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«Ripercorrere le vicende del passato non è un esercizio memorialistico ma un tentativo di andare alla radice delle cause che hanno determinato i problemi di oggi», La testimonianza di un sindacalista del lavoro e dell'ambiente

"Chissà se gli inquirenti saranno così bravi da individuare a chi siano finiti i fondi neri creati con i soldi dei contribuenti? Ora l'interrogativo che mi ponevo l'anno scorso in un articolo apparso su Rassegna sindacale è stato sciolto: la Magistratura inquirente si è dimostrata all'altezza del compito. Saprà la politica fare altrettanto?

La corruzione e il criminoso legame tra politica e affari sono condannati da tutti, e giustamente. Ma pochi hanno imparato che il MoSE è un progetto che non salva Venezia ma la distrugge. Che lo scavo di altri canali in laguna per il passaggio delle grandi navi avrebbe un impatto ambientale devastante. Adesso comprendiamo meglio perché chi comanda vuole mettere la museruola a chi protesta contro le grandi opere inutili e dannose, e pretende di superare con le deroghe le procedure di garanzia. Servono più controlli o lo “Sblocca Italia” per “diminuire le autorizzazioni e limitare i ricorsi al TAR” ?

La guerra alla burocrazia non c’entra nulla. Da un lato le lobby che vogliono continuare a far festa saccheggiando il territorio. Dall’altra tanti comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che tentano di difendere il territorio come bene comune. Come ci ricorda Luigi D’Alpaos, massimo esperto di idraulica:

«Da una parte ci sono gli importatori degli interessi forti, come Porto e Consorzio Venezia Nuova, che tutto hanno fatto tranne che tutelare il benessere della laguna, pensando invece che sia loro e di poterne fare ciò che vogliono. Dall’altra parte ci sono quelli che sostengono che la laguna sia un bene comune indispensabile da proteggere e da salvare. Poi c’è una politica becera che favorisce il gigantismo navale che sembra non porre più limiti alle dimensioni».

E, aggiungo io, pochi e coraggiosi politici, amministratori e non pochi servitori dello stato che si battono controcorrente. E’ giusto ricordarlo in un epoca in cui tutti i gatti sembrano essere bigi.

Di seguito l'articolo che scrissi lo scorso luglio dopo gli arresti di Mazzacurati e Baita che, purtroppo, conserva tutta la sua attualità. Ripercorrere le vicende del passato non è un esercizio memorialistico ma un tentativo di andare alla radice delle cause che hanno determinato i problemi di oggi.

Luglio 2013
Rassegna sindacale.
di Oscar Mancini.

Gare d’appalto truccate. Fatture gonfiate. Consulenze fasulle. E arresti eccellenti. Ma l'inchiesta sul Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la realizzazione del MoSe, non è ancora conclusa. E rischia di arrivare a Roma. Lo scandalo è di grandi proporzioni. Sette arrestati fra cui l’ex presidente del monopolista Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati e preceduta dalla detenzione in carcere di Piergiorgio Baita, Presidente della società capofila Mantovani.

Chissà se gli inquirenti saranno così bravi da individuare a chi - e perché - siano finiti i “fondi neri” creati in Austria con i soldi dei contribuenti? Nel frattempo emergono i beneficiari dei cospicui finanziamenti, sembra in chiaro, di fondazioni nazionali, associazioni, nonché delle campagne elettorali di esponenti eccellenti della maggioranza e dell’opposizione. Quanto costa il monopolio per la realizzazione del gigantesco sistema delle paratie mobili contestato da molti veneziani, ma che nelle intenzioni di chi l’ha voluto dovrebbe salvare la città dall’acqua alta? Secondo i piani ufficiali l’imponente struttura, la cui prima pietra fu posta la bellezza di 25 anni fa, doveva essere finalmente pronta nel 2014, slittati al 2016.

L’opera, contestata dalla associazioni ambientaliste e dalla CGIL fin dagli anni ottanta, finisce nel mirino della Corte dei Conti in anni recenti : a proposito degli appalti, dei costi lievitati, delle consulenze e dei collaudi, denuncia che essi sono affidati «con scarsa trasparenza e un rapporto sbilanciato a favore del concessionario». Il costo della grande opera, scrivevano i giudici contabili, è passato da 2700 milioni di euro a 4271, adesso il «prezzo chiuso» è stato aggiornato a 4 miliardi e 700 milioni. Dei costi originari circa la metà (1200 milioni su 2700) se ne vanno in «oneri tecnici e per il concessionario, somme a disposizione e Iva».

«Ingenti appaiono gli oneri di concessione», scrivono ancora i giudici nella loro ordinanza. E aggiungono: «Alcune di tali risorse si sarebbero potute utilizzare per il rafforzamento dell’apparato amministrativo pubblico». Nel mirino dei giudici contabili finiscono i costi, che lievitano anche a causa della procedura della concessione unica, abolita dalle leggi europee e nazionali ma rimasta in essere per il Mose. «Sotto il profilo dell’economicità dell’agire amministrativo», scrivono nell’ordinanza, «suscita perplessità che la determinazione delle voci di costo e dell’elenco prezzi sia stata rimessa al concessionario».

Perché una denuncia così forte è stata largamente ignorata dai grandi media, dai partiti e dalle istituzioni? In che modo il Consorzio ha potuto esercitare la sua egemonia negli ultimi trent’anni? Testimoni di quella ormai lontana, ma così attuale, stagione politica, siamo rimasti in pochi. E, con il trascorrere del tempo è facile perdere la memoria. Per fortuna le carte scritte rimangono, ma le ricerche richiedono tempo e fatica.

Come ha scritto anche Massimo Cacciari la procedura degli interventi in laguna era viziata all'origine con la nascita nel 1984 di quel mostro giuridico che è il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico, imposto – aggiungo io - da Gianni De Michelis in accordo con Bernini e confermato da tutti i governi successivi. Molti si sono fatti affascinare dalla grande opera ingegneristica. Altri, come lo stesso sindaco Cacciari, pur essendo contrari, hanno pensato di poterla bloccare attraverso la tattica del rovesciamento delle priorità, pure saggiamente previste dalla legge: prima il ripristino morfologico della laguna poi altri cinque punti prioritari e solo alla fine “anche” gli interventi alle bocche di porto.

Nel frattempo sono state elaborate alternative mai prese in considerazione nonostante l’autorevolezza dei proponenti. La storia ha dimostrato che la forza del Consorzio era così pervasiva che si è preferito partire da quell’”anche” invertendo così quanto prescritto dalla legge e dalla logica. Deleterio fu in questo senso il ruolo del Sindaco Costa succeduto a Cacciari su sua indicazione ma anche di tutti i governi. Purtroppo, nessuno escluso.

La CGIL di Venezia fu tra i pochi soggetti sociali a sollevare problemi. Fin dal convegno del’84 quando, scontrandoci con il Ministro De Michelis, contestammo l’idea “dell’inserimento di tre rubinetti alle bocche di porto” per affermare “la necessità di una visione unitaria e sistemica degli interventi” sulla base del principio della “flessibilità, gradualità, sperimentabilità”. Negli anni 80, in qualità di segretario generale aggiunto, intervenni ripetutamente controcorrente sulla stampa e in incontri istituzionali subendo gli strali del “partito del fare” contrapposto alla “laguna di chiacchere”, alla quale fummo immediatamente arruolati.

Tra gli appuntamenti più significativi ricordo:

Nel ventennale dell'alluvione,(1986) quando il presidente del consiglio Craxi pronunciò un discorso inedito, rimasto però senza alcuna conseguenza, intervenni criticamente a nome della CGIL di fronte al consiglio comunale e poi a alla Fondazione Giorgio Cini, in presenza del governo; 2. Il lungo colloquio che avemmo nel settembre dell’87 con il Presidente del Consiglio Giovanni Goria. In quell’occasione presentai, a nome di CGIL CISL UIL, un documento che esprimeva la netta contrarietà alla terza convenzione tra lo stato e il Consorzio Venezia Nuova e chiedeva nel contempo il rafforzamento del Magistrato alle acque (che già allora appariva ancella del Consorzio) il rispetto delle priorità in ordine al disinquinamento della laguna e il ripristino morfologico della stessa, gli interventi per il restauro della città e il suo ripopolamento.

Questo incontro fu preceduto da una Conferenza stampa che suscitò l'ira scomposta di Maurizio Sacconi, allora braccio destro di De Michelis. Se si volessero ricostruire le responsabilità politiche sarebbe utile sfogliare i giornali dell'epoca perché i gatti non sono tutti bigi! Non solo la CGIL, ma anche PRI e PCI e la minoranza del PSI, fino alla giunta Casellati, condussero significative battaglie.

Gli arresti eccellenti di queste settimane, hanno riportato alla mia memoria alcune pubbliche denunce che formulai, a nome della CGIL, nel corso degli anni contro il meccanismo delle concessioni uniche e, successivamente, contro il perverso meccanismo del projet financing all'italiana (ospedale di Mestre, ospedale di Schio Thiene e delle autostrade). In un saggio pubblicato sul N°47, 1994 della Rivista "Oltre il Ponte" scrivevo :

" L'irresistibile tentazione delle Giunte Bernini prima e Cremonese poi di far ricorso ad un ennesimo consorzio privato, attraverso il meccanismo della concessione, con tutto quello che ne è conseguito sul terreno della lottizzazione e della questione morale, ha fatto si che il giro di boa non avvenisse ed anni preziosi fossero sprecati. La CGIL Regionale denunciò pubblicamente il perverso meccanismo che la Giunta stava approntando con la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova e al progettato Consorzio Disinquinamento, di tutti gli interventi afferenti al bacino scolante".

Con una nota a piè di pagina raccontavo un episodio di cui fui testimone. Dopo ripetute denunce sulla stampa locale (in particolare ricordo un'intervista rilasciata a Renzo Mazzaro apparsa sulla Nuova, Mattino e Tribuna) il Presidente della Regione Cremonese convocò a Palazzo Balbi CGIL CISL UIL. In quella occasione si lamentò dei mei attacchi ed ebbe la spudoratezza di chiedermi se la CGIL avesse avuto delle imprese da segnalargli!!! Come se la nostra avversione al meccanismo della concessione fosse motivata dal non aver partecipato alla lottizzazione del costituendo consorzio!!! Poi arrivò tangentopoli, seguirono le condanne ma, evidentemente gli italiani hanno la memoria corta e la storia si ripete.

Penso che il nostro compito oggi sia quello di sviluppare una forte iniziativa verso il governo affinché sia revocata la concessione “unica” al Consorzio Venezia Nuova per mettere finalmente mano a un progetto generale unitario sulla laguna, interdisciplinare, aperto a diverse evoluzioni e progressivo. Forse siamo ancora in tempo per fermare almeno in parte un progetto devastante anche alla luce del decreto che inibisce il passaggio delle grandi navi nel bacino di San Marco che rende possibile l’innalzamento dei fondali alla bocca di Lido.

Nel lontano 1973 lo storico americano F.C. Lane nel dare alle stampe la sua magistrale Storia di Venezia aggiungeva un’ultima notazione riferita alla prima legge speciale appena approvata, che suona come ammonimento: “L’efficacia della sua applicazione s’incaricherà di dimostrare se la Repubblica italiana è in grado di preservare la città creata dalla Repubblica di Venezia”.

Oggi, a quarant’anni di distanza, l’attuale governo autorizza al massimo pessimismo. Tengono accesa la speranza la nuova consapevolezza che cresce nella società italiana. Venezia è un bene comune dell’umanità e non può essere preda del partito degli affari

Sullo scandalo esploso a partire dai rapporti tra affari e politica a Venezia tre articoli di Edoardo Salzano ("la grande emergenza"), Ernesto Milanesi ("La Laguna del malaffare"), E.M. e Sebastiano Canetti ("La criccaGalan"). Il manifesto, 11 giugno 2014

LA GRANDE EMERGENZA
di Edoardo Salzano

Il cata­cli­sma giu­di­zia­rio che ha squas­sato Vene­zia e il Veneto non era ina­spet­tato per chi aveva cri­ti­cato il sistema Mose e il Con­sor­zio Vene­zia Nuova fin dal loro nascere. Ciò che da allora si cri­ti­cava era, da un lato, la scelta del sistema Mose, per la sua incom­pa­ti­bi­lità con la natura stessa della Laguna di Vene­zia e con il suo deli­ca­tis­simo equi­li­brio eco­lo­gico, dall’altro la scelta della con­ces­sione a un unico sog­getto pri­vato, il Con­sor­zio Vene­zia Nuova, del com­pito di stu­diare, spe­ri­men­tare ed ese­guire l’insieme degli inter­venti previsti.

Nes­suno imma­gi­nava l’enormità della cor­ru­zione che l’attuazione di quel pro­getto e l’istituzione di quel sog­getto avreb­bero pro­vo­cato. Per com­pren­dere lo stato delle cose, cioè la dimen­sione del danno subito e i rischi che si pro­fi­lano, occorre distin­guere i tre aspetti fon­da­men­tali della situa­zione sve­lata dall’indagine della pro­cura veneziana.

Cor­ru­zione

Il primo aspetto è quello della cor­ru­zione. I risul­tati dell’indagine sono dav­vero stra­bi­lianti. Le somme di denaro distratte ille­git­ti­ma­mente per essere impie­gate nelle varie forme, legit­time e ille­git­time, è stu­pe­fa­cente. La per­va­si­vità della cor­ru­zione è un segnale pre­oc­cu­pante sull’ampiezza sociale del morbo: sem­bra che in Ita­lia cor­rom­pere o essere cor­rotti sia la regola, e l’essere one­sti l’eccezione. Da decenni per molti adem­piere a un dovere d’ufficio non è un obbligo ma un pia­cere, che deve essere ricam­biato. Nell’ultimo tren­ten­nio quel «vizietto» ori­gi­na­rio è cre­sciuto in modo abnorme, quasi come effetto col­la­te­rale della cre­scita della società opu­lenta e del disfa­ci­mento delle ideo­lo­gie (cioè della capa­cità di cre­dere in un pro­getto di società da costruire con gli altri). L’indagine giu­di­zia­ria Mani pulite svelò l’inferno in cui l’Italia era pre­ci­pi­tata e con­dusse alla crisi di quella poli­tica che aveva pro­mosso e ali­men­tato Tangentopoli.

Ma non riu­scì a mani­fe­starsi, con­tro la vec­chia cat­tiva poli­tica, una nuova buona poli­tica. Poche novità posi­tive furono intro­dotte per ripa­rare i danni. Fra le poche, la buona legge Mer­loni per gli appalti delle opere pub­bli­che fu subito annac­quata e, poco a poco, inte­ra­mente rimossa. Il primo impe­gno che dun­que si pone è, a livello nazio­nale, quello di restau­rarla. Ma quale legi­sla­tore ha la forza, la com­pe­tenza e la volontà di farlo? E quale istituzione a livello subnazionale compirà il primo passo necessario, quello di esautorare dal loro potere istituzionale quelli che sono fortemente indiziati di “complicità col nemico”, a partire dal sindaco di Venezia?

Grandi opere

Il secondo aspetto è quello delle Grandi opere. Molti dicono oggi: le grandi opere sono neces­sa­rie, non si può rinun­ciare a farle; non è la gran­dezza dell’opera che la rende neces­sa­ria­mente fonte di cor­ru­zioni. Quindi, avanti con le grandi opere limi­tan­doci a col­pire solo quelli che Benito Craxi chia­mava «marioli». È un atteg­gia­mento che si sta rive­lando pre­po­ten­te­mente anche adesso.

Biso­gna uscire dalle affer­ma­zioni gene­ri­che ed esa­mi­nare i casi con­creti. Se si farà così si sco­prirà subito che c’è un nesso pro­fondo tra cor­ru­zione e grandi opere. Più grande e costosa è un’opera, più è com­plessa, più è neces­sa­rio l’asservimento del deci­sore for­male (il par­tito, l’istituzione) agli inte­ressi dell’«impresa»: è neces­sa­rio ungere rotas, distri­buire tan­genti reali (moneta) o vir­tuali (assun­zione di amici e parenti, viaggi e altri sol­lazzi). Più l’opera cre­sce, più risorse ci sono per ungere le ruote. I due inte­ressi del donato e del dona­tore s’incontrano: più l’opera è grande più cic­cia c’è per i gatti.

Lo stru­mento che più spesso viene ado­pe­rato per ren­dere Grandi le opere è l’emergenza. Già lo si vide ai tempi di Tan­gen­to­poli. L’alibi siste­ma­tico è la rigi­dità del sistema delle garan­zie, la con­se­guente lun­gag­gine delle pro­ce­dure, la sovrab­bon­danza di con­trolli. Invece di met­ter mano a una seria riforma delle pro­ce­dure, e dei con­se­guenti appa­rati tec­nici e ammi­ni­stra­tivi che devono gestirle, si inven­tano le dro­ghe per sca­val­care i con­trolli. Anzi­ché rifor­mare lo Stato, che si è pro­ce­duto astu­ta­mente a imba­star­dire, se ne pra­tica lo sman­tel­la­mento: «via lacci e lac­cioli», «meno Stato e più mer­cato», «pri­vato è bello». Slo­gan che sono stati vin­centi anche a sini­stra. In que­sta logica l’effettiva uti­lità dell’opera non conta nulla, né con­tano i suoi «danni col­la­te­rali», e nep­pure la sua prio­rità. L’unica uti­lità è la dimen­sione dell’opera e la sua pos­si­bi­lità di giu­sti­fi­care l’impiego di pro­ce­dure ecce­zio­nali, dotate di due requi­siti: l’opacità e la discrezionalità.

Una mora­to­ria di tutte le Grandi opere in corso di ese­cu­zione o deci­sione e un attento esame, sono le deci­sioni che in un paese civile dovreb­bero esser prese. Ma l’Italia è un paese serio? Da decenni le cas­san­dre dicono di no; e Cas­san­dra, come è noto, ci azzec­cava sempre.

L’oligarchia

Il terzo aspetto rile­vante sul quale lo scan­dalo vene­ziano offre utili ele­menti di ana­lisi e valu­ta­zione, che sarebbe neces­sa­rio appro­fon­dire per ten­tar di cor­reg­gere le stor­ture che ha reso evi­denti, è il sistema di potere che ha sve­lato. L’indagine non è ancora con­clusa e si spera che vada fino in fondo. Ma già da quanto ha sve­lato appare chiaro che le deci­sioni sugli inter­venti che tra­sfor­mano il ter­ri­to­rio non erano assunte dai poteri isti­tu­zio­nali, che avreb­bero dovuto espri­mere l’interesse gene­rale, ma da un gruppo di aziende pri­vate: aziende che, avendo abban­do­nato ogni spi­rito «impren­di­to­riale», ave­vano sosti­tuito al «libero mer­cato» una spie­tata oligarchia.

