«Ripercorrere le vicende del passato non è un esercizio memorialistico ma un tentativo di andare alla radice delle cause che hanno determinato i problemi di oggi», La testimonianza di un sindacalista del lavoro e dell'ambiente
"Chissà se gli inquirenti saranno così bravi da individuare a chi siano finiti i fondi neri creati con i soldi dei contribuenti? Ora l'interrogativo che mi ponevo l'anno scorso in un articolo apparso su Rassegna sindacale è stato sciolto: la Magistratura inquirente si è dimostrata all'altezza del compito. Saprà la politica fare altrettanto?
La corruzione e il criminoso legame tra politica e affari sono condannati da tutti, e giustamente. Ma pochi hanno imparato che il MoSE è un progetto che non salva Venezia ma la distrugge. Che lo scavo di altri canali in laguna per il passaggio delle grandi navi avrebbe un impatto ambientale devastante. Adesso comprendiamo meglio perché chi comanda vuole mettere la museruola a chi protesta contro le grandi opere inutili e dannose, e pretende di superare con le deroghe le procedure di garanzia. Servono più controlli o lo “Sblocca Italia” per “diminuire le autorizzazioni e limitare i ricorsi al TAR” ?
La guerra alla burocrazia non c’entra nulla. Da un lato le lobby che vogliono continuare a far festa saccheggiando il territorio. Dall’altra tanti comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che tentano di difendere il territorio come bene comune. Come ci ricorda Luigi D’Alpaos, massimo esperto di idraulica:
«Da una parte ci sono gli importatori degli interessi forti, come Porto e Consorzio Venezia Nuova, che tutto hanno fatto tranne che tutelare il benessere della laguna, pensando invece che sia loro e di poterne fare ciò che vogliono. Dall’altra parte ci sono quelli che sostengono che la laguna sia un bene comune indispensabile da proteggere e da salvare. Poi c’è una politica becera che favorisce il gigantismo navale che sembra non porre più limiti alle dimensioni».
E, aggiungo io, pochi e coraggiosi politici, amministratori e non pochi servitori dello stato che si battono controcorrente. E’ giusto ricordarlo in un epoca in cui tutti i gatti sembrano essere bigi.
Di seguito l'articolo che scrissi lo scorso luglio dopo gli arresti di Mazzacurati e Baita che, purtroppo, conserva tutta la sua attualità. Ripercorrere le vicende del passato non è un esercizio memorialistico ma un tentativo di andare alla radice delle cause che hanno determinato i problemi di oggi.
Luglio 2013
Rassegna sindacale.
di Oscar Mancini.
Gare d’appalto truccate. Fatture gonfiate. Consulenze fasulle. E arresti eccellenti. Ma l'inchiesta sul Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la realizzazione del MoSe, non è ancora conclusa. E rischia di arrivare a Roma. Lo scandalo è di grandi proporzioni. Sette arrestati fra cui l’ex presidente del monopolista Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati e preceduta dalla detenzione in carcere di Piergiorgio Baita, Presidente della società capofila Mantovani.
Chissà se gli inquirenti saranno così bravi da individuare a chi - e perché - siano finiti i “fondi neri” creati in Austria con i soldi dei contribuenti? Nel frattempo emergono i beneficiari dei cospicui finanziamenti, sembra in chiaro, di fondazioni nazionali, associazioni, nonché delle campagne elettorali di esponenti eccellenti della maggioranza e dell’opposizione. Quanto costa il monopolio per la realizzazione del gigantesco sistema delle paratie mobili contestato da molti veneziani, ma che nelle intenzioni di chi l’ha voluto dovrebbe salvare la città dall’acqua alta? Secondo i piani ufficiali l’imponente struttura, la cui prima pietra fu posta la bellezza di 25 anni fa, doveva essere finalmente pronta nel 2014, slittati al 2016.
L’opera, contestata dalla associazioni ambientaliste e dalla CGIL fin dagli anni ottanta, finisce nel mirino della Corte dei Conti in anni recenti : a proposito degli appalti, dei costi lievitati, delle consulenze e dei collaudi, denuncia che essi sono affidati «con scarsa trasparenza e un rapporto sbilanciato a favore del concessionario». Il costo della grande opera, scrivevano i giudici contabili, è passato da 2700 milioni di euro a 4271, adesso il «prezzo chiuso» è stato aggiornato a 4 miliardi e 700 milioni. Dei costi originari circa la metà (1200 milioni su 2700) se ne vanno in «oneri tecnici e per il concessionario, somme a disposizione e Iva».
«Ingenti appaiono gli oneri di concessione», scrivono ancora i giudici nella loro ordinanza. E aggiungono: «Alcune di tali risorse si sarebbero potute utilizzare per il rafforzamento dell’apparato amministrativo pubblico». Nel mirino dei giudici contabili finiscono i costi, che lievitano anche a causa della procedura della concessione unica, abolita dalle leggi europee e nazionali ma rimasta in essere per il Mose. «Sotto il profilo dell’economicità dell’agire amministrativo», scrivono nell’ordinanza, «suscita perplessità che la determinazione delle voci di costo e dell’elenco prezzi sia stata rimessa al concessionario».
Perché una denuncia così forte è stata largamente ignorata dai grandi media, dai partiti e dalle istituzioni? In che modo il Consorzio ha potuto esercitare la sua egemonia negli ultimi trent’anni? Testimoni di quella ormai lontana, ma così attuale, stagione politica, siamo rimasti in pochi. E, con il trascorrere del tempo è facile perdere la memoria. Per fortuna le carte scritte rimangono, ma le ricerche richiedono tempo e fatica.
Come ha scritto anche Massimo Cacciari la procedura degli interventi in laguna era viziata all'origine con la nascita nel 1984 di quel mostro giuridico che è il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico, imposto – aggiungo io - da Gianni De Michelis in accordo con Bernini e confermato da tutti i governi successivi. Molti si sono fatti affascinare dalla grande opera ingegneristica. Altri, come lo stesso sindaco Cacciari, pur essendo contrari, hanno pensato di poterla bloccare attraverso la tattica del rovesciamento delle priorità, pure saggiamente previste dalla legge: prima il ripristino morfologico della laguna poi altri cinque punti prioritari e solo alla fine “anche” gli interventi alle bocche di porto.
Nel frattempo sono state elaborate alternative mai prese in considerazione nonostante l’autorevolezza dei proponenti. La storia ha dimostrato che la forza del Consorzio era così pervasiva che si è preferito partire da quell’”anche” invertendo così quanto prescritto dalla legge e dalla logica. Deleterio fu in questo senso il ruolo del Sindaco Costa succeduto a Cacciari su sua indicazione ma anche di tutti i governi. Purtroppo, nessuno escluso.
La CGIL di Venezia fu tra i pochi soggetti sociali a sollevare problemi. Fin dal convegno del’84 quando, scontrandoci con il Ministro De Michelis, contestammo l’idea “dell’inserimento di tre rubinetti alle bocche di porto” per affermare “la necessità di una visione unitaria e sistemica degli interventi” sulla base del principio della “flessibilità, gradualità, sperimentabilità”. Negli anni 80, in qualità di segretario generale aggiunto, intervenni ripetutamente controcorrente sulla stampa e in incontri istituzionali subendo gli strali del “partito del fare” contrapposto alla “laguna di chiacchere”, alla quale fummo immediatamente arruolati.
Tra gli appuntamenti più significativi ricordo:
Nel ventennale dell'alluvione,(1986) quando il presidente del consiglio Craxi pronunciò un discorso inedito, rimasto però senza alcuna conseguenza, intervenni criticamente a nome della CGIL di fronte al consiglio comunale e poi a alla Fondazione Giorgio Cini, in presenza del governo; 2. Il lungo colloquio che avemmo nel settembre dell’87 con il Presidente del Consiglio Giovanni Goria. In quell’occasione presentai, a nome di CGIL CISL UIL, un documento che esprimeva la netta contrarietà alla terza convenzione tra lo stato e il Consorzio Venezia Nuova e chiedeva nel contempo il rafforzamento del Magistrato alle acque (che già allora appariva ancella del Consorzio) il rispetto delle priorità in ordine al disinquinamento della laguna e il ripristino morfologico della stessa, gli interventi per il restauro della città e il suo ripopolamento.
Questo incontro fu preceduto da una Conferenza stampa che suscitò l'ira scomposta di Maurizio Sacconi, allora braccio destro di De Michelis. Se si volessero ricostruire le responsabilità politiche sarebbe utile sfogliare i giornali dell'epoca perché i gatti non sono tutti bigi! Non solo la CGIL, ma anche PRI e PCI e la minoranza del PSI, fino alla giunta Casellati, condussero significative battaglie.
Gli arresti eccellenti di queste settimane, hanno riportato alla mia memoria alcune pubbliche denunce che formulai, a nome della CGIL, nel corso degli anni contro il meccanismo delle concessioni uniche e, successivamente, contro il perverso meccanismo del projet financing all'italiana (ospedale di Mestre, ospedale di Schio Thiene e delle autostrade). In un saggio pubblicato sul N°47, 1994 della Rivista "Oltre il Ponte" scrivevo :
" L'irresistibile tentazione delle Giunte Bernini prima e Cremonese poi di far ricorso ad un ennesimo consorzio privato, attraverso il meccanismo della concessione, con tutto quello che ne è conseguito sul terreno della lottizzazione e della questione morale, ha fatto si che il giro di boa non avvenisse ed anni preziosi fossero sprecati. La CGIL Regionale denunciò pubblicamente il perverso meccanismo che la Giunta stava approntando con la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova e al progettato Consorzio Disinquinamento, di tutti gli interventi afferenti al bacino scolante".
Con una nota a piè di pagina raccontavo un episodio di cui fui testimone. Dopo ripetute denunce sulla stampa locale (in particolare ricordo un'intervista rilasciata a Renzo Mazzaro apparsa sulla Nuova, Mattino e Tribuna) il Presidente della Regione Cremonese convocò a Palazzo Balbi CGIL CISL UIL. In quella occasione si lamentò dei mei attacchi ed ebbe la spudoratezza di chiedermi se la CGIL avesse avuto delle imprese da segnalargli!!! Come se la nostra avversione al meccanismo della concessione fosse motivata dal non aver partecipato alla lottizzazione del costituendo consorzio!!! Poi arrivò tangentopoli, seguirono le condanne ma, evidentemente gli italiani hanno la memoria corta e la storia si ripete.
Penso che il nostro compito oggi sia quello di sviluppare una forte iniziativa verso il governo affinché sia revocata la concessione “unica” al Consorzio Venezia Nuova per mettere finalmente mano a un progetto generale unitario sulla laguna, interdisciplinare, aperto a diverse evoluzioni e progressivo. Forse siamo ancora in tempo per fermare almeno in parte un progetto devastante anche alla luce del decreto che inibisce il passaggio delle grandi navi nel bacino di San Marco che rende possibile l’innalzamento dei fondali alla bocca di Lido.
Nel lontano 1973 lo storico americano F.C. Lane nel dare alle stampe la sua magistrale Storia di Venezia aggiungeva un’ultima notazione riferita alla prima legge speciale appena approvata, che suona come ammonimento: “L’efficacia della sua applicazione s’incaricherà di dimostrare se la Repubblica italiana è in grado di preservare la città creata dalla Repubblica di Venezia”.
Oggi, a quarant’anni di distanza, l’attuale governo autorizza al massimo pessimismo. Tengono accesa la speranza la nuova consapevolezza che cresce nella società italiana. Venezia è un bene comune dell’umanità e non può essere preda del partito degli affari
Sullo scandalo esploso a partire dai rapporti tra affari e politica a Venezia tre articoli di Edoardo Salzano ("la grande emergenza"), Ernesto Milanesi ("La Laguna del malaffare"), E.M. e Sebastiano Canetti ("La criccaGalan"). Il manifesto, 11 giugno 2014
Il cataclisma giudiziario che ha squassato Venezia e il Veneto non era inaspettato per chi aveva criticato il sistema Mose e il Consorzio Venezia Nuova fin dal loro nascere. Ciò che da allora si criticava era, da un lato, la scelta del sistema Mose, per la sua incompatibilità con la natura stessa della Laguna di Venezia e con il suo delicatissimo equilibrio ecologico, dall’altro la scelta della concessione a un unico soggetto privato, il Consorzio Venezia Nuova, del compito di studiare, sperimentare ed eseguire l’insieme degli interventi previsti.
Nessuno immaginava l’enormità della corruzione che l’attuazione di quel progetto e l’istituzione di quel soggetto avrebbero provocato. Per comprendere lo stato delle cose, cioè la dimensione del danno subito e i rischi che si profilano, occorre distinguere i tre aspetti fondamentali della situazione svelata dall’indagine della procura veneziana.
Corruzione
Il primo aspetto è quello della corruzione. I risultati dell’indagine sono davvero strabilianti. Le somme di denaro distratte illegittimamente per essere impiegate nelle varie forme, legittime e illegittime, è stupefacente. La pervasività della corruzione è un segnale preoccupante sull’ampiezza sociale del morbo: sembra che in Italia corrompere o essere corrotti sia la regola, e l’essere onesti l’eccezione. Da decenni per molti adempiere a un dovere d’ufficio non è un obbligo ma un piacere, che deve essere ricambiato. Nell’ultimo trentennio quel «vizietto» originario è cresciuto in modo abnorme, quasi come effetto collaterale della crescita della società opulenta e del disfacimento delle ideologie (cioè della capacità di credere in un progetto di società da costruire con gli altri). L’indagine giudiziaria Mani pulite svelò l’inferno in cui l’Italia era precipitata e condusse alla crisi di quella politica che aveva promosso e alimentato Tangentopoli.
Ma non riuscì a manifestarsi, contro la vecchia cattiva politica, una nuova buona politica. Poche novità positive furono introdotte per riparare i danni. Fra le poche, la buona legge Merloni per gli appalti delle opere pubbliche fu subito annacquata e, poco a poco, interamente rimossa. Il primo impegno che dunque si pone è, a livello nazionale, quello di restaurarla. Ma quale legislatore ha la forza, la competenza e la volontà di farlo? E quale istituzione a livello subnazionale compirà il primo passo necessario, quello di esautorare dal loro potere istituzionale quelli che sono fortemente indiziati di “complicità col nemico”, a partire dal sindaco di Venezia?
