fuori... (continua a leggere)

Che il progetto del nuovo aeroporto di Firenze sia un autentico imbroglio perpetrato ai danni dei cittadini è fuori da ogni ragionevole dubbio. Alla base dell’imbroglio vi è il doppio ruolo dell’ENAC, da una parte proponente e dall’altra controllore del progetto. Perciò, alle obiezioni di cittadini e associazioni cui è impossibile rispondere nel merito, l’ENAC – parola di re - obietta a sua volta di avere già valutato ed espresso parere favorevole a sé stesso! Inoltre, per meglio nascondere le magagne del progetto, l’ENAC ha presentato nello Studio di impatto ambientale (SIA) una documentazione pletorica e ridondante su questioni inutili (con tabelle, addirittura, sull’obesità infantile in Toscana), ma lacunosa e contraddittoria su temi cruciali.

Afferma l’ENAC che la pista è esclusivamente monodirezionale e che in caso di problemi i piloti atterreranno su un altro aeroporto; ma nelle controdeduzioni alle osservazioni dell’Università di Firenze ammette che i voli saranno “prevalentemente unidirezionali”, e nello Studio di impatto ambientale prevede un 18-20% di voli su Firenze. Sostiene l’ENAC che il Polo universitario “ricadrebbe nella zona di rischio D” (la meno impattante), ma dalle tavole presentate nello SIA risulta che una buona parte del Polo (frequentata da circa 1500 tra professori, personale e studenti) si trova nella zona C, dove, secondo il Codice di Navigazione, devono essere escluse attività che comportino “insediamenti a elevato affollamento e la costruzione di scuole, ospedali e, in generale, obiettivi sensibili”.

Ed ecco che segue il gioco delle tre carte. All’Università che chiede perché non abbia predisposto i piani di rischio, l’ENAC risponde: “Il compito di redazione del piano di rischio è posto dal Codice della Navigazione in capo ai Comuni territorialmente competenti che prima della loro adozione devono sottoporre i piani al parere di competenza dell'ENAC”. Viceversa, il Codice della Navigazione recita: “Al fine di garantire la sicurezza della navigazione aerea, l'ENAC individua le zone da sottoporre a vincolo ... Gli enti locali, nell'esercizio delle proprie competenze … adeguano i propri strumenti di pianificazione alle prescrizioni dell'ENAC” (CdN, art 707). ENAC inverte – e non si può credere che sia un refuso - titolarità e priorità delle competenze; quando fa comodo se ne appropria, ad esempio, decidendo, contro il Pit, la lunghezza della pista; quando queste responsabilità sono scomode, le scarica su altri, in questo caso sugli incolpevoli Comuni.
Si aggiunga che l’ENAC non risponde a molte delle richieste di integrazioni dello stesso Ministero dell’Ambiente, glissando su tutto ciò che può disturbare; in una parola: lo Studio di impatto ambientale, comprese le integrazioni, è un concentrato di irregolarità, di omissioni e di affermazioni contradditorie che si aggiungono a refusi, tabelle invertite, dati lacunosi o non controllabili (per scelta del proponente), formule incomplete o la cui fonte non è spiegata. Un vero e proprio imbroglio!

Un imbroglio che è stata denunciato in molte assemblee nei Comuni interessati e da due convegni organizzati da ‘rami’ della Cgil, l’ultimo, recentissimo, dei lavoratori del Polo scientifico di Sesto, direttamente interessati dal rischio di catastrofe. Ma tutti gli argomenti, le analisi tecniche, le valutazioni scientifiche che, in questo convegno, come nei precedenti, hanno letteralmente distrutto il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, non oltrepassano la cerchia ristretta degli ambientalisti attivi e delle popolazioni direttamente interessate. I giornali nazionali ignorano la cosa, quando non danno improbabili annunci di presunti via libera ai lavori o di improbabili inaugurazioni. La politica regionale volta la testa dall’altra parte e avalla le menzogne dell’ENAC. I cittadini – la grande maggioranza - sono informati solo dai depliant e dagli opuscoli di Toscana Aeroporti, dove l’aeroporto è una lingua sottile, circondata di verde, laghetti e paperelle; loro, i cittadini, sono, invece, circondati da un muro di silenzio.

Vedi sull'argomento le sette domande al presidente Enrico Rossi, le sue risposte e la replica della associazioni ambientalistiche della Toscana

«Raffaele Cantone ripercorre davanti ai consiglieri regionali quello che la politica toscana continua a negare da anni ai cittadini attivi nel Comitato No Tunnel Tav, ovvero che l’appalto così come è stato pensato e realizzato non va». Il Fatto quotidiano online, blog"Alle porte co' sassi", 26 febbraio 2016

Quello dei cantieri fiorentini della Tav è un «problema tutto italiano, tipico del nostro Paese e del nostro sistema di appalti pubblici. Un caso emblematico che non ci fa onore». Così ieri Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione durante l’audizione che si è tenuta davanti alla Commissione ambiente del Consiglio regionale. Cantone ha ripercorso tutti i guai del grande appalto dell’Alta velocità a Firenze vinto dalle cooperative rosse: una programmazione «come al solito carente», un aumento contrattuale molto elevato che ha comportato «enormi ritardi», un contenzioso «rilevante, con 300 milioni di riserve, ancora non riconosciuto ma comunque pesantissimo» e, non ultima, la «difficoltà ad interfacciarsi con i cittadini» con le istituzioni locali, in primis Comune e Regione che sulla trasparenza continuano a fare orecchi da mercante.

Per la Procura di Firenze i cantieri Tav sono da tempo “un concentrato di illegalità”, come hanno scritto nel dispositivo che ha chiuso un’inchiesta nata con l’arresto dell’ex presidente di ItalferrMaria Rita Lorenzetti, già presidente della Regione Umbria in quota Partito Democratico. Le accuse dei pm sull’appalto per costruire il tunnel e la stazione sotterranea di Firenze vanno da associazione a delinquere, corruzione, frode in forniture pubbliche, falso e truffa con un ruolo importante dei casalesi nello smaltire i rifiuti.

Raffaele Cantone ripercorre davanti ai consiglieri regionali quello che la politica toscana continua a negare da anni ai cittadini attivi nel Comitato No Tunnel Tav, ovvero che l’appalto così come è stato pensato e realizzato non va. Il magistato anticorruzione ha ribadito quanto vergato lo scorso 4 agosto nella relazione Anac su Firenze in cui si afferma che sono mancati gli “adeguati controlli” da parte degli enti pubblici preposti e che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non possono ritenersi del tutto superate”. Tra queste i permessi scaduti, i vertici delle società arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora. L’opera doveva costare poco più di 500 milioni, è lievitata fino a 750 prima di essere bloccata e «registrerà ulteriori incrementi». Inoltre il materiale utilizzato nei cantieri è «privo della qualità richiesta» e l’opera «sotto-attraversa il centro cittadino, interferendo con la falda idrica» come si evince anche dai «dissesti che hanno interessato la scuola Rosai confermando la delicatezza del contesto». E infine l’accusa peggiore: Cantone mette nero su bianco come «i comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera». Considerato il danno erariale l’Anac trasmetterà nei prossimi giorni il dossier Tav alla Corte dei Conti.

Tutto ciò è disarmante e allontana ancora più i cittadini dalla politica, dagli amministratori locali che a Firenze e in Toscana, da sempre, hanno fatto finta di non vedere ciò che accadeva sotto i loro occhi nonostante le denunce dei NoTav prima e della magistratura poi. Ancora oggi nessuno amministratore interviene nel dibattito se non per dire che i “lavori riprendano quanto prima”,come dichiarò alla Nazione Enrico Rossi il giorno del sequestro dei cantieri, in una sorta di riflesso pavloviano in cui la ragione e il buon senso sembrano smarriti per sempre.

A margine dell’incontro di Raffaele Cantone - la cui diretta streaming non è stata diffusa, e non fatichiamo a capire il perché, dal presidente della Commissione Stefano Baccelli (Pd), con l’opposizione di M5S e SìToscana -, il Comitato No Tunnel Tav ha raccolto alcune testimonianze di chi vi ha partecipato e ha reso pubbliche altre criticità emerse nell’audizione. Per i No Tav l’Autorità anticorruzione ha ribadito alcune critiche radicali alla grande opera a partire “dalla figura del General Contractor”, definita “criminogena”; che “la Valutazione di impatto ambientale sul progetto va rifatta”. Il Comitato conclude la sua nota stigmatizzando la mancata trasparenza della Commissione e ricorda come il governo della Regione “voglia procedere a testa bassa, ad occhi chiusi, ad orecchie tappate su questo indecente progetto”.

Ora, considerata la commistione tra partiti, camorra e cooperative rosse (presto il processo presso il Tribunale di Firenze sbroglierà questa criminosa matassa), non sarà forse il caso di dire basta a questa grande opera costosa per i bilanci pubblici, dannosa per la città ma soprattutto inutile, considerato che addirittura l’Università di Firenze ha prodotto un approfondito studio che dimostra come un passante di superficie, e non sotterraneo, consenta all’Alta velocità di attraversare la città spendendo un quarto e rafforzando il trasporto pendolare? Per chi volesse approfondire l’alternativa possibile, ma a quanto pare poco conveniente per la “casta” suggeriamo la lettura di TAV sotto Firenze. Impatti, problemi, disastri, affari; e l’alternativa possibile a cura di Alberto Ziparo, Maurizio De Zordo, Giorgio Pizziolo, Alinea Editrice, Firenze 2011.

Questo articolo sarà pubblicato sul n°37 della rivista La Città invisibile, edita da perUnaltracittà

L'intervista a Giancarlo Consonni tratta dal libro di Antonio Angelillo (a cura di), Expo dopo Expo. Progettare Milano oltre il 2015, Acma, Milano 2015, pp. 102-106.

Quale futuro avrà l’area sulla quale sorge EXPO 2015 una volta terminata la manifestazione? Expo 2015 ha innescato delle trasformazioni di rilevanza urbana all’interno della città di Milano?

L’errore di impostazione è evidente. In primo luogo perché si è scelto di dislocare l’Esposizione su terreni agricoli, quando c’erano aree dismesse (ex-industrie, scali, l’Ortomercato ecc) che avrebbero potuto essere recuperate, con vantaggio per la collettività. In secondo luogo perché, in ogni caso, al dopo Expo si sarebbe dovuto pensare fin da subito, rendendo il prima (l’Esposizione) compatibile con il dopo (il riuso). Si è invece puntato sulla mera creazione di rendita fondiaria.

È opinione di molti che, nel contesto metropolitano, una volta assicurata l’accessibilità trasportistica, una localizzazione valga l’altra. Eppure un ampio ventaglio di fallimenti accumulati negli ultimi decenni proprio nell’area milanese è lì a smentire questo luogo comune. Si può capire (fino a un certo punto) che vi restino aggrappati gli immobiliaristi e le banche; quello che invece non finisce di stupire è l’appiattirsi degli amministratori pubblici su questa impostazione. Come si spiega? La mia risposta è drastica, basata su un bilancio di lungo periodo: le persone a cui, in questi ultimi decenni è stata affidata la tutela del bene pubblico e il futuro della società - nel contesto lombardo, come altrove in Italia - dimostrano un deficit culturale in fatto di condizioni materiali in cui si svolge la vita delle persone. Gli amministratori locali, in particolare, sono del tutto indifferenti alla questione del fare città: chiudono il ragionamento sulla coppia volumi/infrastrutture che, letta in filigrana, sta per rendita/investimento pubblico. Quando invece il fare città dovrebbe essere al centro del fare politica.

È questo l’orizzonte che può spiegare perché si sia arrivati a scegliere per Expo un brandello di periferia metropolitana a ridosso di un cimitero e isolato dal resto del territorio dalle infrastrutture.

Fatta questa scelta sciagurata, a maggior ragione sarebbe stata necessaria un’impostazione capace di assegnare all’area Expo una prospettiva che evitasse la sua assimilazione a quell’immane edificato privo di qualità urbana che è, in molta parte, l’hinterland metropolitano. C’è invece da dubitare che su quest’area possa sorgere un insediamento dotato di qualità urbana: difficilmente quanto è stato fatto è adattabile a un disegno urbano degno di questo nome. Si prenda la piastra “cardodecumanica”, un’infrastruttura di reti primarie (fognatura, acqua, elettricità ecc.) su cui è basato il masterplan dell’Esposizione. Bene: questa “armatura”, la cui elevata concezione tecnologica è stata celebrata da più parti, finirà per condizionare non poco l’assetto futuro, a cominciare dalla dislocazione del verde in una posizione marginale. A cosa serve aver destinato il 54% dell’area a verde, se questo non è organicamente inseribile nell’armatura portante del sistema delle relazioni future? Il risultato, se va bene, sarà l’ammasso di contenitori collocati in rapporto alle infrastrutture di trasporto: tutto il contrario di quello che occorrerebbe perseguire: edifici e spazi aperti pubblici capaci di dar vita, in un’interazione dialogica e sinergica, a luoghi a elevata qualità architettonica e relazionale.

Si mette l’accento su un’emergenza economica: il recupero dell’investimento per la piastra (costata 165 milioni di euro) operata da Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Preoccupa soprattutto la forte esposizione di Arexpo verso le banche (160 milioni), dopo che la prima asta del novembre 2014 - in cui si partiva da una base di 315,4 milioni - ha registrato la risposta negativa del mercato.