L’indagine aperta dai magi­strati vene­ziani illu­mina però una parte sol­tanto del gruppo di potere politico-economico che domina lo sce­na­rio veneto. E sarebbe dif­fi­cile com­pren­dere l’egemonia che il Con­sor­zio Vene­zia Nuova ha con­qui­stato nell’opinione pub­blica vene­ziana e veneta, nazio­nale e inter­na­zio­nale senza inda­gare nella trama dei rap­porti tra il mondo delle atti­vità immo­bi­liari, quello delle ban­che e rela­tive fon­da­zioni, quello dei mass media e quello della cul­tura e dell’università. Per costruire una mappa pre­cisa del potere a Vene­zia e nel Veneto non sarebbe però giu­sto affi­darsi solo al lavoro della magi­stra­tura, la cui respon­sa­bi­lità si arre­sta al limite trac­ciato dalle azioni con­tra­rie alla legge. Non sono solo le truffe e la cor­ru­zione diretta le uni­che armi di cui dispon­gono i poteri eco­no­mici per con­qui­stare il consenso.

Per avviare il risa­na­mento occor­rono scelte corag­giose. La prima è quella di met­tere ai mar­gini dei pro­cessi deci­sio­nali gli attori che hanno dato luogo al nuovo per­verso sistema di potere. La respon­sa­bi­lità della poli­tica e quella delle per­sone e delle isti­tu­zioni che hanno par­te­ci­pato a quel sistema di potere sono gra­vis­sime. Non col­pirle seve­ra­mente con atti poli­tici con­tri­bui­rebbe ad accre­scere il bara­tro che già separa i cit­ta­dini dalla democrazia

NEGLI INTERROGATORI SUL MOSE EMERGE
LA LAGUNA DEL MALAFFARE

Ernesto Milanesi

La carta dei ver­bali con­tro­fir­mati da Maz­za­cu­rati, Baita e Clau­dia Minu­tillo resti­tui­sce il mare di guano. Con schizzi (salvo que­rele o svi­luppi) per tutti. Il padre-padrone del Con­sor­zio Vene­zia Nuova ha rico­struito il «sistema Mose». Appa­ren­te­mente l’ex pre­si­dente della Man­to­vani Spa si è levato tutti i pesi dalla coscienza sporca. E l’ex segre­ta­ria di Galan ha rive­lato cosa c’era die­tro la fac­ciata di società come Bmc a San Marino con Wil­liam Colombelli.

Così in laguna spur­gano nomi eccel­lenti e rac­conti indi­ci­bili. Il “doge” ber­lu­sco­niano aspetta il ver­detto della Camera: oggi alle 13 è con­vo­cata la giunta per le auto­riz­za­zioni sulla richie­sta d’arresto per Galan, pre­si­dente della com­mis­sione Cul­tura, tra­smessa a Mon­te­ci­to­rio il 3 giu­gno. E per Altero Mat­teoli ci sarà quello del Tri­bu­nale dei mini­stri: la Pro­cura della Repub­blica ha già spe­dito i fasci­coli. Però la lista si infar­ci­sce. Baita allunga l’indice su Gianni Letta («assi­cu­ra­zione sulla vita di Maz­za­cu­rati») che respinge le accuse al mit­tente e pre­para le carte bol­late. Ma le depo­si­zioni sono piene di poli­tici: Mila­nese (cioè l’allora brac­cio destro di Tre­monti), l’ex mini­stro Lunardi, l’avvocato Ghe­dini. Gli sfi­danti delle ultime Comu­nali, Orsoni (pre­fe­rito dal Con­sor­zio) e Bru­netta. Un con­tri­buto, per altro regi­strato, al leghi­sta Tosi. Fino al soste­gno alla Fon­da­zione del patriarca ciel­lino Scola. O alla rete delle coop e al ruolo di Bren­tan sul fronte…sinistro.

Ci sono anche inter­cet­ta­zioni comi­che, con l’inversione delle parti. Come quando Minu­tillo ordina all’assessore Chisso di «alzare il culo» dal risto­rante e tor­nare al lavoro. Sarebbe la stessa che, secondo Baita, si fa fare la casa dall’impresa Car­ron che poi batte cassa e vuole entrare nel giro degli appalti che contano.

Di certo, fal­doni desti­nati a rim­pin­guarsi. E i magi­strati stanno anche «rileg­gendo» gli atti di vec­chie inda­gini, soprat­tutto col­le­gate alle Grandi Opere via­rie e ai pro­ject della sanità veneta. Senza dimen­ti­care la matassa che si dipana den­tro e fuori gli studi dei com­mer­cia­li­sti pado­vani arre­stati: Fran­ce­sco Gior­dano, fidu­cia­rio di Maz­za­cu­rati, e Paolo Venuti per i coniugi Galan.

Intanto ieri mat­tina nuova per­qui­si­zione in un can­tiere e negli uffici della Man­to­vani Spa (ora pre­sie­duta dall’ex que­store Car­mine Damiano, alle prese con Expo 2015). Oggetto di veri­fi­che da parte della Dire­zione nazio­nale anti­ma­fia il nuovo ter­mi­nal dell’«autostrada del mare» a Fusina. Con replica a Meolo in un can­tiere della A4 affi­dato ad un’altra impresa.

Poi c’è la denun­cia di Gian­franco Bet­tin, asses­sore all’ambiente: «Appren­diamo dalle carte e dagli svi­luppi dell’inchiesta che da parte di poli­tici, mini­stri e fun­zio­nari in par­ti­co­lare dei mini­steri dell’Ambiente e delle Infra­strut­ture si sarebbe lucrato sulle boni­fi­che di Porto Mar­ghera. Se così è stato hanno lucrato, come vam­piri, su una immensa tra­ge­dia sociale e umana, su un enorme disa­stro ambien­tale. Si capi­scono anche, così, la vio­lenza degli attac­chi dei reg­gi­tori di que­sto “sistema” con­tro chi si è sem­pre oppo­sto , le que­rele infi­nite e milio­na­rie, le inti­mi­da­zioni, le accuse di voler sman­tel­lare Mar­ghera quando invece erano pro­prio loro a impe­dirne il risa­na­mento e quindi la rigenerazione».

A Ca’ Far­setti, dopo la rissa nell’ultima seduta di con­si­glio, sem­bra pro­fi­larsi la solu­zione «demo­cra­tica» alla crisi poli­tica. Niente dimis­sioni della giunta per poter appro­vare il bilan­cio e evi­tare il com­mis­sa­rio pre­fet­ti­zio alla vigi­lia delle Comu­nali 2015. La Pro­cura, comun­que, ha negato l’incontro fra l’ex sin­daco Orsoni (agli arre­sti domi­ci­liari) e il vice «reg­gente» San­dro Simio­nato. Forse già lunedì all’ordine del giorno il docu­mento che sol­le­cita un’inchiesta par­la­men­tare e lo scio­gli­mento del Con­sor­zio Vene­zia Nuova: è stato fir­mato da Beppe Cac­cia e Camilla Sei­bezzi (lista “In comune”), Seba­stiano Bon­zio (Rifon­da­zione), Clau­dio Bor­ghello, Carlo Pagan, Gabriele Sca­ra­muzza e Jacopo Molina (Pd), Simone Ven­tu­rini (Udc), Luigi Gior­dani (Ps), Gia­como Guzzo e Andrea Rene­sto (Fede­ra­li­sti e riformisti).

L’isola di Pove­glia resta pubblica

La buona noti­zia, almeno, arriva dal Dema­nio. L’isola di Pove­glia resta ancora di pro­prietà pub­blica. Si erano mobi­li­tati cen­ti­naia di cit­ta­dini per l’asta, rac­co­gliendo 300 mila euro. Ma Luigi Bru­gnaro (tito­lare di Umana, pre­si­dente della Reyer Basket ed ex di Con­fin­du­stria) l’aveva vinta con un’offerta di 513 mila. Respinta con let­tera uffi­ciale, per­ché rite­nuta «non con­grua» al valore dell’isola lagunare.

FOTOGRAFIA DELLA CRICCA GALAN
Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi

È una dome­nica d’estate del 2010. In riva al mare di Croa­zia si cele­bra l’ottava edi­zione del «Pre­mio Brioni»: riu­ni­sce il giro di impren­di­tori che ruota intorno all’assicuratore Gianni Pesce, tito­lare della Pesce and part­ners Insu­rance srl.

Sono sbar­cati per lo più dagli yacht con il tri­co­lore «mari­naro», la ban­diera della Santa Sede e il ves­sillo del mee­ting. Sono stati ospi­tati al Bi Vil­lage di Fazana e sono reduci da una cena a buf­fet allar­gata ad altri vip: dal diret­tore gene­rale dell’Azienda ospe­da­liera di Padova Adriano Cestrone al notaio Nicola Cas­sano accom­pa­gnato da Monica Manto (avvo­cato, con un cur­ri­cu­lum di diri­gente in società par­te­ci­pate come Con­zor­zio Zip, Attiva Spa e Cvs), dalla fami­glia indiana spe­cia­li­sta in gio­ielli ai Luxardo sto­rici pro­dut­tori di mara­schino, fino a Fabio Fran­ce­schi di Gra­fi­che Venete che stampa best sel­ler e fre­quenta i ver­tici di Con­fin­du­stria.Un appun­ta­mento infor­male, fra amici con le fami­glie al seguito. Un week end che si ripete pun­tuale, con tanto di sou­ve­nir a bene­fi­cio dei pro­ta­go­ni­sti. Tutto alla luce del sole, niente da nascon­dere e con l’orgoglio di gruppo consolidato.

Ovvia­mente, la tra­sferta di Brioni 2010 non rien­tra nei fal­doni dell’attuale inchie­sta della Pro­cura di Vene­zia che il 4 giu­gno ha chie­sto al Par­la­mento l’arresto dell’ex gover­na­tore del Veneto Gian­carlo Galan per lo scan­dalo del Mose. Tut­ta­via, pro­prio per­ché coglie in relax all’estero il cer­chio ristretto dei fede­lis­simi, resti­tui­sce al natu­rale un frame del «modello veneto».

La ceri­mo­nia è affi­data alla pre­sen­ta­trice uffi­ciale, ma la vera anima della serata si rivela mon­si­gnor Libe­rio Andreatta, attuale vice pre­si­dente dell’Opera Romana Pel­le­gri­naggi che nel dicem­bre scorso ha orga­niz­zato — con la bene­di­zione di Papa Fra­ce­sco — una mis­sione anche archeo­lo­gica in Iraq. Al mini­stro delle Poli­ti­che agri­cole Galan (che ha appena dovuto cedere la pre­si­denza della Regione al leghi­sta Luca Zaia) spetta l’inedito ruolo di… val­letto. In polo azzur­rina grif­fata e pan­ta­loni blu mare, non si sot­trae; anzi, si pre­oc­cupa che i nomi degli spon­sor siano ben visibili…

Il Pre­mio Brioni pos­siede una filo­so­fia pre­cisa: «Sor­ve­glia le tue ami­ci­zie per­ché vivano fino a sera. Dona l’amicizia alle anime che intui­sci vicine alla tua. E se l’amico zop­pica, giu­di­calo sem­pre quand’è seduto» ammo­ni­sce la pro­lu­sione. Si comin­cia con lo spe­ciale rico­no­sci­mento a Fabio Bia­suzzi: la ripro­du­zione degli affre­schi di Raf­faello nella Stanza della segna­tura dei Musei Vati­cani. L’inguaribile mila­ni­sta Bia­suzzi è l’erede dei cava­tori di ghiaia del dopo­guerra, alla testa del gruppo di Pon­zano Veneto (Tre­viso) e fre­sco pre­si­dente dell’Atecap che asso­cia l’industria ita­liana del cal­ce­struzzo preconfezionato.

Per gli altri pre­miati la custo­dia di pelle riserva il mosaico del I secolo di un… pesce del museo nazio­nale di Napoli. Il «val­letto» Galan con mon­si­gnor Andreatta lo asse­gnano insieme alla magnum delle can­tine Pro­venza a tre sim­boli tipici dell’imprenditorialità veneta. Paolo Gaz­zola della Padana Orto­flo­ri­col­tura di Paese (Tre­viso) tra­di­sce l’imbarazzo nel sin­te­tico rin­gra­zia­mento. In ber­muda e maglietta viola si pre­senta Tiziano Got­tardo: a Piaz­zola sul Brenta (Padova) gesti­sce la distri­bu­zione di pro­dotti per la casa e l’igiene, ma recita già un ruolo da pro­ta­go­ni­sta nel com­parto della logi­stica che verrà «atten­zio­nato» dalla Guar­dia di finanza. Infine, Michele Tosetto che si occupa di alle­sti­menti (mostre, fiere, con­gressi) di espo­si­zioni e tra­sporti di opere d’arte con la sua società all’interno del Vega di Mar­ghera. Made in Italy in ver­sione Nord Est, come evi­den­zia mon­si­gnore con un pac­chiano errore di pro­nun­cia: «Io l’inglese lo odio e lo leggo così com’è scritto, per dispetto agli inglesi…». In com­penso, Andreatta non perde il piglio del con­dut­tore e ricorda a tutti che la Biblio­teca Vati­cana, chiusa da tre anni per restauri, verrà ria­perta con la grande mostra degli incu­na­boli nel brac­cio Carlo Magno di San Pie­tro per espli­cita volontà di Bene­detto XVI. «E l’allestimento è curato da Tosetto!!!».

Ma a Brioni c’è anche un pre­mio «pic­co­lino». Una moneta sto­rica in oro zec­chino che Gianni Pesce dona all’amico Gian­carlo che final­mente parla al micro­fono: «In que­sti mesi si vede chi è oppor­tu­ni­sta o chi si com­porta in modo schi­foso. Ma non ho mai dubi­tato dell’amicizia vera di molto pochi fra cui Gianni. E anche se su di me si fosse abbat­tuto lo spet­tro della disoc­cu­pa­zione, ero certo che comun­que sarei stato qui con lui e con voi…».

Cam­bio di scena e di sta­gione. Iden­tica atmo­sfera di con­fi­dente fre­quen­ta­zione. Di nuovo, tutti intorno a Galan. Natale 2011, nella villa dei Colli Euga­nei al cen­tro delle rico­stru­zioni con­ta­bili degli inqui­renti (lavori milio­nari di ristrut­tu­ra­zione, mutui ban­cari e dichia­ra­zioni dei red­diti), si acco­mo­dano a cena gli invi­tati spe­ciali: Giu­lio Mal­gara, che non è riu­scito a entrare alla Bien­nale; Fabio Fran­ce­schi di Gra­fica Veneta; l’industriale Luigi Rossi Luciani; Disma Tosetto, gio­vane impren­di­tore agri­colo di Limena; Ron­cato dell’omonima vali­ge­ria che aveva for­nito il set da viag­gio rega­lato ai diret­tori gene­rali delle Asl nomi­nati nel 2007; Enrico Mar­chi pre­si­dente di Save che gesti­sce il qua­drante di Tes­sera; Bepi Ste­fa­nel, un altro amico di lunga data; Fabio Gava, ex asses­sore regio­nale della sanità.

Ecco: pro­prio sul ser­vi­zio pub­blico della salute in pro­ject finan­cing e sulla «con­cer­ta­zione» di risto­ra­zione, puli­zie, manu­ten­zioni si dovreb­bero riac­cen­dere pre­sto i riflet­tori. In par­ti­co­lare, spicca il Cen­tro di tera­pia pro­to­nica per la cura dei tumori imma­gi­nato a Mestre dal dg dell’Usl 12 Anto­nio Padoan. Ope­ra­zione boc­ciata fra­go­ro­sa­mente dall’Unità Ricerca e Inno­va­zione dell’Agenzia regio­nale sanità con una pun­tuale, det­ta­gliata e docu­men­tata rela­zione fir­mata da Costan­tino Gallo. Giace dal 1 feb­braio 2011 sulle scri­va­nie di Leo­nardo Padrin, pre­si­dente gala­niano della com­mis­sione Sanità della Regione, e di Dome­nico Man­toan, mas­simo diri­gente della sanità veneta. Non solo la tera­pia pro­to­nica è ancora sprov­vi­sta di evi­denze scien­ti­fi­che per pre­fe­rirla a quella «con­ven­zio­nale», ma soprat­tutto «non è pos­si­bile con­fer­mare l’ipotesi di 1.900 pazienti annui, esten­si­bili a 4.000, su cui ven­gono basati tutti i cal­coli di con­ve­nienza dell’operazione». Nem­meno con la vaga pro­messa del governo dell’Ungheria di «dirot­tare» in Veneto i pazienti onco­lo­gici che si curano in Ger­ma­nia… E poi Costan­tino Gallo mette nero su bianco cal­coli da bri­vido: «A fronte di un inve­sti­mento dei pri­vati di 159.575.000 euro l’Usl 12 ver­serà nei 19 anni della con­ven­zione 615.571.000 euro più Iva per un totale di 738.685.200 a cui va aggiunto il costo del per­so­nale di 34.500.000 euro». Un affare, ma a senso unico.

Eppure, lo stesso «schema» è stato repli­cato a Trento dall’allora pre­si­dente della Pro­vin­cia Lorenzo Del­lai affian­cato dall’assessore alla salute Ugo Rossi e dal diret­tore dell’Agenzia pro­vin­ciale per la pro­ton­te­ra­pia Renzo Leo­nardi. Mega-cantiere nell’area ex Caserme Bre­sciani (la stessa del pro­getto di nuovo ospe­dale) con appalto tec­no­lo­gico affi­dato alla belga Iba ed un pool di ban­che a garan­tire i 40 milioni di finan­zia­menti al pro­ject delle imprese ita­liane. I primi test di col­laudo della «camera rotante» sono stati com­ple­tati il 29 luglio scorso: il dos­sier tren­tino è stato tra­smesso al mini­stro Bea­trice Loren­zin. Si tratta di un’operazione che pre­vede una spesa com­ples­siva di oltre 92 milioni di euro. L’edificazione edile della nuova strut­tura di Trento era stata affi­data alla Man­to­vani Spa con in calce al con­tratto di “par­te­na­riato” datato 2009 la firma di Pier­gior­gio Baita. Oggi grande accu­sa­tore dei can­ni­bali della laguna…

L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)

Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.

Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.

Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.

Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».

postilla

Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)

Le buone leggi ci sono (c’erano), ma l’assenza di controlli rigorosi e la colpevole negligenza dei notai hanno consentito la privatizzazione selvaggia e iniqua del patrimonio pubblico. Il Fatto Quotidiano”, 4 giugno 2014

Se i sindaci di Roma di destra, centro e sinistra si fossero limitati a far rispettare la legge nella compravendita delle decine di migliaia di case della sterminata periferia romana costruite dalla fine degli anni Settanta sui terreni espropriati dal Comune, oggi le casse del Campidoglio non piangerebbero con un debito che ha sfiorato i 900 milioni di euro. Per decenni quel gigantesco patrimonio immobiliare che va sotto il nome di edilizia popolare è stato un Far West. Intorno a quelle case e sotto gli occhi di tutti è stato organizzato un mercato selvaggio con migliaia di atti di compravendita solo all'apparenza regolari, con perfino i timbri e le firme dei notai al posto giusto, ma effettuati aggirando la legge.