Grandi opere
Il secondo aspetto è quello delle Grandi opere. Molti dicono oggi: le grandi opere sono necessarie, non si può rinunciare a farle; non è la grandezza dell’opera che la rende necessariamente fonte di corruzioni. Quindi, avanti con le grandi opere limitandoci a colpire solo quelli che Benito Craxi chiamava «marioli». È un atteggiamento che si sta rivelando prepotentemente anche adesso.
Bisogna uscire dalle affermazioni generiche ed esaminare i casi concreti. Se si farà così si scoprirà subito che c’è un nesso profondo tra corruzione e grandi opere. Più grande e costosa è un’opera, più è complessa, più è necessario l’asservimento del decisore formale (il partito, l’istituzione) agli interessi dell’«impresa»: è necessario ungere rotas, distribuire tangenti reali (moneta) o virtuali (assunzione di amici e parenti, viaggi e altri sollazzi). Più l’opera cresce, più risorse ci sono per ungere le ruote. I due interessi del donato e del donatore s’incontrano: più l’opera è grande più ciccia c’è per i gatti.
Lo strumento che più spesso viene adoperato per rendere Grandi le opere è l’emergenza. Già lo si vide ai tempi di Tangentopoli. L’alibi sistematico è la rigidità del sistema delle garanzie, la conseguente lungaggine delle procedure, la sovrabbondanza di controlli. Invece di metter mano a una seria riforma delle procedure, e dei conseguenti apparati tecnici e amministrativi che devono gestirle, si inventano le droghe per scavalcare i controlli. Anziché riformare lo Stato, che si è proceduto astutamente a imbastardire, se ne pratica lo smantellamento: «via lacci e laccioli», «meno Stato e più mercato», «privato è bello». Slogan che sono stati vincenti anche a sinistra. In questa logica l’effettiva utilità dell’opera non conta nulla, né contano i suoi «danni collaterali», e neppure la sua priorità. L’unica utilità è la dimensione dell’opera e la sua possibilità di giustificare l’impiego di procedure eccezionali, dotate di due requisiti: l’opacità e la discrezionalità.
Una moratoria di tutte le Grandi opere in corso di esecuzione o decisione e un attento esame, sono le decisioni che in un paese civile dovrebbero esser prese. Ma l’Italia è un paese serio? Da decenni le cassandre dicono di no; e Cassandra, come è noto, ci azzeccava sempre.
L’oligarchia
Il terzo aspetto rilevante sul quale lo scandalo veneziano offre utili elementi di analisi e valutazione, che sarebbe necessario approfondire per tentar di correggere le storture che ha reso evidenti, è il sistema di potere che ha svelato. L’indagine non è ancora conclusa e si spera che vada fino in fondo. Ma già da quanto ha svelato appare chiaro che le decisioni sugli interventi che trasformano il territorio non erano assunte dai poteri istituzionali, che avrebbero dovuto esprimere l’interesse generale, ma da un gruppo di aziende private: aziende che, avendo abbandonato ogni spirito «imprenditoriale», avevano sostituito al «libero mercato» una spietata oligarchia.
L’indagine aperta dai magistrati veneziani illumina però una parte soltanto del gruppo di potere politico-economico che domina lo scenario veneto. E sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il Consorzio Venezia Nuova ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare nella trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e quello della cultura e dell’università. Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi solo al lavoro della magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Non sono solo le truffe e la corruzione diretta le uniche armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso.
Per avviare il risanamento occorrono scelte coraggiose. La prima è quella di mettere ai margini dei processi decisionali gli attori che hanno dato luogo al nuovo perverso sistema di potere. La responsabilità della politica e quella delle persone e delle istituzioni che hanno partecipato a quel sistema di potere sono gravissime. Non colpirle severamente con atti politici contribuirebbe ad accrescere il baratro che già separa i cittadini dalla democrazia
Ernesto Milanesi
La carta dei verbali controfirmati da Mazzacurati, Baita e Claudia Minutillo restituisce il mare di guano. Con schizzi (salvo querele o sviluppi) per tutti. Il padre-padrone del Consorzio Venezia Nuova ha ricostruito il «sistema Mose». Apparentemente l’ex presidente della Mantovani Spa si è levato tutti i pesi dalla coscienza sporca. E l’ex segretaria di Galan ha rivelato cosa c’era dietro la facciata di società come Bmc a San Marino con William Colombelli.
Così in laguna spurgano nomi eccellenti e racconti indicibili. Il “doge” berlusconiano aspetta il verdetto della Camera: oggi alle 13 è convocata la giunta per le autorizzazioni sulla richiesta d’arresto per Galan, presidente della commissione Cultura, trasmessa a Montecitorio il 3 giugno. E per Altero Matteoli ci sarà quello del Tribunale dei ministri: la Procura della Repubblica ha già spedito i fascicoli. Però la lista si infarcisce. Baita allunga l’indice su Gianni Letta («assicurazione sulla vita di Mazzacurati») che respinge le accuse al mittente e prepara le carte bollate. Ma le deposizioni sono piene di politici: Milanese (cioè l’allora braccio destro di Tremonti), l’ex ministro Lunardi, l’avvocato Ghedini. Gli sfidanti delle ultime Comunali, Orsoni (preferito dal Consorzio) e Brunetta. Un contributo, per altro registrato, al leghista Tosi. Fino al sostegno alla Fondazione del patriarca ciellino Scola. O alla rete delle coop e al ruolo di Brentan sul fronte…sinistro.
Ci sono anche intercettazioni comiche, con l’inversione delle parti. Come quando Minutillo ordina all’assessore Chisso di «alzare il culo» dal ristorante e tornare al lavoro. Sarebbe la stessa che, secondo Baita, si fa fare la casa dall’impresa Carron che poi batte cassa e vuole entrare nel giro degli appalti che contano.
Di certo, faldoni destinati a rimpinguarsi. E i magistrati stanno anche «rileggendo» gli atti di vecchie indagini, soprattutto collegate alle Grandi Opere viarie e ai project della sanità veneta. Senza dimenticare la matassa che si dipana dentro e fuori gli studi dei commercialisti padovani arrestati: Francesco Giordano, fiduciario di Mazzacurati, e Paolo Venuti per i coniugi Galan.
Intanto ieri mattina nuova perquisizione in un cantiere e negli uffici della Mantovani Spa (ora presieduta dall’ex questore Carmine Damiano, alle prese con Expo 2015). Oggetto di verifiche da parte della Direzione nazionale antimafia il nuovo terminal dell’«autostrada del mare» a Fusina. Con replica a Meolo in un cantiere della A4 affidato ad un’altra impresa.
Poi c’è la denuncia di Gianfranco Bettin, assessore all’ambiente: «Apprendiamo dalle carte e dagli sviluppi dell’inchiesta che da parte di politici, ministri e funzionari in particolare dei ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture si sarebbe lucrato sulle bonifiche di Porto Marghera. Se così è stato hanno lucrato, come vampiri, su una immensa tragedia sociale e umana, su un enorme disastro ambientale. Si capiscono anche, così, la violenza degli attacchi dei reggitori di questo “sistema” contro chi si è sempre opposto , le querele infinite e milionarie, le intimidazioni, le accuse di voler smantellare Marghera quando invece erano proprio loro a impedirne il risanamento e quindi la rigenerazione».
A Ca’ Farsetti, dopo la rissa nell’ultima seduta di consiglio, sembra profilarsi la soluzione «democratica» alla crisi politica. Niente dimissioni della giunta per poter approvare il bilancio e evitare il commissario prefettizio alla vigilia delle Comunali 2015. La Procura, comunque, ha negato l’incontro fra l’ex sindaco Orsoni (agli arresti domiciliari) e il vice «reggente» Sandro Simionato. Forse già lunedì all’ordine del giorno il documento che sollecita un’inchiesta parlamentare e lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova: è stato firmato da Beppe Caccia e Camilla Seibezzi (lista “In comune”), Sebastiano Bonzio (Rifondazione), Claudio Borghello, Carlo Pagan, Gabriele Scaramuzza e Jacopo Molina (Pd), Simone Venturini (Udc), Luigi Giordani (Ps), Giacomo Guzzo e Andrea Renesto (Federalisti e riformisti).
L’isola di Poveglia resta pubblica
La buona notizia, almeno, arriva dal Demanio. L’isola di Poveglia resta ancora di proprietà pubblica. Si erano mobilitati centinaia di cittadini per l’asta, raccogliendo 300 mila euro. Ma Luigi Brugnaro (titolare di Umana, presidente della Reyer Basket ed ex di Confindustria) l’aveva vinta con un’offerta di 513 mila. Respinta con lettera ufficiale, perché ritenuta «non congrua» al valore dell’isola lagunare.
FOTOGRAFIA DELLA CRICCA GALAN
Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi
È una domenica d’estate del 2010. In riva al mare di Croazia si celebra l’ottava edizione del «Premio Brioni»: riunisce il giro di imprenditori che ruota intorno all’assicuratore Gianni Pesce, titolare della Pesce and partners Insurance srl.
Sono sbarcati per lo più dagli yacht con il tricolore «marinaro», la bandiera della Santa Sede e il vessillo del meeting. Sono stati ospitati al Bi Village di Fazana e sono reduci da una cena a buffet allargata ad altri vip: dal direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Padova Adriano Cestrone al notaio Nicola Cassano accompagnato da Monica Manto (avvocato, con un curriculum di dirigente in società partecipate come Conzorzio Zip, Attiva Spa e Cvs), dalla famiglia indiana specialista in gioielli ai Luxardo storici produttori di maraschino, fino a Fabio Franceschi di Grafiche Venete che stampa best seller e frequenta i vertici di Confindustria.Un appuntamento informale, fra amici con le famiglie al seguito. Un week end che si ripete puntuale, con tanto di souvenir a beneficio dei protagonisti. Tutto alla luce del sole, niente da nascondere e con l’orgoglio di gruppo consolidato.
Ovviamente, la trasferta di Brioni 2010 non rientra nei faldoni dell’attuale inchiesta della Procura di Venezia che il 4 giugno ha chiesto al Parlamento l’arresto dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan per lo scandalo del Mose. Tuttavia, proprio perché coglie in relax all’estero il cerchio ristretto dei fedelissimi, restituisce al naturale un frame del «modello veneto».
La cerimonia è affidata alla presentatrice ufficiale, ma la vera anima della serata si rivela monsignor Liberio Andreatta, attuale vice presidente dell’Opera Romana Pellegrinaggi che nel dicembre scorso ha organizzato — con la benedizione di Papa Fracesco — una missione anche archeologica in Iraq. Al ministro delle Politiche agricole Galan (che ha appena dovuto cedere la presidenza della Regione al leghista Luca Zaia) spetta l’inedito ruolo di… valletto. In polo azzurrina griffata e pantaloni blu mare, non si sottrae; anzi, si preoccupa che i nomi degli sponsor siano ben visibili…
Il Premio Brioni possiede una filosofia precisa: «Sorveglia le tue amicizie perché vivano fino a sera. Dona l’amicizia alle anime che intuisci vicine alla tua. E se l’amico zoppica, giudicalo sempre quand’è seduto» ammonisce la prolusione. Si comincia con lo speciale riconoscimento a Fabio Biasuzzi: la riproduzione degli affreschi di Raffaello nella Stanza della segnatura dei Musei Vaticani. L’inguaribile milanista Biasuzzi è l’erede dei cavatori di ghiaia del dopoguerra, alla testa del gruppo di Ponzano Veneto (Treviso) e fresco presidente dell’Atecap che associa l’industria italiana del calcestruzzo preconfezionato.
Per gli altri premiati la custodia di pelle riserva il mosaico del I secolo di un… pesce del museo nazionale di Napoli. Il «valletto» Galan con monsignor Andreatta lo assegnano insieme alla magnum delle cantine Provenza a tre simboli tipici dell’imprenditorialità veneta. Paolo Gazzola della Padana Ortofloricoltura di Paese (Treviso) tradisce l’imbarazzo nel sintetico ringraziamento. In bermuda e maglietta viola si presenta Tiziano Gottardo: a Piazzola sul Brenta (Padova) gestisce la distribuzione di prodotti per la casa e l’igiene, ma recita già un ruolo da protagonista nel comparto della logistica che verrà «attenzionato» dalla Guardia di finanza. Infine, Michele Tosetto che si occupa di allestimenti (mostre, fiere, congressi) di esposizioni e trasporti di opere d’arte con la sua società all’interno del Vega di Marghera. Made in Italy in versione Nord Est, come evidenzia monsignore con un pacchiano errore di pronuncia: «Io l’inglese lo odio e lo leggo così com’è scritto, per dispetto agli inglesi…». In compenso, Andreatta non perde il piglio del conduttore e ricorda a tutti che la Biblioteca Vaticana, chiusa da tre anni per restauri, verrà riaperta con la grande mostra degli incunaboli nel braccio Carlo Magno di San Pietro per esplicita volontà di Benedetto XVI. «E l’allestimento è curato da Tosetto!!!».
Ma a Brioni c’è anche un premio «piccolino». Una moneta storica in oro zecchino che Gianni Pesce dona all’amico Giancarlo che finalmente parla al microfono: «In questi mesi si vede chi è opportunista o chi si comporta in modo schifoso. Ma non ho mai dubitato dell’amicizia vera di molto pochi fra cui Gianni. E anche se su di me si fosse abbattuto lo spettro della disoccupazione, ero certo che comunque sarei stato qui con lui e con voi…».