Ma, come è evidente, le questioni economiche sono strettamente intrecciate a quelle strategiche. L’appetibilità, che i soggetti pubblici implicati davano per scontata, appare un miraggio. Stando alle proposte fin qui emerse, non si va oltre l’idea di un’iperspecializzazione funzionale coltivata a scala metropolitana. La stessa, per intenderci, che ha dato vita alle “città mercato” e da cui è venuta una forte spinta antiurbana. Che altro è l’idea di una “città della scienza”, avanzata dalla cordata che vede l’Università Statale di Milano alleata di Assolombarda?

Ben diversamente da quanto appare nei resoconti trionfali dei media, le cose non sono affatto semplici. Il rettore Gianluca Vago gioca d’azzardo: pensa che l’ingresso nel risiko immobiliare possa portare quelle risorse che le scellerate politiche governative degli ultimi decenni hanno negato al suo Ateneo (come le hanno negate agli altri atenei d’Italia e all’intero sistema dell’istruzione). Ma già sulla carta, nonostante l’entusiastica adesione del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni - e, a seguire, degli amministratori di Milano - i conti non tornano. Se ci atteniamo alle stime di massima fornite dallo stesso rettore Vago, lo spostamento della Statale costerebbe 400 milioni, una cifra che, per la metà verrebbe coperta, dalla vendita delle aree di proprietà dell’Università a Città Studi. Qui la semplificazione lascia interdetti su più di un aspetto.

L’Università Statale, soggetto pubblico, per conto del suo massimo rappresentante, si attribuisce il compito di mettere in campo una gigantesca trasformazione urbana, qual è la dismissione degli edifici oggi ospitanti i comparti scientifici dell’Ateneo situati a Città Studi. In più, sembra tornare il metodo inaugurato con il progetto Citylife, dove il Comune di Milano ha retto il gioco dell’Ente Fiera mettendo sul piatto una densità che è il doppio di quella che dovrebbe essere. Un modo di concepire le trasformazioni urbane per cui l’attore, privato o pubblico, sceglie di fatto le linee strategiche, la qualità dei progetti definitivi e addirittura i livelli della rendita. In altri termini: per rendere appetibile agli investitori privati il vasto comparto di Città Studi, si finirà per concedere densità insediative piuttosto alte, innescando un processo difficile da controllare negli esiti, come il caso Citylife dimostra ampiamente.

È elevato il rischio che, ancora una volta, non si facciano i conti con la bolla immobiliare cronica in cui siamo immersi e con lo stallo derivante: i capitali fermi sull’orizzonte della rendita, indisponibili per investimenti strategici che diano nuove energie al contesto metropolitano. Così come è elevato il rischio che l’area Expo si aggiunga al lungo elenco degli interventi non conclusi a Milano e nell’hinterland.

Si dirà che l’area lasciata dall’Esposizione andrà ad arricchire il policentrismo metropolitano. È una visione superficiale: il policentrismo storico era quello delle città e dei borghi e delle loro aree di influenza: una struttura gerarchica, dove la multifocalità era essenzialmente legata all’abitare. Le concentrazioni di attività in agglomerati specializzati di cui è disseminato il contesto metropolitano costituiscono dei frammenti, dove l’energia vitale si dissolve all’interno di contenitori anonimi e non irrora l’insediamento: non fa città. Quelle concentrazioni costituiscono un depauperamento della rete delle città e dei borghi.

Che fare allora dell’area, una volta finita l’Esposizione? Una possibilità potrebbe essere quella di legare il loisir metropolitano a un’agricoltura di qualità che sappia fare del verde perturbano un ambito di riqualificazione paesaggistica. Si tratterebbe di reinterpretare il tema Nutrire il pianeta facendone sia il perno del rilancio della ricerca specialistica, sia un terreno di presa di coscienza collettiva.

Lo richiede, tra l’altro, l’uso oculato della risorsa acqua. Per come il masterplan di Expo è concepito, c’è il rischio di un elevato spreco di risorse idriche, oltretutto sottratte proprio all’agricoltura. L’acqua fatta arrivare all’Esposizione, con adeguati adattamenti, potrebbe fare da sostegno all’innesto di elementi neoagricoli: un’agricoltura sperimentale, in cui convivano ricerca e acculturazione, recupero paesistico e tempo libero di massa.

La città di Milano è riuscita a cogliere le opportunità che sono state offerte da un grande evento come EXPO?
No; quando invece L’Esposizione poteva essere un occasione per creare risorse per la città. Come ho detto, l’unica valorizzazione che è stata considerata è quella riguardante la rendita immobiliare. In trent’anni Milano ha accumulato una sequela di interventi a cui corrispondono altrettante occasioni mancate. Ma quello che fa specie è vedere l’Università entrare nell’arena delle trasformazioni urbane e metropolitane senza mettere in campo idee e idealità; in altri termini, senza una strategia civile. Ed è non meno deludente vedere gli amministratori della cosa pubblica ritagliarsi un ruolo di semplici facilitatori di quanto viene proposto da altri soggetti.

In una grande metropoli come Milano, con esigenze sempre in crescita, quali pensa siano le principali mancanze? In che modo l’area di EXPO può assumere rilevanza all’interno di un contesto di area metropolitana?
L’armatura metropolitana dovrebbe strutturarsi su tre reti integrate: la rete della mobilità territoriale, il sistema del verde, la trama dei luoghi urbani. Questi tre sistemi nel contesto milanese presentano pesanti insufficienze, oltre che una scarsa armonizzazione e integrazione reciproca. La rete della mobilità metropolitana deve la sua inadeguatezza al primato accordato al mezzo privato e all’assenza di una visione integrata sia al suo interno sia nei rapporti con il quadro insediativo. È una rete che va ripensata integralmente alla luce del principio del massimo risparmio di tempo per chi abita la metropoli.

La rete del verde può contare su risorse straordinarie, a cominciare dal Parco Agricolo Sud e dagli altri parchi metropolitani, ma va consolidata, rafforzata, unificata alle varie scale. Infine, la trama dei luoghi urbani. Nell’ultimo mezzo secolo questa trama non è cresciuta in modo proporzionale agli insediamenti: si è così formato un esteso, cronico deficit di urbanità che va colmato prestando la dovuta attenzione ai rapporti di prossimità.

Lo zoning, teorizzato da urbanisti tedeschi negli ultimi decenni dell’Ottocento, è uno dei principi operanti che, riducendo la complessità dei tessuti insediativi, ha favorito la perdita di qualità urbana dei luoghi. Declinato poi a scala metropolitana, lo zoning ha impoverito le città storiche di attività e relazioni vitali. Il concetto di economie di scala, che si è dimostrato efficace nella produzione industriale di stampo fordista, trasferito in altri settori (commercio, intrattenimento, servizi sociali), ha effetti negativi sulle città e i borghi, perché li impoveriscono di attività vitali. Anche la scelta operata per Expo va in questa direzione; quando invece si sarebbe potuto accogliere l’idea di un’Expo diffusa, come quella avanzata a suo tempo dal gruppo interdisciplinare coordinato da Emilio Battisti.

Dal 1° Gennaio 2015 a Milano è stata istituita la Città Metropolitana, quali sono le novità che porterà questo nuovo ente? Come vengono riequilibrate le competenze?
Per quel che si è visto fin qui, il quadro è desolante. Siamo in una situazione di stallo. Per cominciare, se si vuole conseguire la possibilità di un’elezione diretta del sindaco metropolitano, occorre portare avanti due iniziative con lucidità e determinazione: 1) la formazione delle zone omogenee nell’hinterland; 2) l’attuazione di un decentramento all’interno dei confini del Comune di Milano. Su quest’ultimo punto si scontrano due posizioni: una che vuole la distruzione del comune di Milano; l’altra che vuole un equilibrio nella ripartizione delle competenze.

Ma accanto a questioni di natura istituzionale, c’è il problema del che fare. Le carenze accumulate nella sfera politica e l’inesistenza di una consapevolezza diffusa circa la posta in gioco hanno fin qui impedito il sorgere di un movimento esteso che chieda con fermezza alla Città Metropolitana di farsi carico delle questioni con cui quotidianamente gli abitanti della metropoli devono fare i conti.

Come si è evoluta la proposta del PGT dalla sua nascita fin alla sua approvazione (2012)? Quali sono i suoi punti chiave?
Si è partiti con la linea folle della giunta Moratti: l’idea di riportare a Milano più degli abitanti che ha perso in 30 anni (dal 1975 al 2005), cioè mezzo milione di abitanti, pensando che il motore immobiliare fosse la chiave per il rilancio dell’economia. Ma la leva immobiliare è stata quella che ha portato i cittadini fuori dalla città: una scelta forzata che, allo stesso tempo, dava l’illusione di potersi sottrarre alla rendita. Ma il tributo viene pagato in altro modo, tutti i giorni: in termini di disagio abitativo e relazionale. La giunta Pisapia ha rimediato alle follie della giunta precedente riportando le quantità a orizzonti più ragionevoli ma non ha dimostrato di volere e saper fare un Pgt legato a un’idea di città.

In che modo i contenuti del PGT influenzeranno il futuro dell’area di EXPO?
Per ora il Comune si guarda bene dall’avanzare proposte nel merito, reiterando con Expo il comportamento tenuto in tutte le questioni che contano. È come se, per evitare di apparire sopra le righe, si riservasse un ruolo secondario, aggrappandosi alla funzione di tutore delle regole. È vero che non ci sono risorse, ma l’autorevolezza non dipende dal portafoglio: una politica di indirizzo può essere esercitata per la qualità dei contenuti che si mettono in campo.

Vendita dei beni immobiliari pubblici: laRegione Toscana inverta la rotta. Appello a Enrico Rossi presidente della Regione, del Nodo toscano della Società dei Territorialisti/e. Rivista SdT online, 24 febbraio 2016

Capisaldi sociali e territoriali, garanzia diinclusività e di crescita civile, i beni pubblici presiedono al disegno democraticodi redistribuzione delle risorse, e il loro mantenimento in proprietà contrastai progetti neoliberisti di trasferimento dei beni di molti nelle mani di pochi.Queste ragioni dovrebbero indurre la Regione Toscana a conservare la proprietàdel patrimonio edilizio di sua competenza, a non perseguire politiche di stampoeconomicista nella loro gestione. E a ritirare quindi la delibera che pone invendita molti edifici di proprietà regionale.

La Società dei Territorialisti/e è dalla partedi chi intende mantenere pubblica la proprietà del patrimonio edilizio efondiario della nazione, la cui stessa esistenza favorisce i processi diri-territorializzazione, sia nel territorio aperto che entro il tessuto urbano.Aree ed edifici che Regione, Comuni e Città metropolitana hanno messoall’incanto si sono infatti dimostrati luoghi di enormi potenzialità, in cui siinverano pratiche dal “basso”, esperienze di “costruzione di territorio”,sperimentazioni di nuove forme di autogoverno e di gestione collettiva del benecomune.

Nei centri storici desertificati e nelleperiferie contemporanee, l’esistenza di aree di proprietà pubblica – il piùdelle volte di notevole valore storico-artistico – garantisce l’occasione perl’innesco degli auspicabili processi di rigenerazione urbana e sociale: ilrecupero di edifici o di terreni abbandonati al degrado, la loro fruizionecollettiva e le nuove pratiche di welfare dal basso che possono scaturire dalriutilizzo di spazi pubblici vuoti o in dismissione, costituiscono una nontrascurabile occasione di creazione di nuovi posti di lavoro in autogestione edi pratiche di autocostruzione finalizzate alla residenza per le fasce socialipiù deboli.

Nelle campagne, proprietà e terreni pubblicicontribuiscono a favorire l’occupazione giovanile nella neo-agricoltura autosostenibile,e, attraverso la promozione di parchi agricoli e di filiere alimentari locali,a innescare processi di ripopolamento rurale. Nello scenario attuale dellepratiche di riappropriazione di spazi pubblici condannati alla vendita, il casodella Fattoria di Mondeggi – di proprietà della Provincia – è paradigmatico edovrebbe fungere da esempio per riconfigurare nuove politiche di gestione deibeni statali, regionali, comunali e pubblici in genere.

A fronte della mercificazione che investecittà e territori, la Regione Toscana inverta la rotta e avvii un corsopolitico che impedisca l’introduzione dei beni comuni nel Mercato e che anzivalorizzi l’inveramento di pratiche dal “basso”, esperienze di “costruzione di territorio”,e sperimentazioni di nuove forme di autogoverno e di gestione collettiva delbene comune.

Riferimenti
l,articolo di Antonio Fiorentino, Se la Toscana rinuncia a difendere i propri beni comuni

«La relazione del consiglio di amministrazione di Expo 2015 presentata ai soci il 9 febbraio. Sala: "Risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane". Corte dei Conti: "Mancano risposte sulla copertura dei costi post esposizione"». Il Fatto quotidiano online, 24 febbraio 2016

Il candidato sindaco di Milano del Pd, Giuseppe Sala, ha un bel dire che non c’è nessun buco Expo. La società che ha gestito l’esposizione universale meneghina ha chiuso il 2015 con un rosso di 32,6 milioni di euro. A smentire Sala è lo stesso Sala. O meglio, il consiglio di amministrazione di Expo 2015 da lui guidato, che lo scorso 18 gennaio ha messo nero su bianco la cifra in una relazione che è stata discussa dai soci il 9 febbraio scorso. Dieci giorni dopo la data inizialmente prevista, il 29 gennaio a ridosso delle primarie del Pd che hanno incoronato Sala candidato sindaco di Milano, poi spostata su indicazione del ministero dell’Economia. Nel documento si legge anche che “in considerazione delle spese strutturali previste nei primi mesi del 2016 (quantificabili in 4 milioni mensili), è probabile una ricaduta nelle previsioni dell’articolo 2447 del codice civile durante il mese di marzo”. Il che significa, in altre parole, che secondo i calcoli del consiglio guidato dallo stesso Sala, da febbraio 2016 le disponibilità liquide di Expo 2015 si sono esaurite, ma non le spese. E andando avanti così, è sempre la stima del cda, è prevedibile che entro il mese prossimo la società arrivi ad accumulare perdite superiori a un terzo del suo capitale. Una situazione in cui la legge impone l’abbattimento del capitale stesso e il suo contemporaneo aumento per riportarlo al minimo legale.