Una mastodontica giostra immobiliare su cui sono saliti in molti. I proprietari delle case popolari in primo luogo, gente in genere con redditi bassi, a cui il Comune aveva concesso di realizzare a poco prezzo il sogno di avere un tetto. Ma ai quali è stato poi regalato un terno secco, permettendogli di vendere quello stesso tetto non a un prezzo contenuto e concordato, considerando che si trattava di immobili che all'origine costavano poco proprio perché realizzati su terreni espropriati e quindi quasi regalati. Ma a prezzo pieno, di mercato. Con un guadagno eccezionale per i venditori, tre o quattro volte il prezzo iniziale. Case pagate a suo tempo meno di 200 milioni di lire, sono state rivendute di recente a 350 mila euro e anche più. Ci hanno guadagnato i politici romani che con le case di edilizia residenziale pubblica si sono fatti molti amici tra gli elettori delle periferie. Ci hanno guadagnato i notai che, fidandosi ciecamente delle attestazioni degli uffici comunali, hanno messo il bollo su atti che alla prova delle aule dei tribunali si stanno dimostrando per quel che sono: illegittimi. Ci hanno guadagnato anche molti tecnici comunali che hanno assistito imperterriti alla fiera e in alcuni casi l'hanno agevolata, se non promossa. E ci hanno indirettamente guadagnato i grandi immobiliaristi capitolini, da Francesco Gaetano Caltagirone in giù, perché se il prezzo delle case a Roma per decenni e prima che arrivasse la falce della crisi aveva toccato livelli di pazzia collettiva lo si deve anche al fatto che l'enorme serbatoio dell'edilizia convenzionata è stato scambiato a prezzo pieno, lasciando che andasse a farsi benedire ogni effetto calmieratore. Chi ci ha rimesso sono state le casse comunali e quindi tutti quei milioni di romani, la maggioranza, che non hanno partecipato alla sarabanda o perché non la ritenevano giusta o perché non erano nelle condizioni di poter partecipare, ma che alle tasse comunali non si sono potuti sottrarre neanche un po'. E ci hanno perso anche migliaia di famiglie romane sotto sfratto (una ogni 191) non più in grado di pagare affitti saliti in media del 160 per cento a causa della speculazione.

Secondo un calcolo prudenziale di Giuseppe Di Piero, presidente di Area 167, l'associazione che si è dedicata anima e corpo alla denuncia dello scempio, insieme all'avvocato che ha sostenuto la causa, Antonio Corvasce, il Comune di Roma ci ha rimesso almeno mezzo miliardo di euro. Il legale ha presupposto che il Comune rispettasse la legge facendo pagare ai trasgressori la multa prevista fino a 4 volte la differenza tra il prezzo giusto, calmierato, e quello realmente preteso dai venditori. Corvasce ha vinto alcuni giorni fa una causa promossa da una privata cittadina che si riteneva danneggiata dal sistema di compravendita usato a Roma per le case di edilizia pubblica. Il tribunale civile della Capitale ha accolto la tesi della cittadina e dell'associazione Area 167 secondo cui “concedere una sorta di patente speculativa in capo al primo acquirente/assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, costruito su aree espropriate, non può essere considerato interesse pubblico”.

Quando un cittadino compra a buon mercato una casa popolare acquisisce la proprietà dell'immobile, ma con un vincolo forte: non può rivenderlo al prezzo massimo che riesce a spuntare, ma deve accontentarsi di un prezzo calmierato. A Milano, Firenze, Reggio Emilia, Torino, Pisa, Venezia, Ferrara, Bologna, Parma, Cagliari e in molte altre città la legge è stata rispettata. A Roma no. Ora la giunta Marino non sa che pesci prendere: per l'assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, il problema c'è ma non sa da che parte cominciare per risolverlo. A scanso di equivoci l'associazione Area 167 gli ha spedito una diffida invitandolo a interrompere una volta per tutte la giostra delle case popolari.

sprawl esprime patologie notoriamente collegate al medesimo stile di vita. Ma non si può dire, per non contraddire i mandanti ciellini pro-sprawl. Corriere della Sera, 8 giugno 2014, postilla (f.b.)

MONZA —Il dato più preoccupante riguarda i più piccoli: il 30% dei bambini brianzoli tra i 6 e gli 11 anni supera i limiti di peso per l’età, il 20% è in netto sovrappeso (19% maschi e 21% femmine), il 6% francamente obeso. Sono i dati raccolti da uno studio condotto a Vimercate, Agrate, Ornago, Mezzago, Bellusco e in metà delle scuole elementari di Monza dall’Università di Milano Bicocca e dalla Federazione Italiana Medici Pediatri della Lombardia.

«L’obesità infantile è in aumento — spiega Alfredo Vanotti, professore in Dietetica e Nutrizione all’università di Milano Bicocca e direttore del nuovo servizio Nutrizione ed Educazione Alimentare alla Clinica Zucchi di Monza e Carate — è colpa dell’eccessiva sedentarietà, troppa televisione e troppo poco sport, più computer che giochi in cortile». Per dichiarare lo stato di obesità si deve fare riferimento all’indice di massa corporea (Bmi), che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato: si è obesi se il risultato va dai 30 in su, ovviamente con differenti gradi di «gravità».

L’allarme-obesità scende (anche se di poco) nei comuni dove la Asl di Monza e Brianza ha effettuato progetti di promozione alla salute. Tra i 2007 e il 2010 i bambini sovrappeso tra i 6 e i 10 anni a Carate, Cavenago e Verano sono scesi dal 29% al 21%, gli obesi dal 9 al 7%.
Tra gli adulti le rilevazioni più recenti dicono che in Brianza i sovrappeso sono il 36% della popolazione (+1.1% rispetto alla media italiana), gli obesi il 12,7% (+2,8% rispetto all’Italia). L’obesità poi aumenta con l’età e colpisce più gli uomini delle donne. Tra i 18 e i 75 anni il 42% degli uomini è in sovrappeso e il 14% è obeso, mentre tra le donne il 21% è sovrappeso e il 9% è obeso. Le donne rischiano il sovrappeso con la menopausa (una su due è in sovrappeso dopo i 60 anni), mentre gli uomini perdono il pesoforma già dopo i 35 anni (1 su 2 è sovrappeso o obeso già a 35 anni).

L’altro dato curioso che riguarda gli uomini è l’aumento ponderale dopo il matrimonio: «Abbiamo studiato un gruppo di uomini prima del matrimonio e abbiamo registrato il 29% in sovrappeso e il 6% di obesi — conclude Vanotti — dopo qualche anno di matrimonio la percentuale dei sovrappeso è cresciuta al 48%, gli obesi al 13%». «Sono percentuali che fotografano la società dell’opulenza — è il commento di Vittorio Sironi, professore di Storia della Medicina e della Sanità all’Università Bicocca —: nell’Ottocento nei nostri comuni il problema era semmai la carenza alimentare. In Brianza si soffriva di pellagra, rachitismo, disturbi tiroidei. Oggi siamo una società ricca e l’obesità è una delle patologie più diffuse che colpisce l’8% della popolazione e cresce con l’aumentare dell’età».

Il consiglio? «Bisognerebbe tornare all’alimentazione dei nostri nonni — conclude Sironi — ai primi anni del Novecento quando si consumavano grandi quantità di frutta e verdura e il piatto della “cuccagna” era un’eccezione solo per alcune occasioni». Un gesto concreto contro l’obesità l’ha fatto il Comune di Seregno: con la palestra «Officine del benessere» ha partecipato a Let’s move, la sfida mondiale (176 i centri fitness in gara in rappresentanza di 10 Paesi) promossa dal colosso del wellness Technogym ed ha vinto. In un mese 950 persone si sono alternate sugli attrezzi e hanno accumulato 5,8 milioni di «move», che equivalgono a circa 12 milioni di calorie consumate. In palio attrezzi per 40 mila euro, che sono stati donati alla scuola media Don Milani. La Asl di Monza ha invece in programma per quest’anno alcuni progetti di educazione alla salute rivolti alle donne in gravidanza, agli educatori degli asili nido e alle scuole di ogni ordine e grado. Lo scorso anno ha invece fatto installare distributori di «snacks salutari» in otto scuole secondarie della provincia.

postillaPare quasi ovvio, che in una regione dove ormai da lustri il personale sanitario viene selezionato sulla base dell'appartenenza alle cordate cielline, nessuno si sogni neppure lontanamente di citare (nemmeno in sede di teoria, almeno da quanto si capisce dall'articolo) la montagna di ricerche americane e non, che legano direttamente l'organizzazione del territorio e l'indice di massa corporea. Ovvero che stabiliscono un legame quasi diretto fra gli stili di vita caratteristici dello sprawl suburbano, modello notoriamente ultra-dominante in Brianza, e la ciccia cronica di grandi e piccini. Ma non si può dire, perché si contraddirebbero così i ciellini profeti delle ubique autostrade, delle sedicenti comunità locali fatte di schiere di villette “immerse nel verde”, dove i ragazzini non escono se non accompagnati dalla mamma o dal nonno in Suv, e passano il resto del tempo quasi naturalmente rimpinzandosi di merendine davanti alla Tv. Probabilmente alche al sovrappeso ci dovrà pensare il “privato”, ricetta magica pervicacemente riproposta ad ogni piè sospinto dai nostri eroi. L'America va bene per i viaggi studio pagati dal contribuente, ma leggere le ricerche che non fanno comodo ai propri sponsor quello mai. Ad esempio gli studi seminali tradotti qui su Eddyburg tanti tanti anni fa, che magari i non medici devoti vorranno riguardare con occhi diversi oggi. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)

A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.

Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.

Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.

Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.

La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.

postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)

Utile ripresentare un testo scritto per eddyburg da uno dei più preziosi collaboratori, anni fa. La politica dei partiti sapeva, ha sempre saputo; prima prevedeva e cercava di correggere gli errori; dagli orribili anni '80, ha cominciato ad abbeverarsi alle sorgenti avvelenate.

Una storia segnata fin dalla nascita da forzature sul versante dei decisori (cominciando da Franco Nicolazzi) e da critiche su versante dei saggi (Bruno Visentini, la magistratura, Antonio Cederna ecc.). Scritto per eddyburg.it il 18 novembre 2006


Nel 1981 un gruppo di eminenti tecnici, adempiendo all’incarico affidatogli dal Ministro dei lavori pubblici, consegna al Ministro stesso uno “Studio di fattibilità e progetto di massima” per la “Difesa della laguna di Venezia dalle acque alte”. Il Ministro provvede a inoltrarlo, oltre che alla Commissione per la salvaguardia di Venezia e al Consiglio superiore dei lavori pubblici, anche al Comune di Venezia, intendendo acquisire il parere in merito degli enti locali interessati.

Nei mesi successivi si pronunciano la Commissione per la salvaguardia di Venezia, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio comunale di Venezia e quello di Chioggia, tutti in termini non sfavorevoli, ma parimenti esprimendo osservazioni critiche, e richieste di più complessivi inquadramenti nonché dello svolgimento di ulteriori ricerche.

Intanto, da più parti, si è auspicato, al fine di ottenere una celere realizzazione degli interventi in laguna, che si proceda all’esecuzione delle opere attraverso l’istituto della “concessione”. In tale prospettiva si costituisce il Consorzio Venezia Nuova [1].

Il 18 dicembre 1982 viene stipulato tra il Magistrato alle acque di Venezia, per conto del Ministro dei lavori pubblici, e tale consorzio, una concessione, a seguito della quale il consorzio avrebbe dovuto provvedere ad attuare parte degli studi, delle ricerche, delle sperimentazioni richieste dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, nonché a realizzare il tratto centrale del previsto sbarramento fisso alla bocca di porto di Lido.
Il 15 luglio la Corte dei conti nega il visto di esecutività al decreto di approvazione della concessione, eccependo, sostanzialmente, che, ai sensi delle leggi vigenti, “le concessioni di sola costruzione possono essere affidate a trattativa privata […] soltanto quando ciò sia espressamente consentito da una norma speciale”, mentre ordinariamente è previsto che “l’affidamento avvenga previo esperimento di una qualche forma di gara”, e che “la concessione considerata non contempla l’esercizio delle opere da realizzare” e pertanto “e da ritenersi di sola costruzione”. La vicenda, che viene conosciuta soltanto a seguito dell’intervento della Corte dei conti, e grazie a esso, suscita nuove polemiche.
In particolare, l’onorevole Bruno Visentini, presidente nazionale del PRI, scrive [2]: “a dieci anni dalla legge speciale di Venezia, i problemi della tutela fisica della città storica […] sono rimasti non risolti. Si parla ora di affidare in concessione a un consorzio di imprese […] il compito di realizzare quanto è necessario: iniziando, a quanto pare, da un incarico per ulteriori studi e progetti […] e continuando con l’incarico per la realizzazione delle opere […] Ma se si procedesse in questo modo si incorrerebbe in alcuni fondamentali errori di metodo e in alcune inammissibili elusioni di competenze decisionali.

"L’incarico non può avere per oggetto le scelte sull’avvenire della laguna […] Tali scelte spettano all’organo politico […] Sembra infine che gli ulteriori studi da effettuare, le ricerche da svolgere e le sperimentazioni da compiere […] nonché i controlli tecnico-scientifici sugli interventi […] non possano essere affidati al medesimo concessionario della realizzazione degli interventi, ma debbano essere attribuiti a soggetto diverso, che abbia grande autorità e sia capace di porsi in aperta dialettica con il concessionario”.

Le polemiche rimbalzano in seno alla IX Commissione della Camera dei deputati, che ha all’esame alcune proposte di risoluzione su Venezia, presentate dalla DC, dal PCI e dal PRI. Alla fine, il 27 ottobre 1983, la Commissione vota all’unanimità una risoluzione che, seppur elusiva circa il nodo dell’affidamento degli studi, delle sperimentazioni, e della realizzazione delle opere, impegna il Governo da un lato “a presentare entro tre mesi un rapporto globale sullo stato degli interventi per la salvaguardia di Venezia” e dall’altro “a definire, sentiti gli enti locali interessati, un programma unitario e globale degli interventi”.

Il Ministro dei lavori pubblici, il socialdemocratico Franco Nicolazzi (che circa un decennio appresso, all’epoca dell’inchiesta “Mani Pulite”, sarà condannato con sentenze passate in giudicato), non se ne dà per inteso, e men che mai si preoccupa delle critiche rivolte al tentato uso dell’istituto della concessione.

Il 24 febbraio 1984, infatti, viene stipulata, tra il Magistrato alle acque di Venezia e il Consorzio Venezia Nuova, una seconda convenzione, aggiustata in maniera da superare le obiezioni formali mosse dalla Corte dei conti alla precedente, ma non dissimile da quest’ultima nei contenuti, e ancor meno nella “filosofia”; questa volta il relativo decreto è registrato, in data 10 marzo 1984.

Tra il febbraio e il luglio del 1984 si succede la presentazione alla Camera dei deputati di vari disegni di legge volti a integrare la legislazione speciale per Venezia: dapprima uno del PRI, quindi uno della DC, del PSI e del PSDI, infine uno del PCI. Il 3 ottobre 1984 la IX Commissione della Camera dei deputati, dopo vivaci alterchi e concitate mediazioni, giunge ad approvare all’unanimità, in sede legislativa, un testo che, approvato anche dalla competente commissione del Senato, sempre in sede legislativa, diviene la legge 29 novembre 1984, n.798.

Quanto agli obiettivi degli interventi sulla laguna, la nuova legge stabilisce che questi ultimi devono essere “volti al riequilibrio della laguna, all’arresto e all’inversione del processo di degrado del bacino lagunare e all’eliminazione delle cause che lo hanno provocato, all’attenuazione dei livelli delle maree in laguna, alla difesa con interventi localizzati delle insulae dei centri storici, e a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte eccezionali, anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolamentazione delle maree”. E’ con ciò pienamente assunta, e puntualmente descritta, la “logica” che era stata espressa nei disegni di legge del PRI e del PCI, e sostenuta anche dal PLI.

In ordine alle modalità di realizzazione degli interventi si precede la costituzione di uno speciale Comitato, composto dal Presidente del consiglio, dai ministri interessati e dai rappresentanti della Regione del Veneto e degli enti locali territorialmente competenti sulla laguna, cui “è demandato l’indirizzo, il coordinamento, e il controllo”, ma che non è espressamente sancito debba, per assolvere i suoi compiti, preliminarmente definire quel “piano unitario e globale degli interventi” che era indicato nei disegni di legge del PRI e del PCI, ed era stato ripetutamente richiesto. La previsione del predetto Comitato, e i compiti, generali e specifici, che gli sono affidati, sono quindi soltanto la premessa logica e istituzionale dalla quale partire per ottenere la formazione di tale “piano unitario e globale”.

Per il resto viene normativamente fondata la possibilità di affidare la realizzazione degli interventi in concessione, ma non si definiscono i lineamenti di quest’ultima, limitandosi a prevedere che il Comitato di cui s’è detto si pronunci sulle connesse convenzioni, si demanda a un decreto del Ministro dei lavori pubblici la precisazione (seppure “sulla base delle convenzioni” decise dal Comitato) “delle modalità e delle forme di controllo sull’attuazione delle opere affidate in concessione”, e infine, e soprattutto, non solamente non si precisa che gli studi, le ricerche, le sperimentazioni debbono essere affidate a soggetti diversi dall’esecutore concessionario delle opere, ma si fa esplicita menzione della concessione “in forma unitaria” sia degli interventi che degli studi e delle progettazioni.

Il problema viene risollevato, un po’ di anni appresso, da Antonio Cederna, che era stato eletto alla Camera dei deputati, nelle liste del PCI, come indipendente di sinistra, nella X legislatura, iniziata il 2 luglio 1987 e terminata il 22 aprile 1992.

Egli, quando quasi volgeva al termine il suo mandato parlamentare, si convinse della necessità di un forte intervento di integrazione e di coordinamento della legislazione speciale per Venezia, e decise di presentare una propria proposta di legge rivolta a tal fine, la quale, sottoscritta anche da Ada Becchi e da Franco Bassanini (entrambi appartenenti, come Cederna, al gruppo della Sinistra indipendente), fu presentata il 2 aprile 1991.

Nella relazione illustrativa della proposta, premesso che il “faticato procedere delle azioni e degli interventi che, secondo la volontà del legislatore, avrebbero dovuto assicurare la salvaguardia di Venezia e della sua laguna[…] è stato largamente insoddisfacente […], sicuramente e marcatamente, per quanto attiene alla tutela dell'integrità fisica […] del territorio lagunare”, si sostiene che “la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi dianzi detti […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra unalogica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt'al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive”.