Ecco: proprio sul servizio pubblico della salute in project financing e sulla «concertazione» di ristorazione, pulizie, manutenzioni si dovrebbero riaccendere presto i riflettori. In particolare, spicca il Centro di terapia protonica per la cura dei tumori immaginato a Mestre dal dg dell’Usl 12 Antonio Padoan. Operazione bocciata fragorosamente dall’Unità Ricerca e Innovazione dell’Agenzia regionale sanità con una puntuale, dettagliata e documentata relazione firmata da Costantino Gallo. Giace dal 1 febbraio 2011 sulle scrivanie di Leonardo Padrin, presidente galaniano della commissione Sanità della Regione, e di Domenico Mantoan, massimo dirigente della sanità veneta. Non solo la terapia protonica è ancora sprovvista di evidenze scientifiche per preferirla a quella «convenzionale», ma soprattutto «non è possibile confermare l’ipotesi di 1.900 pazienti annui, estensibili a 4.000, su cui vengono basati tutti i calcoli di convenienza dell’operazione». Nemmeno con la vaga promessa del governo dell’Ungheria di «dirottare» in Veneto i pazienti oncologici che si curano in Germania… E poi Costantino Gallo mette nero su bianco calcoli da brivido: «A fronte di un investimento dei privati di 159.575.000 euro l’Usl 12 verserà nei 19 anni della convenzione 615.571.000 euro più Iva per un totale di 738.685.200 a cui va aggiunto il costo del personale di 34.500.000 euro». Un affare, ma a senso unico.
Eppure, lo stesso «schema» è stato replicato a Trento dall’allora presidente della Provincia Lorenzo Dellai affiancato dall’assessore alla salute Ugo Rossi e dal direttore dell’Agenzia provinciale per la protonterapia Renzo Leonardi. Mega-cantiere nell’area ex Caserme Bresciani (la stessa del progetto di nuovo ospedale) con appalto tecnologico affidato alla belga Iba ed un pool di banche a garantire i 40 milioni di finanziamenti al project delle imprese italiane. I primi test di collaudo della «camera rotante» sono stati completati il 29 luglio scorso: il dossier trentino è stato trasmesso al ministro Beatrice Lorenzin. Si tratta di un’operazione che prevede una spesa complessiva di oltre 92 milioni di euro. L’edificazione edile della nuova struttura di Trento era stata affidata alla Mantovani Spa con in calce al contratto di “partenariato” datato 2009 la firma di Piergiorgio Baita. Oggi grande accusatore dei cannibali della laguna…
L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)
Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.
Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.
Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.
Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».
postilla
Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)
Le buone leggi ci sono (c’erano), ma l’assenza di controlli rigorosi e la colpevole negligenza dei notai hanno consentito la privatizzazione selvaggia e iniqua del patrimonio pubblico. Il Fatto Quotidiano”, 4 giugno 2014
Una mastodontica giostra immobiliare su cui sono saliti in molti. I proprietari delle case popolari in primo luogo, gente in genere con redditi bassi, a cui il Comune aveva concesso di realizzare a poco prezzo il sogno di avere un tetto. Ma ai quali è stato poi regalato un terno secco, permettendogli di vendere quello stesso tetto non a un prezzo contenuto e concordato, considerando che si trattava di immobili che all'origine costavano poco proprio perché realizzati su terreni espropriati e quindi quasi regalati. Ma a prezzo pieno, di mercato. Con un guadagno eccezionale per i venditori, tre o quattro volte il prezzo iniziale. Case pagate a suo tempo meno di 200 milioni di lire, sono state rivendute di recente a 350 mila euro e anche più. Ci hanno guadagnato i politici romani che con le case di edilizia residenziale pubblica si sono fatti molti amici tra gli elettori delle periferie. Ci hanno guadagnato i notai che, fidandosi ciecamente delle attestazioni degli uffici comunali, hanno messo il bollo su atti che alla prova delle aule dei tribunali si stanno dimostrando per quel che sono: illegittimi. Ci hanno guadagnato anche molti tecnici comunali che hanno assistito imperterriti alla fiera e in alcuni casi l'hanno agevolata, se non promossa. E ci hanno indirettamente guadagnato i grandi immobiliaristi capitolini, da Francesco Gaetano Caltagirone in giù, perché se il prezzo delle case a Roma per decenni e prima che arrivasse la falce della crisi aveva toccato livelli di pazzia collettiva lo si deve anche al fatto che l'enorme serbatoio dell'edilizia convenzionata è stato scambiato a prezzo pieno, lasciando che andasse a farsi benedire ogni effetto calmieratore. Chi ci ha rimesso sono state le casse comunali e quindi tutti quei milioni di romani, la maggioranza, che non hanno partecipato alla sarabanda o perché non la ritenevano giusta o perché non erano nelle condizioni di poter partecipare, ma che alle tasse comunali non si sono potuti sottrarre neanche un po'. E ci hanno perso anche migliaia di famiglie romane sotto sfratto (una ogni 191) non più in grado di pagare affitti saliti in media del 160 per cento a causa della speculazione.
Secondo un calcolo prudenziale di Giuseppe Di Piero, presidente di Area 167, l'associazione che si è dedicata anima e corpo alla denuncia dello scempio, insieme all'avvocato che ha sostenuto la causa, Antonio Corvasce, il Comune di Roma ci ha rimesso almeno mezzo miliardo di euro. Il legale ha presupposto che il Comune rispettasse la legge facendo pagare ai trasgressori la multa prevista fino a 4 volte la differenza tra il prezzo giusto, calmierato, e quello realmente preteso dai venditori. Corvasce ha vinto alcuni giorni fa una causa promossa da una privata cittadina che si riteneva danneggiata dal sistema di compravendita usato a Roma per le case di edilizia pubblica. Il tribunale civile della Capitale ha accolto la tesi della cittadina e dell'associazione Area 167 secondo cui “concedere una sorta di patente speculativa in capo al primo acquirente/assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, costruito su aree espropriate, non può essere considerato interesse pubblico”.
Quando un cittadino compra a buon mercato una casa popolare acquisisce la proprietà dell'immobile, ma con un vincolo forte: non può rivenderlo al prezzo massimo che riesce a spuntare, ma deve accontentarsi di un prezzo calmierato. A Milano, Firenze, Reggio Emilia, Torino, Pisa, Venezia, Ferrara, Bologna, Parma, Cagliari e in molte altre città la legge è stata rispettata. A Roma no. Ora la giunta Marino non sa che pesci prendere: per l'assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, il problema c'è ma non sa da che parte cominciare per risolverlo. A scanso di equivoci l'associazione Area 167 gli ha spedito una diffida invitandolo a interrompere una volta per tutte la giostra delle case popolari.
sprawl esprime patologie notoriamente collegate al medesimo stile di vita. Ma non si può dire, per non contraddire i mandanti ciellini pro-sprawl. Corriere della Sera, 8 giugno 2014, postilla (f.b.)
MONZA —Il dato più preoccupante riguarda i più piccoli: il 30% dei bambini brianzoli tra i 6 e gli 11 anni supera i limiti di peso per l’età, il 20% è in netto sovrappeso (19% maschi e 21% femmine), il 6% francamente obeso. Sono i dati raccolti da uno studio condotto a Vimercate, Agrate, Ornago, Mezzago, Bellusco e in metà delle scuole elementari di Monza dall’Università di Milano Bicocca e dalla Federazione Italiana Medici Pediatri della Lombardia.
«L’obesità infantile è in aumento — spiega Alfredo Vanotti, professore in Dietetica e Nutrizione all’università di Milano Bicocca e direttore del nuovo servizio Nutrizione ed Educazione Alimentare alla Clinica Zucchi di Monza e Carate — è colpa dell’eccessiva sedentarietà, troppa televisione e troppo poco sport, più computer che giochi in cortile». Per dichiarare lo stato di obesità si deve fare riferimento all’indice di massa corporea (Bmi), che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato: si è obesi se il risultato va dai 30 in su, ovviamente con differenti gradi di «gravità».
L’allarme-obesità scende (anche se di poco) nei comuni dove la Asl di Monza e Brianza ha effettuato progetti di promozione alla salute. Tra i 2007 e il 2010 i bambini sovrappeso tra i 6 e i 10 anni a Carate, Cavenago e Verano sono scesi dal 29% al 21%, gli obesi dal 9 al 7%.
Tra gli adulti le rilevazioni più recenti dicono che in Brianza i sovrappeso sono il 36% della popolazione (+1.1% rispetto alla media italiana), gli obesi il 12,7% (+2,8% rispetto all’Italia). L’obesità poi aumenta con l’età e colpisce più gli uomini delle donne. Tra i 18 e i 75 anni il 42% degli uomini è in sovrappeso e il 14% è obeso, mentre tra le donne il 21% è sovrappeso e il 9% è obeso. Le donne rischiano il sovrappeso con la menopausa (una su due è in sovrappeso dopo i 60 anni), mentre gli uomini perdono il pesoforma già dopo i 35 anni (1 su 2 è sovrappeso o obeso già a 35 anni).
L’altro dato curioso che riguarda gli uomini è l’aumento ponderale dopo il matrimonio: «Abbiamo studiato un gruppo di uomini prima del matrimonio e abbiamo registrato il 29% in sovrappeso e il 6% di obesi — conclude Vanotti — dopo qualche anno di matrimonio la percentuale dei sovrappeso è cresciuta al 48%, gli obesi al 13%». «Sono percentuali che fotografano la società dell’opulenza — è il commento di Vittorio Sironi, professore di Storia della Medicina e della Sanità all’Università Bicocca —: nell’Ottocento nei nostri comuni il problema era semmai la carenza alimentare. In Brianza si soffriva di pellagra, rachitismo, disturbi tiroidei. Oggi siamo una società ricca e l’obesità è una delle patologie più diffuse che colpisce l’8% della popolazione e cresce con l’aumentare dell’età».
Il consiglio? «Bisognerebbe tornare all’alimentazione dei nostri nonni — conclude Sironi — ai primi anni del Novecento quando si consumavano grandi quantità di frutta e verdura e il piatto della “cuccagna” era un’eccezione solo per alcune occasioni». Un gesto concreto contro l’obesità l’ha fatto il Comune di Seregno: con la palestra «Officine del benessere» ha partecipato a Let’s move, la sfida mondiale (176 i centri fitness in gara in rappresentanza di 10 Paesi) promossa dal colosso del wellness Technogym ed ha vinto. In un mese 950 persone si sono alternate sugli attrezzi e hanno accumulato 5,8 milioni di «move», che equivalgono a circa 12 milioni di calorie consumate. In palio attrezzi per 40 mila euro, che sono stati donati alla scuola media Don Milani. La Asl di Monza ha invece in programma per quest’anno alcuni progetti di educazione alla salute rivolti alle donne in gravidanza, agli educatori degli asili nido e alle scuole di ogni ordine e grado. Lo scorso anno ha invece fatto installare distributori di «snacks salutari» in otto scuole secondarie della provincia.
postillaPare quasi ovvio, che in una regione dove ormai da lustri il personale sanitario viene selezionato sulla base dell'appartenenza alle cordate cielline, nessuno si sogni neppure lontanamente di citare (nemmeno in sede di teoria, almeno da quanto si capisce dall'articolo) la montagna di ricerche americane e non, che legano direttamente l'organizzazione del territorio e l'indice di massa corporea. Ovvero che stabiliscono un legame quasi diretto fra gli stili di vita caratteristici dello sprawl suburbano, modello notoriamente ultra-dominante in Brianza, e la ciccia cronica di grandi e piccini. Ma non si può dire, perché si contraddirebbero così i ciellini profeti delle ubique autostrade, delle sedicenti comunità locali fatte di schiere di villette “immerse nel verde”, dove i ragazzini non escono se non accompagnati dalla mamma o dal nonno in Suv, e passano il resto del tempo quasi naturalmente rimpinzandosi di merendine davanti alla Tv. Probabilmente alche al sovrappeso ci dovrà pensare il “privato”, ricetta magica pervicacemente riproposta ad ogni piè sospinto dai nostri eroi. L'America va bene per i viaggi studio pagati dal contribuente, ma leggere le ricerche che non fanno comodo ai propri sponsor quello mai. Ad esempio gli studi seminali tradotti qui su Eddyburg tanti tanti anni fa, che magari i non medici devoti vorranno riguardare con occhi diversi oggi. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)
A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.
Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.
Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.
Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.
La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.
postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)
Utile ripresentare un testo scritto per eddyburg da uno dei più preziosi collaboratori, anni fa. La politica dei partiti sapeva, ha sempre saputo; prima prevedeva e cercava di correggere gli errori; dagli orribili anni '80, ha cominciato ad abbeverarsi alle sorgenti avvelenate.
Una storia segnata fin dalla nascita da forzature sul versante dei decisori (cominciando da Franco Nicolazzi) e da critiche su versante dei saggi (Bruno Visentini, la magistratura, Antonio Cederna ecc.). Scritto per eddyburg.it il 18 novembre 2006
Nel 1981 un gruppo di eminenti tecnici, adempiendo all’incarico affidatogli dal Ministro dei lavori pubblici, consegna al Ministro stesso uno “Studio di fattibilità e progetto di massima” per la “Difesa della laguna di Venezia dalle acque alte”. Il Ministro provvede a inoltrarlo, oltre che alla Commissione per la salvaguardia di Venezia e al Consiglio superiore dei lavori pubblici, anche al Comune di Venezia, intendendo acquisire il parere in merito degli enti locali interessati.
Nei mesi successivi si pronunciano la Commissione per la salvaguardia di Venezia, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio comunale di Venezia e quello di Chioggia, tutti in termini non sfavorevoli, ma parimenti esprimendo osservazioni critiche, e richieste di più complessivi inquadramenti nonché dello svolgimento di ulteriori ricerche.
Intanto, da più parti, si è auspicato, al fine di ottenere una celere realizzazione degli interventi in laguna, che si proceda all’esecuzione delle opere attraverso l’istituto della “concessione”. In tale prospettiva si costituisce il Consorzio Venezia Nuova [1].
"L’incarico non può avere per oggetto le scelte sull’avvenire della laguna […] Tali scelte spettano all’organo politico […] Sembra infine che gli ulteriori studi da effettuare, le ricerche da svolgere e le sperimentazioni da compiere […] nonché i controlli tecnico-scientifici sugli interventi […] non possano essere affidati al medesimo concessionario della realizzazione degli interventi, ma debbano essere attribuiti a soggetto diverso, che abbia grande autorità e sia capace di porsi in aperta dialettica con il concessionario”.