La scivolosità del caso non è sfuggita al collegio sindacale di Expo 2015 che, nel corso dell’assemblea che due settimane fa ha deliberato la messa in liquidazione della società, ha chiesto “chiarezza in relazione alla necessità di risorse per la liquidazione” stessa. Richiesta condivisa dal magistrato della Corte dei Conti, Maria Teresa Docimo, che ha sottolineato come la messa in liquidazione risponde “ad uno solo dei temi inseriti nella relazione degli amministratori, mentre non sono fornite risposte, nel merito, in relazione alla copertura dei costi sopportati dalla società successivamente alla data di chiusura dell’evento”. Tanto più che lo stesso Sala ha confermato che “le risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane” e che “è importante rendere chiara la situazione al nominato organo di liquidazione”. Anche perché i liquidatori freschi di nomina – il prorettore della Bocconi Alberto Grando, Elena Vasco (Camera di Commercio), Maria Martoccia (ministero Finanze) e i confermati Domenico Ajello (Regione Lombardia) e Michele Saponara (Città Metropolitana) per i quali è stato fissato un compenso complessivo di 150mila euro – hanno 90 giorni per elaborare un progetto di liquidazione. Per la scadenza, però, stando alle stime del cda, Expo 2015 avrà una carenza di liquidità di oltre 80 milioni di euro.

Nel frattempo, però, è imminente una finalizzazione degli accordi con Arexpo sulla gestione delle aree fino al 30 giugno 2016, quando i terreni torneranno sotto l’ala della società in cui sta facendo il suo ingresso il Tesoro. Le indicazioni dei soci di Expo 2015 ai liquidatori sono inequivocabili, in quanto auspicano “il compimento di una attività di rivitalizzazione di parti del sito Expo 2015 nella fase transitoria dello smantellamento del sito stesso, attuato preservando i valori del sito medesimo, secondo principi di sinergia fra le società Expo 2015 S.p.A. e Arexpo S.p.A., nel rispetto delle funzioni proprie di ciascuna delle due società”. I liquidatori, quindi, sono invitati ad individuare, tra i principali criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione, quelli preordinati alla realizzazione “di eventuali sinergie e collaborazioni tra Expo e Arexpo S.p.A; anche con riferimento alla fase convenzionalmente denominata Fast Post Expo“. Cioè l’evento previsto in concomitanza con la ventunesima Triennale Internazionale di Milano, tra aprile e settembre, che dovrebbe utilizzare l’area del Cardo.

Il punto non è secondario. Secondo i calcoli del vecchio cda di expo, infatti, per il 2016 la società ha bisogno di 58,3 milioni di euro: 39,6 per lo smantellamento e 18,7 per la chiusura dell’azienda. La somma andrebbe chiesta pro quota ai soci (pubblici) di Expo. Ma grazie al Fast Post Expo può essere ridotta di 19,5 milioni con il “ribaltamento dei costi sostenuti ad Arexpo”. E così agli azionisti di Expo toccherebbe sborsare “solo” 38,8 milioni: al ministero dell’Economia toccherebbero 15,5 milioni, alla Regione e al Comune 7,8 a testa, mentre la Provincia e alla Camera di Commercio ne dovrebbero versare 3,9 ciascuna. Resta da capire quanto costerà l’operazione sul lato Arexpo i cui soci, dopo l’ingresso del Tesoro, saranno ancora una volta lo Stato, la Regione e il Comune, oltre alla Fondazione Fiera Milano pur destinata a diluirsi fortemente.

Ilfattoquotidiano.it, 23 febbraio 2016

“Il complesso termale, tra i più importanti della Sardegna, gravita sul sito urbano di “Forum Traiani”. Le antiche “Aquae Ypsitanae”, si dispongono su vari livelli e sono composte da due stabilimenti: il primo, a nord, del I sec. d.C.; il secondo, a sud, del III sec. d.C.” Così vengono descritte nel sito della Regione, SardegnaCultura, le terme romane di Fondorgianus nell’alto Oristanese, sulla riva sinistra del fiume Tirso. Ampie piscine rettangolari, vasche quadrangolari, una piazza lastricata e poi un apodyterium, un frigidarium un tepidarium e un calidarium e molto altro.

Un sito senz’altro da visitare. Un luogo della Cultura per turisti curiosi ma anche per semplici appassionati. Almeno finora. Già, perché dopo l’iniziativa di due società sarde, Oggi Sposi & Events eShardana Tourism Lab, le terme entrano nel circuito delle cerimonie nuziali, diventando il set fotografico per raccontare il giorno del “sì”. Non più la location occasionale per l’“evento indimenticabile”, come sperimentato altrove. Molto di più. Istituzionalizzata la fruizione, contando sulla collaborazione dell’Amministrazione comunale di Fordongianus, della Soprintendenza archeologica della Sardegna e della Cooperativa Forum Traiani.

Un’operazione studiata, a quanto sembra. Verificando le potenzialità del turismo nuziale. Oltre un milione e 221 mila le presenze da venticinque nazioni, per un fatturato di circa 315 milioni di euro. Queste le cifre che, secondo una ricerca della JFC Tourism & Management, il turismo per matrimoni ha prodotto in un anno in Italia. Insomma un affare. Almeno per le due società. Su questo pochi dubbi. Più indirettamente anche per il Comune che «ha sposato quest’iniziativa ritenendola utile per promuovere l’immagine del territorio associata al mondo dei matrimoni e per auspicare l’aumento dei flussi turistici che questo tipo di viaggi può determinare», hanno dichiarato le promotrici dell’iniziativa.

Semmai le perplessità nascono su altre questioni. Tutt’altro che marginali. Come conoscere quale sia l’“utile” per Soprintendenza archeologica. Ma anche sapere come si coniugheranno le esigenze di utilizzo dell’area con quelle legate alla fruizione. Già la fruizione, come in molti altri casi. Il nodo è quello. Perché il timore che la questione si risolva con chiusure fuori programma appare fondato. Che siti archeologici, spazi museali e Palazzi storici debbano essere luoghi vitali, per le cui spese di manutenzione si può ricorrere ai proventi di affitti, programmati e non in contrasto con il loro decoro, si può essere d’accordo. Ma insopportabile dovrebbe risultare a chi consideri la fruizione del patrimonio artistico un imprescindibile punto fermo, la loro apertura vincolata alla presenza di eventi. Anche perché quando ciò si dovesse verificare si sarebbe davvero stravolto la funzione naturale del sito. Da contenuto a semplice contenitore. E in quel caso non ci sarebbe utile capace di compensare la perdita.

Il Fatto quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 19 febbraio 2016
“Più che a un parco piano piano l’area archeologica, soggetta a continue pressioni antropiche, assomiglia sempre più a un giardino, a un appezzamento di terreno circondato da costruzioni e capannoni e attraversato da strade già costruite…e da costruire…”. Era il dicembre 2014 quando la locale sezione di Italia Nostra scriveva del pericolo che correva l’area archeologica di Amiternum, nei pressi di San Vittorino, frazione de L’Aquila.

Un sos per la città, Amiternum, sviluppatasi tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale senza mura, ma con un edificio termale e soprattutto un anfiteatro ed un teatro di tutto rispetto. Si tratta dei monumenti conservati più significativi, sfortunatamente inclusi in due differenti spazi di visita. Sezionati dal tracciato della SS. 80 e da quello parallelo, che parte dalla Scuola della Guardia di Finanza, realizzato per il G8 del 2009. Circostanza questa che, evidentemente, ne rende meno immediata ai visitatori l' inclusione all’interno del tessuto urbano antico. Insomma una situazione che non valorizza al meglio i resti archeologici.

Situazione, come denunciava Italia Nostra, in procinto di mutare. Ancora in peggio. Con l’aggiunta di due nuove viabilità. I “Lavori di miglioramento delle condizioni di sicurezza mediante realizzazione di un nuovo svincolo con la SS. 260 e la SS. 80 in località Cermone”, che l’Anas ha progettato di realizzare immediatamente a ridosso del Teatro Romano e la “Sistemazione strada di collegamento via delle Fiamme Gialle – SR 80 dir – SP 30 “di Cascina”, ovvero la strada provinciale nelle località Torroncino e Grottoni.

Viabilità che verrebbero ad inserirsi in un’area, quella denominata “Ambito Fiume Aterno”, che nel Piano regionale paesistico è classificata “a conservazione integrale”. Ma non basta. La zona rientra anche nel D.M 21.06.1985 che ne prevede la salvaguardia integrale. Senza contare che la strada provinciale rientra in qualche modo nella Legge Galasso, dal momento che passa per un tratto entro la fascia di rispetto di 300 metri dal laghetto “Giorgio”, geosito alimentato da sorgenti perenni con un emissario che confluisce nel fiume Aterno.

Considerati i vincoli esistenti, chiedersi come tutto questo sia possibile sembra naturale. Interrogarsi su quali ragioni abbiano consentito ad Anas e Provincia de L’Aquila di ottenere le diverse autorizzazioni è legittimo. Peccato che in entrambi i casi sia improbabile avere risposte. Anche se un aiuto alla comprensione lo possono fornire le modalità con le quali si è svolta la conferenza di servizio del 30 ottobre 2011, nella quale è stato approvato definitivamente il progetto della strada provinciale.

In quell’occasione risultano assenti non solo il Comune de L’Aquila e la Regione, ma anche la Soprintendenza per i Beni archeologici e la Soprintendenza per i Beni paesaggistici. Insomma progetto approvato in assenza degli organi preposti alla tutela. Le successive indagini preventive predisposte dalla Soprintendenza archeologica in coincidenza con le aree interessate dalle nuove infrastrutture viarie non hanno fatto altro che confermare la loro rilevanza archeologica. Tutto inutile. Al punto che a gennaio 2015 c’è un nuovo appello. Questa di volta dell’Archeoclub de L’Aquila: “Ci chiediamo quale beneficio due nuove strade che duplicano una viabilità già presente possano apportare alla collettività tanto da poter superare i vincoli esistenti”, scrive al proposito la Presidente Maria Rita Acone.

Domanda senza risposta se poco prima della metà di febbraio sono ancora intervenute sulla questione l’Archeoclub de L’Aquila, l’Associazione Culturale di Rievocazione Storica “Compagnia Rosso d’Aquila”, l’Associazione Panta Rei, il Circolo Legambiente Abruzzo, il Fondo Ambiente Italiano, il Gruppo Aquilano di Azione Civica “Jemo ‘nnanzi”, Italia Nostra e Pro Natura . La proposta quella di realizzare un Parco archeologico. “Una strada turistica, percorsi di visita e passaggio su un ponte pedonale sulla Statale 80 tra le due aree di interesse archeologico potrebbero rendere più facilmente e piacevolmente visitabile l’area”, sostengono le associazioni.

Quel che è indubitabile è che ad Amitermo non sono tanto in pericolo i resti archeologici della città antica, ma piuttosto l’intero paesaggio. Il rischio è che teatro, anfiteatro e terme siano rinchiusi in recinti, sostanzialmente decontestualizzati.

“Si chiede al Ministro per i Beni e le Attività Culturali, alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici per L’Abruzzo, alla Soprintendenza Archeologica di provare ad avere per una volta un po’ di coraggio e di essere forte con i forti negando la realizzazione delle opere con la semplice giustificazione che li sotto c’è un pezzo importante della antica città di Amiternum”, scriveva Massimo Cialone di Italia Nostra. Verrebbe da aggiungere, “con la semplice giustificazione che” quei monumenti non possono diventare poco più di uno snodo viario.

Il Fatto quotidiano online, blog "Alle porte coi sassi, 18 febbraio 2016

La notizia della svendita di parte del patrimonio pubblico della Regione Toscana, annunciata dal presidente Enrico Rossi nei giorni scorsi, non ci ha colti di sorpresa. Ormai conosciamo le pratiche del centro sinistra, Pd in testa: privatizzare, svendere, controllare il sottogoverno sociale, impedire che i cittadini possano esprimersi attraverso le forme istituzionali loro riconosciute, come nel caso del recente annullamento del referendum sulla Sanità regionale.

Con ostentata indifferenza la Giunta, nella speranza di rimpolpare le casse regionali e di continuare a coprire le proprie incertezze amministrative, vedi, per esempio, il grave ammanco dell’ASL di Massa di 400 milioni, vorrebbe sbarazzarsi di un ingente e prezioso patrimonio storico architettonico del valore di circa 650 milioni. Sono decine e decine di immobili di proprietà della Regione e delle asl. Accanto a un patrimonio minore, che comunque potrebbe essere riutilizzato socialmente con interessanti forme di autorecupero e autocostruzione, troviamo complessi architettonici di indiscutibile valore monumentale e paesaggistico.

La Regione, in perfetto stile managerial-immobiliare, ha anche messo a punto una mappa interattiva del patrimonio pubblico in vendita. Invitiamo a consultarla per rendersi conto della consistenza e della qualità dei beni messi a disposizione del mercato speculativo.