Occorre quindi, prosegue la relazione, “chiarire quale sia il vero nodo da sciogliere: non procedimentale, ma di merito. Il che non nega affatto che sia necessario ridisegnare l'attuale meccanismo decisionale e operativo degli interventi e delle azioni per Venezia […]. Piuttosto, evidenzia come tale ridisegno, per essere efficace, non possa essere neutro, ma, al contrario, debba essere, finalmente, coerente e funzionale al pieno e incontrovertibile affermarsi dell'approccio sistemico ai problemi del territorio veneziano”. Inoltre, soggiunge, non si ritiene opportuno “inventare nuovi e straordinari soggetti (che tendono, di norma, a dare pessime prove)”, ma invece si reputa doversi “assumere come riferimento il modello ordinariamente configurato, per le autorità di bacino di rilievo nazionale, dalla legge 18 maggio 1989, n.183”, sulla “difesa del suolo”, della cui definizione Cederna era appena stato primario protagonista. Che è quello che fa la proposta di legge, istituendo l'autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, indicandone l'ambito territoriale di competenza, e dettando, per essa, alcune disposizioni particolari.

Particolarmente rilevante risulta il fatto che, pur non escludendo che “sia le amministrazioni dello Stato che la Regione Veneto, che gli altri enti pubblici interessati, possano fare ricorso per la realizzazione di quanto rientri nelle rispettive competenze a concessioni a soggetti idonei sotto il profilo tecnico e imprenditoriale”, si afferma perentoriamente che “l'ambito del concedibile viene […] ristretto alla realizzazione di opere ed eventualmente alla loro gestione […], nella ferma convinzione che non possa né debba essere concessa (soprattutto dal momento in cui si costituisce un nuovo soggetto istituzionale dotato di propri robusti supporti scientifici, tecnici e operativi), in blocco e per di più allo stesso soggetto concessionario della realizzazione delle opere, l'effettuazione degli studi e delle ricerche preliminari e la progettazione (cioè, di fatto, la pianificazione e la programmazione degli interventi e delle azioni)”.

Per il vero, anche se la proposta di legge di Cederna per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare, il Parlamento nazionale, pochi anni appresso, decise almeno di superare radicalmente il sistema della "concessione unica", dello Stato al Consorzio Venezia Nuova, votando il comma 11 dell'articolo 12 della legge 24 dicembre 1993, n.527.

Ma questa è un’altra storia, che è già stata raccontata.

[1] Del quale, salvo errori od omissioni, inizialmente entrano a far parte (le cifre fra parentesi indicano la percentuale di partecipazione): Condotte d’acqua (20%); Impresit (20%); Fincosit (20%); Sacug (15%); Lodigiani (5%); Consorzio S.Marco-Furlanis, Grassetto, CIR, Maltauro, Cosma, Vittadello, Sacaim, Codelfa, CCC (15%); consorzio Rialto-Foccardi, Scuttari, Boscolo, Busetto, Ferrari, Cop. San Martino, Rossi (5%).

[2] Bruno Visentini, Venezia: i “progettini” rinviano il salvataggio, nel Corriere della Sera del 26 ottobre 1983.


Riferimenti

Vedi anche, su eddyburg, l'articolo di Oscar Mancini Il Consorzio Venezia nuova. Il nostro grido inascoltato (2013), quello di Edoardo Salzano La Laguna di Venezia e gli interventi proposti (2006), e i numerosi altri documenti e articoli nella cartella Mose.

«L’inchiesta sul mega-cantiere si allarga: un "sistema" nel cui libro paga si contabilizza di tutto, soldi grazie ai fondi neri. Si immagina che il 20% dell’opera si riveli una provvista analoga». Il manifesto, 6 giugno 2014

La squa­dra e il com­passo. Poli­tica bipar­ti­san al ser­vi­zio del “cer­chio magico” delle imprese pre­de­sti­nate. Una pira­mide di potere, tan­genti e finan­zia­menti occulti costruita gra­zie al Mose (mega-cantiere da oltre 5 miliardi). E’ crol­lata dopo tre anni di inda­gini della Pro­cura e di cer­to­sini riscon­tri della Gdf. Era il Veneto della caz­zuola a senso unico nelle Grandi Opere: se non scat­tava la con­ces­sione senza con­trolli a bene­fi­cio del Con­sor­zio Vene­zia Nuova, era sem­pre pronto un pro­ject finan­cing e non man­ca­vano mai le coo­pe­ra­tive “rosse”.Il regolo? Gian­carlo Galan, gover­na­tore dal 1995 al 2010, due volte mini­stro e ora pre­si­dente for­zi­sta della com­mis­sione cul­tura della camera.

Nem­meno troppo al coperto il dia­gramma di flusso che trian­gola poli­tici (dall’assessore regio­nale Fi Chisso al con­si­gliere Pd Mar­chese, dall’ex euro­par­la­men­tare Lia Sar­tori al sin­daco Orsoni), pro­fes­sio­ni­sti della finanza e con­ta­bi­lità (da Roberto Mene­guzzo di Pal­la­dio al com­mer­cia­li­sta Fran­ce­sco Gior­dano) e fun­zio­nari pub­blici (dalla Regione al Magi­strato alle Acque al gene­rale in pen­sione Spa­ziante). Sono i can­ni­bali “modello veneto”. Mil­lan­ta­tori com­presi, tutti con il conto cifrato, lo sti­pen­dio aggiun­tivo, la voca­zione sus­si­dia­ria, la con­su­lenza fit­ti­zia o il fami­liare inte­resse. E’ lo schema della “sal­va­guar­dia” di Vene­zia che tra­cima nelle cor­sie auto­stra­dali, nei nuovi ospe­dali, e rie­merge in peri­fe­ria con le cric­che della logi­stica o l’ultimo sta­dio dei con­flitti d’interesse.

Galan ha esi­bito il suo orgo­glio il 5 giu­gno 2009 al matri­mo­nio con San­dra Per­se­gato nella villa di Cinto Euga­neo sui Colli pado­vani. Quella ristrut­tu­rata gra­zie a sovra­fat­tu­ra­zioni della Man­to­vani Spa durante i lavori al mer­cato orto­frut­ti­colo di Mestre: oltre un milione di spese con Tec­no­stu­dio di Danilo Turato, ora ai domi­ci­liari. Ma nell’inchiesta si sta­glia la figura di Paolo Venuti, com­mer­cia­li­sta. Com­pare come revi­sore dei conti in decine di società par­te­ci­pate e stra­te­gi­che nel Veneto, men­tre recita il ruolo di “con­su­lente fidu­cia­rio” della cop­pia Galan-Persegato in par­ti­co­lare gra­zie a Mar­ghe­rita Srl e Pvp Srl. Gli inve­sti­ga­tori sono arri­vati ad Adria Infra­strut­ture e Man­to­vani Spa rico­struendo il legame con Clau­dia Minu­tillo (ex segre­ta­ria del doge) e Pier­gior­gio Baita, deus ex machina della Man­to­vani fino al 2013. Finì in car­cere all’epoca di Tan­gen­to­poli, pro­ces­sato e assolto. Dopo altri 106 giorni di car­cere ha revo­cato il man­dato ai legali Longo (sena­tore Fi) e Paola Rubini. E ha dise­gnato con Gio­vanni Maz­za­cu­rati del Cvn la “mappa” del sistema paral­lelo.

Per Galan, un’altra brutta noti­zia: ieri è stato arre­stato a Cagliari Alberto Rigotti, tren­tino, per il crac del gruppo edi­to­riale Epo­lis che sem­bra intrec­ciarsi con la gestione delle società di comu­ni­ca­zione che com­pa­iono nell’ordinanza dei magi­strati veneziani.

Dal 1986 al 1995 il Cvn è stato pre­sie­duto da Luigi Zanda, ora capo­gruppo Pd al Senato. Arre­stato con Orsoni c’è Giam­pie­tro Mar­chese: dal 2005 avrebbe incas­sato mezzo milione, anche all’interno della Regione, dalle mani di Fede­rico Sutto (che il 7 feb­braio 2013 con­se­gnò 160 mila euro a Chisso). E a pagina 605 dell’ordinanza spicca un appunto: 40 mila euro di con­tri­buto al can­di­dato Davide Zog­gia (ex pre­si­dente della Pro­vin­cia, poi nello staff di Ber­sani) più 7.428 euro di con­su­lenza. Altri 15 mila euro al Comune di Padova e 4 mila al Pd. Inda­gato anche Lino Bren­tan, “refe­rente” Ds nell’Autostrada Padova-Venezia già con­dan­nato per tan­genti. Senza dimen­ti­care la cena dell’8 giu­gno 2011 al Calan­dre. Con Maz­za­cu­rati e Pio Savioli del Cvn sono atto­va­gliati l’allora sin­daco Zano­nato e il ret­tore Giu­seppe Zac­ca­ria. Discu­tono del pro­getto per il nuovo ospe­dale di Padova…

Man­to­vani, Fip, Con­sor­zio Veneto Coop, Vit­ta­dello, Nuova Coed­mar, Ccc: è il “giro” delle imprese per il Mose. E il sistema si allarga: Diego Car­ron (omo­nima società di costru­zioni) com­pare a pag. 550 per­ché fa… rife­ri­mento a Chisso. L’impresa di San Zenone degli Ezze­lini (Tre­viso) è pro­ta­go­ni­sta di appalti come l’ampliamento dell’Orto Bota­nico dell’Ateneo di Padova. Il mer­cato si rivela tutt’altro che libero. Con Pal­la­dio Finan­zia­ria che da Vicenza si pre­oc­cupa dei pro­ject non solo della sanità, men­tre con Est Capi­tal Sgr gesti­sce 800 milioni di fondi immo­bi­liari con ope­ra­zioni che riguar­dano hotel di lusso a Vene­zia e la “ricon­ver­sione” dell’ex col­le­gio gesuita Anto­nia­num a Padova.

Dalle “rice­vute” si mate­ria­lizza la rete di con­ni­venze lì dove il Cvn poteva rischiare con­trolli o aveva biso­gno di nuovi finan­zia­menti sta­tali. Migliaia di euro distri­buiti gra­zie ai “fondi neri” di 25 milioni all’estero. In Pro­cura c’è chi imma­gina che il 20% dell’operazione Mose possa rive­larsi una prov­vi­sta ana­loga. Sta di fatto che nel libro paga del “sistema” si con­ta­bi­lizza di tutto. Anche la Fon­da­zione Mar­cia­num, eretta dall’allora patriarca ciel­lino Scola. O il con­tratto di col­la­bo­ra­zione a pro­getto per “ope­ra­zioni ine­si­stenti” di Gian­carlo Ruscitti: era il segre­ta­rio gene­rale della sanità veneta, siede nel Cda dell’Irccs San Camillo al Lido e com­pare nei comi­tati d’onore della Com­pa­gnia delle Opere.

«Ora sap­piamo che sei miliardi di finan­zia­menti diretti, più tutti quelli per le opere com­ple­men­tari di difesa a mare del lito­rale, di con­so­li­da­mento delle rive e delle fon­da­menta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «par­tito del fare» (e del rubare) si è com­prato la città». Il manifesto, 6 giugno 2014

Il pro­getto della chiu­sura delle boc­che di porto della Laguna di Vene­zia, il più grande inter­vento di inge­gne­ria civile mai costruito in Ita­lia, è stato il pro­to­tipo delle «grandi opere». In tutto. Nella filo­so­fia emer­gen­zia­li­sta che lo pre­siede — la grande allu­vione del 4 novem­bre 1966 sem­brava giu­sti­fi­care una deci­sione rapida e ras­si­cu­rante, in barba ad ogni esi­genza di appro­fon­di­mento degli studi scientifici.
Nella delega con­cessa al sistema delle imprese pri­vate giu­di­cato dai deci­sori poli­tici il più com­pe­tente ed effi­ciente non solo nella rea­liz­za­zione delle opere, ma anche nella loro idea­zione e pro­get­ta­zione – con­dan­nando le uni­ver­sità, il Cnr e gli organi tec­nici dello stato a fare da sup­porto ser­vente alle imprese. Nella deroga alle pro­ce­dure ordi­na­rie di affi­da­mento, veri­fica e con­trollo delle opere pub­bli­che – date in con­ces­sione ad un unico sog­getto, anti­ci­pando il mec­ca­ni­smo del gene­ral con­tract. Nel gene­roso ricorso al cre­dito ban­ca­rio (a pro­po­sito dei motivi che hanno gene­rato il debito pub­blico!) – pro­ce­dura che poi sarà per­fe­zio­nata con il pro­ject finan­cing.

Il Con­sor­zio Vene­zia Nuova nasce nel 1982 sotto gli auspici di De Miche­lis (Par­te­ci­pa­zioni Sta­tali), Nico­lazzi (Lavori Pub­blici) e Fan­fani (pre­si­dente del Con­si­glio). Com­prende tutte le mag­giori società di engi­nee­ring pub­bli­che e pri­vate, dalla Impre­sit della Fiat (a cui suben­trerà la Man­to­vani) alle Con­dotte d’acqua dell’Iri. E poi: Lodi­giani, Mal­tauro, Impre­gilo fino alle coo­pe­ra­tive emi­liane CCC. Primo pre­si­dente del CVN è Luigi Zanda, pro­ve­niente dalla segre­te­ria del mini­stro Cossiga.

Negli stessi anni nasce anche il Tav e il Ponte dello Stretto di Mes­sina. L’Italia del «fare» — per chi ha perso la memo­ria — nasce allora. Ma per supe­rare gli evi­denti vizi giu­ri­dici di un’opera affi­data in con­ces­sione a trat­ta­tiva pri­vata e per di più su un «pro­getto pre­li­mi­nare di mas­sima» mai appro­vato dal Con­si­glio Supe­riore dei Lavori Pub­blici, ci fu biso­gno di una legge spe­ciale (legge 798 del 29 novem­bre del 1984). Ad opporsi fu solo il Pri con il mini­stro Bruno Visen­tini, come io stesso rico­no­scevo in un sag­gio di tanti anni fa, Appunti per una sto­ria del Pro­get­tone («Oltre il ponte», n. 17, 1987), in cui defi­nivo l’oggetto della con­ven­zione tra Stato e CVN: «un insieme di opere ancora inde­ter­mi­nate, tutte comun­que assi­cu­rate da una forma di paga­mento a piè di lista».

Nasce così lo stra­po­tere del CVN in città e non solo. Cro­ce­via di smi­sta­mento di ogni genere di appalti, anche quelli non diret­ta­mente affe­renti al Mose. Punto di equi­li­brio degli inte­ressi bipar­ti­san.A dire il vero un ripen­sa­mento ci fù all’epoca di Tan­gen­to­poli. Con una legge del 1993 (n.527, art. 12, comma 11) si dava man­dato al Governo di «razio­na­liz­zare» le pro­ce­dure di inter­vento a Vene­zia così da «sepa­rare i sog­getti inca­ri­cati della pro­get­ta­zione dai sog­getti cui è affi­data la rea­liz­za­zione» e costi­tuire una agen­zia pub­blica. Inu­tile dire che nulla sostan­zial­mente fu fatto per mutare la situa­zione. Nem­meno quando nel 1998 la Com­mis­sione nazio­nale per la Valu­ta­zione dell’Impatto Ambien­tale dette un parere sostan­zial­mente nega­tivo al progetto.

In soc­corso del Mose giunse la nuova Legge Obiet­tivo di Lunardi-Berlusconi (2002) che ha con­sen­tito ai vari governi, da ultimo quello Prodi con Di Pie­tro mini­stro ai Lavori Pub­blici (con un voto a mag­gio­ranza nel Con­si­glio dei mini­stri), di avo­care a sé le deci­sioni tecnico-progettuali e di appro­vare defi­ni­ti­va­mente il Mose nel 2006. Fu il colpo di gra­zia anche per i movi­menti ambien­ta­li­sti e l’assemblea per­ma­nente con­tro il Mose. Da allora una valanga di massi, cemento e ferro è stata sca­ri­cata sulle boc­che di porto. Il Con­sor­zio Vene­zia Nuova aveva vinto. Ora sap­piamo che sei miliardi di finan­zia­menti diretti, più tutti quelli per le opere com­ple­men­tari di difesa a mare del lito­rale, di con­so­li­da­mento delle rive e delle fon­da­menta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «par­tito del fare» (e del rubare) si è com­prato la città

Il sindaco di Venezia agli arresti domiciliari con accuse pesantissime, che riguardano la delicatissima questione della complicità tra funzioni pubbliche e interessi privati e squadernano la domanda: chi comanda in città?. Un comunicato del direttore di eddyburg, 5 giugno 2014

La lettura dei giornali veneziani di oggi fa comprendere che è in atto una manovra tesa a minimizzare gli effetti politici dell’azione giudiziaria che ha severamente colpito il gruppo di potere che domina la città e la regione. Ne ha colpito solo una parte, ma certo una parte consistente.

Gli effetti dell’azione giudiziaria sono oggettivamente gravissimi. Il sindaco della città è agli arresti domiciliari: ciò significa che la magistratura ha ritenuto che, se lasciato libero, potrebbe sottrarsi alla giustizia (il che è difficilmente pensabile) oppure potrebbe agire per inquinare le prove dei reati per i quali è stato privato della liberà personale.

Secondo la stampa sono possibili due ipotesi: il sindaco rassegna le dimissioni, allora si apre la procedura di formazione di un nuovo consiglio e la scelta di un nuovo sindaco, oppure il sindaco resta in carica e in sua vece governerebbero il vicesindaco da lui scelto e la giunta, anch’essa non eletta ma nominata dallo stesso Orsoni.

Il giudizio sul comportamento del sindaco spetta alla magistratura, e sono anch’io stupito della crepa profonda che si è aperta tra l’immagine della persona e le colpe di cui sembra essersi macchiato. Tuttavia i fatti emersi sono talmente gravi che il solo sospetto che un sindaco possa esserne stato parte sono tali da auspicarne le dimissioni immediate.

La responsabilità della scelta non può essere attribuita al sindaco né alla giunta da lui scelta. È alle istituzioni che spetta di decidere, e di restituire lo scettro al popolo.

Ero già intervenuto ieri sulla questione come presidente della rete Altro Veneto, oggi ho inviato agli organi di stampa e al mondo delle associazioni il seguente comunicato

Il primo passo per uscire dal baratro: le dimissioni di Giorgio Orsoni

Ieri ho scritto che ritengo “necessaria e urgente la sostituzione più rapida possibile dei membri delle istituzioni democratiche colpiti da così infamanti accuse e dei loro complici, e un rinnovamento radicale della politica”. Sono convinto che la scelta della strada da seguire per raggiungere questo risultato non possa essere lasciata all’imputato Giorgio Orsoni, né ai dirigenti dell’amministrazione comunale da lui scelti, a cominciare dal vicesindaco. Oltre ad Orsoni (che è agli arresti domiciliari per il timore che possa inquinare le prove) l’unico organismo eletto è il consiglio comunale. E’ al consiglio comunale che spetta quindi di decidere in che modo riportare il Comune nell’ambito della legalità democratica. Il primo passo che vedo necessario è chiedere le dimissioni di Orsoni; il secondo è quello di avviare un percorso ampio, che investa tutte le forze vive della città per scegliere un gruppo dirigente del tutto nuovo, all’altezza dei gravi problemi per il presente e il futuro dell’area veneziana, nonché di correggere le storture del perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati di cui l’indagine della magistratura ha svelato, per ora, una parte.