Le polemiche rimbalzano in seno alla IX Commissione della Camera dei deputati, che ha all’esame alcune proposte di risoluzione su Venezia, presentate dalla DC, dal PCI e dal PRI. Alla fine, il 27 ottobre 1983, la Commissione vota all’unanimità una risoluzione che, seppur elusiva circa il nodo dell’affidamento degli studi, delle sperimentazioni, e della realizzazione delle opere, impegna il Governo da un lato “a presentare entro tre mesi un rapporto globale sullo stato degli interventi per la salvaguardia di Venezia” e dall’altro “a definire, sentiti gli enti locali interessati, un programma unitario e globale degli interventi”.
Il Ministro dei lavori pubblici, il socialdemocratico Franco Nicolazzi (che circa un decennio appresso, all’epoca dell’inchiesta “Mani Pulite”, sarà condannato con sentenze passate in giudicato), non se ne dà per inteso, e men che mai si preoccupa delle critiche rivolte al tentato uso dell’istituto della concessione.
Tra il febbraio e il luglio del 1984 si succede la presentazione alla Camera dei deputati di vari disegni di legge volti a integrare la legislazione speciale per Venezia: dapprima uno del PRI, quindi uno della DC, del PSI e del PSDI, infine uno del PCI. Il 3 ottobre 1984 la IX Commissione della Camera dei deputati, dopo vivaci alterchi e concitate mediazioni, giunge ad approvare all’unanimità, in sede legislativa, un testo che, approvato anche dalla competente commissione del Senato, sempre in sede legislativa, diviene la legge 29 novembre 1984, n.798.
Quanto agli obiettivi degli interventi sulla laguna, la nuova legge stabilisce che questi ultimi devono essere “volti al riequilibrio della laguna, all’arresto e all’inversione del processo di degrado del bacino lagunare e all’eliminazione delle cause che lo hanno provocato, all’attenuazione dei livelli delle maree in laguna, alla difesa con interventi localizzati delle insulae dei centri storici, e a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte eccezionali, anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolamentazione delle maree”. E’ con ciò pienamente assunta, e puntualmente descritta, la “logica” che era stata espressa nei disegni di legge del PRI e del PCI, e sostenuta anche dal PLI.
In ordine alle modalità di realizzazione degli interventi si precede la costituzione di uno speciale Comitato, composto dal Presidente del consiglio, dai ministri interessati e dai rappresentanti della Regione del Veneto e degli enti locali territorialmente competenti sulla laguna, cui “è demandato l’indirizzo, il coordinamento, e il controllo”, ma che non è espressamente sancito debba, per assolvere i suoi compiti, preliminarmente definire quel “piano unitario e globale degli interventi” che era indicato nei disegni di legge del PRI e del PCI, ed era stato ripetutamente richiesto. La previsione del predetto Comitato, e i compiti, generali e specifici, che gli sono affidati, sono quindi soltanto la premessa logica e istituzionale dalla quale partire per ottenere la formazione di tale “piano unitario e globale”.
Per il resto viene normativamente fondata la possibilità di affidare la realizzazione degli interventi in concessione, ma non si definiscono i lineamenti di quest’ultima, limitandosi a prevedere che il Comitato di cui s’è detto si pronunci sulle connesse convenzioni, si demanda a un decreto del Ministro dei lavori pubblici la precisazione (seppure “sulla base delle convenzioni” decise dal Comitato) “delle modalità e delle forme di controllo sull’attuazione delle opere affidate in concessione”, e infine, e soprattutto, non solamente non si precisa che gli studi, le ricerche, le sperimentazioni debbono essere affidate a soggetti diversi dall’esecutore concessionario delle opere, ma si fa esplicita menzione della concessione “in forma unitaria” sia degli interventi che degli studi e delle progettazioni.
Il problema viene risollevato, un po’ di anni appresso, da Antonio Cederna, che era stato eletto alla Camera dei deputati, nelle liste del PCI, come indipendente di sinistra, nella X legislatura, iniziata il 2 luglio 1987 e terminata il 22 aprile 1992.
Egli, quando quasi volgeva al termine il suo mandato parlamentare, si convinse della necessità di un forte intervento di integrazione e di coordinamento della legislazione speciale per Venezia, e decise di presentare una propria proposta di legge rivolta a tal fine, la quale, sottoscritta anche da Ada Becchi e da Franco Bassanini (entrambi appartenenti, come Cederna, al gruppo della Sinistra indipendente), fu presentata il 2 aprile 1991.
Nella relazione illustrativa della proposta, premesso che il “faticato procedere delle azioni e degli interventi che, secondo la volontà del legislatore, avrebbero dovuto assicurare la salvaguardia di Venezia e della sua laguna[…] è stato largamente insoddisfacente […], sicuramente e marcatamente, per quanto attiene alla tutela dell'integrità fisica […] del territorio lagunare”, si sostiene che “la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi dianzi detti […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra unalogica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt'al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive”.
Occorre quindi, prosegue la relazione, “chiarire quale sia il vero nodo da sciogliere: non procedimentale, ma di merito. Il che non nega affatto che sia necessario ridisegnare l'attuale meccanismo decisionale e operativo degli interventi e delle azioni per Venezia […]. Piuttosto, evidenzia come tale ridisegno, per essere efficace, non possa essere neutro, ma, al contrario, debba essere, finalmente, coerente e funzionale al pieno e incontrovertibile affermarsi dell'approccio sistemico ai problemi del territorio veneziano”. Inoltre, soggiunge, non si ritiene opportuno “inventare nuovi e straordinari soggetti (che tendono, di norma, a dare pessime prove)”, ma invece si reputa doversi “assumere come riferimento il modello ordinariamente configurato, per le autorità di bacino di rilievo nazionale, dalla legge 18 maggio 1989, n.183”, sulla “difesa del suolo”, della cui definizione Cederna era appena stato primario protagonista. Che è quello che fa la proposta di legge, istituendo l'autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, indicandone l'ambito territoriale di competenza, e dettando, per essa, alcune disposizioni particolari.
Particolarmente rilevante risulta il fatto che, pur non escludendo che “sia le amministrazioni dello Stato che la Regione Veneto, che gli altri enti pubblici interessati, possano fare ricorso per la realizzazione di quanto rientri nelle rispettive competenze a concessioni a soggetti idonei sotto il profilo tecnico e imprenditoriale”, si afferma perentoriamente che “l'ambito del concedibile viene […] ristretto alla realizzazione di opere ed eventualmente alla loro gestione […], nella ferma convinzione che non possa né debba essere concessa (soprattutto dal momento in cui si costituisce un nuovo soggetto istituzionale dotato di propri robusti supporti scientifici, tecnici e operativi), in blocco e per di più allo stesso soggetto concessionario della realizzazione delle opere, l'effettuazione degli studi e delle ricerche preliminari e la progettazione (cioè, di fatto, la pianificazione e la programmazione degli interventi e delle azioni)”.
Per il vero, anche se la proposta di legge di Cederna per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare, il Parlamento nazionale, pochi anni appresso, decise almeno di superare radicalmente il sistema della "concessione unica", dello Stato al Consorzio Venezia Nuova, votando il comma 11 dell'articolo 12 della legge 24 dicembre 1993, n.527.
Ma questa è un’altra storia, che è già stata raccontata.
[1] Del quale, salvo errori od omissioni, inizialmente entrano a far parte (le cifre fra parentesi indicano la percentuale di partecipazione): Condotte d’acqua (20%); Impresit (20%); Fincosit (20%); Sacug (15%); Lodigiani (5%); Consorzio S.Marco-Furlanis, Grassetto, CIR, Maltauro, Cosma, Vittadello, Sacaim, Codelfa, CCC (15%); consorzio Rialto-Foccardi, Scuttari, Boscolo, Busetto, Ferrari, Cop. San Martino, Rossi (5%).
[2] Bruno Visentini, Venezia: i “progettini” rinviano il salvataggio, nel Corriere della Sera del 26 ottobre 1983.
«L’inchiesta sul mega-cantiere si allarga: un "sistema" nel cui libro paga si contabilizza di tutto, soldi grazie ai fondi neri. Si immagina che il 20% dell’opera si riveli una provvista analoga». Il manifesto, 6 giugno 2014
La squadra e il compasso. Politica bipartisan al servizio del “cerchio magico” delle imprese predestinate. Una piramide di potere, tangenti e finanziamenti occulti costruita grazie al Mose (mega-cantiere da oltre 5 miliardi). E’ crollata dopo tre anni di indagini della Procura e di certosini riscontri della Gdf. Era il Veneto della cazzuola a senso unico nelle Grandi Opere: se non scattava la concessione senza controlli a beneficio del Consorzio Venezia Nuova, era sempre pronto un project financing e non mancavano mai le cooperative “rosse”.Il regolo? Giancarlo Galan, governatore dal 1995 al 2010, due volte ministro e ora presidente forzista della commissione cultura della camera.
Nemmeno troppo al coperto il diagramma di flusso che triangola politici (dall’assessore regionale Fi Chisso al consigliere Pd Marchese, dall’ex europarlamentare Lia Sartori al sindaco Orsoni), professionisti della finanza e contabilità (da Roberto Meneguzzo di Palladio al commercialista Francesco Giordano) e funzionari pubblici (dalla Regione al Magistrato alle Acque al generale in pensione Spaziante). Sono i cannibali “modello veneto”. Millantatori compresi, tutti con il conto cifrato, lo stipendio aggiuntivo, la vocazione sussidiaria, la consulenza fittizia o il familiare interesse. E’ lo schema della “salvaguardia” di Venezia che tracima nelle corsie autostradali, nei nuovi ospedali, e riemerge in periferia con le cricche della logistica o l’ultimo stadio dei conflitti d’interesse.
Dal 1986 al 1995 il Cvn è stato presieduto da Luigi Zanda, ora capogruppo Pd al Senato. Arrestato con Orsoni c’è Giampietro Marchese: dal 2005 avrebbe incassato mezzo milione, anche all’interno della Regione, dalle mani di Federico Sutto (che il 7 febbraio 2013 consegnò 160 mila euro a Chisso). E a pagina 605 dell’ordinanza spicca un appunto: 40 mila euro di contributo al candidato Davide Zoggia (ex presidente della Provincia, poi nello staff di Bersani) più 7.428 euro di consulenza. Altri 15 mila euro al Comune di Padova e 4 mila al Pd. Indagato anche Lino Brentan, “referente” Ds nell’Autostrada Padova-Venezia già condannato per tangenti. Senza dimenticare la cena dell’8 giugno 2011 al Calandre. Con Mazzacurati e Pio Savioli del Cvn sono attovagliati l’allora sindaco Zanonato e il rettore Giuseppe Zaccaria. Discutono del progetto per il nuovo ospedale di Padova…
Dalle “ricevute” si materializza la rete di connivenze lì dove il Cvn poteva rischiare controlli o aveva bisogno di nuovi finanziamenti statali. Migliaia di euro distribuiti grazie ai “fondi neri” di 25 milioni all’estero. In Procura c’è chi immagina che il 20% dell’operazione Mose possa rivelarsi una provvista analoga. Sta di fatto che nel libro paga del “sistema” si contabilizza di tutto. Anche la Fondazione Marcianum, eretta dall’allora patriarca ciellino Scola. O il contratto di collaborazione a progetto per “operazioni inesistenti” di Giancarlo Ruscitti: era il segretario generale della sanità veneta, siede nel Cda dell’Irccs San Camillo al Lido e compare nei comitati d’onore della Compagnia delle Opere.
«Ora sappiamo che sei miliardi di finanziamenti diretti, più tutti quelli per le opere complementari di difesa a mare del litorale, di consolidamento delle rive e delle fondamenta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «partito del fare» (e del rubare) si è comprato la città». Il manifesto, 6 giugno 2014
Il progetto della chiusura delle bocche di porto della Laguna di Venezia, il più grande intervento di ingegneria civile mai costruito in Italia, è stato il prototipo delle «grandi opere». In tutto. Nella filosofia emergenzialista che lo presiede — la grande alluvione del 4 novembre 1966 sembrava giustificare una decisione rapida e rassicurante, in barba ad ogni esigenza di approfondimento degli studi scientifici.
Nella delega concessa al sistema delle imprese private giudicato dai decisori politici il più competente ed efficiente non solo nella realizzazione delle opere, ma anche nella loro ideazione e progettazione – condannando le università, il Cnr e gli organi tecnici dello stato a fare da supporto servente alle imprese. Nella deroga alle procedure ordinarie di affidamento, verifica e controllo delle opere pubbliche – date in concessione ad un unico soggetto, anticipando il meccanismo del general contract. Nel generoso ricorso al credito bancario (a proposito dei motivi che hanno generato il debito pubblico!) – procedura che poi sarà perfezionata con il project financing.
Il Consorzio Venezia Nuova nasce nel 1982 sotto gli auspici di De Michelis (Partecipazioni Statali), Nicolazzi (Lavori Pubblici) e Fanfani (presidente del Consiglio). Comprende tutte le maggiori società di engineering pubbliche e private, dalla Impresit della Fiat (a cui subentrerà la Mantovani) alle Condotte d’acqua dell’Iri. E poi: Lodigiani, Maltauro, Impregilo fino alle cooperative emiliane CCC. Primo presidente del CVN è Luigi Zanda, proveniente dalla segreteria del ministro Cossiga.
Negli stessi anni nasce anche il Tav e il Ponte dello Stretto di Messina. L’Italia del «fare» — per chi ha perso la memoria — nasce allora. Ma per superare gli evidenti vizi giuridici di un’opera affidata in concessione a trattativa privata e per di più su un «progetto preliminare di massima» mai approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, ci fu bisogno di una legge speciale (legge 798 del 29 novembre del 1984). Ad opporsi fu solo il Pri con il ministro Bruno Visentini, come io stesso riconoscevo in un saggio di tanti anni fa, Appunti per una storia del Progettone («Oltre il ponte», n. 17, 1987), in cui definivo l’oggetto della convenzione tra Stato e CVN: «un insieme di opere ancora indeterminate, tutte comunque assicurate da una forma di pagamento a piè di lista».