Firenze potrebbe perdere alcuni suoi gioielli tra i quali Villa Fabbricotti con annesso parco sulla collina di Montughi, parte del Parco di San Salvi, l’ex ospedale Meyer, Palazzo Bastogi a due passi da Piazza Duomo, le Poste Nuove di Michelucci, Villa La Quiete, vera e propria Villa Medicea sulle suggestive colline di Careggi, nonché gli ex ospedali di Fiesole e gli ex sanatori sulle colline di Monte Morello.

Pistoia, neo Capitale della cultura 2017, potrebbe rimetterci l’ex Ospedale del Ceppo, vanto della cultura storico architettonica della città. In pericolo è anche l’ex Ospedale psichiatrico delle Ville Sbertoli. Qui si apre un caso interessante, emblematico dei rapporti tra Regione e comunità locali. Il Regolamento urbanistico pistoiese, facendo proprie le conclusioni del percorso partecipativo, ha destinato l’area a funzioni pubbliche escludendo esplicitamente alberghi e residenze speculative.

Cosa pretende Rossi quando afferma che “intendiamo discutere con i Comuni della destinazione d’uso degli immobili”? Imporrà i suoi diktat alle comunità locali? Le amministrazioni comunali e gli abitanti dei luoghi coinvolti saranno in grado di impedire lo scippo del patrimonio collettivo? Questa è una partita che si giocherà nei prossimi mesi e che potrà verificare la tenuta delle autonomie locali.

Un’operazione analoga coinvolgerà Lucca per la quale è prevista la svendita dell’ex Ospedale del Campo di Marte e dell’ex Ospedale psichiatrico di Maggiano, sì, proprio quello delle “Libere donne di Magliano” di Mario Tobino, attuale sede della Fondazione intitolata allo scrittore.

La fallimentare esperienza della costruzione dei quattro nuovi ospedali regionali ha liberato quindi le vecchie sedi che, prontamente, sono state poste in vendita per tentare di ripianare i conti in rosso del project financing ospedaliero. Accade anche a Massa, a Prato, ed anche a Grosseto, a Pisa e ad Arezzo, dove è stato messo in vendita anche l’ex Ospedale psichiatrico, quello in cui Petrella e Basaglia hanno dato vita a interessanti forme di innovazione scientifica e sociale. La svendita degli ex Ospedali psichiatrici toscani è anche segno di una incapacità programmatica assai grave.

L’elenco potrebbe continuare ancora, ci fermiamo per non irritare ulteriormente il lettore. Forse non è ancora chiara la portata dei provvedimenti della Giunta regionale, cui si affiancano anche le alienazioni delle Province e dei Comuni: stanno disarticolando la tenuta del territorio con interventi che da un lato banalizzano e fagocitano la storia collettiva che in questi luoghi si è sedimentata e, dall’altro, ne allontanano le prospettive di riqualificazione urbana.

Ancora una volta questa politica non si smentisce: rinuncia al proprio ruolo di custode dei “beni comuni” e, cinicamente, dilapida un ricco patrimonio collettivo, testimonianza della paziente e profonda trama di relazioni delle comunità locali. L’alienazione di questi beni è quindi un’operazione di distruzione di questa ricchezza territoriale e di ulteriore diffusione di degrado ambientale e sociale.

Parafrasando le dichiarazioni di Rossi, possiamo affermare che è nostra intenzione quindi “procedere ad una chiamata per verificare se c’è interesse” a difendere “l’ampio patrimonio immobiliare” mal utilizzato di cui disponiamo, ed auspichiamo che ad ogni immobile corrisponda un gruppo, una associazione, un centro sociale, un comitato di cittadini in grado di contrastare questi progetti e di affermare un percorso politico centrato sul bene comune.

Non possiamo non sollecitare l’intervento della Rete Toscana dei Comitati, della Società dei Territorialisti, delle Università, a difesa della integrità del patrimonio regionale.

L’auspicio è che la mappa della speculazione, così come proposta da Rossi & C., possa ben presto diventare la mappa della riappropriazione e della cura dei territori in cui le comunità sono insediate.

Come perUnaltracittà daremo il nostro contributo.

Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2016.

Nello storytelling governativo, la così detta seconda riforma Franceschini, è destinata ad occupare un posto di rilievo: illustrata come un'operazione di razionalizzazione e semplificazione della macchina ministeriale, ad una lettura poco meno che superficiale risulta essere tutto il contrario.

Basta cominciare dai numeri. Ministro e comunicazione Mibact sostengono che da 17 Soprintendenze si passerà a 39: in realtà le Soprintendenze attuali sono 50 e quindi 11 in più di quelle che ci saranno a riforma attuata. La differenza sta nel fatto che, mentre fino al 2014 le Soprintendenze territoriali erano suddivise per specializzazione (architettura, belle arti, archeologia), già con la prima fase della riforma si cominciò ad accorpare architettura e belle arti e con questo secondo decreto, incorporando anche quelle archeologiche, si arriverà ad ottenere delle Soprintendenze uniche, competenti per la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio nel suo insieme su territori coincidenti grosso modo a 2-3 province o quello di alcune città metropolitane.
Alle Soprintendenze, già dal 2014 (DPCM 171), sono state sottratte, intanto, le competenze su tutti i musei e alcune aree archeologiche. La vecchia struttura del Mibact, già stressata da tagli lineari da 10 anni a questa parte, in asfissia di risorse sia economiche che di personale, verrà dunque sottoposta - sommando la prima e la seconda fase - ad una rivoluzione organizzativa radicale. Tutto questo - come precisa il decreto in corso di approvazione - a costo zero. E già questa mancanza assoluta di investimento mette fortemente in dubbio gli obiettivi sbandierati di razionalizzazione o addirittura di potenziamento della macchina ministeriale dichiarati da Franceschini: ad oggi l'attribuzione del personale - già di per sè insufficiente - alle nuove sedi è affidata a meccanismi di movimentazione volontaria tutt'altro che semplici e razionali. Questa movimentazione, attivata da una circolare delle scorse settimane, raggiunge vertici di surreale di cui sono capaci solo i burocrati ministeriali dal momento che elenca - fra le sedi per cui è possibile chiedere l'assegnazione - anche quelle Soprintendenze Archeologiche che il Decreto del Ministro aveva abolito qualche giorno prima. Nessuna indicazione è poi recuperabile nel Decreto, per quanto riguarda l'aggregazione/ripartizione delle biblioteche, laboratori di restauro, archivi di cui ognuna delle ex Soprintendenze specialistiche - comprendenti i musei statali - era dotata.

Con la digitalizzazione delle immani documentazioni storiche possedute ancora in fase embrionale (eufemismo) e il problema ormai fuori controllo della gestione di immensi depositi di materiale soprattutto archeologico, un processo di riforma serio avrebbe dovuto investire mezzi non trascurabili per permettere alla nuova struttura di tutela sul territorio di decollare e quindi di essere in grado di governare in tempi non biblici i delicatissimi processi di controllo e tutela territoriale. Al contrario, in questa situazione, con una prima fase della riforma scarsamente governata, questo secondo, ulteriore stravolgimento rischia di condurre alla paralisi operativa strutture di cui attualmente è impossibile per chiunque definire "chi fa cosa".
E dire che la necessità di fare presto e bene c'era eccome. Come ha dichiarato lo stesso Franceschini, la creazione delle Soprintendenze Uniche dovrebbe essere il rimedio ai rischi del silenzio-assenso e della subordinazione degli organismi di tutela ai Prefetti: meccanismi peraltro introdotti nel nostro ordinamento dallo stesso governo, attraverso la legge Madia di riordino della Pubblica Amministrazione.

Così, nel chiuso dei corridoi ministeriali, nel giro di pochi mesi, senza alcun dibattito pubblico che coinvolgesse non solo il mondo della cultura, ma anche solo quello degli operatori della tutela, è stato partorito questo provvedimento-tampone.

Ma forse, per arrivare al vero obiettivo di quella che tutto è tranne una riforma organica, basterebbe ricollegarsi a quell'emendamento della legge di Stabilità votato a dicembre che reintroduce per i Comuni la possibilità di fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Un ritorno al Testo Unico per l'edilizia di Bassanini e ai perversi effetti di speculazione territoriale che hanno innescato negli ultimi 15 anni.
Adesso, con questa riforma delle Soprintendenze, forse l'ultima debole arma di controllo rappresentata dagli organismi di tutela, è stata definitivamente spuntata.

Un grande patrimonio d'intelligenza e di consensi, di partecipazione e di speranze sprecato in un quinquennio che non lascia molta fiducia nel futuro. Ilmanifesto.info, 13 febbraio 2016

Da Moratti a Moratti: alla fine il bilancio della giunta Pisapia è questo. Pisapia era stato eletto sindaco nel maggio del 2011 sull’onda di una mobilitazione culminata nella vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali e contro il nucleare. La sua elezione poneva fine a venti anni di potere della destra e altrettanti di dominio craxiano ed era stata sostenuta da una straordinaria partecipazione di base alla campagna elettorale: comitati per Pisapia (poi comitati per Milano, ma subito rinsecchiti) in tutti i quartieri della città, intellighenzia (quel che ne resta), creativi, borghesia d’antan, parrocchie e persino centri sociali. Poi, contestualmente a quella dei referendum abrogativi nazionali, la vittoria in cinque referendum consultivi cittadini.

I quesiti di quei referendum e la loro articolazione non erano un piano di governo della città, ma ne fornivano importanti indirizzi, peraltro in linea con il programma della candidatura di Pisapia. Nessuno degli impegni previsti da quella consultazione ha trovato attuazione. Si può capire, per il costo dell’intervento, che non sia stato realizzato il ripristino della rete dei navigli - limitandosi alla riapertura della darsena - anche se ben 40 milioni sono stati sprecati nel progetto delle nuove “vie d’acqua”, che avrebbero dovuto portare in barca all’expò i visitatori; ma che, strada facendo, si sono trasformate in una fogna per raccogliere gli scoli dei suoi padiglioni. Ma un referendum chiedeva il potenziamento drastico del trasporto pubblico e la riduzione drastica del traffico privato; interventi non riducibili alla decantata area C, che poco ha innovato rispetto all’ecopass già introdotto dalla Moratti.
Così oggi, giunti al termine della sindacatura, Milano è una delle città più inquinate, malsane e irrespirabili d’Europa. Certo il problema dell’aria di Milano non si risolve a livello cittadino o metropolitano. Ma l’iniziativa del Comune di Milano verso altri Comuni della pianura Padana – un’iniziativa che poteva sostanziarsi solo mostrando con i fatti che a Milano le cose si fanno – è stata nulla. Idem per l’oggetto del secondo referendum, la piantumazione della città. Oggi centinaia di alberi sani, ultimo residuo polmone della città, vengono tagliati per far posto ai cantieri della linea 5 del metrò.
Sul quesito su risparmio energetico e fonti rinnovabili la giunta ha dato il peggio di sé, portando a termine la privatizzazione-finanziarizzazione di A2A e insediando ai suoi vertici uomini e donne che hanno continuato a dissipare le finanze di una delle ex municipalizzate più indebitate d’Italia con progetti folli come la centrale a carbone in Montenegro o l’assorbimento in A2A della gestione dei rifiuti, per aumentarne la quota da incenerire. Grottesco è l’esito del terzo referendum: “conservare il futuro parco dell’area expò”. Quel parco è semplicemente sparito, sostituito da una “piastra” di cemento di un chilometro quadrato gettata su aree a destinazione agricola, in parte inquinate e malamente bonificate. Tutto ciò sarebbe forse giustificabile se gli obiettivi dei referendum fossero stati sacrificati a interventi di sostegno ai servizi sociali, alla riqualificazione delle periferie, alla soluzione dei problemi abitativi. Ma non è così. Ad oggi il Comune ha ancora 9mila alloggi vuoti che non assegna perché non li ha riqualificati e ha aspettato tre anni, e l’arresto per mafia dell’assessore regionale Zambetti, per sottrarre alla Regione la gestione delle proprie case. In compenso si è impegnato in misura crescente nello sgombero di centri sociali e occupazioni di case.

Che cosa ha prodotto quel cambio di rotta? Il profilo morale o intellettuale di Pisapia non è in discussione. Che però, due giorni dopo il suo insediamento è volato a Parigi, nella sede del BIE (Bureau Internationale de l’Exposition), per impegnarsi nella realizzazione di expò secondo il percorso avvelenato messo a punto dalla Moratti. Un percorso che abbandonava il progetto, già di per sé assurdo, di un orto da piantare sui terreni inquinati di Pero (per mostrare al mondo come “nutrire il pianeta” Milano disponeva del più vasto parco agricolo d’Europa da riconvertire a un’agricoltura sostenibile), per dedicarsi alla cementificazione del sito e alla speculazione edilizia in programma per il dopo expò (intento fallito per il successivo crollo del mercato edilizio).

Da allora tutte le energie della Giunta sono state incanalate prima a rimettere e poi a tenere in piedi expò, peraltro partito male e in ritardo perché i primi anni erano stati interamente dedicati – e si capisce il perché – alla spartizione degli incarichi. Che cosa abbia significato expò è chiaro da sempre a chi lo vuol vedere e oscuro per sempre a chi non vuol capire. Cemento e asfalto (anche a chilometri di distanza dal sito, e senza alcun collegamento con esso), opere inutili come le famigerate vie d’acqua, corruzione sistematica (arresti a go-go), infiltrazioni mafiose, deroghe alla normativa sul lavoro, lavoro nero, lavoro gratuito (expò è stato di fatto il laboratorio del Jobs-act), debiti, compresi quelli che devono ancora emergere e che Sala ha accuratamente nascosto nel non-bilancio che ha presentato, che graveranno sul Comune per anni.