«Il Mose sarebbe criminogeno anche se i suoi lavori andassero lentissimi. Perché è un progetto sbagliato in sé: frutto di quella vocazione al suicidio da cui Venezia non sembra capace di liberarsi» E ripulire la Laguna dal malaffare sarà un'impresa lunga». Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2014

Massimo Cacciari – tra i cui non molti meriti di sindaco di Venezia c’è quello di essersi sempre opposto al Mose – ha detto che le radici della corruzione vanno cercate nell’urgenza. Vero, ma il Mose sarebbe criminogeno anche se i suoi lavori andassero lentissimi. Perché è un progetto sbagliato in sé: frutto di quella vocazione al suicidio da cui Venezia non sembra capace di liberarsi.

Per mille anni la Repubblica Serenissima ha vegliato sul delicato equilibrio della Laguna, che è la particolarissima “campagna” che circonda Venezia. In natura, una laguna ha una vita limitata nel tempo: o vincono i fiumi che portano materiali solidi verso il mare, e la laguna si trasforma in palude e piano piano si interra, oppure vincono le correnti marine, che tendono a renderla un golfo o una baia.

I veneziani capirono subito che tenere in vita la Laguna salmastra voleva dire assicurarsi uno scudo naturale sia verso la terra che verso il mare. Non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la manutenzione continua. Così la storia di Venezia – ha scritto Piero Bevilacqua – è stata “la storia di un successo nel governo dell’ambiente”.

Una storia che, con l’avvento dell’Italia unita si è, però, interrotta, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni di malgoverno veneziano. Per fare entrare le Grandi Navi (turistiche, industriali e commerciali) si sono dragati e approfonditi i canali d’accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione .

Il risultato è stato un abnorme aumento dell’acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quell’enorme choc che mise Venezia di fronte all’alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l’equilibrio, o essere mangiata dall’Adriatico.

Fu allora che emerse la terza via: il Mose, che permise di eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L’idea era di continuare indefinitamente a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che chiudesse le porte al mare. È come se un paziente ad altissimo rischio di infarto venisse persuaso dai medici a non sottoporsi ad alcuna dieta né ad alcun esercizio fisico, e a scommettere invece tutto su una costosissima e complicata operazione di angioplastica. Non verrebbe da pensare solo che i medici sono incompetenti: ma anche che hanno qualche interesse occulto nell’operazione. E se poi quei medici finissero in galera, chi potrebbe stupirsi?

Follemente, la scelta della terapia è stata affidata direttamente ai chirurghi. Fuor di metafora: la salvezza di Venezia e del suo territorio è stata affidata a un consorzio di imprese private (il Consorzio Venezia Nuova) interessate a realizzare il costosissimo meccanismo di riparazione del danno , il Mose appunto. E tutto è stato asservito a questo ente: anche il controllo del Magistrato delle Acque, che si è trovato a ratificare (invece che a sorvegliare) scelte operate in base all'interesse privato.

Sarebbe difficile spiegare un simile suicidio se non vedessimo che Venezia si distrugge ogni giorno in mille altri modi, prostituendosi, fino alla morte, a un turismo cannibale. Ma mentre gli abitanti continuano a scendere (sono ora 59.000: un terzo della popolazione del 1950, la metà di quella del 1510) e le Grandi Navi sembrano inarrestabili, c’è ancora chi resiste, tra mille difficoltà. Esemplare il caso di Italia Nostra, cui appartiene la voce più ferma e coraggiosa contro la morte di Venezia, una voce che un anno fa aveva documentato pubblicamente proprio la corruzione del Mose: ebbene, la soprintendente architettonica veneziana Renata Codello ha querelato l’associazione, che le rimproverava pubblicamente la difesa delle Grandi Navi, e l’autorizzazione allo scempio (futuro) del Fondaco dei Tedeschi e al raddoppio (in corso) dell’Hotel Santa Chiara sul Canal Grande (quello dove, secondo i pm, la segretaria di Giancarlo Galan avrebbe ricevuto le mazzette!). E che avvocato ha scelto la Codello? Ma quello del Consorzio Nuova Venezia, che controlla il Mose. Pulire la Laguna, insomma, sarà un’impresa lunga.

I resi­denti rima­sti e quanti amano la città e la laguna a testa alta continuano a rivendicare il loro diritto di vivere la città e il dovere di tutelare, proteggere e salvare il bene comune che è la laguna. A dispetto e al di sopra degli scandali. Il manifesto, 5 giugno 2014 (m.p.r.)

Di nuovo… in movi­mento per sal­vare la città e la Laguna. Sabato alle ore 13 in piaz­zale Roma il Comi­tato No Grandi Navi rilan­cia la sfida con un cor­teo che punta a fer­mare il pas­sag­gio di quat­tro «mostri del mare».

Un appun­ta­mento pre­pa­rato con cura. Il 22 mag­gio sul cam­pa­nile di San Marco è stato issato l’enorme stri­scione (anche in inglese) che anti­ci­pava la mani­fe­sta­zione. Poi il pre­si­dio a Porta Pia davanti al mini­stero delle Infra­strut­ture, durante il cor­teo in difesa dell’acqua bene comune. Infine assem­blee, incon­tri, ban­chetti e con­tro­in­for­ma­zione che cul­mi­ne­ranno nel week end in cui a Vene­zia si inau­gura la Bien­nale di Architettura.

«Sarà blocco delle grandi navi. E non sim­bo­lico, di qual­che ora: le navi non devono par­tire per tutto il giorno. È la rispo­sta che la città darà alla dram­ma­tiz­za­zione del governo e del Porto che vogliono acce­le­rare sullo scavo del Canale Con­torta», pre­an­nun­cia Tom­maso Cac­ciari a nome del Comi­tato. Con un espli­cito invito a par­la­men­tari ed euro­par­la­men­tari affin­ché par­te­ci­pino alla mani­fe­sta­zione di sabato, prima di aprire il con­ten­zioso a Roma e Bru­xel­les. Il governo Renzi – dopo aver resu­sci­tato il Comi­ta­tone – si è impe­gnato a trac­ciare una nuova rotta per le città gal­leg­gianti. Ma ci sono anche le norme Ue sulle acque da rispet­tare, con il rischio che per l’Italia si apra una nuova pro­ce­dura di infrazione.

Vene­zia finora è rima­sta stri­to­lata dalle “lar­ghe intese”, sull’onda della sus­si­dia­rietà e del busi­ness delle Grandi Opere. Con due pro­ta­go­ni­sti poli­tici: il ciel­lino Mau­ri­zio Lupi e l’ex ret­tore e sin­daco Paolo Costa. Un ber­lu­sco­niano appro­dato al Ncd per via mini­ste­riale (Expo com­presa) e un pro­fes­sore del Pd votato alla causa della mega base Usa di Vicenza o al pro­getto miliar­da­rio del porto off shore. Lupi&Costa non solo difen­dono a spada tratta il turi­smo delle mega-crociere che let­te­ral­mente eclissa Vene­zia, ma soprat­tutto nutrono le ambi­zioni del solito “giro” di imprese, lobby e mandarini.

Al di là dell’inchiesta della pro­cura della Repub­blica che ieri ha dispo­sto 35 arre­sti (vedi la cro­naca in que­ste pagine), resta evi­dente la con­nes­sione fra Man­to­vani Spa (ora pre­sie­duta dall’ex que­store Car­mine Damiano) con le vicende degli appalti per Expo 2015.

Non basta. L’ex mini­stro Cor­rado Clini (che firmò insieme al col­lega Pas­sera il decreto dopo il nau­fra­gio della Con­cor­dia) è sem­pre agli arre­sti domi­ci­liari. Fra Fer­rara e Roma gli con­te­stano l’associazione a delin­quere fina­liz­zata alla cor­ru­zione con tanto di conto cifrato a Lugano. E nel pro­getto di riqua­li­fi­ca­zione idrica in Iraq com­pare un altro pro­fes­sio­ni­sta pado­vano, anche lui agli arre­sti domi­ci­liari: Augu­sto Calore Pret­ner, inge­gnere con stu­dio a Sar­meola di Rubano che ha col­le­zio­nato pro­get­ta­zioni per conto di nume­rosi Comuni, della mul­tiu­ti­lity Ace­ga­sAps e del Cen­tro Veneto Ser­vizi di Monselice.

Insomma, un “governo” della futu­ri­bile città metro­po­li­tana che sem­bra quasi clo­nato dai “dogi” della Prima Repub­blica. A Vene­zia, però, non si piega la testa. Anzi: c’è stata la sot­to­scri­zione popo­lare nell’asta dell’isola di Pove­glia (aggiu­di­cata, per ora, a Luigi Bru­gnaro di Umana Hol­ding per 513 mila euro). Torna in primo piano la tutela dei 58 mila resi­denti rima­sti in città. Ine­vi­ta­bile resi­stere alla deriva di Vene­zia stu­prata dagli inte­ressi di pochi pri­vati a danno di tutti: i “dino­sauri” in bacino San Marco pro­du­cono inqui­na­mento, deva­sta­zione e peri­coli. Luigi D’Alpaos, mas­simo esperto di idrau­lica a Nord Est, sin­te­tizza così la situa­zione: «Da una parte ci sono gli impor­ta­tori degli inte­ressi forti, come Porto e Con­sor­zio Vene­zia Nuova, che tutto hanno fatto tranne che tute­lare il benes­sere della laguna, pen­sando invece che sia loro e di poterne fare ciò che vogliono. Dall’altra parte ci sono quelli che sosten­gono che la laguna sia un bene comune indi­spen­sa­bile da pro­teg­gere e da sal­vare. Poi c’è una poli­tica becera che favo­ri­sce il gigan­ti­smo navale che sem­bra non porre più limiti alle dimensioni».

C’è chi vuole ancora la città-cartolina, men­tre i riflet­tori inter­na­zio­nali si accen­dono sulla Bien­nale. In piaz­zale Roma sabato pome­rig­gio l’alternativa si rimette in movimento…

Intervistato da Sebastiano Messina il sindaco-filosofo contrario al Mo.SE che propose Giorgio Orsoni come suo successore. «La catastrofe è grande ed è del tutto trasversale. Se ne esce con una grande riforma culturale e politica. Se ne esce con partiti che selezionano in modo più adeguato la loro classe dirigente, con partiti che hanno delle idee e dei programmi e non solo la volontà di occupare il potere…».La Repubblica, 5 giugno 2014


Professor Cacciari, lei è stato il principale sostenitore del sindaco Orsoni, già dalle primarie. Cosa ha pensato, quando ha saputo che era stato arrestato per una faccenda di soldi?
«Ho provato una grande angoscia. Le dico onestamente che in alcuni casi qualcuno può dire: io sapevo. Ma su Orsoni, è difficile dire che si sapesse qualcosa. Anzi, era assolutamente impossibile immaginare qualcosa del genere. Per me è stata un’enorme sorpresa. Dolorosissima. Non perché sia particolarmente amico di Orsoni, ma perché credo che, come me, nessuno a Venezia potesse sospettare lui di cose meno che lecite. Quindi non so, starò a vedere. Certo che ti viene da pensare: forse questi meccanismi sono talmente logorati e pieni di crepe, che quando ci sei dentro ci cadi. Ma il caso di Orsoni mi lascia davvero sconcertato. Gli auguro di poter chiarire tutto e di uscirne presto e benissimo, anche se non so nulla delle accuse».

Questo Mose sembra proprio nato sotto una cattiva stella.
«Ma questa stella, nelle sue dimensioni strutturali, brillava alta su nel cielo. E qualche re magio poverino la seguiva da tempo…».

Cioè lei.
«Certo. Non c’è nulla di misterioso in questa stella del Mose. Che è nata nel 1985-86, e ha brillato ininterrottamente fino a ieri nel cielo di Venezia. Sotto qualsiasi governo, sotto qualunque presidente del Consiglio. E qui vorrei ricordare alcuni fatti che non hanno nulla a che vedere, in sé, con la dimensione giudiziaria ».

Per esempio?
«La sua nascita, per cominciare. Se una grande opera pubblica come questa, che alla fine verrà a costare circa sette miliardi di euro, non so se rendo l’idea, viene fatta decidendo che chi la fa è un concessionario unico, che può seguire l’opera e realizzarla in tutte le sue fasi praticamente senza mai ricorrere a una gara di trasparenza pubblica che sia una, che può strafottersene per venti anni e passa di una serie di posizioni che vengono periodicamente dal Consiglio comunale e da altri organi amministrativi, che può spendere al di là di ogni controllo, si crea una situazione poco chiara e poco trasparente… ».

È stato creato un mostro senza controllo, dice lei. Con il consenso di tutti i governi.
«E non ho finito. L’ultimo capitolo è stata la riunione del “comitatone”, 22 novembre 2006, presieduto da Romano Prodi. Dopo due anni di intenso dibattito condotto in prima persona dal sottoscritto, come sindaco di Venezia, io presentai a quella riunione un’amplissima documentazione e una relazione nella quale ricordavo le perplessità, uso un eufemismo, sulla conduzione di un’opera di questa mole attraverso la procedura di un concessionario unico, e ricordavo che c’era stato un solo giudizio di impatto ambientale, uno solo, ed era stato negativo. Ricorvolta davo anche che mancava il progetto esecutivo. Perché se io come sindaco avessi mandato in appalto un’opera cento volte più piccola senza l’esecutivo finale, sarei finito direttamente nelle patrie galere. Dissi tutto questo, e votai no: contro Prodi».

Ricordo perfettamente che lei era contrario al Mose. Però forse la corruzione sarebbe arrivata lo stesso anche se si fosse preferito un altro progetto.
«Io non sono un ingegnere, ma avevo proposto le soluzioni alternative suggerite da autorevolissimi esperti. Nessuno ci ha ascoltati. Il sottoscritto, quando andava ad esporre le sue perplessità, era tollerato.Sono riuscito a parlare sì e no cinque minuti manco con Prodi, ma con Enrico Letta, allora sottosegretario. E non parliamo dei giornali. Viva l’opera! Comunque, una fatta la scelta, io dissi: io non sono contrario all’opera, sono contrario a un’opera fatta così. La mia opposizione nasceva dalla certezza che la procedura scelta avrebbe potuto portare ad esiti ed effetti come quelli che si sono verificati oggi».

La corruzione, secondo i magistrati, sarebbe cominciata nel 2005.
«Ma certo. Se c’era un giro di mazzette sarà partito anche prima. Io non so nulla di questa indagine e mi auguro che tutti vengano assolti o prosciolti. Che gli venga chiesto perdono, persino. Ma non mi si venga a dire che la cosa non poteva essere seguita diversamente. Non si possono fare le opere pubbliche così. Perché oggi è il Mose, ieri L’Aquila e l’Expo, domani chissà. Lavorare costantemente con l’emergenza, o dire che le grandi opere vanno date in mano al Napoleone di turno, è una logica criminogena ».

Ecco, ma è possibile che in questi anni a Venezia nessuno abbia sentito l’odore di questa corruzione? L’assessore Bettin ha detto: qualcosa si sapeva.
«Una qualche vox populi c’era. Soltanto che io non faccio il magistrato e non faccio il poliziotto. Quello che so e che ho detto era più che sufficiente perché si sorvegliasse e si controllasse in modo più pervasivo questa colossale operazione da sette miliardi di euro. Questo non è stato fatto. Neanche dalla Corte dei conti: io sono andato anche lì a portare il malloppo delle mie contestazioni, in una seduta pubblica».

E com’è andata?
«Ho parlato cinque minuti, nell’indifferenza totale».

Oggi a Venezia la politica è in ginocchio. Come può rialzarsi? Come se ne esce?
«Intanto dobbiamo aspettare le sentenze, che potranno aggravare o ridimensionare le accuse ad alcuni dei personaggi coinvolti. Certo, la catastrofe è grande ed è del tutto trasversale. Se ne esce con una grande riforma culturale e politica. Se ne esce con partiti che selezionano in modo più adeguato la loro classe dirigente, con partiti che hanno delle idee e dei programmi e non solo la volontà di occupare il potere…».

La corruzione e il criminoso legame tra politica e affari sono condannati da tutti, e giustamente. Ma pochi hanno imparato che il MoSE è un progetto che non salva Venezia ma la distrugge, e lo scrivono sui giornali. La Repubblica, 5 giugno 2014

«Con il Mose è saltato uno dei principi che hanno governato per secoli la laguna di Venezia. E che la Serenissima repubblica ha costantemente rispettato. Quel principio è iscritto nel nome di un canale, il canaledella Scomenzera». Scomenzera vuol dire cominciare, spiega Edoardo Salzano, urbanista, a lungo preside della facoltà di Pianificazione dello Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), poi anche assessore della città lagunare: «Un lavoro si cominciava, si vedevano gli effetti e solo se questi convincevano si continuava, se no si cambiava direzione. Nella legge speciale per Venezia, che tanti anni fa ha dato il via al Mose, si richiedono criteri analoghi: la sperimentalità, la flessibilità e la reversibilità. E quei criteri il Mose li ha tutti e tre disattesi ».

Il Mose, Modulo sperimentale elettromeccanico, è un’opera nata e cresciuta sotto una bufera di polemiche. Doveva costare un miliardo e mezzo. Ma oggi, poco oltre l’ottanta per cento dei lavori, si è arrivati a 5 e mezzo. Si è iniziato a costruirlo nel 2003 (la prima legge in cui si parla di «regolazione dei livelli marini in laguna», però, è del 1984). Si diceva sarebbe stato completato alla fine del decennio, ma ora, sempre che vada in porto, verrà consegnato nel 2016. Ma servirà a evitare che Venezia finisca sott’acqua quando s’innalzano le maree? Il meccanismo sul quale si fonda, le paratoie che vengono su contrastando la corrente che dal mare porta acqua in laguna dà garanzie all’altezza dei costi?