Nasce così lo strapotere del CVN in città e non solo. Crocevia di smistamento di ogni genere di appalti, anche quelli non direttamente afferenti al Mose. Punto di equilibrio degli interessi bipartisan.A dire il vero un ripensamento ci fù all’epoca di Tangentopoli. Con una legge del 1993 (n.527, art. 12, comma 11) si dava mandato al Governo di «razionalizzare» le procedure di intervento a Venezia così da «separare i soggetti incaricati della progettazione dai soggetti cui è affidata la realizzazione» e costituire una agenzia pubblica. Inutile dire che nulla sostanzialmente fu fatto per mutare la situazione. Nemmeno quando nel 1998 la Commissione nazionale per la Valutazione dell’Impatto Ambientale dette un parere sostanzialmente negativo al progetto.
In soccorso del Mose giunse la nuova Legge Obiettivo di Lunardi-Berlusconi (2002) che ha consentito ai vari governi, da ultimo quello Prodi con Di Pietro ministro ai Lavori Pubblici (con un voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri), di avocare a sé le decisioni tecnico-progettuali e di approvare definitivamente il Mose nel 2006. Fu il colpo di grazia anche per i movimenti ambientalisti e l’assemblea permanente contro il Mose. Da allora una valanga di massi, cemento e ferro è stata scaricata sulle bocche di porto. Il Consorzio Venezia Nuova aveva vinto. Ora sappiamo che sei miliardi di finanziamenti diretti, più tutti quelli per le opere complementari di difesa a mare del litorale, di consolidamento delle rive e delle fondamenta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «partito del fare» (e del rubare) si è comprato la città
Il sindaco di Venezia agli arresti domiciliari con accuse pesantissime, che riguardano la delicatissima questione della complicità tra funzioni pubbliche e interessi privati e squadernano la domanda: chi comanda in città?. Un comunicato del direttore di eddyburg, 5 giugno 2014
Gli effetti dell’azione giudiziaria sono oggettivamente gravissimi. Il sindaco della città è agli arresti domiciliari: ciò significa che la magistratura ha ritenuto che, se lasciato libero, potrebbe sottrarsi alla giustizia (il che è difficilmente pensabile) oppure potrebbe agire per inquinare le prove dei reati per i quali è stato privato della liberà personale.
Secondo la stampa sono possibili due ipotesi: il sindaco rassegna le dimissioni, allora si apre la procedura di formazione di un nuovo consiglio e la scelta di un nuovo sindaco, oppure il sindaco resta in carica e in sua vece governerebbero il vicesindaco da lui scelto e la giunta, anch’essa non eletta ma nominata dallo stesso Orsoni.
Il giudizio sul comportamento del sindaco spetta alla magistratura, e sono anch’io stupito della crepa profonda che si è aperta tra l’immagine della persona e le colpe di cui sembra essersi macchiato. Tuttavia i fatti emersi sono talmente gravi che il solo sospetto che un sindaco possa esserne stato parte sono tali da auspicarne le dimissioni immediate.
La responsabilità della scelta non può essere attribuita al sindaco né alla giunta da lui scelta. È alle istituzioni che spetta di decidere, e di restituire lo scettro al popolo.
Ero già intervenuto ieri sulla questione come presidente della rete Altro Veneto, oggi ho inviato agli organi di stampa e al mondo delle associazioni il seguente comunicato
Il primo passo per uscire dal baratro: le dimissioni di Giorgio Orsoni
Ieri ho scritto che ritengo “necessaria e urgente la sostituzione più rapida possibile dei membri delle istituzioni democratiche colpiti da così infamanti accuse e dei loro complici, e un rinnovamento radicale della politica”. Sono convinto che la scelta della strada da seguire per raggiungere questo risultato non possa essere lasciata all’imputato Giorgio Orsoni, né ai dirigenti dell’amministrazione comunale da lui scelti, a cominciare dal vicesindaco. Oltre ad Orsoni (che è agli arresti domiciliari per il timore che possa inquinare le prove) l’unico organismo eletto è il consiglio comunale. E’ al consiglio comunale che spetta quindi di decidere in che modo riportare il Comune nell’ambito della legalità democratica. Il primo passo che vedo necessario è chiedere le dimissioni di Orsoni; il secondo è quello di avviare un percorso ampio, che investa tutte le forze vive della città per scegliere un gruppo dirigente del tutto nuovo, all’altezza dei gravi problemi per il presente e il futuro dell’area veneziana, nonché di correggere le storture del perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati di cui l’indagine della magistratura ha svelato, per ora, una parte.
«Il Mose sarebbe criminogeno anche se i suoi lavori andassero lentissimi. Perché è un progetto sbagliato in sé: frutto di quella vocazione al suicidio da cui Venezia non sembra capace di liberarsi» E ripulire la Laguna dal malaffare sarà un'impresa lunga». Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2014
Massimo Cacciari – tra i cui non molti meriti di sindaco di Venezia c’è quello di essersi sempre opposto al Mose – ha detto che le radici della corruzione vanno cercate nell’urgenza. Vero, ma il Mose sarebbe criminogeno anche se i suoi lavori andassero lentissimi. Perché è un progetto sbagliato in sé: frutto di quella vocazione al suicidio da cui Venezia non sembra capace di liberarsi.
Per mille anni la Repubblica Serenissima ha vegliato sul delicato equilibrio della Laguna, che è la particolarissima “campagna” che circonda Venezia. In natura, una laguna ha una vita limitata nel tempo: o vincono i fiumi che portano materiali solidi verso il mare, e la laguna si trasforma in palude e piano piano si interra, oppure vincono le correnti marine, che tendono a renderla un golfo o una baia.
I veneziani capirono subito che tenere in vita la Laguna salmastra voleva dire assicurarsi uno scudo naturale sia verso la terra che verso il mare. Non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la manutenzione continua. Così la storia di Venezia – ha scritto Piero Bevilacqua – è stata “la storia di un successo nel governo dell’ambiente”.
Una storia che, con l’avvento dell’Italia unita si è, però, interrotta, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni di malgoverno veneziano. Per fare entrare le Grandi Navi (turistiche, industriali e commerciali) si sono dragati e approfonditi i canali d’accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione .
Il risultato è stato un abnorme aumento dell’acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quell’enorme choc che mise Venezia di fronte all’alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l’equilibrio, o essere mangiata dall’Adriatico.
Fu allora che emerse la terza via: il Mose, che permise di eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L’idea era di continuare indefinitamente a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che chiudesse le porte al mare. È come se un paziente ad altissimo rischio di infarto venisse persuaso dai medici a non sottoporsi ad alcuna dieta né ad alcun esercizio fisico, e a scommettere invece tutto su una costosissima e complicata operazione di angioplastica. Non verrebbe da pensare solo che i medici sono incompetenti: ma anche che hanno qualche interesse occulto nell’operazione. E se poi quei medici finissero in galera, chi potrebbe stupirsi?
Follemente, la scelta della terapia è stata affidata direttamente ai chirurghi. Fuor di metafora: la salvezza di Venezia e del suo territorio è stata affidata a un consorzio di imprese private (il Consorzio Venezia Nuova) interessate a realizzare il costosissimo meccanismo di riparazione del danno , il Mose appunto. E tutto è stato asservito a questo ente: anche il controllo del Magistrato delle Acque, che si è trovato a ratificare (invece che a sorvegliare) scelte operate in base all'interesse privato.
Sarebbe difficile spiegare un simile suicidio se non vedessimo che Venezia si distrugge ogni giorno in mille altri modi, prostituendosi, fino alla morte, a un turismo cannibale. Ma mentre gli abitanti continuano a scendere (sono ora 59.000: un terzo della popolazione del 1950, la metà di quella del 1510) e le Grandi Navi sembrano inarrestabili, c’è ancora chi resiste, tra mille difficoltà. Esemplare il caso di Italia Nostra, cui appartiene la voce più ferma e coraggiosa contro la morte di Venezia, una voce che un anno fa aveva documentato pubblicamente proprio la corruzione del Mose: ebbene, la soprintendente architettonica veneziana Renata Codello ha querelato l’associazione, che le rimproverava pubblicamente la difesa delle Grandi Navi, e l’autorizzazione allo scempio (futuro) del Fondaco dei Tedeschi e al raddoppio (in corso) dell’Hotel Santa Chiara sul Canal Grande (quello dove, secondo i pm, la segretaria di Giancarlo Galan avrebbe ricevuto le mazzette!). E che avvocato ha scelto la Codello? Ma quello del Consorzio Nuova Venezia, che controlla il Mose. Pulire la Laguna, insomma, sarà un’impresa lunga.
I residenti rimasti e quanti amano la città e la laguna a testa alta continuano a rivendicare il loro diritto di vivere la città e il dovere di tutelare, proteggere e salvare il bene comune che è la laguna. A dispetto e al di sopra degli scandali. Il manifesto, 5 giugno 2014 (m.p.r.)
Di nuovo… in movimento per salvare la città e la Laguna. Sabato alle ore 13 in piazzale Roma il Comitato No Grandi Navi rilancia la sfida con un corteo che punta a fermare il passaggio di quattro «mostri del mare».
Un appuntamento preparato con cura. Il 22 maggio sul campanile di San Marco è stato issato l’enorme striscione (anche in inglese) che anticipava la manifestazione. Poi il presidio a Porta Pia davanti al ministero delle Infrastrutture, durante il corteo in difesa dell’acqua bene comune. Infine assemblee, incontri, banchetti e controinformazione che culmineranno nel week end in cui a Venezia si inaugura la Biennale di Architettura.
«Sarà blocco delle grandi navi. E non simbolico, di qualche ora: le navi non devono partire per tutto il giorno. È la risposta che la città darà alla drammatizzazione del governo e del Porto che vogliono accelerare sullo scavo del Canale Contorta», preannuncia Tommaso Cacciari a nome del Comitato. Con un esplicito invito a parlamentari ed europarlamentari affinché partecipino alla manifestazione di sabato, prima di aprire il contenzioso a Roma e Bruxelles. Il governo Renzi – dopo aver resuscitato il Comitatone – si è impegnato a tracciare una nuova rotta per le città galleggianti. Ma ci sono anche le norme Ue sulle acque da rispettare, con il rischio che per l’Italia si apra una nuova procedura di infrazione.
Venezia finora è rimasta stritolata dalle “larghe intese”, sull’onda della sussidiarietà e del business delle Grandi Opere. Con due protagonisti politici: il ciellino Maurizio Lupi e l’ex rettore e sindaco Paolo Costa. Un berlusconiano approdato al Ncd per via ministeriale (Expo compresa) e un professore del Pd votato alla causa della mega base Usa di Vicenza o al progetto miliardario del porto off shore. Lupi&Costa non solo difendono a spada tratta il turismo delle mega-crociere che letteralmente eclissa Venezia, ma soprattutto nutrono le ambizioni del solito “giro” di imprese, lobby e mandarini.
Al di là dell’inchiesta della procura della Repubblica che ieri ha disposto 35 arresti (vedi la cronaca in queste pagine), resta evidente la connessione fra Mantovani Spa (ora presieduta dall’ex questore Carmine Damiano) con le vicende degli appalti per Expo 2015.
Non basta. L’ex ministro Corrado Clini (che firmò insieme al collega Passera il decreto dopo il naufragio della Concordia) è sempre agli arresti domiciliari. Fra Ferrara e Roma gli contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione con tanto di conto cifrato a Lugano. E nel progetto di riqualificazione idrica in Iraq compare un altro professionista padovano, anche lui agli arresti domiciliari: Augusto Calore Pretner, ingegnere con studio a Sarmeola di Rubano che ha collezionato progettazioni per conto di numerosi Comuni, della multiutility AcegasAps e del Centro Veneto Servizi di Monselice.
Insomma, un “governo” della futuribile città metropolitana che sembra quasi clonato dai “dogi” della Prima Repubblica. A Venezia, però, non si piega la testa. Anzi: c’è stata la sottoscrizione popolare nell’asta dell’isola di Poveglia (aggiudicata, per ora, a Luigi Brugnaro di Umana Holding per 513 mila euro). Torna in primo piano la tutela dei 58 mila residenti rimasti in città. Inevitabile resistere alla deriva di Venezia stuprata dagli interessi di pochi privati a danno di tutti: i “dinosauri” in bacino San Marco producono inquinamento, devastazione e pericoli. Luigi D’Alpaos, massimo esperto di idraulica a Nord Est, sintetizza così la situazione: «Da una parte ci sono gli importatori degli interessi forti, come Porto e Consorzio Venezia Nuova, che tutto hanno fatto tranne che tutelare il benessere della laguna, pensando invece che sia loro e di poterne fare ciò che vogliono. Dall’altra parte ci sono quelli che sostengono che la laguna sia un bene comune indispensabile da proteggere e da salvare. Poi c’è una politica becera che favorisce il gigantismo navale che sembra non porre più limiti alle dimensioni».
C’è chi vuole ancora la città-cartolina, mentre i riflettori internazionali si accendono sulla Biennale. In piazzale Roma sabato pomeriggio l’alternativa si rimette in movimento…
Questo Mose sembra proprio nato sotto una cattiva stella.
«Ma questa stella, nelle sue dimensioni strutturali, brillava alta su nel cielo. E qualche re magio poverino la seguiva da tempo…».
Cioè lei.
«Certo. Non c’è nulla di misterioso in questa stella del Mose. Che è nata nel 1985-86, e ha brillato ininterrottamente fino a ieri nel cielo di Venezia. Sotto qualsiasi governo, sotto qualunque presidente del Consiglio. E qui vorrei ricordare alcuni fatti che non hanno nulla a che vedere, in sé, con la dimensione giudiziaria ».
Per esempio?
«La sua nascita, per cominciare. Se una grande opera pubblica come questa, che alla fine verrà a costare circa sette miliardi di euro, non so se rendo l’idea, viene fatta decidendo che chi la fa è un concessionario unico, che può seguire l’opera e realizzarla in tutte le sue fasi praticamente senza mai ricorrere a una gara di trasparenza pubblica che sia una, che può strafottersene per venti anni e passa di una serie di posizioni che vengono periodicamente dal Consiglio comunale e da altri organi amministrativi, che può spendere al di là di ogni controllo, si crea una situazione poco chiara e poco trasparente… ».