Poi, trionfo delle multinazionali del cibo spazzatura ed esibizione incontinente di spreco: decine e decine di padiglioni e scenografie costose destinate alla discarica dopo pochi mesi: uno schiaffo alla miseria e ai senza casa. Le previsioni mirabolanti (della Bocconi) sui posti di lavoro si sono rivelati un bluff se non una truffa; quelle sugli incassi dei commercianti idem; anche perché, per riempire il sito, expò ha inaugurato una movida interna serale che ha rubato loro tutti i clienti.

Per un anno e più Milano è stato expò e niente altro che expò. Il “modello Milano” – che nessuno ha mai spiegato che cosa sia – era la gestione di expò. E di conseguenza il governo di Milano era nelle mani dell’amministratore delegato di expò: l’uomo di fiducia della Moratti e del suo clan. Non un “manager”, ma uno scemo che non si è accorto di niente; oppure il più mariuolo di tutti, che è riuscito a sfangarla. Comunque sia, nessuno stupore se alla fine della sindacatura Pisapia, quell’uomo sia venuto a prendere ufficialmente possesso del suo vero ruolo: e con l’investitura del PD. Contenderà quel posto a Stefano Parisi, l’uomo di fiducia di Albertini, il sindaco che aveva sgovernato Milano prima della Moratti. Non resta che l’imbarazzo della scelta.

C’è un’alternativa a questo scempio? No, non c’è. Perché tutto si svolge ormai all’interno del cerchio magico dell’expò. I due candidati che hanno conteso a Sala la nomina nelle primarie del PD – uno forte dell’impegno profuso senza soldi e senza mezzi nel sostegno alle situazioni di maggiore emarginazione della città e soprattutto agli 80mila profughi transitati per Milano verso più appetibili destinazioni europee; l’altra, una figura senza storia, chiamata per far entrare il bilancio della Città nella gabbia del patto di stabilità, quando Milano avrebbe invece dovuto mettersi alla testa della sua contestazione, e poi imposta dal sindaco in carica per far perdere Majorino e far vincere Sala – non hanno provato nemmeno a sottrarsi a quella stretta: expò e il suo successo di cartapesta traccia per tutti la strada da seguire nella prossima sindacatura.

Ma non c’è spazio nemmeno per un’alternativa al PD. Perché quell’alternativa andava costruita negli anni della preparazione e della gestione dell’expò e si è fatto di tutto per non farla emergere. E’ stato correttamente tentata su singoli temi, come l’ipocrisia di far nutrire il pianeta dalle multinazionali. Ma non si è voluto denunciare il “modello Milano” così come si andava delineando: trionfo della società dello spettacolo e, dietro di esso, varo di un nuovo assetto urbanistico e di un nuovo ruolo del governo della città al servizio degli affari e a discapito degli abitanti. Quante cose si potevano fare, e non sono state fatte, con il denaro sprecato nell’expo… E non solo per Milano, ma anche per mostrare che il governo di una città può imboccare la strada della sostenibilità sociale e ambientale. Adesso bisogna ricominciare da capo.
«L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Come San Gennaro. Mancava il miracolo. Era il 2009 quando la fama di Guido Bertolaso raggiunse l’apice. All’Aquila, nei giorni del terremoto, appena compariva attirava folle che neanche Barack Obama al G8. Indice di gradimento al 60 per cento! Bertolaso era quasi diventato un sostantivo: l’uomo che “risolve problemi” per dirla alla Tarantino. Poi il crollo, le inchieste a raffica.

L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra. E pensare che appena una manciata di giorni fa aveva detto no per la malattia di un famigliare. Ieri il dietro-front con toni da candidato: «Sono onorato della proposta che Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni mi hanno formulato. Grazie al miglioramento della mia adorata nipotina, accetto la sfida... per migliorare la vita dei romani, per ridare decoro e prestigio a una città in condizioni di emergenza. Per amore di Roma, per la sua storia e per il rispetto che i romani meritano».
Tipo complesso, Bertolaso: lineamenti e fisico da uomo di scrivania, ma sicurezza incrollabile e modi asciutti. Il curriculum: 56 anni, figlio di un generale di Squadra Aerea pluridecorato, nasce medico esperto di malattie tropicali. Lavora per la Farnesina e per l’Unicef, compie missioni in Africa. Poi la chiamata della politica come Capo Dipartimento della Protezione Civile. A volerlo è il Governo Prodi. Quindi la parentesi del Giubileo con l’etichetta di uomo di Francesco Rutelli. Un anno dopo rieccolo alla Protezione Civile, voluto, però, dal governo Berlusconi. Un crescendo. Si occupa dell’epidemia di Sars (malattia respiratoria), frane a Cavallerizzo, rifiuti in Campania (di nuovo voluto da Prodi), area archeologica romana e terremoto in Abruzzo. Arriva perfino ad Haiti per il terremoto.
Le canta a tutti, anche agli Stati Uniti e si becca una risposta pepata da Hillary Clinton. Ma piovono inchieste. Tutte le colpe adesso sono sue: è indagato per una consulenza da 25mila euro del gruppo Anemone a sua moglie. Gli attribuiscono i massaggi a luci rosse al Salaria Sport Village (lui ha sempre negato). Indagato anche per le bonifiche per il G8 della Maddalena, la commissione Grandi Rischi in Abruzzo, i bagni chimici dell’Aquila. Lui se ne va, torna medico in Africa. Sudan, non una passeggiata: «Abbiamo curato mille bambini per malaria celebrale, non tutti ce l’hanno fatta», racconta. E gli anni di gloria, gli infortuni: «Davvero pensate che sia stato la reincarnazione di Satana o Belzebù? Ho commesso migliaia di errori e dato credito a chi non lo meritava. Ma facevo tante cose e sono fatto così». Una dopo l’altra arrivano le archiviazioni e lui torna nei talk show. Manca un passo: la politica. Ieri l’ha compiuto. I sondaggi lo danno al 23 per cento (Grillo al 30, Pd al 26 e Marchini al 16). Sarebbe andato bene a destra come a sinistra. Come Beppe Sala e Stefano Parisi a Milano.

La Repubblica, 10 febbraio 2016

Bari. «Scateniamo il paradiso. Faremo qualunque cosa per salvarlo» aveva protestato il sindaco delle isole Tremiti, Antonio Fantini. Un mese più tardi, la società Petroceltic rinuncia ad andare a caccia di petrolio al largo delle isole tra la Puglia e il Molise. «Essendo trascorsi nove anni dalla presentazione dell’istanza, periodo durante il quale si è registrato un significativo cambiamento delle condizioni del mercato mondiale (oggi il prezzo del greggio è di 30 dollari al barile,ndr).

Petroceltic Italia ha visto venir meno l’interesse minerario al predetto permesso» spiega la controllata italiana della società irlandese. Era quello che il ministero dello Sviluppo economico aveva concesso alla vigilia dell’ultimo Natale. «Il giorno prima dell’approvazione della legge di stabilità, con le modifiche normative introdotte in materia di autorizzazioni alle attività di prospezione per la ricerca di idrocarburi» ricorda il deputato del Pd, Dario Ginefra.
Dal ministero dello Sviluppo economico accolgono «con rispetto» la bandiera bianca sventolata dalla srl di stanza in Italia dal 2005. Federica Guidi è come se tirasse un sospiro di sollievo, perché nel tacco del Belpaese montava la rabbia a proposito di quelle perforazioni oltre le dodici miglia dalle Diomedee. Non per questo la titolare del Mise rinuncia ad affondare la lama della polemica nei riguardi del governatore Michele Emiliano, peraltro mai citato, che aveva capeggiato una vera e propria rivolta. «Spero adesso che, anche grazie a questa scelta» dice la Guidi «sia scritta una volta per tutte la parola fine a strumentalizzazioni sulle attività di ricerca in mare. Erano infondate già prima e lo sono, a maggior ragione, dopo la decisione della Petroceltic». Rincara la dose il viceministro pugliese dello Sviluppo economico, Teresa Bellanova: «Il governo non ha in nessun caso avuto l’intenzione di svendere il nostro mare».
Emiliano non ritira la mano che aveva scagliato la pietra contro l’esecutivo Renzi, accusato dieci giorni fa di essere «in trance agonistica, sta prendendo diversi pali in fronte, uno dietro l’altro, e quello delle Tremiti è il più grosso». Si limita a fare sapere: «Sono soddisfatto. Dove non era arrivato il buon senso di alcuni, è invece arrivata la saggezza della Petroceltic, che non ritiene l’operazione economicamente conveniente. Come del resto avevamo sostenuto all’epoca in cui il permesso di ricerca era stato rilasciato». Né arretra sul referendum No triv che non piace al premier, ancorché sdoganato dalla Corte costituzionale: «Andiamo avanti, più forti di prima, verso la consultazione popolare. Mi auguro che coincida con le elezioni amministrative. Ci mancherebbe che qualcuno spenda 350 milioni di euro degli italiani per sabotare il quorum».

Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego, 10 febbraio 2016

Non c'è pace per il Ministero per i beni culturali.
La Riforma fase due non è neppure iniziata e già si annuncia una terza rivoluzione. L'istituzione di un non meglio definito Istituto Centrale per l'Archeologia. E' ancora caldo il letto di morte della Direzione Generale Archeologia, affossata da un DM dello stesso Ministro che ora paventa rischi per la disciplina, e già si pensa a come supplirne la mancanza. E si annuncia la sua sostituzione con un nuovo organismo che avoca a se l'archeologia italiana. Ancora non è chiaro quali saranno i contorni di questo nuovo ente che si profila all'orizzonte; l'impressione che se ne ricava, però, non è certo quella di una accelerazione verso la modernità, quanto piuttosto di una immensa confusione che sta gettando nella paralisi la gestione dei Beni Culturali.
A dettare tempi e modi di questo stillicidio non sonotecnici del settore, ma consulenti ignari della complessità della materia e pertanto non consapevoli dei processi deleteri che si rischiano di innescare a scapito del patrimonio archeologico nazionale.
Quanto costerà questo nuovo organismo? Quanti e quali dirigenti e quale personale avrà? Ma la riforma non doveva essere a costo zero? E che cosa potrà fare mai un istituto centrale che non sapessero già fare, e meglio, gli archeologi specialisti che ogni giorno setacciano l’intero territorio nazionale? E poi, ancora, non sono state spezzate le Soprintendenze Archeologia, sezionandole ed accorpandole, in nome di una maggior presenza sul territorio? In questa logica, come si pone un Istituto CENTRALE ? Centro o periferia?
Gli scavi universitari, le missioni all'estero, dei quali il nuovo Istituto dovrebbe andare ad occuparsi sono solo una parte dell'archeologia, ben poco hanno a che vedere con il controllo dei cantieri, la tutela quotidiana, la salvaguardia del territorio, il lavoro giornaliero degli archeologi del ministero, che questa riforma complica e avvilisce, e che questo “nuovo” Istituto non è certo creato per facilitare.
Per capire cosa sta succedendo è opportuno riassumere le tappe di questa corsa verso la morte, attuata con il pretesto della cosiddetta "tutela olistica", prassi peraltro già applicata quotidianamente nelle strutture che si vanno riformando. Prima l'artificiale separazione dei musei dal territorio di riferimento. Poi la creazione di Poli museali eterogenei, dove la direzione prescinde dalla specialità dei contenuti che si vogliono promuovere alla fruizione del pubblico. Poi l'introduzione di nomine politiche nella gestione dei beni culturali. Quindi, la soppressione delle Soprintendenze archeologiche e il trasferimento del personale tecnico-scientifico, altamente qualificato e specializzato perché reclutato con concorsi pubblici altrettanto altamente selettivi, a mettere timbri in prefettura, con l’unico risultato di sottomettere la tutela del patrimonio culturale alla volontà politica del momento.
Ora come ultimo atto arriva l'accentramento a Roma del futuro dell'archeologia italiana.
Non è solo la fine di un apparato organizzativo dall'alto profilo scientifico, ma soprattutto la liquidazione del modello italiano basato su un forte rapporto con il territorio e sull’integrazione imprescindibile tra conoscenza e salvaguardia.
Si inventa qualcosa che c’era già, un luogo di raccordo e di indirizzo sulla ricerca archeologica, di dialogo e collaborazione con università ed enti di ricerca: tutte prassi ormai consolidate a livello territoriale grazie al lavoro delle Soprintendenze e armonizzate a livello centrale dalla Direzione Generale.
Si inventa qualcosa che c’era già, e che era “olisticamente" rivolto allintero e unitario processo di attività sul patrimonio-conoscenza, tutela e valorizzazione, e si spacchetta in organismi dai contorni confusi, separati per “funzioni” che non possono essere separate e accorpati per “materie” giustapposte, per competenze non sovrapponibili.
Si prepara, diligentemente e a piccoli passi ai più impercettibili, la soppressione del Ministero per i Beni Culturali. Non è la prima e non sarà lultima volta che un generale non si fida del suo esercito. Ma forse è la prima volta in assoluto nella storia che lo si vuole annientare.
Con buona pace di chi in questo Ministero non è capitato per caso, ma ha scelto coscientemente di lavorarci per fare l’archeologia come questo Ministero aveva sempre saputo fare finora.
10 febbraio 2016
Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego – comparto MiBACT
(API – MiBACT)

Unacittaincomune.it, 10 febbraio 2016

Il Parco Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli sta vivendo momenti delicati. Non è ancora uscito dal grave dissesto economico che due anni fa l’ha portato al commissariamento e in queste settimane si rinnovano il Consiglio e il Presidente; a fine anno anche il Direttore.Contemporaneamente la Regione, guidata da un PD sempre più renziano e neoliberista, assesta fendenti all’area protetta minando la tutela di ecosistemi preziosi e unici. Questo anche perché, a fronte di una crisi economica che mette ferocemente in luce i limiti del nostro sistema di sviluppo, in tanti pensano ai parchi solo come ad un ostacolo alla libera attività economica o come a belle zone da sfruttare per gli scopi più diversi: dalla costruzione di residenze esclusive alla realizzazione di grandi eventi.