La discussione è stata sempre lacerante, ha diviso tecnici e uomini di scienza, messo l’una contro l’altra le istituzioni: da una parte il Magistrato alle acque, organo del ministero delle Infrastrutture, tenace difensore dell’opera, dall’altra il comune di Venezia che, soprattutto durante il mandato di Cacciari, si è strenuamente opposto, commissionando studi che dimostravano le tante falle del Mose. Intervenivano le associazioni ambientaliste, Italia Nostra e i comitati No Mose. Ma poi a decidere era solo il Consorzio Venezia Nuova, concessionario dell’opera e dominus assoluto della partita.
Nel 2008 è arrivato un rapporto della Corte dei Conti, redatto dal giudice Antonio Mezzera, che giungeva a conclusioni inequivocabili e che oggi, dopo tre anni di inchieste giudiziarie, che hanno portato all’arresto di Giovanni Mazzacurati, direttore generale del Consorzio, prima di arrivare alle custodie cautelari di ieri, appaiono premonitorie: il Mose ha attirato su di sé la gran parte dei finanziamenti destinati alla manutenzione ordinaria della laguna, operazione che andava svolta con costanza; tutti i lavori sono stati affidati a trattativa privata, senza gare; le ricerche e le sperimentazioni sono state opera del Consorzio a cui sono stati lasciati sia la direzione dei lavori, sia i collaudi; ingenti gli oneri pagati al concessionario. Implacabile la conclusione: «L’opera, comunque, non è risolutiva per la salvaguardia di Venezia, dal momento che essa deve essere integrata dalle difese locali».
Di dubbi sulla funzionalità del Mose, che usa una tecnologia anni Ottanta, si dibatte da tempo. Le paratoie sono agganciate con possenti cerniere a giganteschi cassoni sistemati sul fondo del mare alle tre bocche di porto (Lido, Malamocco e Chioggia) che separano la laguna dal mare. Le paratoie, un’ottantina in totale, sono piene d’acqua e giacciono sul fondale. All’arrivo dell’alta marea vengono svuotate e si alzano, chiudendo gli accessi. Le prime strutture sono state sistemate fra il 2012 e il 2013 alla bocca del Lido. Ma, sostengono i critici, una volta in piedi le paratoie vibrano lasciando transitare l’acqua e sono solo parzialmente utili. E poi: quante volte si alzerebbero le paratoie? Tutte le volte che la marea supera i 110 centimetri e diverse parti del centro storico sono invase dall’acqua alta, rispondono al Consorzio. Ma non piazza san Marco, che finisce sotto a 80 centimetri, e dove l’acqua continuerebbe a diffondersi. E quante volte si superano i 110 centimetri? Due o tre all’anno, sei più recentemente. E conviene spendere 5 miliardi e mezzo, più la manutenzione, dai 40 ai 60 milioni l’anno?
Ma accanto alle questioni ingegneristiche spiccano i rilievi ambientali. Li sintetizza Salzano: «Il Mose non rispetta la delicatezza della laguna, sempre tutelata anche quando nei secoli si sono realizzate vere grandi opere, come la diversione dei fiumi che scaricavano troppa sabbia oppure la sistemazione dei murazzi, i grandi massi collocati a protezione delle maree. La laguna è un organismo vivo, che non può essere separato drasticamente dal mare, cosa che avviene con i cassoni». Sui danni che il Mose avrebbe arrecato alla laguna si è espresso uno dei massimi esperti di ingegneria idraulica, Luigi D’Alpaos, professore a Padova, in un’indagine commissionatagli dal Comune nel 2006. E poi pesano le manipolazioni al paesaggio lagunare, segnala Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra, «dove si intrecciano acqua, terra e canali in un equilibrio mobile. Terre che emergono e che vengono sommerse. Per il Mose si è costruita una grandissima piattaforma a santa Maria del Mare. E al centro di un’altra bocca di porto, al Lido, è spuntata un’isola artificiale di 11 ettari, che ha modificato il moto delle correnti. Qui tutto è stato sconvolto».

Territorialmente, 29 maggio 2014

Non c’è pace in Mugello. Autostrada del sole, autodromo, invaso di Bilancino, villaggio Outlet, alta velocità, raddoppio dell’A1: opere che insistono su pochi chilometri quadrati in un’area interna, non ricca ma già bella, che da decenni ha ceduto al ricatto occupazionale. Per un lavoro fugace, non sicuro, dai connotati schiavistici come denuncia Simona Baldanzi dai cantieri TAV. Ora però l’attacco al territorio cambia di segno e si chiama “valorizzazione”.

La villa di Cafaggiòlo, da poco iscritta nel patrimonio Unesco, e l’intera fattoria medicea, sono al centro di una storia annosa che riparte nel 2011, quando Regione Toscana, Provincia di Firenze, comuni di Barberino di Mugello e San Piero a Sieve, Autorità di Bacino dell’Arno, MIBAC-Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, siglano un protocollo d’intesa con la proprietaria Società Cafaggiolo srl rappresentata dall’argentino Alfredo Lowenstein. Un «modello di collaborazione istituzionale» che nei giorni a ridosso delle elezioni ha raggiunto un’ulteriore tappa: il protocollo è approvato, con un atto di indirizzo, da entrambi i comuni mugellani, di cui uno – San Piero – in mano al commissario prefettizio. Il protocollo, «ispirato a principi di tutela, sviluppo e valorizzazione della villa e della tenuta», sostiene un progetto della Cafaggiolo srl medesima, che interessa circa 370 ettari ripartiti tra i comuni di Barberino e San Piero, inclusi nella zona di rispetto Unesco (buffer zone).

Il “Progetto Cafaggiolo” prevede il riuso del patrimonio edilizio esistente per finalità ricettive turistico-alberghiere di gran lusso, nonché «la creazione di un polo museale con attività culturali e la realizzazione di uno spazio per lo sport ed il tempo libero, attraverso interventi di recupero e riqualificazione dell’esistente e, in parte, interventi di nuova edificazione, nonché interventi per la riqualificazione paesaggistica dell’area». Ad insaporire la pietanza, l’industriale argentino promette a Rossi un investimento di 170 milioni di euro che darebbe vita a 700 (sì, proprio 700!) posti di lavoro diretto e indiretto, e 120 per la realizzazione.
Vediamo cosa prevede la “valorizzazione”: col parere favorevole della sovrintendenza, la villa – malgrado il vincolo ex lege 1939 – sarà squartata in 36 eleganti suites dotate di ogni comodità postmedicea; negli annessi (manica lunga, falegnameria, ma anche conigliera e lavatoio) troveranno posto 59 lussuose camere; l’insieme delle case coloniche, ragguardevole per consistenza, sarà trasformato in 82 suites, per un totale di 164 posti letto. Medesima sorte per fienili e mulini, e per la canonica di Campiano. Un nuovo resort in località Santini sarà composto da 24 nuovi appartamenti costruiti ex novo mettendo a frutto le volumetrie dei demolendi silos; e poi piscine, biopiscine, saune, campi da polo, spazi espositivi. Per l’argentino sussiste tuttavia un unico, insopportabile, neo: la strada statale della Futa che attraversa l’insediamento monumentale.
La Regione si dimostra comprensiva e con solerzia prevede lo spostamento della viabilità in tre possibili varianti, a spese del contribuente (che non vedrà più la villa attraversando il Mugello) e, naturalmente, dell’ambiente rurale. A parte il comitato giallo “Cafaggiolo deve risplendere” che spinge per la realizzazione del resort, la cittadinanza (e la lista “LiberaMente a sinistra” ora in consiglio comunale a San Piero-Scarperia) si oppone a questa valorizzazione sui generis contravvenente all’art. 6 del Codice dei beni culturali, che con il termine “valorizzazione” intenderebbe la messa in valore sociale, la garanzia della fruizione collettiva del bene, e non l’esclusiva messa in valore economico con sottrazione alla vista del bene, come nel caso in esame. Il nuovo piano paesaggistico regionale, ora in discussione presso le commissioni regionali, rafforza le aspirazioni della cittadinanza mugellana prevedendo la salvaguardia dell’assetto insediativo di lunga durata, ivi compreso, da un lato il reticolo stradale storico, dall’altro l’assetto generale della fattoria che verrebbe stravolto dalla trasformazione estilo pampero. Di concerto, la riscrittura della legge urbanistica, in via di approvazione, impedirà ogni nuova ulteriore edificazione residenziale (e ricettiva) sui terreni agricoli, e comunque renderà oggetto di copianificazione di area vasta gli interventi di modifica a fini non residenziali in aree non urbanizzate.
La schizofrenia messa in scena nelle stanze della Regione Toscana offre dunque uno spettacolo sconfortante. E, dando respiro (per un pugno di posti di lavoro) al Progetto Cafaggiolo, rende impossibile perfino immaginare un progetto di conversione ecologicamente e antropologicamente sostenibile, sperimentabile sull’area. Speriamo che l’esempio mugellano non intacchi le sorti di un’altra fattoria storica, oggetto di interessanti tentativi partecipati dal basso: la fattoria di Mondeggi, proprietà della Provincia di Firenze, oggi in vendita per pochi spiccioli, questa volta schiettamente nel segno della politica renziana.
Riferimenti

Territorialmente è il bel portale della Rete dei comitati per la difesa del territorio, il cui focus è suklla Toscana ma lo sguardo aperto a tutto il paese

La sordità della Banca europea per gli investimenti alle denunce sulle Grandi Opere ha contribuito a far maturare lo scandalo oggi esploso nel Veneto (e non solo). Altraeconomia.it, 4 giugno 2014

Si continua a discutere dei pieni poteri da dare al magistrato Raffaele Cantone come “super-commissario” anti-corruzione per l’Expo, dopo che uno scandalo bipartisan ha macchiato anche l’esposizione universale del 2015 in salsa meneghina.

Ma in questi giorni gli scandali di corruzione continuano ad emergere grazie all’azione costante della magistratura, cosicché è lecito chiedersi quale diga serva per porre fine a questo cancro sistemico della nostra società. Di sicuro non le dighe mobili del Mose, il faraonico e discutibile progetto che dovrebbe salvare Venezia dallo sprofondare nella laguna. Un’opera che dopo un decennio di studi e lavori ha prodotto solo 4 delle 78 paratie mobili previste. Eppure soldi ne sono annegati tanti nel Mose, inclusi fondi europei, concessi a dismisura: va bene che tutti nel mondo amano Venezia, inclusi commissari europei e finanziatori pubblici, ma quanto emerge in queste ore mostra che la leggerezza nel concedere fondi non aleggia solo nelle stanze dei palazzi italiani.

Oltre all’avviso di garanzia all’ex ministro per le infrastrutture Altero Matteoli (e agli arresti che il 4 giugno hanno portato al fermo del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell’assessore veneto alle Infrastrutture Renato Chisso, oltre alla richiesta a procedere nei confronti dell’ex ministro Giancarlo Galan, ndr) ritorna sotto le luci della ribalta dei pm il Consorzio Venezia Nuova, un perno del cosiddetto “sistema Veneto” che ha dominato la cementificazione del Nord-Est negli ultimi anni. Fatture gonfiate ad arte per componenti del Mose acquisiti dalla Croazia e fondi neri ricreati nella civilissima Austria, che però protegge ancora con signorilità il segreto bancario.

Uno scandalo mittel-europeo quindi, che ha goduto anche di finanziamenti pubblici ingenti della Banca europea per gli investimenti (Bei), l’istituto di credito dell’Ue (leggi "La banca di parte", l'approfondimento di Altreconomia). Il Mose è stato finanziato con un totale di un miliardo e mezzo di euro dall’Europa in più tranche. La prima di 400 milioni è stata sborsata al Consorzio Venezia Nuova – incaricato di costruire l’opera – nell’aprile 2011; altri 500 milioni sono stati sbloccati nel febbraio 2013.

A questo punto si spera che i rimanenti 600 milioni di euro non arrivino con le indagini ancora in corso. Ma c’è poco da meravigliarsi anche con i burocrati di Bruxelles, che sulla corruzione predicano bene e razzolano male. Questo il caso del “vicino” scandalo del Passante di Mestre (leggi su Altreconomia "Il passante fa l'autostop") anch’esso finanziato dalla Bei con 350 milioni di euro sborsati in un’unica trance nel 2013. La banca europea ha deciso di erogare il finanziamento pubblico a favore della società CAV (50% Anas e 50% Regione Veneto) ad aprile, dopo che la richiesta era rimasta nei cassetti dei banchieri di Bruxelles dal lontano 2011. Per farlo sono passati attraverso l’intermediazione di Cassa depositi e prestiti, ad indagini già aperte e pubbliche da parte della procura di Venezia, nonché dopo un monito della Corte dei Conti sul rischio di infiltrazioni mafiose già del marzo 2011.

Alcune delle società che hanno costruito il Passante, tra cui la Mantovani spA, sono finite nel mirino dei magistrati veneziani. Il suo amministratore delegato, Piergiorgio Baita, ha patteggiato la pena lo scorso dicembre, mentre secondo Il Gazzettino la società avrebbe versato all’Agenzia delle Entrate “circa 6 milioni di euro per “sanare” la maxi evasione fiscale realizzata attraverso l’emissione di fatture false”.

A questo punto anche l’Europa dovrebbe avere capito che non si scherza a finanziare con leggerezza grandi infrastrutture di questa portata. E invece no: uno dei primi schemi di “project bond” europei per l’Italia è in via di definizione e sarà messo in piedi nelle prossime settimane proprio per il rifinanziamento del debito di CAV. Una mossa da 700 milioni di euro, con cui questo debito, frutto di un aumento esponenziale dei costi in corso d’opera segnalato dalla stessa Corte dei Conti –proprio la Mantovani era la principale azienda coinvolta nella costruzione del Passante - dovrebbe essere rivenduto a ignari risparmiatori attraverso fondi pensione e fondi di investimento, principali acquirenti (sperati) dei bond.

In tutto questo l’organo anti-corruzione europeo –noto con l’acronimo OLAF e per altro guidato da un italiano – lo scorso marzo ha rigettato la richiesta di aprire un’indagine sulle responsabilità europee nell’affaire Passante di Mestre a fronte di un esposto di varie organizzazioni della società civile. Insomma possiamo scegliere se far affondare Venezia o affogare noi nella corruzione finanziata con i soldi pubblici europei. 
 


I fatti e i primi nomi dell'iniziativa del Terzo potere, "Mani pulite Veneto 2014". Articoli di Davide Tomiello e Alberto Zorzi. Corriere del Veneto, 4 giugno 2014

Mose: arrestati Chisso , Orsoni
e Marchese. Richiesta per Galan
di Davide Tomiello

Tangentopoli del Veneto, dopo Baita e Mazzacurati, il nuovo filone. Il sindaco di Venezia è ai domiciliari. La sua difesa: accuse poco credibili. Sequestrati beni per 40 milioni

VENEZIA – Era nell'aria da più di un anno. Dopo gli arresti dei manager di Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati, i pm che avevano lavorato all'inchiesta Mose, Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini erano concentrati su quell'obiettivo. Adesso il vaso di Pandora è stato aperto: la nuova Tangentopoli veneta esplode con la forza di una bomba. Trentacinque le misure cautelari (tutti i nomi) eseguite questa mattina dal nucleo di polizia tributaria di Venezia, tra cui l'assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso e il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese, in carcere, e il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni agli arresti domiciliari. L'accusa nei suoi confronti è di finanziamento illecito relativa alla sua campagna elettorale per le comunali del 2010.

Ma sono solo il vertice di una piramide di nomi eccellenti: tra gli altri, due magistrati alla Acque , Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, il presidente del Coveco, cooperativa impegnata nel progetto Mose, Franco Morbiolo, il generale in pensione Emilio Spaziante, l'amministratore della Palladio Finanziaria spa, Roberto Meneguzzo. C'e' inoltre una richiesta di arresto anche per il deputato di Fi Giancarlo Galan, ex presidente della Regione Veneto. Per poter procedere all'arresto di Galan, però, occorre il placet dell'apposita Commissione. Le accuse per tutti sono di corruzione, concussione, riciclaggio. L'indagine della Finanza era partita tre anni fa, lo scorso anno c'era stato l'arresto di Piergiorgio Baita, ai vertici della Mantovani, societa' padovana colosso nel campo delle costruzioni. Dopo qualche mese l'arresti di Giovanni Mazzacurati, l'ingegnere ''padre'' del Mose. Sequestrati beni per 40 milioni.

Un tempestivo chiarimento della posizione di Giorgio Orsoni, posto ai domiciliari nella cosiddetta inchiesta Mose, è l'auspicio espresso dal collegio di difesa del sindaco di Venezia, formato dagli avvocati Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo, che definiscono poco credibili le vicende contestate. «La difesa del professor Orsoni - rilevano i legali - esprime preoccupazione per l'iniziativa assunta e confida in un tempestivo chiarimento della posizione dello stesso sul piano umano, professionale e istituzionale. Le circostanze contestate nel provvedimento notificato paiono poco credibili, gli si attribuiscono condotte non compatibili con il suo ruolo ed il suo stile di vita. Le dichiarazioni di accusa vengono da soggetti già sottoposti ad indagini, nei confronti dei quali verranno assunte le dovute iniziative».

Gli arresti eccellenti di mercoledì mattina all'alba in Veneto, tra i quali quello del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell'assessore regionale Renato Chisso, partono da una partono da una inchiesta della Guardia di finanza di Venezia avviata circa tre anni fa. Il pool di pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonino (Dda) aveva scoperto che l'ex manager della Mantovani Giorgio Baita, con il beneplacito del proprio braccio destro Nicolò Buson aveva distratto dei fondi relativi al Mose, le opere di salvaguardia per Venezia, in una serie di fondi neri all'estero. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi venivano riciclati da William Colombelli grazie alla propria azienda finanziaria Bmc. Le Fiamme gialle avevano scoperto che almeno 20 milioni di euro, così occultati, erano finiti in conti esteri d'oltre confine e che, probabilmente, erano indirizzati alla politica, circostanza che ha fatto scattare l'operazione di questa mattina all'alba. Dopo questa prima fase, lo stesso pool, coadiuvato sempre dalla Finanza, aveva portato in carcere Giovanni Mazzacurati ai vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Mazzacurati, poi finito ai domiciliari, era stato definito «il grande burattinaio» di tutte le opere relative al Mose. Indagando su di lui erano spuntate fatture false e presunte bustarelle che hanno portato all'arresto di Pio Savioli e Federico Sutto, rispettivamente consigliere e dipendente di Cvn, e quattro imprenditori che si spartivano i lavori milionari.

Galan e Chisso a libro paga per milioni
L'ex ministro: io totalmente estraneo
di Alberto Zorzi e Davide Tamiello

Dalle carte dell'ordinanza fatti sconcertanti. Tra gli indagati anche l'ex segretario di Tremonti, Milanese, pagato per accelerare i lavori del Mose

Magistrati delle Acque a libro paga, politici con contin nei paradisi fiscali dietro l'angolo, fondi neri per accelerare lo sblocco dei finanziamenti per il Mose. Ce n'è per tutti nelle carte dell'ordinanza che ha portato agli arresti eccellenti per i lavori del Mose. Si parte dai «vecchi» nomi coinvolti nell'inchiesta, il filone precedente che aveva portato all'arresto di Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati. Nella nuova inchiesta ci sono infatti anche i «pentiti» Baita, Buson, Mazzacurati, Minutillo, Savioli e Voltazza. Tra gli indagati anche l'ex segretario della Sanità Giancarlo Ruscitti, l'ex consigliere di Tremonti Marco Mario Milanese, Duccio Astaldi. Dalle carte si scopre che Mazzacurati e Sutto nel 2010 avrebbero consegnano di persona 50 mila euro al sindaco Orsoni, per finanziare illecitamente la campagna elettorale. Nel 2010 la campagna elettorale del sindaco di Venezia arrestato nell'inchiesta, sarebbe stata finanziata in tutto con 500mila euro ottenuti in modo illecito.