È stato creato un mostro senza controllo, dice lei. Con il consenso di tutti i governi.
«E non ho finito. L’ultimo capitolo è stata la riunione del “comitatone”, 22 novembre 2006, presieduto da Romano Prodi. Dopo due anni di intenso dibattito condotto in prima persona dal sottoscritto, come sindaco di Venezia, io presentai a quella riunione un’amplissima documentazione e una relazione nella quale ricordavo le perplessità, uso un eufemismo, sulla conduzione di un’opera di questa mole attraverso la procedura di un concessionario unico, e ricordavo che c’era stato un solo giudizio di impatto ambientale, uno solo, ed era stato negativo. Ricorvolta davo anche che mancava il progetto esecutivo. Perché se io come sindaco avessi mandato in appalto un’opera cento volte più piccola senza l’esecutivo finale, sarei finito direttamente nelle patrie galere. Dissi tutto questo, e votai no: contro Prodi».
Ricordo perfettamente che lei era contrario al Mose. Però forse la corruzione sarebbe arrivata lo stesso anche se si fosse preferito un altro progetto.
«Io non sono un ingegnere, ma avevo proposto le soluzioni alternative suggerite da autorevolissimi esperti. Nessuno ci ha ascoltati. Il sottoscritto, quando andava ad esporre le sue perplessità, era tollerato.Sono riuscito a parlare sì e no cinque minuti manco con Prodi, ma con Enrico Letta, allora sottosegretario. E non parliamo dei giornali. Viva l’opera! Comunque, una fatta la scelta, io dissi: io non sono contrario all’opera, sono contrario a un’opera fatta così. La mia opposizione nasceva dalla certezza che la procedura scelta avrebbe potuto portare ad esiti ed effetti come quelli che si sono verificati oggi».
La corruzione, secondo i magistrati, sarebbe cominciata nel 2005.
«Ma certo. Se c’era un giro di mazzette sarà partito anche prima. Io non so nulla di questa indagine e mi auguro che tutti vengano assolti o prosciolti. Che gli venga chiesto perdono, persino. Ma non mi si venga a dire che la cosa non poteva essere seguita diversamente. Non si possono fare le opere pubbliche così. Perché oggi è il Mose, ieri L’Aquila e l’Expo, domani chissà. Lavorare costantemente con l’emergenza, o dire che le grandi opere vanno date in mano al Napoleone di turno, è una logica criminogena ».
Ecco, ma è possibile che in questi anni a Venezia nessuno abbia sentito l’odore di questa corruzione? L’assessore Bettin ha detto: qualcosa si sapeva.
«Una qualche vox populi c’era. Soltanto che io non faccio il magistrato e non faccio il poliziotto. Quello che so e che ho detto era più che sufficiente perché si sorvegliasse e si controllasse in modo più pervasivo questa colossale operazione da sette miliardi di euro. Questo non è stato fatto. Neanche dalla Corte dei conti: io sono andato anche lì a portare il malloppo delle mie contestazioni, in una seduta pubblica».
E com’è andata?
«Ho parlato cinque minuti, nell’indifferenza totale».
Oggi a Venezia la politica è in ginocchio. Come può rialzarsi? Come se ne esce?
«Intanto dobbiamo aspettare le sentenze, che potranno aggravare o ridimensionare le accuse ad alcuni dei personaggi coinvolti. Certo, la catastrofe è grande ed è del tutto trasversale. Se ne esce con una grande riforma culturale e politica. Se ne esce con partiti che selezionano in modo più adeguato la loro classe dirigente, con partiti che hanno delle idee e dei programmi e non solo la volontà di occupare il potere…».
La corruzione e il criminoso legame tra politica e affari sono condannati da tutti, e giustamente. Ma pochi hanno imparato che il MoSE è un progetto che non salva Venezia ma la distrugge, e lo scrivono sui giornali. La Repubblica, 5 giugno 2014
«Con il Mose è saltato uno dei principi che hanno governato per secoli la laguna di Venezia. E che la Serenissima repubblica ha costantemente rispettato. Quel principio è iscritto nel nome di un canale, il canaledella Scomenzera». Scomenzera vuol dire cominciare, spiega Edoardo Salzano, urbanista, a lungo preside della facoltà di Pianificazione dello Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), poi anche assessore della città lagunare: «Un lavoro si cominciava, si vedevano gli effetti e solo se questi convincevano si continuava, se no si cambiava direzione. Nella legge speciale per Venezia, che tanti anni fa ha dato il via al Mose, si richiedono criteri analoghi: la sperimentalità, la flessibilità e la reversibilità. E quei criteri il Mose li ha tutti e tre disattesi ».
Territorialmente, 29 maggio 2014
La villa di Cafaggiòlo, da poco iscritta nel patrimonio Unesco, e l’intera fattoria medicea, sono al centro di una storia annosa che riparte nel 2011, quando Regione Toscana, Provincia di Firenze, comuni di Barberino di Mugello e San Piero a Sieve, Autorità di Bacino dell’Arno, MIBAC-Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, siglano un protocollo d’intesa con la proprietaria Società Cafaggiolo srl rappresentata dall’argentino Alfredo Lowenstein. Un «modello di collaborazione istituzionale» che nei giorni a ridosso delle elezioni ha raggiunto un’ulteriore tappa: il protocollo è approvato, con un atto di indirizzo, da entrambi i comuni mugellani, di cui uno – San Piero – in mano al commissario prefettizio. Il protocollo, «ispirato a principi di tutela, sviluppo e valorizzazione della villa e della tenuta», sostiene un progetto della Cafaggiolo srl medesima, che interessa circa 370 ettari ripartiti tra i comuni di Barberino e San Piero, inclusi nella zona di rispetto Unesco (buffer zone).
La sordità della Banca europea per gli investimenti alle denunce sulle Grandi Opere ha contribuito a far maturare lo scandalo oggi esploso nel Veneto (e non solo). Altraeconomia.it, 4 giugno 2014
Ma in questi giorni gli scandali di corruzione continuano ad emergere grazie all’azione costante della magistratura, cosicché è lecito chiedersi quale diga serva per porre fine a questo cancro sistemico della nostra società. Di sicuro non le dighe mobili del Mose, il faraonico e discutibile progetto che dovrebbe salvare Venezia dallo sprofondare nella laguna. Un’opera che dopo un decennio di studi e lavori ha prodotto solo 4 delle 78 paratie mobili previste. Eppure soldi ne sono annegati tanti nel Mose, inclusi fondi europei, concessi a dismisura: va bene che tutti nel mondo amano Venezia, inclusi commissari europei e finanziatori pubblici, ma quanto emerge in queste ore mostra che la leggerezza nel concedere fondi non aleggia solo nelle stanze dei palazzi italiani.
Oltre all’avviso di garanzia all’ex ministro per le infrastrutture Altero Matteoli (e agli arresti che il 4 giugno hanno portato al fermo del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell’assessore veneto alle Infrastrutture Renato Chisso, oltre alla richiesta a procedere nei confronti dell’ex ministro Giancarlo Galan, ndr) ritorna sotto le luci della ribalta dei pm il Consorzio Venezia Nuova, un perno del cosiddetto “sistema Veneto” che ha dominato la cementificazione del Nord-Est negli ultimi anni. Fatture gonfiate ad arte per componenti del Mose acquisiti dalla Croazia e fondi neri ricreati nella civilissima Austria, che però protegge ancora con signorilità il segreto bancario.
Uno scandalo mittel-europeo quindi, che ha goduto anche di finanziamenti pubblici ingenti della Banca europea per gli investimenti (Bei), l’istituto di credito dell’Ue (leggi "La banca di parte", l'approfondimento di Altreconomia). Il Mose è stato finanziato con un totale di un miliardo e mezzo di euro dall’Europa in più tranche. La prima di 400 milioni è stata sborsata al Consorzio Venezia Nuova – incaricato di costruire l’opera – nell’aprile 2011; altri 500 milioni sono stati sbloccati nel febbraio 2013.
A questo punto si spera che i rimanenti 600 milioni di euro non arrivino con le indagini ancora in corso. Ma c’è poco da meravigliarsi anche con i burocrati di Bruxelles, che sulla corruzione predicano bene e razzolano male. Questo il caso del “vicino” scandalo del Passante di Mestre (leggi su Altreconomia "Il passante fa l'autostop") anch’esso finanziato dalla Bei con 350 milioni di euro sborsati in un’unica trance nel 2013. La banca europea ha deciso di erogare il finanziamento pubblico a favore della società CAV (50% Anas e 50% Regione Veneto) ad aprile, dopo che la richiesta era rimasta nei cassetti dei banchieri di Bruxelles dal lontano 2011. Per farlo sono passati attraverso l’intermediazione di Cassa depositi e prestiti, ad indagini già aperte e pubbliche da parte della procura di Venezia, nonché dopo un monito della Corte dei Conti sul rischio di infiltrazioni mafiose già del marzo 2011.
Alcune delle società che hanno costruito il Passante, tra cui la Mantovani spA, sono finite nel mirino dei magistrati veneziani. Il suo amministratore delegato, Piergiorgio Baita, ha patteggiato la pena lo scorso dicembre, mentre secondo Il Gazzettino la società avrebbe versato all’Agenzia delle Entrate “circa 6 milioni di euro per “sanare” la maxi evasione fiscale realizzata attraverso l’emissione di fatture false”.
A questo punto anche l’Europa dovrebbe avere capito che non si scherza a finanziare con leggerezza grandi infrastrutture di questa portata. E invece no: uno dei primi schemi di “project bond” europei per l’Italia è in via di definizione e sarà messo in piedi nelle prossime settimane proprio per il rifinanziamento del debito di CAV. Una mossa da 700 milioni di euro, con cui questo debito, frutto di un aumento esponenziale dei costi in corso d’opera segnalato dalla stessa Corte dei Conti –proprio la Mantovani era la principale azienda coinvolta nella costruzione del Passante - dovrebbe essere rivenduto a ignari risparmiatori attraverso fondi pensione e fondi di investimento, principali acquirenti (sperati) dei bond.
In tutto questo l’organo anti-corruzione europeo –noto con l’acronimo OLAF e per altro guidato da un italiano – lo scorso marzo ha rigettato la richiesta di aprire un’indagine sulle responsabilità europee nell’affaire Passante di Mestre a fronte di un esposto di varie organizzazioni della società civile. Insomma possiamo scegliere se far affondare Venezia o affogare noi nella corruzione finanziata con i soldi pubblici europei.
I fatti e i primi nomi dell'iniziativa del Terzo potere, "Mani pulite Veneto 2014". Articoli di Davide Tomiello e Alberto Zorzi. Corriere del Veneto, 4 giugno 2014
Mose: arrestati Chisso , Orsoni
e Marchese. Richiesta per Galan
di Davide Tomiello
Tangentopoli del Veneto, dopo Baita e Mazzacurati, il nuovo filone. Il sindaco di Venezia è ai domiciliari. La sua difesa: accuse poco credibili. Sequestrati beni per 40 milioni
VENEZIA – Era nell'aria da più di un anno. Dopo gli arresti dei manager di Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati, i pm che avevano lavorato all'inchiesta Mose, Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini erano concentrati su quell'obiettivo. Adesso il vaso di Pandora è stato aperto: la nuova Tangentopoli veneta esplode con la forza di una bomba. Trentacinque le misure cautelari (tutti i nomi) eseguite questa mattina dal nucleo di polizia tributaria di Venezia, tra cui l'assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso e il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese, in carcere, e il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni agli arresti domiciliari. L'accusa nei suoi confronti è di finanziamento illecito relativa alla sua campagna elettorale per le comunali del 2010.
Ma sono solo il vertice di una piramide di nomi eccellenti: tra gli altri, due magistrati alla Acque , Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, il presidente del Coveco, cooperativa impegnata nel progetto Mose, Franco Morbiolo, il generale in pensione Emilio Spaziante, l'amministratore della Palladio Finanziaria spa, Roberto Meneguzzo. C'e' inoltre una richiesta di arresto anche per il deputato di Fi Giancarlo Galan, ex presidente della Regione Veneto. Per poter procedere all'arresto di Galan, però, occorre il placet dell'apposita Commissione. Le accuse per tutti sono di corruzione, concussione, riciclaggio. L'indagine della Finanza era partita tre anni fa, lo scorso anno c'era stato l'arresto di Piergiorgio Baita, ai vertici della Mantovani, societa' padovana colosso nel campo delle costruzioni. Dopo qualche mese l'arresti di Giovanni Mazzacurati, l'ingegnere ''padre'' del Mose. Sequestrati beni per 40 milioni.
Un tempestivo chiarimento della posizione di Giorgio Orsoni, posto ai domiciliari nella cosiddetta inchiesta Mose, è l'auspicio espresso dal collegio di difesa del sindaco di Venezia, formato dagli avvocati Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo, che definiscono poco credibili le vicende contestate. «La difesa del professor Orsoni - rilevano i legali - esprime preoccupazione per l'iniziativa assunta e confida in un tempestivo chiarimento della posizione dello stesso sul piano umano, professionale e istituzionale. Le circostanze contestate nel provvedimento notificato paiono poco credibili, gli si attribuiscono condotte non compatibili con il suo ruolo ed il suo stile di vita. Le dichiarazioni di accusa vengono da soggetti già sottoposti ad indagini, nei confronti dei quali verranno assunte le dovute iniziative».