In linea con questa ideologia sviluppista ormai drammaticamente fallimentare, il consigliere regionale PD Antonio Mazzeo si sgola per dire che il Parco non deve costituire un limite e si affanna a omaggiare gli attori economici che chiedono di ridimensionare i confini del parco o di snaturarne i luoghi (es. la riapertura delle strade bianche). Estremizza così la linea già adottata da Regione Toscana, secondo cui le aree protette debbono diventare economicamente autosufficienti: in base a questa visione San Rossore è già stato trasformato in accampamento per gli scout, fondale per passeggiate di sceicchi e ora potenziale scenario per il G7. Difficile sorprendersi quindi della pur incredibile candidatura alla presidenza di Giuseppe Barsotti, imprenditore edile e rappresentante di interessi industriali: un lupo a guardia del gregge!

Mazzeo e il PD mostrano di essere imperdonabilmente ignari del significato e della storia del Parco, nato dallo sforzo di intellettuali di grande prestigio come Antonio Cederna e da un’appassionata e ampia sollevazione di popolo che hanno sottratto questo magnifico lembo di ambiente mediterraneo alla speculazione edilizia. Con la creazione di quest’area protetta è stata scritta una delle pagine più belle della protezione della natura in Italia: una pagina che l’incuria, l’ignoranza e soprattutto gli appetiti economici e politici vogliono evidentemente cancellare.

Il futuro del Parco è scritto invece nelle sue funzioni statutarie, tanto più importanti in un’area di altissimo pregio naturalistico al centro di un territorio fortemente urbanizzato. Oggi vanno affrontate sfide di conservazione difficili e ambiziose (il controllo degli ungulati, l’erosione costiera, ecc…), ma è anche il tempo di raccoglierne di nuove e avvincenti, come la valorizzazione di una nuova agricoltura compatibile con l’ambiente e lo sviluppo di una economia locale realmente sostenibile, in tutte le sue manifestazioni, turismo compreso. Per vincere queste sfide è necessaria un’ottica completamente diversa da quella di uno sfruttamento scriteriato e incontrollato delle risorse. Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli è un’area protetta che può dare tantissimo al territorio, sul piano economico, sociale e ambientale, ma serve una mentalità aperta e coraggiosa, non tornare indietro di sessant’anni!

Invece di mortificare continuamente i parchi con tagli economici e lottizzazione delle cariche, la Regione Toscana deve impegnarsi in un forte investimento in idee e risorse, a partire dalla redazione di un nuovo Piano del Parco. Occorre progettare liberi dal condizionamento di interessi spiccioli e immediati, trovare persone autorevoli, con elevati profili di competenza, appassionate e capaci di visioni ambiziose e di lungo periodo, in grado di coinvolgere tutte le forze positive dei territori. E’ con questo spirito che vanno valutati i candidati alla presidenza, non col miserabile e pericoloso bilancino della rappresentanza dei meno nobili tra gli interessi locali.

Strategie per la città, oppure semplici strategie private di speculazione su un patrimonio comune il cui valore è determinato proprio da ciò che gli cresce attorno?


Di cosa parliamo quando parliamo di scali ferroviari

La storia degli scali parte da lontano, dalla metà dell’800. A partire dal 1840 decine di imprese ferroviarie iniziano a realizzare linee sparse sull’intero territorio, e intorno al 1880 entrano in stato di crisi e dissesto.
Lo Stato unitario decide di intervenire: tra il 1880 e il 1905 il patrimonio viene rilevato, le società private sono indennizzate, il sistema ferroviario diventa servizio pubblico. Tutte le aree sono acquistate dallo Stato ed entrano a far parte del demanio ferroviario.
Per quasi cent’anni gli scali svolgono un servizio fondamentale per la mobilità: linea, stazione, interscambio, deposito o manutenzione.
Hanno conformazioni particolari, a volte si integrano nella città, a volte ne rimangono un po’ separati. Beneficiano anche di un involontario aumento di valore, perché situati in posizioni strategiche, all’interno di un tessuto urbano che cambia. Ma si tratta di un valore puramente nominale, perché sono scali, fatti di binari e traversine.

A metà degli anni ’80 del ‘900 inizia il nuovo processo di privatizzazione. Nel 1985 le FS da Azienda Autonoma si trasformano in Ente Pubblico dotato di personalità giuridica ed autonomia finanziaria. Con la legge del 1992 diventano Società per Azioni, e quote di capitale possono essere acquisite da privati. Tutti i beni, aree comprese, diventano patrimonio della nuova S.p.A., a cui la legge, non senza polemiche e controversie, concede di disporne nei modi previsti dal diritto privato.
L’accordo firmato tra FS, Regione e Comune di Milano nel 2007 prevede la riqualificazione di 7 scali ferroviari, pari a circa 1,1 milioni di mq, con previsione di nuove quantità edificabili pari a 845mila mq di s.l.p., e la “cessione” di 654mila mq di aree ad uso pubblico come standard.
Ma gli scali, come visto sopra, sono aree che lo Stato ha già pagato, nel 1905 e nei decenni successivi, per destinarle a servizio pubblico. E quindi sono già disponibili per usi “sociali” ed a vantaggio della collettività.

Eppure, nonostante questo, sta prendendo forza una grande mistificazione che racconta una storia diversa. Il pubblico, in questo caso il comune di Milano, si rivolge alle Ferrovie come se queste fossero un privato qualsiasi, dicendo: "Se vuoi costruire degli immobili nelle tue (mie) aree centrali (della mia città) devi lasciarmene in cambio la metà come standard, parchi e servizi. Solo così ti permetto di costruire (palazzi di lusso) e di rivendere al prezzo che vuoi (al massimo di mercato) e farci plusvalenze che potrai utilizzare per ripianare il tuo debito (dissesto), per nuovi investimenti ed in generale per il tuo profitto, visto che sei una S.p.A. e rispondi solo ai tuoi azionisti”.
Si tratta di una operazione fantastica, addirittura meglio di quella di Totò e Peppino che almeno vendevano una cosa non loro, la Fontana di Trevi, ad un turista americano. Le FS vendono ai privati le aree ricevute (gratis) dallo Stato e cedono le aree a standard … al proprietario stesso!

La dismissione della mobilità

Il procedimento di trasformazione avviato sugli scali ferroviari milanesi dice un’altra cosa fondamentale: su quelle aree non verrà più fatta ferrovia. Non sarà più possibile fare attività connesse con la mobilità e lo spostamento delle persone e delle cose.
Il modello è quello di un ottuso sprawl centripeto, teso a saturare tutti gli spazi ancora liberi per realizzare nuovi volumi, rinunciando per sempre a funzioni fondamentali per la mobilità in aree centrali e strategiche.

L’Accordo di Programma

La modifica degli scali ferroviari avviene mediante uno strumento urbanistico tipico della deregolamentazione normativa degli anni ‘80: l'Accordo di Programma (A.d.P.). Si tratta di una convenzione, ma sarebbe meglio dire un contratto, tra una parte pubblica ed una privata, per la definizione di interventi ed opere, con un programma concordato.

È l’urbanistica contrattata, quella in cui il pubblico ed il privato si mettono d’accordo per “fare”, anche in superamento della norma. Si tratta di uno strumento non del tutto trasparente, asimmetrico, giocato tra un privato forte e un pubblico debole, un luogo dove gli interessi coincidono e in cui controllore e controllato si confondono. L'AdP è quanto di più distante si possa immaginare dalla pianificazione partecipata ed in generale dal processo democratico di decisione sulla città.
Da qualche decennio, l’Accordo di Programma è lo strumento principale utilizzato per i grandi interventi di trasformazione urbana.

La valorizzazione

La valorizzazione è interpretata nel senso, grezzo, della rendita fondiaria, in cui contano solo volumi e quotazioni al metro quadro. Una visione un po’ alla Paperon de’ Paperoni: la trasformazione urbana deve essere remunerativa hic et nunc. La domanda su cosa dia valore ad una città non trova sede, perché non è ammessa al tavolo dell’Accordo di Programma.

Alcuni scali sono più scali di altri

Gli scali, secondo l’AdP, sono destinati ad una edificazione intensa, anche se la revisione della giunta Pisapia ha leggermente ridotto i numeri rispetto alla proposta Moratti. Con alcune sottigliezze importanti.

Lo Scalo San Cristoforo, un po' più periferico rispetto agli altri, e quindi con minore valore in termini di rendita, verrebbe destinato interamente a verde. L’edificazione viene condensata sugli altri scali, con meccanismo perequativo. Questo viene presentato come un esito virtuoso della trattativa Comune-FS. In realtà l'AdP sta dicendo con chiarezza che al privato non interessa realizzare case al Giambellino, dove i prezzi sono bassi e maggiori sono i problemi, importa invece il centro città, dove prevede di vendere ad un prezzo elevato.

Lo Scalo Farini, centrale e ambito, sembra destinato a nuovi grattacieli ed aree verdi. Le aree verdi sono forse dovute, ma i grattacieli? A chi servono appartamenti da 10÷12.000 euro al metro quadro? Magari la Real Estate Company non riuscirà nemmeno a vendere tutto: una parte verrà ceduta alle imprese che hanno realizzato l'intervento come pagamento del lavoro fatto, una parte residua resterà come garanzia per nuovi finanziamenti da parte delle banche.

Lo Scalo Lambrate si trova in una zona meno centrale, povera di servizi, mal collegata. Sembra destinata a diventare un altro caso Rubattino, secondo lo schema ormai consolidato dei venti megacondomini e un centro commerciale. Come se per vivere non servisse altro.

Conclusioni

Gli scali, e le ferrovie in genere, sono beni preziosi, difficilmente modificabili se non con interventi di altissima qualità urbana (ad es. la High Line a New York o la Coulée verte a Parigi…) o con estesi meccanismi partecipativi. Trasformazioni “à la carte”, in stile padano, uccidono la smart city in nome dell'edilizia, unico motore di un falso progresso.
L’intento del PGT su scali, caserme, aree dismesse, rivela l’ennesima mancanza di un disegno complessivo, e ci consegna una città in cui gli illusi aspettano i raggi verdi e le piste ciclabili mentre la finanza si mette d’accordo con i faccendieri per “valorizzare le opportunità”.

Che si aprano allora mille lotte e mille conflitti, per inventare e praticare nuove e concrete forme di partecipazione, radicalmente diverse da quelle patinate viste negli ultimi mesi a Milano. E che i progetti nascano dall’autodeterminazione, per ottenere giustizia sociale, per costruire la città vivibile ed accessibile, dell’incontro e del mix sociale.

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra ... (continua a leggere)

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra[i] (cosa sia centrosinistra nell’attuale vicenda politica non sappiamo), gli altri candidati, i diversi sostenitori dell’uno e degli altri, il sindaco uscente hanno introdotto nei discorsi qualche richiamo all’istituzione Città metropolitana e al corrispondente territorio. Il quale coincide al millimetro quadrato con quello della defunta provincia. Per i problemi di ogni tipo finora riferiti alla città di Mi­lano, ossia una superficie di soli 181 kmq abitata da circa 1.340.000 residenti e frequentata giornalmente anche da 600.000-800.000[ii] extra-murari, le «autorità» ne avranno di fronte una di quasi nove volte più estesa e una popolazione di meno che tre volte più numerosa distribuita in 134 comuni compreso Milano. Il sindaco metropolitano, semplice trasposizione del milanese, sembra dotato di poteri anche più ampi dei pre­cedenti.

Il Consiglio seguirà l’andazzo dei Consigli comunali e regionali dei nostri tempi? Sì, non ricupererà affatto, non lo si può più sperare, la tradizionale forza detenuta prima dello svuotamento dovuto alla riforma (circa due decenni fa): che col premio di maggioranza riduce a pura testimonianza la debolezza della mino­ranza, poi concede a sindaco e giunta (addirittura parzialmente non elettiva) diritti decisionali, se così si può dire, escludenti facilmente dibattiti e controlli consiliari. Infatti le minoranze dei Consigli da allora vivono anzi vivacchiano frustrate per generale impossibilità di contare di più che il due di picche (a briscola). «Grandi speranze», forse possiamo metterle in capo alla Conferenza metropolitana dei sindaci? Come il dickensiano Pip, quante avversità, con 134 dissonanti, incontreremmo?

La forma territoriale (non più che definizione del confine) corrisponde alla riduzione della configurazione sto­rica provinciale a un minimo derivato dalle amputazioni volute dalle rivendicazioni territoriali autonomistiche. Non abbiamo per ora alcun disegno di divisione dello spazio, di organizzazione del medesimo secondo mo­dalità urbanistiche di massima ma chiare rispetto alle destinazioni d’uso primarie. Né lo avremo presto giac­ché oggi vige l’indecisione su cosa dire di teoria e cosa disegnare (ah ah…) sulla carta in ambito di pro­getto necessario, liberato della zavorra che ha riempito sacconi di assurdi acronimi «urbanistici», utili per far ping pong fra urbanisti con le parole retrostanti. Gli organismi metropolitani penseranno a un piano interco­mu­nale? O a cos’altro?

È passato oltre mezzo secolo dal miglior Piano intercomunale milanese (benché cri­ti­cato a destra e a manca, come usava e usa), formalizzato in modo comprensibile rispetto agli obiettivi con­divisi (con molte incertezze) dai 94 comuni aderenti (estratti da un «comprensorio di studio» di 135 co­muni). Progettisti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino; pubblicazione Urbanistica, n. 50-51, ot­tobre 1967. Il piano investiva in particolare, giustamente, l’hinterland nord, contrassegnato da una più nume­rosa presenza di insediamenti predominanti rispetto agli altri contesti per economia (profitto e rendita), rela­zioni sociali, mobilità-trasporto, tutte dotazioni di un certo livello ma soprattutto stabilmente in rapporto quoti­diano con la «città centrale, o metropoli».
È questo, secondo gli studi di oltre cinque decenni or sono di Al­berto Aquarone, che designava il carattere metropolitano dell’area[iii]. Del resto, se allunghiamo il nostro sguardo verso nord e lo dilatiamo verso una comprensione storica, scopriamo che l’area milanese presen­tava caratteri metropolitani nel Settecento e nell’Ottocento, poiché era già percorsa da un fervido sistema di relazioni, anche se l’assetto fisico del territorio non appariva mutato. Lo spazio edifi­cato poteva cambiare al suo interno, come quando una masseria diven­tava «fabbrica» o «pre-fab­brica», ma permaneva un territorio dotato di un chiaro, largo policentrismo, piccoli nuclei e anche piccole città separati da fasce agrarie più o meno vaste e continue a seconda del ca­rattere azien­dale dominante (nord, con­duzione familiare; sud, azienda ca­pitalistica).
Sarà il territorio settentrio­nale, ap­punto povero di risorse agrarie e arre­trato rispetto ai nuovi rap­porti so­ciali, a esplodere poi in industrializzazioni e edificazioni che produr­ranno man mano condi­zioni terri­toriali sempre più caotiche, espansioni edilizie di ogni tipo, sempre meno giustificate, irragionevoli, «divoratrici della cam­pagna»[iv], fino alla realizza­zione dello sprawl non solo nel mila­nese. Forse la tavola 4 del PIM pubbli­cata in Urbanistica 50-52 po­trebbe rappre­sentare l’occasione e la speranza di conservare quanto re­stava del poli­centrismo storico (e non era poco). Il disegno, spazzati via i tentativi di defini­zione della pura figura (la «tur­bina» quella di maggior successo e insen­satezza) non nega una por­zione di com­pletamento edificatorio di ogni cen­tro, ma con questo lo com­patta attribuendo mas­sima nitidezza al limite con il «verde», nelle sue tre ti­pologie: attrezzato, boschivo, agricolo e di sal­vaguar­dia. Sembra davvero ri­vendicazione della morrisiana città ben delimitata e non divoratrice. Intanto il territorio meridionale sarebbe rimasto alla sua logica destinazione a campagna produttiva e avrebbe incorporato in seguito il grande Parco Sud.

Torniamo al ritornello di politici milanesi sulla città metropolitana. Non vogliamo confrontare un piano con una forma geografica. Questa è stata privata di buona parte del territorio setten­trionale. La sottrazione della provincia Monza-Brianza sembra un morso di mela (Apple, eh eh…) che lascia un grosso vuoto come detta l’arco dentario, il pezzo succoso se lo sono portato via i brianzoli. Delle sette «aree omogenee» (non sappiamo in base a quali parametri) la Nord Milano (un residuo del morso) e la Nord ovest esibiscono il mi­glior sprawl. Siccome alcuni dei politici di cui sopra e circostanti architetti, nominata la città metropolitana proseguono con enfasi «ora policentrismo», dobbiamo capire dove ne potranno fare al­meno un esercizio quasi-urbanistico pur in enorme ritardo. La fascia di territorio che come una grande V ab­braccia Milano dal Magentino-Abbiatense all’Adda-Martesana attraverso le due aree omogenee meridionali dev’essere consi­derata in relazione a diversi aspetti.

1 - La difesa del Parco Sud sia praticata senza al­cun cedimento alle ri­correnti manovre delle amministrazioni comunali per concedere edificazioni a privati lungo e al di là dei con­fini consolidati. Si dovrebbe progettare un ampliamento del parco conservandone anzi raffor­zandone il ca­rattere agricolo. Tutta la campagna esistente, ben al di là della misura attuale del parco, fra il Milanese e il Pavese, grazie alla persistenza di aziende relativamente forti e alla possibilità istituzio­nale di renderle, per così dire, socialmente attive in caso di pericolo di alienazione all’immobiliare di turno, può co­stituire la com­ponente principale del progetto per un policentrismo ovest-sud-est. Insomma, campa­gna pro­duttiva e cam­pagna parco si immedesimano l’una all’altra e rappresentano l’unica vera risorsa per la sal­vezza della me­tropoli dalla morte letteralmente per l’indefesso procedere della sintesi clorofilliana verso il li­vello zero.
2 - Per costruire un assetto policentrico sensato (conveniente più di qualsiasi altro modello) oc­corre impe­dire ad ogni costo la tendenza edificatoria che nel nord Milanese, per causa di piani urbanistici o per man­canza di essi, ha provocato quel disastroso genere di territorio a cui corrisponde uguale genere di vita. L’espansione edilizia in comuni piccoli e medi celebra ancor oggi il consumo di suolo come indispen­sa­bile al benestare quando è vero il contrario, specialmente quando è il verde agricolo che passa secca­mente a co­struzione.
3 - Il maggior pericolo incombente sul territorio meridionale è che si ripetano altri, diffe­renti feno­meni distruttivi del paesaggio. Un’edificazione irruente secondo una forte dimensione del singolo inter­vento, presupposto di forme insediative di gigantismo, le più dannose, ha comportato il cambiamento di­retto, di ben altra misura che nell’espansione in piccoli comuni, da aree agricole di seminativo irriguo alta­mente pro­duttivo (azienda capitalistica o conduzione diretta efficiente con fondo adeguato), a grandi com­plessi, pro­gettati organica­mente o no.
Qualche esempio: l’inconcepibile insediamento di Sesto Ulteriano, vecchio di vari decenni ma poco conosciuto, un’accozzaglia di duecento capannoni per lo più magazzini de­serti, citta­della di stoccaggio di rara bruttezza che dobbiamo attraversare quando vogliamo andare a bonifi­carci di bellezza alle abbazie di Chiaravalle e di Viboldone; i pretenziosi, colorati edifici per uffici di Assago, un af­fare dell’immobiliarista Cabassi (il medesimo, proprietario di una parte minoritaria dei terreni Expo); la berlu­sconiana “Milano 3” nel piccolo comune di Basiglio (poche centinaia di abitanti), un castellum residen­ziale espropriatore di bellissima e fertile campagna, talmente erroneo dal punto di vista della pianificazione urba­nistica che ha stentato a riempirsi di «clienti» giacché oggi vi risiedono solo 7500 di quei diecimila (al mi­nimo) medio-borghesi previsti dotati di un reddito sufficiente per poter accedere a quest’isola creduta felice; il« distretto» (pomposamente) commerciale di Lacchiarella, inizialmente prova fieristica speculativa di Paolo Berlusconi poi cresciuta se­condo la consueta congerie di contenitori improduttivi, qualcuno diventato fortu­nata occasione per sbattervi un po’ di grossisti cinesi cacciati da Chinatown milanese perché disturbatori coi loro mezzi dell’allegro andiri­vieni di venditori e compratori al minuto.

Una precisazione intorno alle possibilità di progetto e attuazione (vedi il punto 1). Purtroppo cre­sceranno i casi, destinati a diventare totalità a lungo termine, di aziende (pur anche proprietarie) in progres­siva perdita del valore capitalistico e conseguente rischio di svendita alla consueta imprenditoria edilizia. Il governo me­tropolitano, magari imparando dal successo ottenuto da autorità nazionali e locali in altre aree geografiche, per esempio austriache, dovrà promuovere in base ad atti regolamentari interventi sostitutivi da parte di enti pubblici o privati convenzionati per conservare, restaurare e aumentare gli spazi agrari e ad ogni modo neo-naturalistici, allo scopo di renderli usufruibili dalla popolazione sia in senso colturale (prodotti biologici) che culturale (studio e conoscenza del bene primario).

[i] La vittoria di Giuseppe Sala (con solo il 42 % dei voti) era attesa a causa della divisione a sinistra, vale a dire la pre­senza di due candidati che si sarebbero divisi i voti contrari al primo. Se il candidato nettamente sfavorito nei sondaggi, Pierfrancesco Majorino, si fosse ritirato indicando ai suoi sostenitori la decisiva convenienza di trasferire i voti su Fran­cesca Balzani (l’attuale vicesindaco), sarebbe quest’ultima la vincitrice.

[ii] Sono molti decenni, peraltro, che ogni giorno entrano dai confini comunali non meno di 500.000 automobili, spesso due o tre centinaia di migliaia in più.
[iii]Alberto Aquarone, Grandi città e aree metropolitane in Italia, Zanichelli, Bologna 1961, p. 6. L’autore indica i fattori costitutivi di un’area metropolitana: «Gli elementi essenziali e indispensabili di un’area metropolitana sono rappresen­tati da un città centrale, o metropoli…e da una serie…di centri minori circonvicini con i quali sia determinata o stia de­terminandosi…sopra tutto una stabile reti di rapporti quotidiani, economici e sociali, questi ultimi nelle accezioni più larghe», p.6-7.
[iv] William Morris. Cfr. L. Meneghetti, Dimensione metropolitana. Contributo a una didattica di storia e progetto del territorio, clup, Milano 1983, v. p. 65-67, in part. il disegno a p. 67 «Schema interpretativo della riforma territoriale di Morris».

Su Eddyburg Archivio vedi anche Pagine di Storia: Piano Intercomunale Milanese

Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2016 (m.p.g.)

Il ministero d Beni Culturali accelera la riforma del sistema di tutela con una drastica ristrutturazione. Le soprintendenze archeologiche sono accorpate con quelle storico-artistiche e monumentali e suddivise in unità territoriali più piccole. Questo avviene su un corpo debilitato dalla scarsità di personale e fondi che non ha assorbito ancora il colpo delle riforme precedenti: il silenzio-assenso, il passaggio sotto le prefetture, lo scorporo dei musei dalle Soprintendenze territoriali hanno paralizzato la tutela.

Nessuno sa più chi fa che cosa, sono oscurate le competenze precise delle nuove norme, non si è nemmeno tentato di correggere gli errori macroscopici. Su questo quadro arriva lo tsunami.I (pochi) difensori della riforma esaltano le sorti progressive del sistema e disegnano la scena come una lotta fra innovatori e immobilisti. È la retorica per cui il cambiamento è a priori positivo, sorvolando sulla possibilità di cambiare in peggio. La reale contrapposizione, però, è tra filosofi e operativi. I filosofi teorizzano la tutela "olistica" (archeologi, storici dell'arte, architetti, uniti per l'impresa comune), gli operatori osservano che all'opposto la riforma è il trionfo della frammentazione e della disarticolazione. La Soprintendenza archeologica di Roma viene spaccata in cinque, quella Toscana in quattro e si può continuare. Musei senza territorio, territori senza magazzini, né laboratori e senza disporre più dei materiali scavati.

Va chiarita invece la vera chiave interpretativa della riforma, perché la tutela olistica è solo copertura ideologica. Le soprintendenze regionali erano troppo estese per passare sotto i prefetti, ma la soluzione è semplice: facciamone spezzatino e dimensioniamole sulle prefetture.Non importa se i servizi centralizzati verranno pure spezzettati: archivio, magazzini, biblioteca, laboratori di restauro e fotografico. I funzionari quindi non avranno libri, fotografi e restauratori. Diverse Soprintendenze non avranno nemmeno funzionari. Ma in compenso la tutela sarà finalmente sotto tutela (governativa).

L'unificazione inoltre non è per semplificare la vita al cittadino, ma per il prefetto che vuole un referente unico. Infine l'ultimo tocco: arriva il decreto sulla mobilità per redistribuire il personale. Con un piccolo difetto: al Ministero non si sono accorti nemmeno che c'era stata una riforma: cosicché nel testo mancano le nuove sedi, ma si può far domanda per quelle già abolite.Una riforma calata dall'alto a sorpresa, senza un parere di chi i problemi li conosce per esperienza diretta, senza un piano di fattibilità e di costi, ignorando il Consiglio Superiore dei Beni Culturali che il Ministro (nella sua benevolenza) si è limitato a "informare" verbalmente, guardandosi bene dal sottoporgli lo schema del decreto. Si procede a vista per stravolgimenti successivi, senza un disegno d'insieme, incuranti delle proteste del personale del Ministero, delle critiche delle consulte universitarie, della petizione che ha raccolto 12mila firme in una settimana.

Sintetizzare il discorso è facile. Napoletanamente: "scurdammoce 'o passato".

Riferimenti
Numerosi gli articoli su eddypurg a proposito della'deforma' Franceschini. Li trovate tutti qui nella cartella SOS> Beni cuLturali. Magia.

L'intervista di Dario del Porto al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il commento di Marco Rossi Doria. «Qui la guerra c’è da sempre. E trova soldati, sempre più giovani, nelle più dure fragilità che nascono nei luoghi della povertà, della crisi educativa, del non lavoro». La Repubblica, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)


“COSÌ UNA GENERAZIONE DI VENTENNI SPIETATI HA RIMPIAZZATO I BOSS”
Intervista di Dario del Porto a Franco Roberti


Napoli. Una «spaventosa quantità di armi in circolazione nelle strade». Nuove leve di giovanissimi criminali disposti a tutto che «sparano nel mucchio e per questo fanno più paura». È una «situazione eccezionale sul piano dell’ordine pubblico, senza eguali in Europa, peggio che nelle banlieue parigine», quella con cui deve confrontarsi oggi l’area metropolitana di Napoli nella lettura di un magistrato che conosce benissimo la realtà della città e della regione: il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

Che cosa sta succedendo a Napoli, procuratore Roberti?
«È una situazione apparentemente paradossale: le organizzazioni camorristiche tradizionali sono state quasi tutte colpite da interventi giudiziari molto incisivi. Sono stati sequestrati e confiscati beni di valore elevastissimo. Oggi la camorra ha il maggior numero di collaboratori di giustizia e ben 294 detenuti al carcere duro su 725. Eppure, nelle strade, le cose sono peggiorate».
Perché?
«La repressione ha funzionato, ma proprio per questo ha determinato vuoti di potere criminale, aprendo spazi a gruppi composti da ragazzi di nemmeno vent’anni, se non addirittura minorenni, che si scontrano per il controllo del territorio e del mercato della droga. Hanno tantissime armi a disposizione e sono pronti a uccidere per nulla. Non credo che, nel panorama nazionale o europeo, esistano esempi analoghi».
Che cosa rende questo territorio tanto diverso da altre aree del Paese e della stessa Campania?
«È tutto il contesto a essere eccezionale. Ci sono problemi irrisolti da 200 anni, dall’evasione scolastica alla disoccupazione crescente compensata dall’economia del vicolo controllata dalla camorra, che sono alla base della penetrazione del modello camorristico nel tessuto sociale. L’area metropolitana copre il 10 per cento della regione, ma in questo 10 per cento vivono, una sull’altra, quasi quattro milioni di persone. Ci sono interi quartieri che, per la loro situazione urbanistica e in assenza di adeguate infrastrutture sociali, sono diventati di per se stessi criminogeni. Penso a Forcella, Scampia, il Parco Verde di Caivano, il Rione Salicelle ad Afragola. E potrei continuare. Altro che le banlieue di Parigi».
Questo discorso però ricorda la definizione, che è costata tante critiche alla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, della camorra come «dato costitutivo » della società napoletana?
«Ma è esattamente quel che penso anche io: se arresti, processi, condanne e sequestri non sortiscono l’effetto deterrente che hanno altrove, è proprio perché la camorra è diventata parte integrante della società napoletana e riproduce automaticamente, da secoli, il modello camorristico di controllo del territorio e della vita di intere fasce di sottoproletariato urbano».
Come se ne esce?
«Per risolvere i problemi sul piano sociale occorrono interventi che segnaliamo da sempre: lavoro, scuola, servizi pubblici efficienti, trasparenza della pubblica amministrazione. Tutto ciò che genera fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, perché solo con la fiducia dei cittadini lo Stato potrà vincere contro la crimninalità organizzata».
E dal punto di vista dell’ordine pubblico?
«Se questa è una situazione eccezionale, e io ne sono convinto, occorrono provvedimenti eccezionali per assicurare una prevenzione efficace, visto che la repressione ha dimostrato, da sola, di non bastare».
Ad esempio?
«Le forze di polizia svolgono un lavoro straordinario. Ma il ministro Alfano dovrebbe chiedersi, per prima cosa, se il controllo del territorio funzioni sempre con l’assiduità, la continuità e la completezza che la situazione eccezionale richiede. Poi dovrebbe domandarsi se gli organici delle forze dell’ordine siano sufficienti. A me pare proprio di no. Suggerisco di rivedere la distribuzione degli organici sull’intero territorio nazionale, in modo da portare più risorse umane nell’area di Napoli. A sfide eccezionali si risponde con interventi eccezionali. D’altra parte, lo dicono le statistiche: vengono sequestrate armi ogni giorno, ciò nonostante il mercato non viene intaccato. Stesso discorso per la droga: gli interventi sono quotidiani, ma tonnellate di stupefacenti vengono vendute ogni giorno nelle piazze. Sulla droga poi voglio aggiungere una riflessione».

Prego.
«Deve cambiare il target delle indagini, allargando l’azione di contrasto alle strutture finanziarie che alimentano quel mercato. Su questo obiettivo, il mio ufficio si sta impegnando moltissimo».
Lei ha discusso di questi argomenti con il ministro Alfano nel vertice di giovedì scorso a Napoli?
«Il mio ufficio non è stato invitato ».
SALVIAMO I NOSTRI SOLDATI BAMBINO
di Marco Rossi Doria

Qui la guerra c’è da sempre. È una guerra che crea morti su morti entro la lunga, mutante vicenda del crimine organizzato. E che trova soldati, sempre più giovani, nelle più dure fragilità che nascono nei luoghi della povertà, della crisi educativa, del non lavoro e del venir meno del monopolio statale della forza. Marzo 2015: le telecamere dei carabinieri riprendono bande di ragazzini sui motorini che sparano all’impazzata, mese dopo mese. Gli abitanti sono terrorizzati. Non sembra Italia. Da allora in molte parti della città alle scorribande armate si aggiungono omicidi, inseguimenti, torture. È per controllare affari e territori. E - con la vecchia catena di comando camorristico resa labile da lunghe detenzioni - i giovanissimi prendono la scena. Con una fragilità che si unisce a determinazione e crudeltà. Stati di esaltazione, violenze impulsive, agite per analogia, imitazione, spinta del momento.

È la minoranza più esclusa in preda a demoni terribili. Intanto, la maggioranza fatta di migliaia di ragazzi poveri studia in scuole-presidio, viene sostenuta da una rete di educatori capaci, fa sport, lavora in fabbriche e servizi per pochi euro a settimana, emigra, prova a mettere su piccole imprese, tartassata da mancanza di credito, fiscalità impossibile, pizzo. Ed ecco gli ultimi giorni napoletani. Maikol, ragazzo ucciso per caso a Capodanno. Poi, in un mese: Davide, Vincenzo, Mario, Giuseppe, Pasquale, Francesco. La guerra terribile in una grande città d’Europa. Che dura da decenni. È ora di dire che è Storia patria e non una catena di episodi di cronaca. Che ci chiama a reagire a un fallimento della Repubblica. È urgente uno scatto d’orgoglio nazionale. Bisogna unire le forze, dare sostegno a chi già sta lavorando e bene. E farne una priorità politica.

Il Fatto quotidiano, blog "ambiente e veleni", 6 febbraio 2016.

Dopo il Tar nel febbraio 2012 e il Consiglio di Stato nel gennaio 2014, anche la Cassazione, nel dicembre dello scorso anno, ha riconosciuto la “illegittimità di una pluralità di atti tutti relativi alla lottizzazione di Capo Malfatano. Vittoria! Notizia lieta, a lungo attesa. Da quando nel 2010 il Resort di categoria 5 Stelle e 5 Stelle lusso è diventato una realtà. Uno dei tratti di costa più belli e naturalisticamente meno antropizzati della Sardegna messo in salvo. La vegetazione mediterranea non sarà del tutto spazzata via per lasciare il posto ai 190mila metri cubi di costruzioni suddivisi in quattro complessi alberghieri, quattro residence, due agglomerati di residence stagionali privati e relativi servizi, che si sarebbero dovuti realizzare. Tutt’altro che illegalmente. Il Comune di Teulada, nel cui territorio si trova Capo Malfitano, e la Regione avevano regolarmente autorizzato l’operazione. Non solo. Avevano esentato il progetto da ogni controllo sull’impatto ambientale. Con il consenso delle Soprintendenze delle province di Cagliari e Oristano e del Mibact.

L’espediente utilizzato dalla Sitas, la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde che aveva predisposto il piano di lottizzazione, la sua articolazione in cinque differenti parti. Autorizzata la prima, le altre sarebbero seguite. Quasi naturalmente. Invece si trattava di una frammentazione ingannevole. Già, perché, come hanno scritto i giudici del Consiglio di Stato, “l’impatto del progetto sul paesaggio doveva essere valutato nel suo complesso, perché fosse chiaro il rapporto tra il sacrificio ambientale e le eventuali ricadute sociali”. Il progetto Capo Malfetano Resort, l’intervento-immobiliare promosso da Sitas con il coinvolgimento di Sansedoni, di Ricerca Finanziaria di proprietà della famiglia Benetton, di Progetto Teulada, invece della famiglia Toffano, e della Silvano Toti, società del gruppo Toti, smascherato. Fortunatamente. Ma non casualmente. Decisivo il ruolo di Italia Nostra Sardegnache aveva presentato ricorso sulla legittimità delle concessioni paesaggistiche. Ricorso accolto dal Tar nel febbraio 2012.

“Questa sentenza solleva molti dubbi sul corretto comportamento e sulla responsabilità della Regione Sardegna, del Comune di Teulada e delle strutture periferiche del MiBact, che hanno autorizzato questo intervento, e troppi altri, interpretando la normativa regionale, nazionale ed europea con scarsa competenza e tanta “superficialità”, il commento dell’associazione dopo il felice esito della vicenda. Già, a rimanere in sospeso sono soltanto i giudizi morali sulle decisioni di Amministrazioni locali e regionali e degli organi ai quali è delegata anche la tutela di siti e monumenti e del loro habitat naturale. Quel che è indubitabile è che non si governa così un territorio.

Riferimenti

Su eddyburg: Giorgio Todde, Una gioia e un dolore, e A Capo Malfatano "sviluppano" (sic) il paesaggio, Giorgio Meletti, Il pastore ferma il cemento a Capo Malfitano, Mauro Lissia, Ovidio eroe di Facebook non arretra d'un passo, l'Hotel va demolito, Andrea Massidda, Capo Malfatano Resort, 5 stelle di cemento

«È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio». La Repubblica online, blog "Articolo9", 6 febbraio 2016

Il lucido, durissimo articolo di Salvatore Settis apparso venerdì su Repubblica ha colto nel segno. Ieri il ministro Franceschini ha replicato – senza mai citare Settis – con una intervista sempre a Repubblica, tutta giocata in difesa.

Un'intervista imbarazzante, per almeno tre motivi.

Il primo riguarda il cuore stesso dell'articolo, e cioè il fantomatico Istituto di Archeologia, il coniglio che esce dal cilindro del ministro di fronte all'epic fail della sua 'riforma' dell'archeologia. Una risposta che non risponde affatto alle critiche della comunità scientifica circa la soppressione delle soprintendenze archeologiche: perché non si compensa l'abolizione di organi di governo e tutela vagheggiando la creazione di istituti di ricerca. Questo è puro storytelling, e di pessima qualità.

È poi noto che il ministro pensa di servirsi di ciò che resta dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia: e nella foga di trovare una risposta qualsiasi alle pesanti critiche di questi giorni, Franceschini è prontissimo a cancellare da quell'istituto la storia dell'arte, i cui cultori sono evidentemente meno fastidiosi degli archeologi: l'unico risultato di questa grottesca sarabanda sarà infallibilmente quello di ridurre a spezzatino gli organi cui è affidata la vita del patrimonio culturale. Prima si sono separate tutela e valorizzazione, ora si fanno divorziare tutela e ricerca. È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio.

Il secondo motivo di imbarazzo riguarda l'affermazione di Franceschini sulla divisione della comunità scientifica sulla soprintendenza unica. Ebbene, tutte le consulte archeologiche si sono dette contrarie a questa riforma. E ora anche quella degli storici dell'arte ha fatto altrettanto. Forse Franceschini si riferisce all'isolato plauso di Giuliano Volpe, l'archeologo che presiede il plaudente Consiglio Superiore dei Beni culturali. Volpe ha sostenuto più volte di essere in quella posizione non per ragioni politiche, ma per ragioni scientifiche: e sia. Ma ora che la comunità scientifica lo sconfessa in modo così plateale non dovrebbe allora tirarne le uniche conseguenze dignitose?

Terzo, e forse più grave, motivo di imbarazzo è che Franceschini abbia detto di aver imbavagliato l'archeologia a propria insaputa. Il ministro sostiene di non conoscere il provvedimento che vieta ai soprintendenti di parlare della 'riforma' con la stampa: ma il codice di comportamento su cui essa si basa l'ha varato lui stesso, il 23 dicembre scorso. Al comma 8 dell'articolo 3 vi si legge: «Il dipendente - fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini - si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell'immagine e del prestigio dell'Amministrazione ed informa il dirigente dell'ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa. Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce dell'organo di vertice politico dell'Amministrazione e dall'Ufficio stampa, le attività di comunicazione attraverso l'Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso eventuali analoghe strutture». Tradotto: un funzionario archeologo non può parlare con i media della riforma che rischia di cancellare la tutela archeologica.

Ha ragione Settis: se Franceschini firmerà il decreto sull'archeologia il governo si rivelerà una bad company. Ma chi lo dice lede «l'immagine e il prestigio dell'Amministrazione»: tutti zitti, mi raccomando.

© 2025 Eddyburg