Il capitolo delle campagne elettorali finanziate illecitamente è ricchissimo. Duecentomila euro sarebbero stati dati alla parlamentare europea uscente Lia Sartori. Mezzo milione di finanziamenti illeciti alle campagne elettorali sarebbero stati dati a Giampietro Marchese. Poi c'è la corruzione: il funzionario regionale Giuseppe Fasiol sarebbe stato fatto collaudatore del Mose in cambio dei via libera ai progetti della Mantovani. Vittorio Giuseppone, magistrato della Corte dei Conti di Roma, sarebbe stato corrotto per ammorbidire i controlli del Mose. Poi le date precise, frutto di indagini e appostamenti: la consegna, nel 2011, all'hotel Laguna Palace di Mestre da parte di Baita di 250 mila euro all'assessore Chisso. Nel 2005 50 mila euro sarebbero stati versati in un conto dell'ex governatore Giancarlo Galan aperto a San Marino. Sempre nel 2005 l'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, avrebbe consegnato 200 mila euro a Galan all'hotel Santa Chiara di Venezia.

Poi la «bomba»: la Mantovani avrebbe pagato i lavori di restauro della villa di Galan a Cinto Euganeo per oltre un milione di euro. Non solo: Galan e Chisso sarebbero diventati soci occulti della Adria Infrastrutture per poter partecipare agli utili della società. Lo stesso Chisso sarebbe stato «stipendiato» per dare i nulla osta regionali al Mose con 200/250 mila euro l'anno per oltre dieci anni. E Galan avrebbe ricevuto dal 2005 al 2011 da Giancarlo Mazzacurati presidente del Cnv, anche tramite l'assessore Renato Chisso, uno stipendio annuo di un milione di euro. Quanto alla corruzione, Mazzacurati avrebbe consegnato mezzo milione di euro a Milanese, consigliere di Tremonti, per avere fondi Cipe per il Mose, mentre i due presidenti del Magistrato alle Acque, Cuccioletta e Piva, sarebbero stati a libro paga del Consorzio con 400 mila euro l'anno per non ostacolare il Mose.

Nel pomeriggio la replica dell'ex ministro ed ex governatore Giancarlo Galan: «Mi riprometto, di difendermi a tutto campo nelle sedi opportune con la serenità ed il convincimento che la mia posizione sarà interamente chiarita. Chiederò di essere ascoltato il prima possibile con la certezza di poter fornire prove inoppugnabili della mia estraneità». E ancora: «Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d'informazione, nel dichiararmi totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare».

La magistratura di Venezia, nel sonno della politica, ha severamente colpito alcuni esponenti del gruppo di potere che decide sulle grandi opere. Qui di seguito la dichiarazione di Altro Veneto, Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto

Scoperchiata la pentola
Dichiarazione sullo scandalo dei grandi appalti nel Veneto

La magistratura veneziana ha colpito, con gli strumenti e le responsabilità che le sono propri, alcuni esponenti di spicco del gruppo di potere politico ed economico che decide sul presente e sul futuro del territorio di Venezia e del Veneto.
Operando con responsabilità e strumenti del tutto diversi abbiamo da tempo criticato e denunciato le azioni promosse ed effettuate da quel gruppo di potere. Mi riferisco all’arcipelago di associazione, comitati, reti e altri gruppi di cittadinanza attiva del Veneto che hanno promosso innumerevoli iniziative di contrasto di quelle azioni per il merito di quelle scelte, per le conseguenze sulla vita degli abitanti attuali e futuri, e spesso per l’illegalità che le caratterizza.
La pentola provvidamente scoperchiata dalla magistratura fa comprendere meglio alcune delle ragioni che hanno condotto a scelte nefaste per il territorio (come il MoSE, la rete di autostrade e le altre grandi opere inutili e dannose). Ci spiega anche da quali fonti criminali provenivano le risorse impiegate per far tacere i critici.

Personalmente ritengo necessaria e urgente la sostituzione più rapida possibile dei membri delle istituzioni democratiche colpiti da così infamanti accuse e dei loro complici, e un rinnovamento radicale della politica. Mi auguro infine di non vedere opere promosse da quel gruppo di potere nell’elenco di quelle che Matteo Renzi si propone di «sbloccare» con un apposito decreto.

Edoardo Salzano, presidente di Altro Veneto, Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto

Venezia, 4 giugno 2014

«L'imbeccata è oggi della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire dove saremmo andati a parare». Se la stampa facesse il suo mestiere...

Mancano poco meno di undici mesi ad Expo e finalmente - complice il fragore di un'inchiesta che ha portato in carcere 7 persone per corruzione - l'Esposizione universale in programma a Milano dal primo maggio 2015 può essere letta anche dai grandi media con spirito "critico". C'è da dire, però, che si arriva in grave e palese ritardo. Rendendo inutile, o sterile, il portato di editoriali o di inchieste giornalistiche (perché quando sono imbeccate dalle carte di una Procura, significa che il "danno" c'è già stato).

Avrebbero potuto, in particolare Il Corriere della Sera e la Repubblica, incalzare il "sistema Expo" nel lungo intervallo di una luna di miele iniziata nel marzo del 2008, dopo l'assegnazione a Milano dell'organizzazione di Expo 2015 e maggio 2014, con gli arresti che provano ciò che molti a Milano e non solo sostengono da tempo: questo Expo senz'anima (come lo ha definito Carlin Petrini di Slow Food nel corso di un convegno ospitato dall'ISPI) è stata solo una "grande opera", anzi un insieme di grandi opere che costeranno almeno 11 miliardi di euro.

Le parole di Petrini sono lo spunto per un corsivo pubblicato il primo giugno dal Corriere della Sera, ma chi lo firma, Giangiacomo Schiavi, meno di tre mesi fa sedeva a intervistare Sala, ad di Expo, Pisapia, sindaco di Milano, Maroni, presidente di Regione Lombardia, e Martina, ministro dell'agricoltura a Milano, e non ha incalzato nessuno dei quattro su ritardi (la cancellazione della linea metropolitana M4, la mancata inaugurazione di M5; i cantieri "indietro tutta" di Pedemontana), né sul rischio di una Expo "dimezzata": come scrive Lorenzo Bagnoli su Altreconomia di maggio 2014, i Paesi ospiti non dovranno pagare alcuna penale se rinunciano a realizzare il loro padiglione, e se continua così - per i cantieri "preliminari" della Piastra espositiva siamo a quasi due anni di ritardo - alcuni potrebbero rinunciare.

Schiavi, pur con distinguo, continua però a difendere Expo, definisce "rubagalline" gli arrestati, ma basterebbero due collegamenti - il dovere del giornalista è quello della "memoria"- per evidenziare la debolezza di questa lettura. In aiuto, arriva uno scoop di Repubblica, sugli extracosti legati a una gestione "commissariale" ed "emergenziale" degli appalti. L'imbeccata è - oggi - della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire "dove saremmo andati a parare". A meno di non rinunciare a questa mega-macchina mangia soldi, pagando - fino ad aprile 2013 - una penale di poche decine di milioni di euro, irrisoria rispetto allo spreco di denaro pubblico che è già stata e sarà Expo.

Invece, siamo ancora qui, a 11 mesi dall'evento, ad ascoltare senza colpo ferire un ministro in carica parlare di Expo come di una "scommessa". Se è davvero tale, dopo sei anni, è già persa. Avvertite Maurizio Martina.

L'iniziativa "sblocca Italia", coronamento della politica renzusconiana del territorio, è un successo del gruppo di potere "Nimby forum". Il manifesto, 4 giugno 2014

Dopo il prov­ve­di­mento sul lavoro fon­dato sulla pre­ca­rietà si apre il capi­tolo dello «Sblocca Ita­lia», l’efficace slo­gan coniato da Mat­teo Renzi al festi­val dell’economia di Trento. Il pre­mier annun­cia di aver inviato una email a tutti i comuni ita­liani per cono­scere quali siano i pro­getti bloc­cati. Sulla base delle rispo­ste pro­mette di costruire, entro luglio, un prov­ve­di­mento legi­sla­tivo fon­dato sulla «dimi­nu­zione delle auto­riz­za­zioni e sulle limi­ta­zione dei ricorsi al Tar».

Per un primo mini­stro sarebbe stato più cor­retto sotto il pro­filo isti­tu­zio­nale aprire un con­fronto con tutte le isti­tu­zioni che hanno com­pe­tenze sul ter­ri­to­rio e non solo con i comuni. In que­sto modo — e per di più in un momento di grave crisi eco­no­mica — si addita all’opinione pub­blica il capro espia­to­rio: le soprin­ten­denze ai beni ambien­tali e archeo­lo­gici, ree di appli­care la Costi­tu­zione, e la magi­stra­tura ammi­ni­stra­tiva. Si rischia così di disar­ti­co­lare ulte­rior­mente la strut­tura dello stato messa a dura prova da vent’anni di tagli e umi­lia­zioni. Nes­suna novità. Quando era sin­daco, Renzi aveva tuo­nato con­tro il soprin­ten­dente che si era oppo­sto all’affitto di Ponte Vec­chio per una festa della Fer­rari: un bene straor­di­na­rio, patri­mo­nio di tutta la popo­la­zione ita­liana, uti­liz­zato a fini pri­vati. La festa si era svolta nono­stante il parere con­tra­rio del soprintendente.

Ma vediamo nel merito le opere che dovreb­bero sbloc­care l’Italia. Da dieci anni esi­ste una poten­tis­sima lobby che piange quo­ti­dia­na­mente sulle sven­ture dell’Italia bloc­cata dai veti e ha fatto della guerra al Nimby il pro­prio motivo di vita. Cor­riere della Sera, Repub­blica e il Sole24ore hanno colto al volo le dichia­ra­zioni di Renzi ed hanno subito rilan­ciato le sta­ti­sti­che del "Nimby forum". Afferma l’ultimo rap­porto che delle 354 opere ferme (in media una ogni 27 comuni, una cifra ridi­cola) il 63% riguar­dano con­te­sta­zioni sul com­parto elet­trico (cen­trali di pro­du­zione, impianti a bio­masse e par­chi eolici); il 28% il set­tore dei rifiuti e solo il 7,6% il set­tore delle infrastrutture.

Il "Nimby Forum" è soste­nuto dai colossi Enel, Edi­son e Terna che hanno inte­ressi gigan­te­schi nello sbloc­care le opere, e da altri attori come il Con­sor­zio Vene­zia Nuova (quello del Mose) che di recente ha dato ele­va­tis­sima prova di rispetto della lega­lità finendo in massa in galera. Que­sta lobby ha in mente dun­que di riem­pire l’Italia di impianti a bio­masse e ter­mo­va­lo­riz­za­tori. Men­tre l’Europa pri­vi­le­gia la for­ma­zione dei gio­vani e finan­zia nuovi lavori basati su tec­no­lo­gie avan­zate, nella riqua­li­fi­ca­zione e messa in sicu­rezza dell’ambiente e delle città, noi mar­ciamo spe­diti con la testa rivolta al pas­sato. Da venti anni sac­cheg­giamo il ter­ri­to­rio e l’ambiente ed è lo stesso "Nimby Forum" ad ammet­terlo affer­mando che «i nume­rosi no alle rin­no­va­bili col­pi­scono… anche e soprat­tutto i pic­coli impianti i quali si sono mol­ti­pli­cati anche in virtù del per­corso auto­riz­za­tivo sem­pli­fi­cato» e la solu­zione pro­po­sta è quella di allen­tare ulte­rior­mente la lega­lità. Anche qui nes­suna mera­vi­glia: l’ultimo rap­porto "Nimby Forum" 2012 era stato pre­sen­tato anche da Cor­rado Clini che di lega­lità si inten­deva magi­stral­mente, almeno stando alle accuse che lo hanno colpito.

Mat­teo Renzi con il suo prov­ve­di­mento tenta di com­ple­tare lo scel­le­rato dise­gno del ven­ten­nio libe­ri­sta: non attacca più (per ora almeno) la Magi­stra­tura — anche per­ché tra pre­scri­zioni brevi e can­cel­la­zione del reato di falso in bilan­cio ha ben pochi stru­menti per per­se­guire il malaf­fare — ma un altro fon­da­men­tale potere dello stato, quello delle soprin­ten­denze can­cel­lan­done ogni ruolo in totale spre­gio della Costituzione.

La guerra alla buro­cra­zia non c’entra nulla: lo «Sblocca Ita­lia» è la con­ti­nua­zione della scem­pio del ter­ri­to­rio che trionfa incon­tra­stato da venti anni. Nei pros­simi mesi si aprirà dun­que uno scon­tro deci­sivo per il futuro del paese. Da un lato le lobby che hanno con­tri­buito alla rapina negli anni del libe­ri­smo e vogliono con­ti­nuare a far festa sac­cheg­giando il ter­ri­to­rio. Dall’altra tan­tis­simi gio­vani e i comi­tati spesso senza rap­pre­sen­tanza poli­tica che ten­tano di costruire un futuro legato alla qua­lità del ter­ri­to­rio e anche alla sem­pli­fi­ca­zione delle regole, ma nel rispetto dei poteri dello stato
Riferimento
Sull'argomento vedi l'articolo di Andrea Fabozzi

Rigenerazione urbana: «Ex strutture pubbliche recuperate, un museo nel centro commerciale e un quartiere rimesso a nuovo». Linkiesta.it, 2 giugno 2014 (m.p.r.)

Simile nell’aspetto e nella sostanza a Napoli e Genova, Marsiglia è stata identificata per anni con la criminalità organizzata (il famoso clan dei marsigliesi, ricordate?), lo spaccio di droga e i problemi di sicurezza. Divisa tra un Nord povero e un Sud ricco, con il mare di fronte e il resto della Francia alle spalle, dal 1995 la città è stata “travolta” dal progetto di riqualificazione Euromediterranée, un’operazione collettiva di Stato, Comune e Regione Provenza che pian piano sta mettendo in atto la rinascita dell’intera città con un’operazione da oltre 7 miliardi di euro.

Marsiglia è un vivace melting pot etnico e sociale. Basta fare una passeggiata sulla Canebière, la strada che divide in due la città, per accorgersene. Nel 2009 il reddito medio della città era di 16.128 euro, il 24,8% dei cittadini si era fermato all’istruzione media, la disoccupazione aveva raggiunto il 12,8 per cento. Ma le differenze sociali sono evidenti: per cinque arrondissement su 16, i redditi scendono a 10.400 euro, i senza diploma al 36% e i disoccupati al 25 per cento. E il problema sicurezza resta. Solo nel 2012 nella regione sono stati registrati 24 omicidi e in tanti hanno più volte chiesto addirittura l’intervento dell’esercito. Sì, proprio come è accaduto in alcune nostre città, da Napoli a Palermo. Marsiglia non è molto diversa dalle metropoli della nostra penisola.

Al di là della cronaca, la città tenta di rinascere, come in realtà è già avvenuto più volte nella storia di questa metropoli da 860mila abitanti. Ma stavolta lo fa attraverso la riqualificazione urbana e non radendo tutto al suolo. Tanto che nel 2013, anno in cui Marsiglia è stata capitale europea della cultura, il New York Times la indicava come seconda destinazione del mondo da visitare dopo Rio de Janeiro. E in occasione degli europei di calcio del 2016, con lo stadio Vélodrome in fase di rinnovamento, sarà anche una delle principali città a ospitare la competizione.

«Promuovere la rigenerazione dovrebbe essere un cardine della strategia economica nazionale, garantendo la sicurezza e la salute degli italiani, ridisegnando le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sugli spazi pubblici espropriandoli dalle auto per ridarli ai cittadini», ha scritto Leopoldo Freyrie, presidente del consiglio nazionale degli architetti sulla rivista L’architetto. E che di scelte innovative come quelle realizzate a Marsiglia abbiano bisogno pure le nostre città lo sostengono anche gli imprenditori edili dell’Ance, che insieme al Consiglio nazionale degli architetti hanno realizzato un viaggio-studio nella capitale della Provenza. «Un vero e proprio prototipo di rigenerazione urbana a tutto campo», ha scritto Paolo Buzzetti, presidente Ance, «da prendere come esempio anche in casa nostra».

La Friche Belle de Mai, il centro sociale che non è un centro sociale. Partiamo dal tabacco. Nel terzo arrondissement di Marsiglia, un’antica manifattura di tabacchi ha salvato un intero quartiere. È accaduto alla Belle de Mai, luogo di destinazione di molti operai immigrati italiani. Dopo quasi un secolo di storia, nel 1990 la tabaccheria trasferisce la produzione a Vitrolles: l’intero quartiere ne risente, i negozi chiudono e gli edifici vengono abbandonati. Ma nel 1992 un gruppo di artisti organizzati si attiva per il recupero di una parte della struttura dell’antica Manifattura, dove promuove un progetto culturale per il quartiere: la Friche Belle de Mai.

La parola friche identifica proprio gli scarti industriali, da cui il quartiere è ripartito. Non un centro sociale occupato, ma 45mila metri quadri dedicati alla creazione e alla sperimentazione artistica contemporanea con il permesso e sotto la gestione economica della Ville de Marseille. Che non elargisce soldi a pioggia agli artisti, ma affitta gli i atelier a un prezzo medio di 9 euro al metro quadro al mese comprese le spese energetiche, che comunque restano basse, visto che gli spazi sono stati ristrutturati e isolati termicamente. La mano pubblica interviene nei costi della ristrutturazione delle strutture, ma non nella progettazione e nella organizzazione culturale. Quella si autosostiene, altrimenti avanti un altro. «La Friche afferma la cultura come un’“economia” e non come “un’eccezione”», si legge sul sito web. «Per questo la cultura è necessariamente un fattore di sviluppo economico e sociale: economico perché la cultura è un mercato nel quale si può vendere e comprare secondo una logica non produttivistica ma economica. E sociale perché la cultura è uno spazio nel quale vengono poste oggi le questioni essenziali della nostra società».

Cinque piani, settanta atelier, tra teatri, laboratori artistici e musicali, sale d’esposizione, e anche un ristorante e una biblioteca ricavati tramite un intervento architettonico quasi invisibile. «L’architettura più riuscita è quella che sparisce», spiega Matthieu Poitevin, autore del recupero architettonico. Sulla grande terrazza in alto, con una vista panoramica della città, la gente si raggruppa prima di andare a teatro o ad ascoltare un concerto. Gli atelier a un primo colpo d’occhio non si vedono neanche. «È una cosa tipica di Marsiglia», dice Matthieu, «la bellezza resta sempre nascosta». Nella stessa struttura sono stati già avviati i lavori per una scuola di teatro e una scuola materna di quartiere. E alcuni stanno pure pensando di ricavare nella struttura una scuola elementare.

La Friche ormai è diventato un posto alla moda della movida marsigliese. Ogni anno 500mila persone calpestano i corridoi di queste strutture industriali ingombranti e massicce. «Il centro città è per i turisti», dice Matthieu Poitevin, «i margini per i creativi». E tutto intorno il quartiere è rinato. Dal 2004, nell’ambito del progetto Euromediterranée, gli antichi edifici della fabbrica sono stati trasformati e riutilizzati, e oggi ospitano, oltre agli archivi del Mucem (altra struttura strabiliante), un media center, uno studio cinematografico e televisivo. Nel 2005, poi, la piazza Bernard Cadenat, al centro dell’area, è stata completamente rinnovata. Sulla piazza si affacciano numerosi negozi e un mercato giornaliero. All’orizzonte si vedono diverse gru. Laddove tanti avevano abbandonato gli appartamenti, ora il mercato immobiliare sta rinascendo. Così questo spazio schiacciato tra la ferrovia Saint-Charles e le fabbriche sta tornando ad avere valore immobiliare. Dove si concentrava disagio sociale, riparte il tessuto sociale. Non grazie a un centro sociale occupato, come i molti che costellano le città italiane, ma grazie a un polo culturale che fa girare l’economia, fa pagare le tasse e riduce i costi della sicurezza, visto che dopo la rinascita il quartiere è anche diventato più sicuro.

L’Hangar J1, l’arsenale diventato galleria d’arte. Il J1 è un arsenale situato su uno dei due moli del porto di Marsiglia, tra l’Espanade J4 (con le strutture di Rudy Ricciotti, Stefano Boeri e il Fort Saint Jean) e l’ex quartiere industriale La Joliette. L’enorme arsenale ormai dismesso, come uno dei tanti che si possono trovare nelle nostre città portuali, è stato messo a disposizione dei cittadini dalle autorità in occasione di “Marsiglia capitale europea della cultura” del 2013. Riallestito e riprogettato al suo interno, è diventato un luogo di attività e di incontro nel cuore del porto turistico-commerciale. Ogni giorno le grandi navi accostano al fianco di questa struttura, raggiungendo spesso la stessa altezza.Al livello superiore, su una piattaforma coperta di 6mila metri quadri, si trovano uno spazio d’esposizione di 2.500 metri quadri, un atelier con tre gallerie d’esposizione, uno spazio per giovani e uno dedicato a eventi artistici e culturali, un punto d’informazione, una libreria e un bar caffetteria con una magnifica vista sul mare aperto.


Il Museo della storia di Marsiglia tra un parcheggio e un centro commerciale. A due passi dal vecchio porto di Marsiglia, un museo racconta la fondazione della città. L’impianto di 3.500 metri quadri di spazi espositivi abbraccia a sua volta un altro museo a cielo aperto. Nel giardino delle Vestigia di Marsiglia, ai piedi di una facciata in vetro serigrafato, si vedono i resti di quello che in epoca greca fu il bacino portuale ormai prosciugato. Il porto è stato rinvenuto solo nel 1967 durante i lavori per la costruzione del Centre Bourse, principale centro commerciale della città. Una volta trovati i resti durante gli scavi, dopo diverse pressioni dal governo centrale l’allora sindaco Gaston Defferre dovette accettare di conservare le vestigia della città, e in cambio ottenne un museo, che ha una forma a ferro di cavallo. «Come fa un gioielliere attorno a una pietra preziosa», raccontaRoland Carta, uno dei principali architetti artefici della rinascita di Marsiglia, che ha rinnovato e ampliato la struttura aperta al pubblico nel 2013. «L’edificio è aperta solo da un lato, verso la città, perché per essere bisogna essere stati», dice Carta. Così il centro commerciale è stato fatto. E attorno ai grossi pilastri a vista di quello che era un parcheggio delle auto, si espande il museo, tra i resti delle imbarcazioni dei “focesi” che si fermarono a Marsiglia diretti in Irlanda alla ricerca di stagno. E dal museo si passa direttamente al centro commerciale, senza separazione alcuna. «Chi fa shopping può entrare nel museo e chi va al museo poi può andare a fare shopping». Senza troppi snobismi. «All’inizio qui ci doveva venire un parcheggio», dice Carta. «Ci sono riuscito a fare di un parcheggio un bel museo?».
Le Silo, dal grano agli spettacoli. Anche la rinascita di questo silo per lo stoccaggio di cereali si deve a Roland Carta. Costruito nel 1927 all’epoca dei grandi commerci internazionali nel Mediterraneo, la struttura sul molo portuale de l’Arenc rivoluzionò il funzionamento del carico, scarico e stoccaggio di cereali. Dopo più di 50 anni di servizio, è stato abbandonato ed è rimasto inutilizzato per circa 20 anni. Nel 2001 la città di Marsiglia ha comprato l’intero complesso, trasformandolo in una sala spettacoli pluridisciplinare. Nel 2007 sono iniziati i lavori di ristrutturazione durati quattro anni e nel 2011 il Silo ha riaperto le sue porte. L’enorme edificio di cemento armato rettangolare all’esterno è rimasto tale e quale, con tanto di montacarichi oggi riutilizzato per far salire i materiali delle scenografie. Ma gli interni sono stati rivoluzionati: ci sono uffici, un grande auditorium per la musica, spazi per mostre temporaneee e un ristorante panoramico. All’interno dei cilindri che ospitavano il grano, Carta ha ricavato i ballatoi, rimasti visibili anche nel salone di ingresso dove una serie di coni sembrano perforare il soffitto. Nel 2004 la struttura è stata inserita nel catalogo del patrimonio architettonico del ventesimo secolo.

Quartiere Centre Nord, dal degrado al lavoro edile. Al confine tra il centro storico di Marsiglia, il vecchio porto e il progetto Euromediterranée, Centre Nord «è la vera Marsiglia», tra negozi di abiti usati, di dolci e di spezie dei tanti immigrati residenti e i calzini stesi alle finestre. Un vecchio quartiere degradato, come ce ne sono tante nei centri storici delle città italiane, con scarsa istruzione e bassi redditi, rimasto per tanti anni ai margini del tessuto urbano.

La zona rientra nell’ambito del programma nazionale di riqualificazione urbana avviato in Francia nel 2003, che a Marsiglia ha coinvolto 14 quartieri con circa 1,1 miliardi di euro di finanziamenti. Il progetto di riqualificazione del Centre Nord è stato finanziato nel 2010 con 137,2 milioni di euro, coinvolgendo 23 partner tra cui lo Stato, l’Agenzia nazionale di riqualificazione urbana (Anru), la Regione, la Provincia, il Comune, Marseille Rénovation Urbaine, la Caisse des dépots, Euromediterranée e l’Ater locale.

La proprietà immobiliare nel quartiere è frammentata e in gran parte privata. Molti edifici sono abbandonati. La riqualificazione urbana, quindi, ha puntato soprattutto nel sostituire gli alloggi degradati con alloggi sociali. Le strutture insalubri vengono espropriate, demolite e costruite, o ristrutturate. Nel frattempo, gli abitanti vengono alloggiati in edifici pubblici. E una volta rinnovati gli appartamenti, ritornano negli edifici di partenza. Il tutto grazie a una serie di incentivi fiscali per i privati che vogliono ristrutturare.

Gli alloggi privati degradati da rinnovare sono in totale 481, 176 gli alloggi sociali già esistenti da ristrutturare. La scommessa è stata anche riportare nel quartiere alcuni servizi pubblici, come l’asilo o l’Università. Il Comune, sui manifesti pubblici, informa e coinvolge i cittadini sui successivi interventi di riqualificazione urbana. Tra un incrocio e l’altro, si vedono i cantieri avviati e quelli già conclusi del progetto Euromediterranée. E ritorna il tema del parcheggio: dove i marsigliesi parcheggiavano le loro auto, al Centre Nord ora sono stati ricavati settanta alloggi.

Ma la rinascita di un quartiere non si ferma agli edifici. E questo a Marsiglia lo sanno. Oltre alle gru, l’Anru al Centre Nord ha portato anche il lavoro: il 5% delle ore lavorate nel quartiere è riservato ai residenti della zona. A beneficiarne, è chiaro, sono anche gli imprenditori edili. Cosa di cui, in Italia, avremmo bisogno, visto che tra il 2006 e il 2013 il valore degli investimenti nelle costruzioni tradizionali si è ridotto del 32 per cento, mentre il peso del dell’attività di recupero dell’esistente è cresciuto di 11 punti percentuali.

Come per l'isola di Poveglia nella Laguna di Venezia, anche a Torino i cittadini si associano per impedire che un bene comune (e pubblico) venga privatizzato e trattato come una merce, Corriere della sera, 31 maggio 2014 (m.p.r.)

Nei giorni scorsi alcuni cittadini hanno cercato (purtroppo senza riuscirci) di ri-comprarsi ciò che già appartiene loro in quanto cittadini sovrani: l’Isola di Poveglia, nella Laguna di Venezia, che è stata messa in vendita dal Demanio dello Stato. Ora un altro gruppo di cittadini ha occupato la Cavallerizza Reale, nel cuore di Torino, chiedendo che questo importantissimo monumento rimanga un grande e articolato teatro, e non venga trasformato in un centro commerciale. In entrambi i casi la buona notizia è che, in un modo o in un altro, «la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione»: proprio come impone l’articolo 9 della Costituzione. Perché laddove le istituzioni e i poteri pubblici faticano a farlo, o fanno il contrario, sono spesso i cittadini – singoli o riuniti in associazioni, comitati, gruppi – a prendersi a cuore il loro territorio e i loro monumenti. Era ciò che avevano in mente i costituenti quando hanno scritto «Repubblica» e non «Stato»: nel senso di vigilanza e impegno civile (un senso lato, ma profondo e fondamentale), la tutela non spetta solo agli organi previsti dalle leggi, ma spetta appunto alla Repubblica, e cioè ad ogni cittadino.

Il caso di Torino è emblematico. La Cavallerizza Reale è un grande complesso costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare: un complesso che è protetto da un vincolo, e che fa parte del sistema delle residenze reali sabaude dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro).

Ma non tutti, in città, sono disposti ad accettare una simile sconfitta collettiva. Da sei mesi alcuni cittadini si riuniscono in un percorso partecipativo autoconvocato per decidere il futuro di quel grande spazio storico, e venerdì scorso hanno annunciato tre giorni di occupazione: «Come Assemblea Cavallerizza 14e45 [l'ora a cui è fermo l'orologio del teatro] una risposta la abbiamo, ovvero noi, gli abitanti di questa città. Con questi tre giorni vogliamo cominciare a immaginare un futuro diverso dall’abbandono o dalla svendita. Non possiamo accettare che ancora una volta sotto i nostri occhi avvenga lo spreco del nostro patrimonio senza interpellare nessuno. Vorremmo che la cavallerizza fosse un laboratorio dell’abitare, ovvero uno spazio a partire da cui ripensare I modi in cui viviamo questa città, per riprenderci possibilità di decidere della vita dei nostri territori. La parabola della Cavallerizza è la stessa di tanti siti di valore storico e artistico che vengono lasciati all’incuria più totale finché non subiscono danni strutturali, a quel punto o vengono completamente abbandonati o venduti. Noi soldi per comprare la Cavallerizza non ne abbiamo, ma non ci sembra un motivo valido perché la nostra voce di cittadini resti inascoltata. Sappiamo con certezza che non vogliamo un albergo, un bel ristorante, ma neanche un bel museo in cui costerà caro entrare, sappiamo che vogliamo un luogo che risponda alle esigenze di chi vive la città, non di chi ci specula».

L’occupazione della Cavallerizza ha finalmente aperto una discussione pubblica, ed ha guadagnato solidarietà importanti. Italia Nostra ha detto di condividere gli obiettivi degli occupanti, e ha chiesto al Comune «che vengano tassativamente esclusi usi impropri di carattere speculativo». Mario Martone, direttore del Teatro Stabile, ha dichiarato che «se è un’occupazione fatta con rispetto delle norme di sicurezza, è giusto dialogare con questi ragazzi, è la prima regola della democrazia. Come Stabile, ci è dispiaciuto abbandonare questo luogo». Naturalmente non mancano le preoccupazioni e gli equivoci. In un suo comunicato di sabato scorso, l’Ansa ha scritto che la Cavallerizza è stata occupata da un «collettivo anarchico». In realtà, quei cittadini torinesi non predicano l’anarchia, ma anzi chiedono l’applicazione della Costituzione. E non sono soli. In un suo libro recente (Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli) l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena ha spiegato perché le alienazioni di beni demaniali siano «provvedimenti legislativi di eccezionale gravità, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione»: si tratta – continua il giudice – «di svendite da considerare assolutamente nulle, poiché contrastano con i prevalenti interessi pubblici del popolo italiano».

È allora vitale che i cittadini facciano sentire direttamente la loro voce: la storia italiana dimostra che non è affatto inutile. Se il 18 maggio 1980 – per esempio – duemila siciliani non avessero occupato il cantiere della litoranea che doveva congiungere San Vito lo Capo e Scopello, non sarebbe mai nata la Riserva dello Zingaro, che oggi protegge e fa vivere un luogo meraviglioso e sostiene un’economia diversa da quella fondata sulla speculazione. Uno degli slogan degli occupanti torinesi è «La Cavallerizza è reale». Ebbene, queste parole non dicono solo che quel monumento è tornato nella realtà della vita sociale torinese, ma possono anche significare che ciò che apparteneva ai Savoia – re di Sardegna e poi re d’Italia – ora appartiene al nuovo sovrano: il popolo italiano. È per questo che il vento che soffia da Torino riguarda tutta l’Italia, e apre una battaglia civile, giuridica e culturale che riguarda le implicazioni della sovranità popolare sul governo del territorio, e cioè l’essenza stessa della democrazia. Che, come la Cavallerizza, o è reale o non è.

La costruzione dell'Arzanà dei vinissiani" iniziò mille anni fa. Dante ne scrisse 7 secoli fa nella Commedia. Oggi sembra che abbia inizio la distruzione di un complesso il cui valore culturale non è inferiore a quello del Colosseo romano o dell'Acropoli ateniese, ma forse ancora più importante di quei monumenti per la storia della città e del territorio di cui è parte. La Nuova Venezia, 29 maggio 2014

Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo piano per le destinazioni d'uso delle varie aree comprese nel complesso dell'Arsenale, il Comune ha convocato per il 30 maggio un "workshop" o seminario di lavoro il cui titolo è "Scenari per il rinnovato uso e la gestione dell'Arsenale di Venezia" (traduco dall'annuncio originale, che è naturalmente in inglese). Al seminario sono invitate una dozzina di organizzazioni internazionali, che dovranno presentare idee e proposte. Ai partecipanti il Comune indica gli scopi ai quali intende mirare e che gli esperti dovranno tenere in mente: i "goals" del seminario.

Ci si aspetterebbe che il primo di tali scopi o intendimenti fosse qualcosa come: "Il totale rispetto e recupero del valore storico, culturale, di testimonianza e di bellezza costituito da questo complesso, unico al mondo e monumento tra i più prestigiosi del pianeta". Prima di tutto, insomma, una presa di coscienza dell'estrema delicatezza del compito. Ma no, il primo goal è questo: "Generare un dinamismo economico, sociale e culturale attraverso la creazione di nuove idee, nuove tecnologie e nuovi posti di lavoro". E così via per altri cinque punti su questo tenore.
Ma allora andiamo a guardare chi sono gli esperti invitati. Storici di Venezia? Professori di storia navale o dell'architettura? Conoscitori delle tecniche degli antichi arsenalotti? No, per carità. Sono dipendenti o titolari di una dozzina di imprese specializzate prima di tutto in attività di "real estate" ( investimenti immobiliari, seconde case, stime), nel settore di "media & communications", scienze digitali e "grande distribuzione organizzata, centri commerciali, Retail Park". Gli "esperti" faranno una visita guidata al mattino e si pronunceranno nel pomeriggio (15-17,30). Alla discussione sono invitati anche i principali portatori d'interesse ("stakeholders"), tra i quali un'associazione cittadina, il Forum Futuro Arsenale.
Ma chi sono gli altri? I soliti noti, che hanno "interessi" ben pesanti e consistenti nel futuro del complesso: prima di tutti il Consorzio Venezia Nuova, poi il Tethis (che appartiene al Consorzio, ma interviene anche in proprio), e poi Biennale, ACTV, Marina militare, Magistrato alle acque e, un po' sperduta in mezzo a ventisei convocati, anche la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici. Nel frattempo l'Ufficio Arsenale del Comune (creato appositamente dopo la consegna dell'area da parte del Demanio marittimo) avrà stabilito le destinazioni d'uso delle varie zone (è già previsto che l'edificio dei "sommergibilisti" sarà destinato ad "attività ricettiva extra-alberghiera").
Tutto fa prevedere che, se non ci sarà un forte intervento della cittadinanza, nell'antico Arsenale sarà operata una manomissione in linea con quelle che stanno avvenendo nel Fontego dei tedeschi, trasformato in centro commerciale, nell'Ospedale al Mare, nella stessa laguna di Venezia con il passaggio delle grandi navi. Ci permettiamo di offrire un suggerimento per quanto riguarda i "goals", gli obiettivi ai quali dovrebbe fermamente mirare l'opera di rinascita dell'Arsenale. Chi ci entra deve prima di tutto percepire la Storia, che qui parla da ogni pietra e da ogni colonna, e la Bellezza, alla quale quasi inconsciamente miravano gli artefici delle tante sezioni del miracoloso complesso. Deve poter vedere la lunga sfilata di archi e colonne sotto le Tese (poi murata dagli austriaci e oggi "foderata" da contenitori di uffici, come se non ci fossero palazzi antichi a sufficienza in città per ospitarli).
L'Arsenale non è Pompei, è più che Pompei. È stato il centro della carpenteria navale europea per molti secoli, un luogo studiato, ammirato e invidiato che possiamo far rinascere quasi del tutto. Non merita di diventare un centro di "retail" e di "vibrant high quality experiences" come si chiede agli esperti dell "urban regeneration workshop".
Paolo Lanapoppi è vicepresidente Italia Nostra, Sezione di Venezia

Riferimenti

Si vedano su questo sito:
per Venezia e la Laguna
: le cartelle e nella vecchia e nella nuova edizione;
per la rigenerazione urbana l'articolo di Francesco Erbani
Basta costruire gli architetti ora rigenerano
e i materiali della Scuola di eddyburg.
La Repubblica, 28 maggio 2014 (m.p.g.)

La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l'Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9% del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all'ultimo posto fra i 27 Paesi dell'Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo In Europa l'Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%).

Intanto altri Paesi, dall'Olanda all'Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre 1'1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l'1 e l'1,5%.Tutt'altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%).Secondo dati del 2013, l'Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011 ), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d'Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord.

Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l'enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni ( come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva.«Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale - scrive il Rapporto - è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell'ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l'intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania ), e una forte concentrazione nel Centro-Nord.Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18% al Centro, all'8% al Sud percentuale bassissima su una spesa complessiva gia assai ridotta, con effetti devastanti sul gia endemico squilibrio Nord-Sud.

«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici - conclude il Rapporto - ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica».L'analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un'offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze».
Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrativa»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell'ambito di una governance unitaria»; l'accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l'integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest'ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi.

È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d'ogni colore, secondo cui l'Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo ), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene.

È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase ne cessaria per qualsivoglia "valorizzazione" che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti-Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l'investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell'orizzonte dei diritti, della costruzione dell'eguaglianza e della dignità della persona.

Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come "petrolio" d'Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.

Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l'anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.

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