Gli arresti eccellenti di mercoledì mattina all'alba in Veneto, tra i quali quello del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell'assessore regionale Renato Chisso, partono da una partono da una inchiesta della Guardia di finanza di Venezia avviata circa tre anni fa. Il pool di pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonino (Dda) aveva scoperto che l'ex manager della Mantovani Giorgio Baita, con il beneplacito del proprio braccio destro Nicolò Buson aveva distratto dei fondi relativi al Mose, le opere di salvaguardia per Venezia, in una serie di fondi neri all'estero. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi venivano riciclati da William Colombelli grazie alla propria azienda finanziaria Bmc. Le Fiamme gialle avevano scoperto che almeno 20 milioni di euro, così occultati, erano finiti in conti esteri d'oltre confine e che, probabilmente, erano indirizzati alla politica, circostanza che ha fatto scattare l'operazione di questa mattina all'alba. Dopo questa prima fase, lo stesso pool, coadiuvato sempre dalla Finanza, aveva portato in carcere Giovanni Mazzacurati ai vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Mazzacurati, poi finito ai domiciliari, era stato definito «il grande burattinaio» di tutte le opere relative al Mose. Indagando su di lui erano spuntate fatture false e presunte bustarelle che hanno portato all'arresto di Pio Savioli e Federico Sutto, rispettivamente consigliere e dipendente di Cvn, e quattro imprenditori che si spartivano i lavori milionari.
Galan e Chisso a libro paga per milioni
L'ex ministro: io totalmente estraneo
di Alberto Zorzi e Davide Tamiello
Dalle carte dell'ordinanza fatti sconcertanti. Tra gli indagati anche l'ex segretario di Tremonti, Milanese, pagato per accelerare i lavori del Mose
Magistrati delle Acque a libro paga, politici con contin nei paradisi fiscali dietro l'angolo, fondi neri per accelerare lo sblocco dei finanziamenti per il Mose. Ce n'è per tutti nelle carte dell'ordinanza che ha portato agli arresti eccellenti per i lavori del Mose. Si parte dai «vecchi» nomi coinvolti nell'inchiesta, il filone precedente che aveva portato all'arresto di Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati. Nella nuova inchiesta ci sono infatti anche i «pentiti» Baita, Buson, Mazzacurati, Minutillo, Savioli e Voltazza. Tra gli indagati anche l'ex segretario della Sanità Giancarlo Ruscitti, l'ex consigliere di Tremonti Marco Mario Milanese, Duccio Astaldi. Dalle carte si scopre che Mazzacurati e Sutto nel 2010 avrebbero consegnano di persona 50 mila euro al sindaco Orsoni, per finanziare illecitamente la campagna elettorale. Nel 2010 la campagna elettorale del sindaco di Venezia arrestato nell'inchiesta, sarebbe stata finanziata in tutto con 500mila euro ottenuti in modo illecito.
Il capitolo delle campagne elettorali finanziate illecitamente è ricchissimo. Duecentomila euro sarebbero stati dati alla parlamentare europea uscente Lia Sartori. Mezzo milione di finanziamenti illeciti alle campagne elettorali sarebbero stati dati a Giampietro Marchese. Poi c'è la corruzione: il funzionario regionale Giuseppe Fasiol sarebbe stato fatto collaudatore del Mose in cambio dei via libera ai progetti della Mantovani. Vittorio Giuseppone, magistrato della Corte dei Conti di Roma, sarebbe stato corrotto per ammorbidire i controlli del Mose. Poi le date precise, frutto di indagini e appostamenti: la consegna, nel 2011, all'hotel Laguna Palace di Mestre da parte di Baita di 250 mila euro all'assessore Chisso. Nel 2005 50 mila euro sarebbero stati versati in un conto dell'ex governatore Giancarlo Galan aperto a San Marino. Sempre nel 2005 l'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, avrebbe consegnato 200 mila euro a Galan all'hotel Santa Chiara di Venezia.
Poi la «bomba»: la Mantovani avrebbe pagato i lavori di restauro della villa di Galan a Cinto Euganeo per oltre un milione di euro. Non solo: Galan e Chisso sarebbero diventati soci occulti della Adria Infrastrutture per poter partecipare agli utili della società. Lo stesso Chisso sarebbe stato «stipendiato» per dare i nulla osta regionali al Mose con 200/250 mila euro l'anno per oltre dieci anni. E Galan avrebbe ricevuto dal 2005 al 2011 da Giancarlo Mazzacurati presidente del Cnv, anche tramite l'assessore Renato Chisso, uno stipendio annuo di un milione di euro. Quanto alla corruzione, Mazzacurati avrebbe consegnato mezzo milione di euro a Milanese, consigliere di Tremonti, per avere fondi Cipe per il Mose, mentre i due presidenti del Magistrato alle Acque, Cuccioletta e Piva, sarebbero stati a libro paga del Consorzio con 400 mila euro l'anno per non ostacolare il Mose.
Nel pomeriggio la replica dell'ex ministro ed ex governatore Giancarlo Galan: «Mi riprometto, di difendermi a tutto campo nelle sedi opportune con la serenità ed il convincimento che la mia posizione sarà interamente chiarita. Chiederò di essere ascoltato il prima possibile con la certezza di poter fornire prove inoppugnabili della mia estraneità». E ancora: «Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d'informazione, nel dichiararmi totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare».
La magistratura di Venezia, nel sonno della politica, ha severamente colpito alcuni esponenti del gruppo di potere che decide sulle grandi opere. Qui di seguito la dichiarazione di Altro Veneto, Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto
La magistratura veneziana ha colpito, con gli strumenti e le responsabilità che le sono propri, alcuni esponenti di spicco del gruppo di potere politico ed economico che decide sul presente e sul futuro del territorio di Venezia e del Veneto.
Operando con responsabilità e strumenti del tutto diversi abbiamo da tempo criticato e denunciato le azioni promosse ed effettuate da quel gruppo di potere. Mi riferisco all’arcipelago di associazione, comitati, reti e altri gruppi di cittadinanza attiva del Veneto che hanno promosso innumerevoli iniziative di contrasto di quelle azioni per il merito di quelle scelte, per le conseguenze sulla vita degli abitanti attuali e futuri, e spesso per l’illegalità che le caratterizza.
La pentola provvidamente scoperchiata dalla magistratura fa comprendere meglio alcune delle ragioni che hanno condotto a scelte nefaste per il territorio (come il MoSE, la rete di autostrade e le altre grandi opere inutili e dannose). Ci spiega anche da quali fonti criminali provenivano le risorse impiegate per far tacere i critici.
Personalmente ritengo necessaria e urgente la sostituzione più rapida possibile dei membri delle istituzioni democratiche colpiti da così infamanti accuse e dei loro complici, e un rinnovamento radicale della politica. Mi auguro infine di non vedere opere promosse da quel gruppo di potere nell’elenco di quelle che Matteo Renzi si propone di «sbloccare» con un apposito decreto.
Edoardo Salzano, presidente di Altro Veneto, Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto
Venezia, 4 giugno 2014
Avrebbero potuto, in particolare Il Corriere della Sera e la Repubblica, incalzare il "sistema Expo" nel lungo intervallo di una luna di miele iniziata nel marzo del 2008, dopo l'assegnazione a Milano dell'organizzazione di Expo 2015 e maggio 2014, con gli arresti che provano ciò che molti a Milano e non solo sostengono da tempo: questo Expo senz'anima (come lo ha definito Carlin Petrini di Slow Food nel corso di un convegno ospitato dall'ISPI) è stata solo una "grande opera", anzi un insieme di grandi opere che costeranno almeno 11 miliardi di euro.
Le parole di Petrini sono lo spunto per un corsivo pubblicato il primo giugno dal Corriere della Sera, ma chi lo firma, Giangiacomo Schiavi, meno di tre mesi fa sedeva a intervistare Sala, ad di Expo, Pisapia, sindaco di Milano, Maroni, presidente di Regione Lombardia, e Martina, ministro dell'agricoltura a Milano, e non ha incalzato nessuno dei quattro su ritardi (la cancellazione della linea metropolitana M4, la mancata inaugurazione di M5; i cantieri "indietro tutta" di Pedemontana), né sul rischio di una Expo "dimezzata": come scrive Lorenzo Bagnoli su Altreconomia di maggio 2014, i Paesi ospiti non dovranno pagare alcuna penale se rinunciano a realizzare il loro padiglione, e se continua così - per i cantieri "preliminari" della Piastra espositiva siamo a quasi due anni di ritardo - alcuni potrebbero rinunciare.
Schiavi, pur con distinguo, continua però a difendere Expo, definisce "rubagalline" gli arrestati, ma basterebbero due collegamenti - il dovere del giornalista è quello della "memoria"- per evidenziare la debolezza di questa lettura. In aiuto, arriva uno scoop di Repubblica, sugli extracosti legati a una gestione "commissariale" ed "emergenziale" degli appalti. L'imbeccata è - oggi - della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire "dove saremmo andati a parare". A meno di non rinunciare a questa mega-macchina mangia soldi, pagando - fino ad aprile 2013 - una penale di poche decine di milioni di euro, irrisoria rispetto allo spreco di denaro pubblico che è già stata e sarà Expo.
Invece, siamo ancora qui, a 11 mesi dall'evento, ad ascoltare senza colpo ferire un ministro in carica parlare di Expo come di una "scommessa". Se è davvero tale, dopo sei anni, è già persa. Avvertite Maurizio Martina.
L'iniziativa "sblocca Italia", coronamento della politica renzusconiana del territorio, è un successo del gruppo di potere "Nimby forum". Il manifesto, 4 giugno 2014
Per un primo ministro sarebbe stato più corretto sotto il profilo istituzionale aprire un confronto con tutte le istituzioni che hanno competenze sul territorio e non solo con i comuni. In questo modo — e per di più in un momento di grave crisi economica — si addita all’opinione pubblica il capro espiatorio: le soprintendenze ai beni ambientali e archeologici, ree di applicare la Costituzione, e la magistratura amministrativa. Si rischia così di disarticolare ulteriormente la struttura dello stato messa a dura prova da vent’anni di tagli e umiliazioni. Nessuna novità. Quando era sindaco, Renzi aveva tuonato contro il soprintendente che si era opposto all’affitto di Ponte Vecchio per una festa della Ferrari: un bene straordinario, patrimonio di tutta la popolazione italiana, utilizzato a fini privati. La festa si era svolta nonostante il parere contrario del soprintendente.
Ma vediamo nel merito le opere che dovrebbero sbloccare l’Italia. Da dieci anni esiste una potentissima lobby che piange quotidianamente sulle sventure dell’Italia bloccata dai veti e ha fatto della guerra al Nimby il proprio motivo di vita. Corriere della Sera, Repubblica e il Sole24ore hanno colto al volo le dichiarazioni di Renzi ed hanno subito rilanciato le statistiche del "Nimby forum". Afferma l’ultimo rapporto che delle 354 opere ferme (in media una ogni 27 comuni, una cifra ridicola) il 63% riguardano contestazioni sul comparto elettrico (centrali di produzione, impianti a biomasse e parchi eolici); il 28% il settore dei rifiuti e solo il 7,6% il settore delle infrastrutture.
Il "Nimby Forum" è sostenuto dai colossi Enel, Edison e Terna che hanno interessi giganteschi nello sbloccare le opere, e da altri attori come il Consorzio Venezia Nuova (quello del Mose) che di recente ha dato elevatissima prova di rispetto della legalità finendo in massa in galera. Questa lobby ha in mente dunque di riempire l’Italia di impianti a biomasse e termovalorizzatori. Mentre l’Europa privilegia la formazione dei giovani e finanzia nuovi lavori basati su tecnologie avanzate, nella riqualificazione e messa in sicurezza dell’ambiente e delle città, noi marciamo spediti con la testa rivolta al passato. Da venti anni saccheggiamo il territorio e l’ambiente ed è lo stesso "Nimby Forum" ad ammetterlo affermando che «i numerosi no alle rinnovabili colpiscono… anche e soprattutto i piccoli impianti i quali si sono moltiplicati anche in virtù del percorso autorizzativo semplificato» e la soluzione proposta è quella di allentare ulteriormente la legalità. Anche qui nessuna meraviglia: l’ultimo rapporto "Nimby Forum" 2012 era stato presentato anche da Corrado Clini che di legalità si intendeva magistralmente, almeno stando alle accuse che lo hanno colpito.
Matteo Renzi con il suo provvedimento tenta di completare lo scellerato disegno del ventennio liberista: non attacca più (per ora almeno) la Magistratura — anche perché tra prescrizioni brevi e cancellazione del reato di falso in bilancio ha ben pochi strumenti per perseguire il malaffare — ma un altro fondamentale potere dello stato, quello delle soprintendenze cancellandone ogni ruolo in totale spregio della Costituzione.
Rigenerazione urbana: «Ex strutture pubbliche recuperate, un museo nel centro commerciale e un quartiere rimesso a nuovo». Linkiesta.it, 2 giugno 2014 (m.p.r.)
Marsiglia è un vivace melting pot etnico e sociale. Basta fare una passeggiata sulla Canebière, la strada che divide in due la città, per accorgersene. Nel 2009 il reddito medio della città era di 16.128 euro, il 24,8% dei cittadini si era fermato all’istruzione media, la disoccupazione aveva raggiunto il 12,8 per cento. Ma le differenze sociali sono evidenti: per cinque arrondissement su 16, i redditi scendono a 10.400 euro, i senza diploma al 36% e i disoccupati al 25 per cento. E il problema sicurezza resta. Solo nel 2012 nella regione sono stati registrati 24 omicidi e in tanti hanno più volte chiesto addirittura l’intervento dell’esercito. Sì, proprio come è accaduto in alcune nostre città, da Napoli a Palermo. Marsiglia non è molto diversa dalle metropoli della nostra penisola.
Al di là della cronaca, la città tenta di rinascere, come in realtà è già avvenuto più volte nella storia di questa metropoli da 860mila abitanti. Ma stavolta lo fa attraverso la riqualificazione urbana e non radendo tutto al suolo. Tanto che nel 2013, anno in cui Marsiglia è stata capitale europea della cultura, il New York Times la indicava come seconda destinazione del mondo da visitare dopo Rio de Janeiro. E in occasione degli europei di calcio del 2016, con lo stadio Vélodrome in fase di rinnovamento, sarà anche una delle principali città a ospitare la competizione.
«Promuovere la rigenerazione dovrebbe essere un cardine della strategia economica nazionale, garantendo la sicurezza e la salute degli italiani, ridisegnando le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sugli spazi pubblici espropriandoli dalle auto per ridarli ai cittadini», ha scritto Leopoldo Freyrie, presidente del consiglio nazionale degli architetti sulla rivista L’architetto. E che di scelte innovative come quelle realizzate a Marsiglia abbiano bisogno pure le nostre città lo sostengono anche gli imprenditori edili dell’Ance, che insieme al Consiglio nazionale degli architetti hanno realizzato un viaggio-studio nella capitale della Provenza. «Un vero e proprio prototipo di rigenerazione urbana a tutto campo», ha scritto Paolo Buzzetti, presidente Ance, «da prendere come esempio anche in casa nostra».
La parola friche identifica proprio gli scarti industriali, da cui il quartiere è ripartito. Non un centro sociale occupato, ma 45mila metri quadri dedicati alla creazione e alla sperimentazione artistica contemporanea con il permesso e sotto la gestione economica della Ville de Marseille. Che non elargisce soldi a pioggia agli artisti, ma affitta gli i atelier a un prezzo medio di 9 euro al metro quadro al mese comprese le spese energetiche, che comunque restano basse, visto che gli spazi sono stati ristrutturati e isolati termicamente. La mano pubblica interviene nei costi della ristrutturazione delle strutture, ma non nella progettazione e nella organizzazione culturale. Quella si autosostiene, altrimenti avanti un altro. «La Friche afferma la cultura come un’“economia” e non come “un’eccezione”», si legge sul sito web. «Per questo la cultura è necessariamente un fattore di sviluppo economico e sociale: economico perché la cultura è un mercato nel quale si può vendere e comprare secondo una logica non produttivistica ma economica. E sociale perché la cultura è uno spazio nel quale vengono poste oggi le questioni essenziali della nostra società».
Cinque piani, settanta atelier, tra teatri, laboratori artistici e musicali, sale d’esposizione, e anche un ristorante e una biblioteca ricavati tramite un intervento architettonico quasi invisibile. «L’architettura più riuscita è quella che sparisce», spiega Matthieu Poitevin, autore del recupero architettonico. Sulla grande terrazza in alto, con una vista panoramica della città, la gente si raggruppa prima di andare a teatro o ad ascoltare un concerto. Gli atelier a un primo colpo d’occhio non si vedono neanche. «È una cosa tipica di Marsiglia», dice Matthieu, «la bellezza resta sempre nascosta». Nella stessa struttura sono stati già avviati i lavori per una scuola di teatro e una scuola materna di quartiere. E alcuni stanno pure pensando di ricavare nella struttura una scuola elementare.
La Friche ormai è diventato un posto alla moda della movida marsigliese. Ogni anno 500mila persone calpestano i corridoi di queste strutture industriali ingombranti e massicce. «Il centro città è per i turisti», dice Matthieu Poitevin, «i margini per i creativi». E tutto intorno il quartiere è rinato. Dal 2004, nell’ambito del progetto Euromediterranée, gli antichi edifici della fabbrica sono stati trasformati e riutilizzati, e oggi ospitano, oltre agli archivi del Mucem (altra struttura strabiliante), un media center, uno studio cinematografico e televisivo. Nel 2005, poi, la piazza Bernard Cadenat, al centro dell’area, è stata completamente rinnovata. Sulla piazza si affacciano numerosi negozi e un mercato giornaliero. All’orizzonte si vedono diverse gru. Laddove tanti avevano abbandonato gli appartamenti, ora il mercato immobiliare sta rinascendo. Così questo spazio schiacciato tra la ferrovia Saint-Charles e le fabbriche sta tornando ad avere valore immobiliare. Dove si concentrava disagio sociale, riparte il tessuto sociale. Non grazie a un centro sociale occupato, come i molti che costellano le città italiane, ma grazie a un polo culturale che fa girare l’economia, fa pagare le tasse e riduce i costi della sicurezza, visto che dopo la rinascita il quartiere è anche diventato più sicuro.
L’Hangar J1, l’arsenale diventato galleria d’arte. Il J1 è un arsenale situato su uno dei due moli del porto di Marsiglia, tra l’Espanade J4 (con le strutture di Rudy Ricciotti, Stefano Boeri e il Fort Saint Jean) e l’ex quartiere industriale La Joliette. L’enorme arsenale ormai dismesso, come uno dei tanti che si possono trovare nelle nostre città portuali, è stato messo a disposizione dei cittadini dalle autorità in occasione di “Marsiglia capitale europea della cultura” del 2013. Riallestito e riprogettato al suo interno, è diventato un luogo di attività e di incontro nel cuore del porto turistico-commerciale. Ogni giorno le grandi navi accostano al fianco di questa struttura, raggiungendo spesso la stessa altezza.Al livello superiore, su una piattaforma coperta di 6mila metri quadri, si trovano uno spazio d’esposizione di 2.500 metri quadri, un atelier con tre gallerie d’esposizione, uno spazio per giovani e uno dedicato a eventi artistici e culturali, un punto d’informazione, una libreria e un bar caffetteria con una magnifica vista sul mare aperto.
Quartiere Centre Nord, dal degrado al lavoro edile. Al confine tra il centro storico di Marsiglia, il vecchio porto e il progetto Euromediterranée, Centre Nord «è la vera Marsiglia», tra negozi di abiti usati, di dolci e di spezie dei tanti immigrati residenti e i calzini stesi alle finestre. Un vecchio quartiere degradato, come ce ne sono tante nei centri storici delle città italiane, con scarsa istruzione e bassi redditi, rimasto per tanti anni ai margini del tessuto urbano.
La zona rientra nell’ambito del programma nazionale di riqualificazione urbana avviato in Francia nel 2003, che a Marsiglia ha coinvolto 14 quartieri con circa 1,1 miliardi di euro di finanziamenti. Il progetto di riqualificazione del Centre Nord è stato finanziato nel 2010 con 137,2 milioni di euro, coinvolgendo 23 partner tra cui lo Stato, l’Agenzia nazionale di riqualificazione urbana (Anru), la Regione, la Provincia, il Comune, Marseille Rénovation Urbaine, la Caisse des dépots, Euromediterranée e l’Ater locale.
La proprietà immobiliare nel quartiere è frammentata e in gran parte privata. Molti edifici sono abbandonati. La riqualificazione urbana, quindi, ha puntato soprattutto nel sostituire gli alloggi degradati con alloggi sociali. Le strutture insalubri vengono espropriate, demolite e costruite, o ristrutturate. Nel frattempo, gli abitanti vengono alloggiati in edifici pubblici. E una volta rinnovati gli appartamenti, ritornano negli edifici di partenza. Il tutto grazie a una serie di incentivi fiscali per i privati che vogliono ristrutturare.
Gli alloggi privati degradati da rinnovare sono in totale 481, 176 gli alloggi sociali già esistenti da ristrutturare. La scommessa è stata anche riportare nel quartiere alcuni servizi pubblici, come l’asilo o l’Università. Il Comune, sui manifesti pubblici, informa e coinvolge i cittadini sui successivi interventi di riqualificazione urbana. Tra un incrocio e l’altro, si vedono i cantieri avviati e quelli già conclusi del progetto Euromediterranée. E ritorna il tema del parcheggio: dove i marsigliesi parcheggiavano le loro auto, al Centre Nord ora sono stati ricavati settanta alloggi.
Ma la rinascita di un quartiere non si ferma agli edifici. E questo a Marsiglia lo sanno. Oltre alle gru, l’Anru al Centre Nord ha portato anche il lavoro: il 5% delle ore lavorate nel quartiere è riservato ai residenti della zona. A beneficiarne, è chiaro, sono anche gli imprenditori edili. Cosa di cui, in Italia, avremmo bisogno, visto che tra il 2006 e il 2013 il valore degli investimenti nelle costruzioni tradizionali si è ridotto del 32 per cento, mentre il peso del dell’attività di recupero dell’esistente è cresciuto di 11 punti percentuali.
Come per l'isola di Poveglia nella Laguna di Venezia, anche a Torino i cittadini si associano per impedire che un bene comune (e pubblico) venga privatizzato e trattato come una merce, Corriere della sera, 31 maggio 2014 (m.p.r.)
Il caso di Torino è emblematico. La Cavallerizza Reale è un grande complesso costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare: un complesso che è protetto da un vincolo, e che fa parte del sistema delle residenze reali sabaude dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro).
Ma non tutti, in città, sono disposti ad accettare una simile sconfitta collettiva. Da sei mesi alcuni cittadini si riuniscono in un percorso partecipativo autoconvocato per decidere il futuro di quel grande spazio storico, e venerdì scorso hanno annunciato tre giorni di occupazione: «Come Assemblea Cavallerizza 14e45 [l'ora a cui è fermo l'orologio del teatro] una risposta la abbiamo, ovvero noi, gli abitanti di questa città. Con questi tre giorni vogliamo cominciare a immaginare un futuro diverso dall’abbandono o dalla svendita. Non possiamo accettare che ancora una volta sotto i nostri occhi avvenga lo spreco del nostro patrimonio senza interpellare nessuno. Vorremmo che la cavallerizza fosse un laboratorio dell’abitare, ovvero uno spazio a partire da cui ripensare I modi in cui viviamo questa città, per riprenderci possibilità di decidere della vita dei nostri territori. La parabola della Cavallerizza è la stessa di tanti siti di valore storico e artistico che vengono lasciati all’incuria più totale finché non subiscono danni strutturali, a quel punto o vengono completamente abbandonati o venduti. Noi soldi per comprare la Cavallerizza non ne abbiamo, ma non ci sembra un motivo valido perché la nostra voce di cittadini resti inascoltata. Sappiamo con certezza che non vogliamo un albergo, un bel ristorante, ma neanche un bel museo in cui costerà caro entrare, sappiamo che vogliamo un luogo che risponda alle esigenze di chi vive la città, non di chi ci specula».
L’occupazione della Cavallerizza ha finalmente aperto una discussione pubblica, ed ha guadagnato solidarietà importanti. Italia Nostra ha detto di condividere gli obiettivi degli occupanti, e ha chiesto al Comune «che vengano tassativamente esclusi usi impropri di carattere speculativo». Mario Martone, direttore del Teatro Stabile, ha dichiarato che «se è un’occupazione fatta con rispetto delle norme di sicurezza, è giusto dialogare con questi ragazzi, è la prima regola della democrazia. Come Stabile, ci è dispiaciuto abbandonare questo luogo». Naturalmente non mancano le preoccupazioni e gli equivoci. In un suo comunicato di sabato scorso, l’Ansa ha scritto che la Cavallerizza è stata occupata da un «collettivo anarchico». In realtà, quei cittadini torinesi non predicano l’anarchia, ma anzi chiedono l’applicazione della Costituzione. E non sono soli. In un suo libro recente (Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli) l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena ha spiegato perché le alienazioni di beni demaniali siano «provvedimenti legislativi di eccezionale gravità, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione»: si tratta – continua il giudice – «di svendite da considerare assolutamente nulle, poiché contrastano con i prevalenti interessi pubblici del popolo italiano».
È allora vitale che i cittadini facciano sentire direttamente la loro voce: la storia italiana dimostra che non è affatto inutile. Se il 18 maggio 1980 – per esempio – duemila siciliani non avessero occupato il cantiere della litoranea che doveva congiungere San Vito lo Capo e Scopello, non sarebbe mai nata la Riserva dello Zingaro, che oggi protegge e fa vivere un luogo meraviglioso e sostiene un’economia diversa da quella fondata sulla speculazione. Uno degli slogan degli occupanti torinesi è «La Cavallerizza è reale». Ebbene, queste parole non dicono solo che quel monumento è tornato nella realtà della vita sociale torinese, ma possono anche significare che ciò che apparteneva ai Savoia – re di Sardegna e poi re d’Italia – ora appartiene al nuovo sovrano: il popolo italiano. È per questo che il vento che soffia da Torino riguarda tutta l’Italia, e apre una battaglia civile, giuridica e culturale che riguarda le implicazioni della sovranità popolare sul governo del territorio, e cioè l’essenza stessa della democrazia. Che, come la Cavallerizza, o è reale o non è.
La costruzione dell'Arzanà dei vinissiani" iniziò mille anni fa. Dante ne scrisse 7 secoli fa nella Commedia. Oggi sembra che abbia inizio la distruzione di un complesso il cui valore culturale non è inferiore a quello del Colosseo romano o dell'Acropoli ateniese, ma forse ancora più importante di quei monumenti per la storia della città e del territorio di cui è parte. La Nuova Venezia, 29 maggio 2014
Mentre sta dando gli ultimi ritocchi al suo piano per le destinazioni d'uso delle varie aree comprese nel complesso dell'Arsenale, il Comune ha convocato per il 30 maggio un "workshop" o seminario di lavoro il cui titolo è "Scenari per il rinnovato uso e la gestione dell'Arsenale di Venezia" (traduco dall'annuncio originale, che è naturalmente in inglese). Al seminario sono invitate una dozzina di organizzazioni internazionali, che dovranno presentare idee e proposte. Ai partecipanti il Comune indica gli scopi ai quali intende mirare e che gli esperti dovranno tenere in mente: i "goals" del seminario.
La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l'Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9% del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all'ultimo posto fra i 27 Paesi dell'Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo In Europa l'Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%).
Intanto altri Paesi, dall'Olanda all'Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre 1'1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l'1 e l'1,5%.Tutt'altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%).Secondo dati del 2013, l'Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via.La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011 ), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d'Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord.
Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l'enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni ( come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva.«Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale - scrive il Rapporto - è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell'ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l'intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania ), e una forte concentrazione nel Centro-Nord.Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18% al Centro, all'8% al Sud percentuale bassissima su una spesa complessiva gia assai ridotta, con effetti devastanti sul gia endemico squilibrio Nord-Sud.
«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici - conclude il Rapporto - ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica».L'analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un'offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze».
Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrativa»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell'ambito di una governance unitaria»; l'accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l'integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest'ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi.
È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d'ogni colore, secondo cui l'Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo ), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene.
È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase ne cessaria per qualsivoglia "valorizzazione" che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti-Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l'investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell'orizzonte dei diritti, della costruzione dell'eguaglianza e della dignità della persona.
Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come "petrolio" d'Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.
Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l'anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire.