Il manifesto, 18 luglio 2014
Il ministro Franceschini è vissuto a Ferrara e conosce ciò che quella meravigliosa città ha saputo costruire: un mirabile equilibrio tra la bellezza urbana e il paesaggio. Lo affermo perché rimasi colpito di una sua dichiarazione nel novembre 2012 in occasione della morte del grande Paolo Ravenna. Sosteneva Franceschini che a lui si doveva molto del rispetto della cultura dei luoghi, dalle mura al parco agricolo che le cinge. A leggere le parti salienti del progetto di riforma del Mibac viene da pensare che siano state quelle parole vane, come sempre più spesso ci abitua una politica che vive di slogan. Ma forse, nessuno poteva aspettarsi – e dunque neppure il ministro - che il Presidente del consiglio avrebbe iniziato a costruire il suo profilo istituzionale proprio riempiendo di contumelie i «professoroni» e attaccando burocrati e Soprintendenze di Stato. Solo dei grigi burocrati come i soprintendenti, appunto, non capiscono che il futuro dell’Italia è nella messa a reddito del nostro petrolio, e cioè lo straordinario patrimonio culturale che ci fa un caso unico nella storia della cultura mondiale. Un atteggiamento culturale che è l’esatto contrario dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sempre per restare a Ferrara, di Giorgio Bassani.
Afferma Francesco Indovina: «Dovevamo controllare i fondi e verificare la Legge speciale. Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?». Di certo non per la collettività. Il Gazzettino, 17 luglio 2014, con postilla
postilla
Le simpatie di Francesco Indovina per il MoSE, come grande occasione per lo sviluppo della città sono note ai veneziani, ma non solo ad essi. Rinviamo in proposito a un suo articolo sul manifesto del novembre 2006,ripreso da eddyburg: Io sto con il Mose, vi spiego perché . E' contenuta nell'ampia cartella da questo sito dedicata a quella Grande opera soggetta a critiche, solo oggi largamente condivise.
Meno note sonole critiche che gli esperti che, come Indovina, lavoravano per il MoSE. Peccato che queste ultime siano rimaste racchiuse nel silenzio degli organismi che lavoravano per il MoSE. Per il MoSE, e soprattutto per quello che del mostro sembra essere stato il maggior promotore, autore, difensore e beneficiario: il Consorzio Venezia Nuova. Sembra oggi che l'unico colpevole del danno provocato dalla vicenda, per molti aspetti ancora oscura, sia del povero ing. Mazzacurati.
A proposito del MoSE, Gianni Belloni e Antonio Vesco provano a di rispondere a una domanda nodale: «quali meccanismi generalizzati accompagnano e facilitano l'estendersi e il radicarsi di condotte generalizzate e sedimentate nell'azione quotidiana di amministratori, imprenditori, politici di un territorio?». Inviato a eddyburg il 15 luglio 2014
«Siamo immersi in un sistema di corruttela troppo strutturato, troppo consolidato, nella pubblica amministrazione e nella magistratura, nella Corte dei conti e nei Tar, fino anche al Consiglio di Stato. Ovunque funziona così. Se vuoi i lavori pubblici, devi fare queste cose. Tant'è che i ricorsi delle gare per gli appalti le vinceva chi pagava di più». Le parole di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan – pronunciate nel corso di un'intervista a Repubblica di poche settimane fa – sottolineano la sistematicità del meccanismo corruttivo, che va analizzato al di là delle responsabilità e delle condotte dei singoli partecipanti.
Claudia Minutillo mette poi in luce un altro aspetto della vicenda: «eravamo convinti che quello fosse l'unico sistema possibile, che non si potesse fare diversamente. Solo quando ci hanno arrestato abbiamo capito la gravità delle nostre azioni». Assistiamo così all'elaborazione di un sistema di credenze grazie alle quali poter neutralizzare il peso morale dei propri atti e che si nutre di uno spirito del tempo: l’attuale spirito del capitalismo che forgia individui pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell’epoca. Individui che non agiscono in uno scenario caotico e disorganizzato, ma piuttosto all'interno di una cornice organizzativa in cui le condotte di ciascun attore sono incardinate entro copioni prefissati e seguono regole codificate (1).
Per non cedere alla tentazione di inquadrare questo sistema come un organismo a sé stante – un blocco monolitico di istanze criminali e tensioni accumulatrici – pensiamo sia utile rintracciare le dinamiche sociali e culturali che hanno facilitato il coinvolgimento dei diversi attori. Ponendoci quindi un'ambiziosa domanda: quali meccanismi generalizzati accompagnano e facilitano l'estendersi e il radicarsi di condotte generalizzate e sedimentate nell'azione quotidiana di amministratori, imprenditori, politici di un territorio? Questa interrogazione, a cui diamo seguito con un primo ed esitante abbozzo, potrebbe rivelarsi utile anche per ricostruire, da queste macerie, convivenze migliori.
Politici
Posto che «lo scambio tra legittimità e consenso, da una parte, ed esercizio dell'autorità, dal lato opposto, costituisce da sempre una costante, pur se occulta e inconfessabile, dell'esperienza politica occidentale» (2), a partire dagli anni settanta i partiti hanno funzionato essenzialmente come società di professionisti della politica che gestiscono agenzie parastatali (3). Dobbiamo tenere presente questo dato (differenziato, naturalmente, tra le diverse esperienze politiche occidentali) per analizzare i sistemi corruttivi che abbiamo di fronte. I partiti con cui abbiamo a che fare appaiono indefiniti e indefinibili, alleanze instabili di filiere di potere, strutturalmente – per la loro fame inesauribile di risorse e per la mancanza di cornici di controllo e di definizione normativa – orientati all'illegalità. Partiti dove si assiste a una «pervasività crescente del denaro» (4), un processo che fa sì che la politica si trasformi di fatto in una attività decisoria di élite. In questo senso non è inutile richiamare l'intreccio tra crescenti diseguaglianze e corruzione: le diseguaglianze dovute all'abnorme concentrazione della ricchezza in poche mani e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate tra loro, costituendo la conseguenza principale e più grave dell'intreccio, ormai inevitabile, fra politica ed economia (5). Un processo che finisce per mutare nella sostanza il meccanismo stesso della rappresentanza, le sue logiche e i suoi codici, provocando una «privatizzazione» delle funzioni politiche6.
Venendo al Veneto, possiamo scorgere delle specificità utili a inquadrare la vicenda che ci si sta squadernando di fronte agli occhi. In questo territorio, la politica ha sempre mantenuto un atteggiamento non interventista nei confronti delle dinamiche economiche e comunitarie. Il vecchio ceto democristiano si è limitato a garantire il mantenimento di un ordine sociale sostenibile. Ora la «rottura del vecchio intreccio tra economia, società e politica» (7) ha destinato quest'ultima al ruolo di semplice strumento di facilitazione degli affari. Così essa diviene un ingrediente tra agli altri, una casacca come un'altra che si può indossare e dismettere – nelle carte dell'inchiesta incontriamo politici che pianificano la loro prossima carriera di affaristi –, dimenticando la missione progettuale del proprio ruolo e mettendosi a disposizione, in funzione subordinata, rispetto agli interessi diretti ed immediati dei suoi suoi interlocutori.
Tecnici
La cooptazione degli organi di sorveglianza (magistrato alle acque, commissione di Valutazione d'impatto ambientale, corte dei conti ecc.) e di repressione (guardia di finanza, servizi segreti, carabinieri) mostrano come oggi la pratica della corruzione (non riferita allo specifico reato, ma intesa in senso lato) permea in modo più strutturale e pericoloso la pubblica amministrazione e comunque richiede nuovi e più raffinati paradigmi di indagine e di lettura.
Se nella tangentopoli degli anni ottanta e novanta i cosiddetti tecnici avevano un ruolo di collegamento e intermediazione tra il sistema delle imprese e quello dei partiti (8), a giudicare dalle vicende emerse dall'inchiesta veneziana, la frantumazione dei partiti ha indotto i tecnici ad assumere il ruolo di protagonisti attivi nel rapporto con il mondo delle imprese. Un rapporto più diretto, garantito da un sistema di convenienze reciproche tra «tecnici» e imprenditori. Una vera e propria alleanza – pensiamo al rapporto tra il Magistrato alle acque e il Consorzio Venezia Nuova – fondata sulla totale assenza di controlli che ha garantito l'impunità nella gestione illegale dei lavori. Attorno all’apparato amministrativo-burocratico regionale è emersa una concentrazione abnorme e anomala di poteri che ha generato talvolta palesi situazioni di conflitto di interessi e di compatibilità di incarichi, portando parallelamente alla subordinazione di organi di alta consulenza tecnico-scientifica al potere politico, come ha documentato l'Osservatorio ambiente e legalità di Venezia nel caso della commissione Via regionale, composta per lo più da politici e da professionisti interessati alle stesse opere che avrebbero dovuto analizzare (9).
Imprenditori
Che tipo di sistema produttivo abbiamo di fronte? Un sistema chiuso e protetto dalle incertezze dei mercati, dalla esasperazione della competitività. Il sistema costruito attorno al Consorzio Venezia Nuova garantiva agli imprenditori una rendita di posizione invidiabile e, in molti casi, vitale, visto che per una quota non trascurabile di imprenditori «gli scambi occulti e gli accordi collusivi finiscono per essere concepiti come un modo per stare sul mercato, se non addirittura l’unico modo per sopravvivere economicamente» (10) (e saltare da una tangentopoli a un'altra, come nel caso di Piergiorgio Baita).
Siamo di fronte a circuiti protetti, a reti di reciprocità all’interno delle quali vengono ammorbidite – dalla logica dei favori e degli scambi occulti – le severe leggi del mercato e della concorrenza. Una regolazione sistematica delle opere pubbliche dà vita a circuiti chiusi dell'economia locale, accessibili soltanto per le imprese in possesso dei requisiti economici e del capitale sociale necessario. In una recente intervista rilasciata a un giornale locale, un imprenditore veneziano dichiarava che sarebbe stato disposto a corrompere qualcuno pur di salvare l'impresa in difficoltà, ma che non sapeva a chi rivolgersi dal momento che i circuiti corruttivi rimanevano accessibili solo a una élite imprenditoriale11. L'economista Stefano Solari descrive questo meccanismo come «compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati». Un compattamento nel quale è difficile «discernere l'attività di malaffare» e in cui si riduce la qualità, ma non la consistenza, del capitale sociale in circolazione.
Di fronte a questa tendenza sistemica suonano particolarmente imbarazzanti (e imbarazzate) le reazioni dei rappresentanti degli imprenditori rispetto alle vicende emerse. Il tentativo è quello di una normalizzazione del dibattito che contribuisca a derubricare gli avvenimenti a pure deviazioni rispetto a un ordinario funzionamento dell'economia e delle procedure. Assieme alla vibrante condanna da parte dei vertici di Confindustria del Veneto, abbiamo assistito alla tendenza a individuare alcuni colpevoli decontestualizzando il loro operato. Abbiamo invece l'impressione che vent'anni di esaltazione del modello imprenditoriale nordestino abbiano in realtà sfibrato il ceto imprenditoriale, disabituandolo a un confronto con la realtà e con punti di vista diversi. I ripetuti ossequi ai meriti dell'impresa da parte di (quasi) tutti i protagonisti del dibattito pubblico a prescindere dai suoi meriti – che ovviamente ci sono stati - hanno reso la stessa rappresentanza delle imprese vulnerabile – anche perché disabituata alle critiche ed assuefatta ad un clima di ideologico conformismo - ed incapace di originali elaborazioni.
Intrecciate alle figure degli imprenditori, emergono infine le gesta di faccendieri e professionisti, che sembrano esercitare un ruolo cruciale nel contesto del capitalismo di relazione. Personaggi-cerniera – pensiamo ai commercialisti nominati nelle società pubbliche – che operano a cavallo tra la politica e l'imprenditoria, acquisendo progressivamente una sempre maggiore importanza, sia a causa della trasformazione del modello aziendale, dove alla capacità di fare impresa si affiancano – o si sostituiscono – quella di connettere e intrecciare informazioni e quella di scambiare obblighi e favori, sia per la perdita di autorevolezza e di assertività della sfera politica, che deve ricorrere a queste figure perché non è più in condizioni di controllare i troppi risvolti del complesso sistema decisionale e amministrativo.
Società civile e università
Gli intrecci criminali che emergono dalle carte dell'inchiesta sono stati intuiti da una combattiva minoranza di attivisti e intellettuali che in questi anni hanno denunciato e combattuto quello che genericamente veniva definito il «sistema Galan». Mentre (quasi) tutti i partiti proponevano uno scenario ineluttabile e indiscutibile in nome del quale le opere divenivano necessarie, comitati e associazioni si sono presi in carico il problema di politicizzare il dibattito risalendo al cuore delle questioni: «quali opere e per quale modello di sviluppo?». Il problema è che non si è mai aperto un luogo di discussione reale che potesse entrare radicalmente nel merito delle scelte e persuadere. Ma se le minoranze che si sono opposte al Mose – così come ad altre opere in odore di cricca − hanno visto riconosciuto il loro punto di vista solo in seguito a un'inchiesta della magistratura, dobbiamo trarre alcune conseguenze rispetto al ruolo possibile, e a quello reale, rivestito dalle minoranze nel nostro sistema politico. Tanto più alla luce dell'indirizzo maggioritario e ispirato alla governabilità che sembra ormai egemone in questo paese.
I No Mose sono stati, a Venezia come altrove nel Veneto, una minoranza. La città in realtà è stata narcotizzata da un effluvio di finanziamenti, giostrati dal Consorzio Venezia Nuova, che hanno riguardato quasi tutti gli ambiti della società. Anche se non tutti condividono le stesse responsabilità, ben pochi possono dirsi del tutto estranei al sistema che ha dominato fino a pochi mesi fa. Una marea di denaro che ha creato sicurezza, ha ammorbidito i toni, offuscato lo sguardo e reso meno stridente la convivenza della città con un «monstrum» politico-imprenditoriale e istituzionale come il Consorzio.
In particolare, quest'ultimo ha dedicato non poche risorse al finanziamento del mondo della cultura e dell'Università. Diversi intellettuali hanno segnalato come questa attenzione abbia sortito i suoi effetti in termini di legittimazione dell'opera (12). E se la massima istituzione pubblica deputata alla formazione e alla ricerca ha mostrato in questi anni una pur minima «apertura» rispetto ai suoi finanziatori, che cosa ci prepara il futuro a fronte di un crescente disimpegno dello Stato, a una legislazione e un'organizzazione didattica e della ricerca che agevola l'intervento dei privati?
Conclusioni
Facendo il verso al vecchio di Treviri, possiamo riprometterci di affrontare seriamente questa farsa, prestandole i toni più consoni della tragedia, dato che chi ha voluto fare politicamente i conti con la tragedia – la tangentopoli anni novanta – si è trovato, non accidentalmente, a buttarla in farsa. Dalle inchieste giudiziarie occorre passare alle inchieste sociali, non già per affollare il banco degli imputati, ma per provare a rintracciare le dimensioni sociali e politiche della corruzione – e quindi della radicale privatizzazione dei beni comuni – e identificare i terreni su cui è possibile (e necessario) agire.
Note
1 Donatella Della Porta, Alberto Vannucci, Mani Impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Laterza, Bari, 2007
2 A. Mastropaolo, Il ceto politico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1993
3 Katz, R. S., P. Mair, 1995, Changing Models of Party Organization and Party Democracy: The Emergence of the Cartel Party, in “Party Politics”, 1, I.
4 Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013
5 Guido Rossi, Corruzione e ineguaglianze minacciano la democrazia, il Sole 24 ore, 15 giugno 2014
6 Rocco Sciarrone, Mafie del nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma, 2014
7 Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino 2013
8 Ivan Cicconi, Project financing e grandi opere. Il nuovo volto della corruzione dopo Tangentopoli, Quaderno n°4, Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Marzo 2014 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
9 Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Ombre e disfunzioni della Commissione Via, Dossier, Luglio 2013 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
10 Rocco Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, 2009
12 Filippomaria Pontani, I mobili argini di Venezia, 4 giugno 2014 in www.ilpost.it
Anche la soprintendenza ai beni culturali avalla l'accordo tra la decaduta giunta Orsoni e il nefasto Ente porto, volto a rafforzare la presenza della Grandi navi nella città antica, ad aprire il varco all'ingresso delle automobili e a ridurre gli spazi pubblici in un settore densamente popolato di Venezia. La NuovaVenezia, 17 luglio 2014
Corriere della Sera Lombardia, 16 luglio 2014
L’Enac ritira il progetto della terza pista di Malpensa, parte integrante del piano di sviluppo futuro dell’aeroporto. A Sarebbe stato lo stesso il presidente della Sea, Pietro Modiano, a prendere la decisione di chiedere una pausa di riflessione. Il gestore aeroportuale rinuncia così all’ampliamento dello scalo, ma — secondo fonti interne alla società — non per sempre. Si tratterebbe veramente di una pausa, per poi ricominciare il percorso da capo. I dati su cui era stato costruito il masterplan, in sostanza, non sono più attuali, dicono in azienda, e la decisione di abbandonarlo è finalizzata anche a riformulare con più calma nuove proposte di sviluppo futuro.
Ora il «dossier sviluppo» è stato preso in mano da Modiano, e nelle intenzioni dei vertici c’è ben chiara l’idea che in futuro sia indispensabile il consenso del territorio. La terza pista e l’intero masterplan, infatti, sono stati oggetto di una forte contestazione in provincia di Varese in questi anni. Nello specifico, il lavoro fatto finora andrà perso ma è stato ritenuto più utile ricominciare da zero, tenendo conto delle mutate condizioni di traffico aereo e di qualità dei veicoli, piuttosto che procedere con continue integrazioni richieste dal ministero dell’ambiente dopo le osservazioni piovute dagli enti locali del territorio.
Del resto, due anni fa la Sea prevedeva di aumentare i passeggeri del 5 per cento annuo. Negli ultimi sei anni è invece c’è stata la «fuga» di Alitalia, il «Dehubbing» e infine la crisi economica che ancora affligge il traffico aeroportuale. Il masterplan, cioè il documento che contiene le previsioni di crescita dell’aeroporto, racchiudeva una gigantesca operazione di strategia industriale. In una relazione tecnica del 2009 gli investimenti previsti erano stimati in 2 miliardi di euro: la sola terza pista aveva un costo preventivato di 237 milioni di euro. E con 847 milioni di euro si prevedeva di allargare il terminal 1 e di costruire un nuovo terminal in mezzo alle attuali piste.
Oggi alla Sea non si esclude che il piano possa essere riproposto in futuro, dal momento che ogni aeroporto dovrebbe avere un proprio masterplan. In realtà è un documento in continua elaborazione dal 2005, quando uno studio dell’istituto Mitre di Washington, specializzato in trasporto aereo, indicò luogo e modalità per lo sviluppo della terza pista e dei servizi collegati. Lo scorso anno il progetto era giunto alla valutazione di impatto ambientale al Ministero dell’ambiente, dopo un sostanziale via libera della Regione Lombardia. Il ministero aveva richiesto alcune integrazioni, ma era stata la stessa Sea nel 2013 a chiedere una sospensiva, intuendo forse che le possibilità di realizzarlo si stavano assottigliando.
Il motivo sta proprio nel mutamento dei numeri di riferimento: quando tutto è partito si sognava un’espansione di Malpensa fino a 50 milioni di passeggeri l’anno, che oggi sono 18,5 milioni annui. Il risultato è che esce dall’agenda l’idea di realizzare una terza pista e viene accantonata anche l’idea di costruire migliaia di metri cubi di capannoni logistici che il masterplan avrebbe previsto a ridosso di Malpensa. L’impatto ambientale rimane ancora da valutare.
Nel frattempo esulta Legambiente, che si augura di poter parlare di «fine di un incubo», accusando Sea di aver voluto «un progetto faraonico per ampliare un’infrastruttura già nata sovradimensionata e disfunzionale».
«Un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e dell'architettura: dalle opere nate per il museo arriviamo al museo nato senza avere le opere. E la direzione è di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi)». Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2014
Certo, la posa della prima pietra non poteva avvenire in un momento più simbolico. Siamo a Mestre e il cantiere è quello dell'M9, che non è un servizio segreto evoluto, ma un enorme Museo del Novecento (9.200 mq, 100 milioni di euro di costo). La ditta vincitrice dell'appalto –forse nessuno si sorprenderà– è la Maltauro, a tutti gli italiani nota grazie allo scandalo dell'Expo.
La cosa singolare è che non si sa bene cosa sarà esposto in questo museo. Né quale e quanto personale scientifico potrà essere assunto. Insomma, più che di un museo si tratta di un grande contenitore. Si tratta di un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e poi anche dell'architettura: dalle opere nate direttamente per il museo siamo arrivati al museo nato senza avere le opere. E la direzione è quella di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi).
È chiaro che il progetto di Mestre vuol essere specie di remake italiano del Guggenheim di Bilbao: una storia di successo che in molti hanno cercato di replicare. Quasi sempre, però, con scarsissimo successo. La fondazione di un museo dovrebbe inserirsi nel progetto che una comunità urbana ha sul proprio futuro: è solo un simile progetto che permette di rileggere il passato. Da noi quasi sempre è il contrario: si fa il mega-museo per coprire il vuoto progettuale e politico. Ma invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non resta lo stesso.
Si avvicina l'inaugurazione di un progetto simbolo della scellerata gestione (si fa per dire) della città, svenduta ai più bassi interessi con la scusa di “modernizzarsi”. Due articoli da la Repubblica e Corriere della Sera locali, postilla (f.b.)
la Repubblica
Piazza Sant’Ambrogio riapre dopo otto anni di polemiche e rinvii
di Alessia Gallione e Oriana Liso
Otto anni fa, nell’agosto del 2006, i primi scavi archeologici. Poco meno di quattro anni fa, nel novembre 2010, l’avvio dei lavori di cantiere: per tanti anni piazza Sant’Ambrogio è stata prima parzialmente e poi del tutto chiusa, per realizzare un parcheggio al centro di tante polemiche e tante battaglie. Da questa mattina, però, chi passa davanti alla Basilica vedrà qualcosa di nuovo: gli operai al lavoro per rimuovere le transenne del cantiere. Entro questa sera, infatti, il novanta per cento della piazza verrà riaperto: bisognerà aspettare fine mese — al più tardi la prima settimana di agosto, assicura il Comune — per vedere il lavoro completato. Con la piazza finalmente aperta e rinnovata e con il parcheggio interrato in attività.
La riapertura di oggi permetterà di vedere la piazza attraverso i due “cannocchiali prospettici”, ovvero i due assi che partono dalla Basilica e dall’ingresso dell’università Cattolica: gli spazi saranno ben diversi dal passato, con alberature, viali lastricati di pietra, panchine. Si vedrà, ovviamente, anche l’accesso al parcheggio, che si sviluppa sottoterra per cinque piani, con 223 posti a rotazione e 347 box per i residenti, per un totale di 570 posteggi. Il costo finale, a carico delle imprese che l’hanno realizzato (ovvero il raggruppamento formato da Borio Mangiarotti, Botta e Garage Velasca) è di circa 18,5 milioni. Fa il conto alla rovescia per la riapertura definitiva, fra meno di un mese, l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «In questi anni abbiamo lavorato con grande attenzione, anche con la Sovrintendenza, per rispondere alle esigenze di qualità e di bellezza imprescindibili per quella piazza. Speriamo che questa restituzione possa far superare le polemiche e i problemi che hanno accompagnato questa vicenda », spiega De Cesaris, proprio riferendosi all’odissea di uno dei parcheggi più contestati del “piano Albertini”, quel lungo elenco di opere in project financing deliberate dall’allora sindaco e, in larga parte, decadute con le giunte successive.
Parlano i numeri: dei 240 progetti immaginati negli anni Novanta, sono già 98 quelli che, ufficialmente, non saranno realizzati: 14 perché la localizzazione è stata ritenuta non idonea (tra questi, via Zecca Vecchia, via Washington, via Lodovico il Moro) e 84 per inadempienza, rinuncia o revoca del pubblico interesse, e qui ci sono i casi più famosi, come piazzale Lavater, via San Barnaba, piazzale Libia, via Bernini, senza considerare il parcheggio simbolo, quello della Darsena, già cancellato dalla precedente giunta. Su altri 5 parcheggi il giudizio è sospeso: gli uffici stanno completando le istruttorie. Non ci sono solo le cancellazioni, ma anche i 10 parcheggi ultimati — co- me piazza XXV Aprile — , quelli con i cantieri in corso, che dovranno concludersi entro Expo (oltre Sant’Ambrogio: Rio de Janeiro, Maffei e Valsesia Est) e gli 8 per cui i lavori inizieranno dopo l’ottobre 2015.
La strategia dell’amministrazione è chiara: privilegiare le localizzazioni fuori dal centro, con posti a rotazione e per residenti. Nei prossimi mesi apriranno tre nuovi indirizzi, per un totale di 1.347 posti auto (più 97 posti moto) per i quali il Comune pensa a forme di abbonamento in chiave anticrisi: 140 in via Pichi-Magolfa, gli altri nei due parking al Portello, per auto e moto, e alla Comasina, dove il parcheggio di interscambio avrà 306 posti. Non nuovi posteggi ma un aumento degli stalli esistenti, invece, è previsto per Famagosta e San Donato: all’inizio del 2015 Atm, dopo il via libera del Comune, potrà affidare i lavori per altri 870 posti.
Corriere della Sera
«Isola verde in Sant’Ambrogio». La piazza riapre dopo otto anni
di A.D.M.
Non è ancora un’inaugurazione vera e propria. Quella si terrà tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sarà pronto anche l’ingresso del parcheggio interrato. Oggi però qualcosa accadrà in piazza Sant’Ambrogio: dopo otto anni di cantiere il 90 per cento dell’area verrà liberata dalle transenne. Sarà «scoperta» la passeggiata che collega la piazza a via Terraggio: un percorso pedonale delimitato da aiuole e alberi (le panchine non ci sono ancora, verranno posate a breve). Via i ponteggi anche dal lato opposto. I box auto, invece, apriranno a fine mese: 570 posti in cinque piani interrati, 223 a rotazione, 347 per i residenti.
Un traguardo che arriva alla fine di un percorso lungo e accidentato: il progetto dei parcheggi risale al 2000. La Procura l’ha messo sotto inchiesta, poi l’ha assolto. Il cantiere per i box è partito nel 2006 con i saggi archeologici effettuati dalla ditta costruttrice, la Borio Mangiarotti. Nel 2010 sono cominciati gli scavi, con consegna prevista entro la fine del 2012. Nel mezzo ci sono state le proteste dei residenti, gli appelli degli storici, la preoccupazione per i reperti paleocristiani nel sottosuolo e le critiche ai parcheggi. La stessa giunta Pisapia aveva annunciato al momento dell’insediamento che non avrebbe mandato avanti il progetto.
«Abbiamo provato in tutti i modi a evitare l’opera, ma la penale per l’interruzione ci sarebbe costata troppo, oltre i 10 milioni di euro — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Quindi abbiamo cercato di concludere in fretta l’intervento, lavorando con la Soprintendenza per garantire la massima tutela storico-artistica della piazza, un luogo dal grande valore culturale e religioso. La giornata di oggi è un piccolo passo importante in vista dell’inaugurazione completa di fine mese. Un momento che dovrebbe essere positivo per tutti, visto che la riqualificazione è il frutto di un lavoro corale». Non la pensano così i residenti: «Siamo felici di liberarci dalle transenne, questo sì — dice Roberto Losito —. I lavori ci hanno tenuti in reclusione per oltre otto anni, creando crepe nei nostri pavimenti e rendendoci la vita impossibile per colpa del rumore. Ma la piazza che vediamo oggi sembra un’autostrada: non si sposa certo con la storia del luogo».
postilla
La cosa tragicomica è che l'ex amministratore di condominio facente ahinoi funzioni di sindaco Gabriele Albertini ribadisce che fosse stato per lui di sforacchiamenti così ce ne sarebbero stati decine, centinaia in più, insomma una bella città “mudern” che neppure nelle più feroci inquadrature di Jacques Tati, con ingegneri e politicanti da macchietta lì ad applaudirsi addosso mentre sostituiscono via via piazzole di sosta a case, parchi, monumenti. In questi anni molta parte dell'opposizione ai progetti di autosilo, specie nella zona più centrale, si è focalizzata su aspetti storici, estetici, di vivibilità, e va benissimo. Esiste però anche un'altra prospettiva, spesso un pochino sorvolata, ed è quella della coerenza rispetto a processi evidentemente in corso. La modernità farlocca pervicacemente inseguita o sbandierata dal centrodestra forse si sposa con quella idea di città automobilistica, di New York anni '20 de noantri, che permeava di sé i piani di epoca fascista e in parte anche il periodo dalla ricostruzione al boom. Oggi crolla il ruolo centrale del veicolo privato a motore, si afferma una idea diversissima di mobilità urbana, e dulcis in fundo tra le tante cose del dibattito sull'Expo è ritornata a galla l'idea per nulla peregrina di scoperchiare la Cerchia dei Navigli. Quel gruviera sforacchiato del Sant'Ambrogio Central Box, con tutte le sue centinaia di piazzole pateticamente vintage, sta all'interno della cerchia, raggiungibile teoricamente solo scavalcando un poetico ponticello: che senso ha? Forse quello di accogliere a braccia aperte la sera i rampolli della Brianza suburbana, intossicati insieme dal mito del Suv e della movida? Anche di questo, bisognerà ricordarsi, a lungo (f.b.)
«È singolare che il Comune e il sindaco uscente abbiano preso posizioni contro il passaggio delle Grandi Navi da San Marcoe poi non abbiano voluto questa mostra che ne documenta l’impatto».Non è tanto strano: tra il dire e il fare c'è una laguna di chiacchiere La Nuova Venezia, 13 luglio 2014 (m.p.r.)
Ora tutti vogliono fare anche a Venezia una mostra con le immagini di Gianni Berengo Gardin dedicata al passaggio «claustrofobico» delle Grandi Navi in laguna, che sono esposte da due giorni nell’esposizione che il Fai ha voluto realizzare a Villa Necchi Campiglio a Milano, presentando anche la nuova campagna del Fondo per l’ambiente Italiano dedicata ai Luoghi del Cuore da segnalare per tutelarli, che include anche il Canale della Giudecca, “segnato” dal passaggio delle navi da crociera. E lo stesso grande fotografo a rivelarlo il giorno dopo l’inaugurazione della sua mostra di cui si è parlato ovunque. «Oggi (ieri ndr) - mi hanno chiamato i rappresentanti di due fondazioni private veneziane, che si sono messe subito a disposizione per realizzare la mostra con le mie foto delle Grandi Navi anche in laguna, ma io ho risposto di no. La mostra a Venezia la voglio fare, ma in uno spazio pubblico, proprio perché il problema del passaggio delle navi da crociera e il loro impatto sulla città è un problema di tutti».
Alessandro Capponi intervista l'assessore Giovanni Caudo sulla spinosa vicenda dello stadio a Tor di Valle. I "paletti" del Comune alla scelta obbligata da una sciagurata legge nazionale. La Repubblica, ed. Roma 13 luglio 2014
«La penso come il presidente dell’associazione dei costruttori: non sono loro i poteri forti». L’assessore all’Urbanistica, Giovanni Caudo, sta parlando di quanto fatto «in un anno per tutti gli operatori del settore, piccoli e grandi, senza guardare in faccia nessuno»: la polemica è ormai quotidiana - con tutto ciò che sta accadendo tra lo stadio della Roma, Parnasi, Caltagirone - e di certo le ultimissime puntate dello scontro racchiudono il curioso record di aver messo d’accordo l’editore del Messaggero e Legambiente, «un miracolo dei tempi moderni» come scritto da Stefano Menichini su Europa, in un editoriale dal titolo perfetto per spiegare ciò che sta accadendo con lo stadio della Roma: «Una partita di potere».
Assessore, buongiorno. Ma quindi farete lo stadio a Tor di Valle così come si legge in questi giorni? Così senza metropolitana e con 220 milioni di compensazioni?
«Due premesse. La prima: qualsiasi proposta è soggetta a modifiche e quindi anche questa. La seconda: io lo chiamerei lo stadio della trasparenza, visto che il dibattito a tratti polemico al quale lei faceva riferimento l’ho voluto io perché tutti i documenti sono nella Casa della Città, un luogo tra Garbatella e Ostiense nel quale tutti i romani possono visionare questo e altri importanti progetti. Tutto aperto ai cittadini, altro segno di discontinuità col passato».
Intanto, con il progetto dello stadio, questa amministrazione ha fatto ritrovare sulle stesse posizioni Legambiente e Francesco Gaetano Caltagirone...
«Anche questo è un esito dell’operazione “Lo stadio della trasparenza”, siamo interessati a raccogliere tutte le opinioni e le osservazioni. Ricordo poi che il 3 agosto dello scorso anno, appena insediati, abbiamo cancellato 23 milioni e 610 mila metri quadrati di aree potenzialmente edificabili ma alla notizia non è stato dato il benché minimo risalto... In più di un anno non abbiamo fatto un atto che cancellasse anche solo un metro quadrato di aree agricole, niente, e invece abbiamo liberato 9.500 ettari di città malamente costruita che saranno rigenerati, e si badi che quello della rigenerazione è l’unico settore dell’investimento edilizio in crescita...».
Poi si lamenta se i costruttori la attaccano...
«Tutti a Roma devono poter lavorare. Ma abbiamo anche fatto in modo che tutti i costruttori dessero seguito agli obblighi firmati sulle convenzioni, in modo da costruire parchi o scuole o strade a seconda dei casi, ed è evidente che il privato ha fin qui sfruttato la disattenzione dell’amministrazione nel passato... Dico di più: una delibera consentiva a Porte di Roma di cambiare cubatura per il 30 per cento del totale, l’abbiamo portata al 18; in questo caso riguardava il costruttore Parnasi, mentre a Grottaperfetta abbiamo difeso le regole anche se scontentavamo i comitati... È necessario far rispettare le regole: per tornare alla richiesta avanzata ai costruttori di dare seguito agli impegni presi, si sappia che abbiamo pezzi di quartieri che non sono nel contratto di servizio Ama, strade mai completate...».
Riferimenti
Sulla legge che "liberalizza" gli stadi 8e i numerosi annessi e connessi) vedi su eddyburg l'articolo di Paolo Baldeschi, La legge sugli stadi in un paese normale
i terreni sono privati. Inviato l'11 luglio 2014.
Un villaggio neolitico. Una fattoria romana. Un quartiere medievale. Il casino di caccia di Federico II. Accanto, una masseria settecentesca e forse più antica. Periferia di Foggia, tra la superstrada per Candela e via di san Lorenzo. Dalla sterpaglia ecco i ruderi della Masseria Pantano, poco lontano il tratturo Foggia-Ordona-Lavello, così trascurato che il cartello che racconta uno dei percorsi della transumanza è stato cancellato dal sole.
E' il minore degli scandali. Lo scandalo vero è l'avanzata a tenaglia dell'edificazione di questa grande fetta di territorio, così importante per la città di Foggia, così abbandonata. Com'è possibile?
Federico II, convogliando le acque di un torrente vicino, aveva costruito qui un invaso – ancora visibile – a servizio del suo casino di caccia insieme al vivarium e ai padiglioni mobili. Qui ospitava amici e legazioni straniere, qui andava a caccia: al posto dei prati c'erano boschi ricchi di acqua e animali, altri ne aveva naturalizzati il re. Studi e scavi sono ancora da completare.
Poco più in là la Masseria reale, o Masseria Pantano, dal nome del luogo, san Lorenzo in Pantano. Un grande edificio rurale a volte, di cui restano vasti ambienti e si intravedono i piani sottostanti. Volte e archi abbracciati da fichi e rampicanti, semi sepolti da enormi cumuli di macerie, quasi fosse una discarica per calcinacci e scarti di mattonelle. Quasi come tutti i costruttori di Foggia si fossero dati di gomito: andate lì, per scaricare materiali inerti non si paga, in discarica sì. A difendere le mura, una rete da polli abbattuta in più parti, forse dai camion dei cantieri. Poco segnalata persino la “fossa granaria”, un pericolo per chi ci cadesse dentro.
Perché? Il luogo non è ignoto. L'università di Foggia lo ha studiato, il Fai ha fatto più di un'iniziativa per riportarlo in uno stato decente, convegni, manifestazioni, istanze al sindaco. Invano. Hanno ottenuto dal Comune un'ordinanza di messa in sicurezza che vale meno della carta su cui è stata scritta, e infatti.
La questione è che quei terreni sono privati – possibile che nessuno, in Soprintendenza o in Comune o in Regione, abbia pensato all'esproprio: è un bene culturale una zona così ricca, o no? – e che probabilmente i proprietari abbiano presentato proposte di edificazione. Già preesistenze neolitiche sono state conglobate negli scantinati di alcuni dei palazzi in costruzioni, le cui gru stringono d'assedio la Masseria Pantano.
Impossibile verificare le voci: sta di fatto che quando si chiede di chi sono quelle aree, molti cambiano discorso e distolgono lo sguardo. Persone potenti, certo. Tanto da cancellare un gran pezzo di storia di Foggia? Pensate: Federico II trasferì a Foggia la capitale del Regno delle Sicilie, prima a Palermo. Innamorato di questa città e conscio della sua posizione strategica, vi costruì un palazzo imperiale di cui poco resta, se non il portale accanto al Museo Civico. Ancor più importante, dunque, la testimonianza di pietra di Masseria Pantano.
Invece no. Invece la valanga di calcinacci fin dentro la Masseria. Invece una rovina forse accelerata dalla mano umana, vandalizzata, così che quel “dente cariato” sia cancellato più presto dall'orizzonte. C'è chi, invitato a un laboratorio urbanistico, assicura che in comune si prevede sia cementificata tutta l'area e che i cittadini sarebbero stati convocati per chieder loro qualche compensazione vogliano, una pista ciclabile o l'area giochi per bambini.
Intanto le gru avanzano, a tenaglia. Da un lato la superstrada, dagli altri i cantieri dei palazzi di speculazione. Non c'è una piazza, non c'è un ritrovo, l'unico luogo “sociale” è il centro commerciale. Negli edifici già costruiti, poche le case occupate davvero, ma si va avanti, le betoniere macinano cemento, i camion marciano, le gru s'affannano. La Masseria Pantano, la sua storia, la sua ricchezza di testimonianze non è che un trascurabile inciampo nella gloriosa edificazione di una brutta periferia in una città che sceglie di essere sempre più brutta. E perde se stessa.
Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, blog"Città e Città"
Evoluzione quasi naturale delle politiche su una mobilità meno legata all'auto privata, il nuovo limite di velocità manca però di una indispensabile chiara idea spaziale di riferimento. La Repubblica Milano, 13 luglio 2014, postilla (f.b.)
É il provvedimento con l’impatto più forte sulla mobilità di Milano, dopo Area C: Palazzo Marino vara il progetto di trasformare tutte le strade all’interno della Cerchia dei Navigli in un’unica “Zona 30” in cui, quindi, le auto dovranno viaggiare a bassissima velocità. L’ordinanza è stata firmata venerdì e disegna il percorso che arriverà a completa attuazione entro l’inaugurazione di Expo, anche se una prima partenza è fissata già a inizio 2015. È tanto il lavoro da fare: bisogna far realizzare e sistemare tutti i cartelli che andranno posizionati all’inizio delle vie lungo l’intera Cerchia per segnalare agli automobilisti l’obbligo di rallentare.
Spiega l’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran che «con questo passaggio il centro diventa a tutti gli effetti una zona a pedonalità privilegiata, sull’esempio di altre metropoli europee». Tradotto, più spazio a chi lo percorre a piedi, in bici o con i mezzi pubblici, scoprendone i suoi tesori artistici e archeologici, spingendo (metaforicamente) sull’acceleratore di un percorso già iniziato con la congestion charge, le isole pedonali, le piste ciclabili. L’obiettivo è anche quello di ridurre il rumore e il pericolo incidenti, come si è visto nelle città in cui i limiti di velocità in centro sono già realtà da tempo.
La filosofia è contenuta lì, in quelle due pagine di ordinanza che l’assessore ha firmato tre giorni fa a nome del sindaco. E che fa nascere la nuova “Zona a velocità limitata”. Perché la circonferenza della Cerchia dei Navigli abbraccia pezzi di città «di pregio dal punto di vista artistico, storico e urbanistico», si legge, da vivere ancora di più a piedi o in bicicletta: da Sant’Ambrogio con il reticolo di vie della Milano romana a Brera, dal «polo attrattivo di fama mondiale» rappresentato dal Quadrilatero della Moda a Corso Venezia che corre costeggiando i giardini, fino ai raggi — corso di Porta Ticinese, corso di Porta Romana, corso Italia, corso di Porta Vittoria — che puntano verso il Duomo, «dove la componente di mobilità pedonale risulta preponderante rispetto alle altre», cita il documento. Un altro strumento che Palazzo Marino ha scelto «per aumentare la vivibilità » e che si affianca alle chiusure vere e proprie ai motori, come l’ultima isola pedonale di piazza Castello. «Questa ordinanza — spiega Maran — certifica quello che sta già avvenendo con i progetti della “Milano Romana” ad esempio, o gli interventi per le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi in corso Venezia, e che sarà ancora più evidente durante i sei mesi di Expo: il centro storico è sempre più pedonale ». Non solo centro, però. Il piano complessivo di Palazzo Marino, infatti, prevede che sempre più porzioni di città diventino “Zone 30”. «In questi giorni stanno finendo i la- vori in via Caterina da Forlì e presto partiranno quelli in via Melzo. L’idea è di aprire un cantiere in ogni quartiere», continua Maran. Seguendo una mappa da disegnare negli anni che va dall’Isola a via Washington.
L’ordinanza sul centro storico, dopo gli studi e i progetti accarezzati anche nel piano del traffico approvato l’anno scorso, ora fa scattare la fase operativa. La macchina del Comune può mettersi in moto per organizzare la rivoluzione (dolce) per la mobilità. L’obiettivo, sull’esempio di altre metropoli europee è ridurre la velocità delle auto, il numero e la pericolosità degli incidenti, il rumore. Secondo i dati del Comune, ad esempio, con questo modello a Londra c’è stato un calo degli incidenti del 40 per cento; in Germania la norma è partita dal 1980 e, ormai, le stime dicono che il 70 per cento della popolazione delle grandi città vive in “Zona 30”. Inizialmente, Palazzo Marino aveva ipotizzato di far partire la sua rivoluzione in un’area ancora più vasta, ovvero farla coincidere con la Cerchia dei Bastioni per irrobustire gli effetti della congestion charge.
«Ma in questo momento — è la spiegazione dell’assessore — ci sembra che quelli dei Navigli siano i confini migliori perché sono già quelli di una sorta di Zona 30 naturale». Cosa succederà quando saranno montati i cartelli? In tutte le vie all’interno della Cerchia le auto dovranno viaggiare a 30 chilometri all’ora. Lungo la circonvallazione più piccola non cambierà il limite, così come non saranno modificate le strade già oggi pedonali o riservate a bus e tram. L’ordinanza prevede anche sanzioni: «L’inosservanza è punita ai sensi del combinato disposto de- gli articoli 7 e 142 del vigente Codice della strada», si scrive nel documento. «Ma non ci saranno telecamere o autovelox per dare multe — dice già oggi Maran — . Questo non è un provvedimento per fare cassa, ma per dare una visione di progressiva pedonalizzazione del centro, per responsabilizzare chi si muove in macchina a rispettare chi si muove a piedi. Servirà anche agli stessi progettisti del Comune come un impegno a intervenire in quest’ottica ogni volta che sarà rivisto un incrocio o ridisegnata la viabilità».
postilla
Pare davvero logico, intelligente, consequenziale, che il primo grande spazio in cui applicare quella che a New York e altrove chiamano Visione Zero, ovvero la massima sicurezza stradale garantita dal limite dei 30kmh, sia il nucleo più centrale di Milano. In fondo non stiamo neppure parlando di chissà cosa, al netto della ipersensibilità dei pochi che considerano questa fettina urbana “la città”, se pensiamo che non si chiude un bel nulla, ma semplicemente si riduce di qualche punto percentuale il pessimo vizio di schiacciare troppo l'acceleratore. Non si costruisce neppure un tappo alla circolazione, visto che le auto continueranno a entrare e uscire, solo un po' più lente, e neppure tanto. Ma rispetto a New York e alle altre grandi città della Visione Zero, le lacune (superabili) del piano milanese traspaiono se necessario dal fatto che si senta solo ed esclusivamente la voce del pimpante assessorino a ambiente e mobilità, solo lui. Così come successo in occasione delle Isole Digitali, o del progetto attorno al Castello, pare che tutto ruoti attorno a un'idea sola, mentre invece non è affatto così: che si dice ad esempio dell'indispensabile adattamento spaziale delle carreggiate, degli attraversamenti, dei nodi? Le amministrazioni delle città del mondo pubblicano addirittura dei manuali divulgativi, con tanto di nomignoli per il nuovo tipo di innesto a L con scivolo e aiuola, dove l'auto può curvare e il passeggino attraversare in comodità e sicurezza. Noi niente, solo cartelli, vigili e multe, perché “non è di mia competenza”? (f.b.)
Le istituzioni asservite ai grandi gruppi economici adoperano la vecchia arma di tutte le dittature, la censura, per non far conoscere la verità agli abitanti e ai visitatori della città saccheggiata. «Volevo esporle in una sede pubblica, nessuna risposta. Così il lavoro di Berengo Gardin è ora a Milano, grazie al Fai». La Nuova Venezia, 12 luglio 2014
Una selezione da 300 scatti fatti quando «entrano a catturare la loro preda» Il Canale della Giudecca Luogo del Cuore Il Fai a fianco di Gianni Berengo Gardin e contro i “mostri” della laguna.
Pare davvero surreale che proprio nei giorni in cui la padania va sott'acqua esattamente per gli eccessi dell'urbanizzazione speculativa a vanvera, il partito dei palazzinari non arretri di un millimetro. La Repubblica Milano, 10 luglio 2014 (f.b.)
Forza Italia e Ncd pronti a stravolgere la legge sul consumo del suolo dell’assessore Viviana Beccalossi. Norme non più retroattive e vincoli solo sui terreni agricoli. Tre anni di tempo per comuni e costruttori per adattarsi alle nuove regole e approvare i progetti attuativi. Una vittoria per il partito dei costruttori. Dopo la nuova legge sui boschi, che aumenta il periodo di tempo in cui è possibile abbattere gli alberi sia in montagna che in pianura senza autorizzazione e il pagamento di compensazioni, il centrodestra che governa la Lombardia è pronto ad abolire le restrizioni previste dal progetto di legge sul consumo del suolo dell’assessore regionale all’Urbanistica e al Territorio Viviana Beccalossi di Fratelli d’Italia approvato dalla giunta lo scorso febbraio. Ora in stallo, ancora in attesa del voto del Consiglio regionale dopo il no di Forza Italia e Nuovo centrodestra a un testo ritenuto eccessivamente penalizzante per la categoria dei costruttori. Dopo una serie di rinvii, un vertice di maggioranza con il governatore Roberto Maroni e una riunione del tavolo di lavoro ristretta solo ai partiti della maggioranza la scorsa settimana, torna riunirsi oggi il tavolo allargato anche agli esponenti dell’opposizione.
Il compromesso proposto da forzisti e alfaniani agli alleati prevede la non retroattività della legge. L’eliminazione dei limiti volumetrici previsti dal testo della giunta per sostituirli con «criteri» per definire di volta in volta il concetto consumo del suolo. Inoltre, i comuni avranno fino a tre anni di tempo per adeguarsi alle nuove regole. Adeguandosi al nuovo piano regionale. Lo stesso limite di tempo concesso ai costruttori per verificare l’attualità dei progetti per le aree di espansione lottizzate a destinazione residenziale e produttiva dove tutto resterà come prima. Il vincolo dello stop al consumo del suolo, di fatto, si applicherà solo ai terreni agricoli. Mentre tutti i progetti già approvati relativi ai centri urbani saranno considerati diritti acquisiti. Novità che di fatto smantellano la rivoluzione promessa dall’assessore Beccalossi, quando aveva illustrato la legge in giunta. Un testo poi rimasto nel cassetto a causa delle divisioni interne nella maggioranza. A cominciare da Forza Italia, preoccupata, secondo alcuni maligni, di non irritare troppo la lobby dei costruttori e in particolare Paolo Berlusconi, fratello di Silvio. Tanto che il provvedimento era stato messo in calendario per la scorsa seduta del Consiglio regionale di martedì, per poi essere rinviato alla prossima del 15. Anche se ormai con ogni probabilità il voto finale slitterà a dopo l’estate. Negli scorsi giorni, però, Ncd e Forza Italia avrebbero incontrato sia Maroni che l’assessore Beccalossi proponendo una mediazione. Il tavolo di lavoro oggi dirà se la quadra è stata trovata realmente. Il capogruppo di Forza Italia Claudio Pedrazzini è fiducioso.
Nel frattempo, l’opposizione di centrosinistra alza il tiro. Il presidente del tavolo di lavoro Agostino Alloni del Pd ha già minacciato di dimettersi se oggi non arriverà un testo. Il movimento Cinque stelle, al contrario, fa sapere che resterà. «Sul consumo del suolo basta melina — dichiara il grillino Gianmarco Corbetta — l’esondazione del Seveso è solo l’ultimo esempio dei danni ai quali ha portato la totale anarchia nella cementificazione in Lombardia».
«L’intenzione di Fersuoch è dimostrare che non esiste un’opera buona, il Mose, inquinata dalla corruzione. È il Mose in sé un’opera che non si sa se funzionerà, persino dannosa, bocciata fin dal 1998». La Repubblica, 8 luglio 2014
Nel 2013 sono state 156 le volte in cui le maree, a Venezia, hanno superato di 80 centimetri il livello medio. Dato che le paratoie del Mose si innalzano a quota 110 centimetri, bloccando l’accesso in laguna, per 156 giorni, nel 2013, una parte di Venezia sarebbe stata invasa dall’acqua anche con il Mose. Una parte piccola, ma pur sempre piazza San Marco. È uno dei paradossi denunciati da scienziati, ingegneri, strutturisti e dalle associazioni ambientaliste impegnati da anni, inascoltati, nell’opposizione al Mose, che ora si vorrebbe portare comunque a compimento, nonostante si sia scoperto quanto fosse spinto nel suo cammino dalle tangenti.
Obiezioni, studi, cifre, raffronti internazionali sono raccolti da Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra veneziana, in un agile, ma documentato libretto
A bocca chiusa. Sipario sul Mose (Corte del Fontego editore). L’intenzione di Fersuoch è dimostrare che non esiste un’opera buona, il Mose, inquinata dalla corruzione. È il Mose in sé un’opera che non si sa se funzionerà, persino dannosa, bocciata fin dal 1998 dalla commissione per la Valutazione d’impatto ambientale, mai smentita da un altro organismo scientifico, affidata in regime di monopolio al Consorzio Venezia Nuova, che badava a tutto, ai progetti, all’esecuzione, e poi, come sta accertando la Procura, all’acquiescenza di tecnici e accademici di varie discipline e alla corruzione di politici, amministratori e funzionari pubblici.
Le criticità addebitate al Mose iniziano dallo sconvolgimento dell’equilibrio lagunare, della dinamica dei flussi e dei riflussi di maree, vitale per l’esistenzadel bacino e per il benessere di Venezia. D’altronde del Mose non è mai stato elaborato un progetto esecutivo, ma solo il preliminare e il definitivo. Le barriere alle bocche di porto, stando alla legge, sarebbero dovute essere realizzate solo dopo altri interventi, che invece non sono mai stati compiuti. Fin dal 1994 si è denunciato il rischio che le paratoie (78 nelle tre bocche di porto, Lido, Malamocco e Chioggia), una volta sollevate e sollecitate dalla marea, oscillassero e lasciassero dei varchi dai quali l’acqua sarebbe passata. Il Mose, quindi, non garantiva una chiusura ermetica.
E ancora: le cerniere che tengono agganciate le paratoie ai cassoni di calcestruzzo (manufatti alti quanto un palazzo di dieci piani), per decisione del Magistrato alle acque, sono saldate e non fuse, come prevedeva il progetto originario. Ma chi in quella struttura sollevò dubbi sui costi e sulla manutenzione fu rimosso da Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato alle acque, ora agli arresti.
E poi le cerniere sono così costose perché le paratoie si alzano andando contro la corrente. Nel 2005 Vincenzo Di Tella, ingegnere idraulico, dimostrò che si sarebbe potuto invertire il senso delle paratoie, alzandole assecondando la corrente, con un risparmio enorme. Ma la sua soluzione fu bocciata. Da chi? Dal Consorzio e dal Magistrato alle acque. Il libro inanella i passaggi che hanno accompagnato il Mose. E segnala tanti giudizi negativi rimasti senza conseguenze. Come quello di Antonio Mezzera, giudice della Corte dei Conti: la cui relazione, ha accertato la Procura, venne modificata su pressioni del
"A bocca chiusa. Sipario sul Mose", di Lidia Fersuoch ( Corte del Fontego editore, pagg. 36, euro 3)
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A furia di pensare i flussi di mobilità in modo meccanico e sconnesso rispetto alla qualità degli spazi, dei soggetti, dei comportamenti, si combinano un sacco di evitabili guai. Due aspetti diversi da due articoli di Ivan Berni ( la Repubblica) e Marta Ghezzi (Corriere della Sera Milano), 6 luglio 2014 (f.b.)
la Repubblica
CHE AVVENTURA RISPETTARE I LIMITI
di Ivan Berni
Fra le notizie, diciamo così minori, delle ultime settimane mi ha particolarmente colpito quella del numero delle multe per eccesso di velocità «prodotte» dai nuovi sette autovelox installati da Comune e Prefettura lo scorso 10 marzo. Sono 9000 infrazioni al giorno, di cui 4349 inflitte ai trasgressori del limiti sul Cavalcavia Ghisallo. Per chi non lo sapesse, il cavalcavia Ghisallo è il grande raccordo che porta alle autostrade dei Laghi e alla Milano Venezia. Siccome sono fra chi percorre, un paio di volte al mese, quel raccordo — e dato che mi è quasi certamente capitato, senza accorgermene, di violare i limiti — mi sono impegnato in una prova di autodisciplina: rispettare rigorosamente la segnaletica, senza sgarrare di un solo chilometro rispetto alle indicazioni. Sono sopravvissuto, ma ho corso il rischio di essere travolto da un paio di camion, da una decina di furgoni e da un numero incalcolabile di auto. Nessuno andava piano come me. Sono stato sorpassato da sinistra e da destra — e strombazzato — da camioncini carichi di macerie, compattatori dell’Amsa, una Panda con quattro suore e persino da un carro funebre. La quantità di contumelie, insulti, esibizioni di dito medio e vaffa assortiti la lascio, facilmente, immaginare a chi legge.
È stata una pessima e pericolosa avventura perché chi ha posizionato gli autovelox — segnalati, è vero, da appositi (ma piccoli) cartelli — se ne è allegramente sbattuto di «armonizzare » la segnaletica verticale (sui pali) e orizzontale (sulla strada). Sicché imboccando viale De Gasperi, che precede l’inizio del Cavalcavia Ghisallo vero e proprio, i cartelli indicano un limite di 50 all’ora, mentre sulla carreggiata è dipinto un limite di 70 chilometri orari. Quando inizia la rampa ecco apparire i cartelli con i 70 all’ora, ma un centinaio di metri più avanti — mentre le corsie disponibili per senso di marcia sono quattro, come in una highway di Los Angeles — ecco ricomparire nuovamente un limite di 50 all’ora. Poco dopo si torna a 70, ma è un’illusione che dura un attimo, perché in corrispondenza di una immissione da destra tornano in vigore i 50. La tortura dura all’incirca tre chilometri e l’automobilista ligio alle regole ne esce con una doppia convinzione: non ripetere mai più l’esperienza per non subire un tamponamento rovinoso e che anche a Milano i limiti di velocità, come più in generale le regole in Italia, funzionano, per così dire, a la carte. A seconda della convenienza di chi li impone. Non sappiamo, infatti, quante delle 4349 infrazioni quotidiane registrate sul «Ghisallo » vengano realmente perseguite. Sappiamo, però, che chi si propone di non violare le regole lo fa a suo rischio e pericolo.
Per uscirne basterebbe stabilire un limite unico — i 70 all’ora citati dagli assessori al momento della messa in servizio degli autovelox, (ma perché non i 90 all’ora di qualsiasi strada provinciale a due corsie?) — togliere la segnaletica verticale contraddittoria e, magari, mettere un pannello a segnaletica variabile all’imbocco del cavalcavia con una indicazione chiara. E a quel punto punire severamente chi sgarra. Gli automobilisti ligi, ma anche quelli discoli, ringrazierebbero. E comincerebbero a pensare che i limiti di velocità, nelle strade urbane di grande scorrimento, non sono un trucco per far cassa. Ma sono un provvedimento sensato, che serve alla sicurezza di tutti.
Corriere della Sera
UNA CITTà A MISURA DI TUTTI
di Marta Ghezzi
I conti sono stati fatti partendo da dati concreti. Nelle ultime edizioni di Expo i visitatori con disabilità erano 800 mila. La differenza, questa volta, la farà la crisi. Ma secondo le associazioni di settore, «Nutrire il Pianeta, Energia per la vita» attirerà il prossimo anno almeno 300 mila disabili. All’inizio di Expo mancano 300 giorni. Pochi per mappare l’accessibilità del capoluogo lombardo, sufficienti per testare una decina di percorsi «sensibili». Itinerari ad alto tasso di interesse artistico-culturale, arterie dello shopping, zona del nuovo skyline che devono dimostrarsi friendly con chi ha mobilità o vista ridotta.
In un pomeriggio di sole, Marco Rasconi, presidente Ledha, ne verifica uno. E mentre da piazza Duomo si avvia verso la Loggia dei Mercanti, lancia subito una proposta. «Quando c’è carenza di risorse bisogna mettere in campo tutte quelle disponibili — dice —. La mappatura è un’operazione complessa, che richiede tempo ed energie: perché non coinvolgere Università e scuole superiori? Sarebbe anche un modo indiretto per creare cultura sulla disabilità». Parla e intanto le ruote della carrozzina faticano sul pavé. «È un problema, ovviabile asfaltando o rendendo piani i soli attraversamenti pedonali».
Lungo i marciapiedi del centro gli scivoli sono onnipresenti (anche se di frequente occupati da mezzi con le quattro frecce accese), e il percorso non risulta difficile. Il problema sono i negozi: un gradino di 3-4 centimetri è sempre presente, spesso anche più alto. «Un brutto biglietto da visita, a pochi passi dal Duomo», riflette Rasconi. È solo cattiva volontà: basterebbero piccole pedane». Poca sensibilità e zero spirito pratico. Mohamed Baidi, studente di Economia in Cattolica, ferma la carrozzina davanti all’insegna di una toilette per disabili di un bar. «Ma come la raggiungo se è in fondo a una rampa di scale?», osserva divertito. Abituato a girare sui mezzi pubblici, aspetta un tram con pedana estraibile. Salita perfetta, discesa rocambolesca: il pulsante per l’autista è rotto, bisogna affidarsi agli altri passeggeri, rischiando di non scendere in tempo. «Sono abituato — commenta — abito a Qt8, ma la prima fermata di metrò accessibile è Amendola, la distanza la copro in carrozzina».
Anche l’Unione Italiana Ciechi ha risposto all’appello del Comune sulla mappatura. Franco Lisi, referente Commissione Autonomia Lombardia, e Francesco Cusati, delegato Tavolo tecnico Expo, affrontano il percorso da via Vivaio ai Giardini di Porta Venezia. Si muovono rapidi, evitando angoli e ostacoli. «Non sarà così per chi viene per la prima volta», chiariscono. La riflessione davanti alle strisce pedonali di via Cappuccini. Un punto pericoloso: la curva del marciapiede, non in asse con le strisce, invita a una discesa sbagliata. «Gli attraversamenti sono la criticità: dovrebbero essere sempre indicati con l’apposito codice tattile a terra, in colore contrastante per gli ipovedenti», rilevano. Stesso problema per il semaforo. In corso di Porta Venezia mancano guide tattili a terra: affidarsi all’intuito? Fermare un passante? «Si pensa che il dispositivo sonoro risolva tutto, ma per attivare il pulsante di chiamata devo prima raggiungere il semaforo». Intanto fioriere, cartelli pubblicitari, moto, costringono chi cammina con il bastone a uno zig zag continuo e improvviso. Nuovo pericolo a pochi passi dall’ingresso del parco.
C’è la ciclabile, ma come scoprirlo? «Le bici sono mezzi silenziosi e veloci: è fondamentale segnalarne il passaggio». Nello stesso momento, Guido Marchetto e Paolo Parimbelli testano l’accessibilità nella nuova zona di Porta Garibaldi. E provano a individuare la fermata di un mezzo pubblico. Impossibile, senza un aiuto. «Basterebbe poco: guide a terra e segnalazione sonora, come all’estero», dicono. Expo è oramai dietro l’angolo, ma potrebbe essere il punto di partenza.
Il 25 giugno scorso si è svolta a Venezia, Forte Marghera, un’assemblea organizzata dal coordinamento veneziano della lista “L’altra Europa con Tsipras”. Pubblichiamo la relazione di Edoardo Salzano e l’intervento di Mattia Donadel. In calce i link ad altri documenti presentati da Armando Danella
MoSE, IL CAVALLO DI TROIA
PER IL SACCHEGGIO DEL VENETO
intervento di Mattia Donadel
Si dice spesso dei Veneziani che, a torto o a ragione, si ritengano un po’ troppo al centro dell’attenzione. Ma nel caso del terremoto causato dall’inchiesta “MOSE”, non vi è dubbio che l’epicentro sia collocato proprio a Venezia.
Il MOSE, la grande opera pensata per salvare Venezia e la laguna, è stato infatti il cavallo di Troia attraverso il quale è stato costruito negli ultimi 30 anni un vero e proprio sistema di potere mafioso che si è impadronito dell’intera Regione, e oltre.
La storia è nota: a metà degli anni ’80 viene creato il Consorzio Venezia Nuova, il concessionario unico dello Stato per la realizzazione del MOSE e delle altre opere di salvaguardia in Laguna, che in deroga a tutte le normative europee in materia di appalti, ha stornato miliardi di euro dei contribuenti alle proprie ditte consorziate, ed entrate a far parte del Consorzio medesimo senza alcuna procedura di evidenza pubblica. Soldi e appalti che hanno permesso di far lievitare in pochi anni i fatturati e gli utili di alcune ditte come ad esempio la Mantovani spa; ma anche soldi che attraverso false fatturazioni, prezzi gonfiati, lavori inventati sono serviti per assicurare un potere incontrastato alla classe politica che ha Governato il Veneto fino ad oggi; classe politica si badi bene, che è stata diretta espressione di questa cricca “cricca” e non banalmente vittima del burattinaio del Consorzio Venezia Nuova. Un potere così pervasivo da riuscire a inquinare e condizionare tutti i settori della società: dagli apparati di controllo, alla comunicazione, al mondo scientifico e della cultura, e perfino la Chiesa.
Per quanto il MOSE sia stato ed è un’opera pensata per risucchiare quantità colossali di soldi anche oltre alla sua realizzazione, ben presto, come una specie di cancro, il “sistema” ha cominciato a diffondersi in ogni direzione alla ricerca di fonti sempre nuove di alimentazione: proprio le opere pubbliche sono diventate il terreno di coltura privilegiato, si tratti di nuove autostrade, ospedali, infrastrutture energetiche poco importa, importante è che siano grandi e costose.
Altrettanto affinati sono stati gli strumenti messi a punto per avviare e gestire il business delle grandi opere: Legge Obiettivo, uso dell’emergenza e dei Commissari straordinari, pieno controllo della Commissioni tecniche di Valutazione (es. commissioni VIA-VAS) hanno permesso di eludere vincoli e controlli di ogni sorta espropriando le comunità locali di ogni potere decisionale e mettendo fuori gioco comitati, associazioni, chiunque tentasse di mettersi di traverso.
Il problema del progressivo esaurimento di fondi pubblici ha indotto poi all’invenzione del cosiddetto Project Financing, grazie al quale sarebbero state proprio le cordate private a finanziare le opere in cambio di concessioni o canoni decennali. In realtà una vera e propria truffa, perché a fronte di piani economico-finanziari truccati, nelle convenzioni che regolano le concessioni tutti i costi finiscono per essere scaricati sugli enti pubblici in modo differito nel tempo.
Passante: la testa di ariete
E se il MOSE è stato il Cavallo di Troia, la testa d’ariete per dare la stura a questo sistema si chiama Passante di Mestre, l’unica grande opera realizzata e già funzionante in Veneto.
Il Passante, infatti, ha permesso di sperimentare tutte queste leve e anche oltre: la Legge Obiettivo, il Commissario Straordinario, l’affidamento dei lavori a un “general contractor” mediante procedura discrezionale. E’ bene ricordare poi che le principali ditte che hanno costruito il by-pass di Mestre sono socie del Consorzio Venezia Nuova, e alcune di queste in particolare si trovano al centro dell’inchiesta, mantovani spa e Co.Ve.Co. sopra tutte. E sarà pure una coincidenza, ma guarda caso la stessa Sezione generale della Corte dei Conti denunciava un aumento ingiustificato dei costi per il completamento della nuova autostrada e delle opere complementari (da circa 750 milioni di euro preventivati, a oltre 1,4 miliardi di euro finali), nonché gli scarsi controlli, il forte rischio di corruzione e di infiltrazione mafiosa.
La lievitazione dei costi in questo caso non rimanda semplicemente al malaffare, ma anche ad un ulteriore sviluppo: quello della finanziarizzazione delle grandi opere.
Ricostruimao un po’ la storia: i soldi per il Passante sono stati erogati direttamente dallo Stato (circa 290 milioni di euro) e dalla SpA al 100% pubblica ANAS (per circa 1 Meuro). Nel 2008 è stata creata la CAV SpA, partecipata al 50% dalla stessa ANAS e per l’altro 50% dalla Regione del Veneto. Nella Convenzione di Concessione la CAV è tenuta non solo alla gestione del Passante e di altre tratte stradali, ma anche alla restituzione ad ANAS dei soldi che questa aveva anticipato per la realizzazione dell’opera attraverso il gettito dei pedaggi. Nonostante l’elevato flusso di traffico, è apparso subito chiaro che il debito non era ripagabile. Di qui partono alcune operazioni di rifinanziamento: nel 2013, grazie all’avvallo della Giunta Regionale, CAV riceve 350 milioni di euro dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e 73,5 milioni di euro da Cassa Depositi e Prestiti (CDP), il tutto a tassi di interesse di mercato. Di debito in debito il “buco” si allarga, e proprio nei prossimi giorni partirà un’ulteriore rifinanziamento, ancora più pericoloso: la CAV si appresta infatti ad emettere titoli finanziari legati all’opera (i famigerati Project Bond) per circa 700 milioni di euro. Si tratta della prima operazione di svendita di un’opera pubblica in Italia; per l’acquisto dei titoli sono già in “pole position” Royal Scotland Bank, Unicredit, Societè Generale, Intesa e Bnp Paribas. Cosa succederà nel momento in cui la bolla speculativa che è stata creata esploderà?
Ma non è finita qui, perché la costruzione del Passante è stato il vero grimaldello per dare il via a una colossale speculazione immobiliare nella zona tra Dolo e Pianiga, là dove la nuova arteria si collega all’autostrada A4. Parliamo di Veneto City: i terreni agricoli di questa area sono stati acquistati ad un valore molto basso circa 15 anni fa da una società, la Veneto City spa, costituita da noti imprenditori veneti; molti di questi sono stati protagonisti delle famose “delocalizzazioni”delle attività produttive che per lungo tempo hanno caratterizzato il modello “nord est”. Nel 2011, nonostante la forte opposizione dei comitati locali, la Giunta Zaia ha varato la variante urbanistica per la realizzazione di Veneto City, facendo aumentare di almeno 10 volte in un istante il valore del capitale detenuto dai soci della Veneto City spa.
Due vicende
In primo luogo, la distinzione tra due vicende:
1. la lista L’altra Europa con Tsipras nasce in vista di un’elezione del Parlamento europeo, ed è una parte di un un’iniziativa e un’azione europea;
2. la questione del Consorzio Venezia Nuova, del Mose e degli interventi infrastrutturali nel Veneto, della corruzione e del sistema di potere che attorno a questi temi si sono manifestati è un’altra storia – veneziana, veneta e italiana – che richiede iniziative e attori diversi dalla prima.
Esistono indubbiamente importanti connessioni tra le due vicende. La principale è quella esprimibile nella domanda: quale politica intendiamo praticare? Ma verrò su questo punto alla fine del mio intervento
Proseguire la storia della lista L’altra Europa e costruire in Italia una nuova formazione politica è un cimento di lungo respiro. La sua organizzazione è solo l’ultimo passo. Occorre in primo luogo definire un’ideologia (intendo per ideologia «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali»,), una strategia e una tattica, un programma di lungo e di medio periodo coerenti tra loro, e solo su questa base una organizzazione.
Il percorso per costruire questi elementi richiede in primo luogo di definire una scelta di campo. Questa è già stata individuata nei suoi elementi essenziali nei punti programmatici della lista, ma non è stata seguita a sufficienza nei fatti. Il diverso peso tra le componenti formalizzate (il SEL e il PRC) e il mondo dei comitati è uno degli elementi critici che è emerso. E’ in primo luogo su questo, e sugli altri elementi critici che è necessario discutere.
Le persone che abbiamo concorso ad eleggere al Parlamento devono rendere conto del loro operato ai loro elettori, e non a questa o quell’altra componente daei variegati mondi che hanno concorso alla loro elezione. Se quest’ultimo dovesse essere il loro riferimento mi sembra ovvio che i referenti dovrebbero essere le persone che hanno promosso e coordinato la lista.
La prima scadenza che si pone nella vicenda dell’indagine giudiziaria sugli appalti nel Veneto è quella dell’elezione del sindaco e del Consiglio comunale di Venezia. In relazione a questa scadenza abbiamo già scritto con Ilaria Boniburini, , e illustrato al gruppo “Venezia cambia 2015”, ciò che ci sembrava e mi sembra necessario chiedere e chiedersi. Ne riporto alcuni elementi:
"Sindaco e squadra non devono essere stati in alcun modo coinvolti (né con le loro azioni né con i loro silenzi) con il gruppo di potere guidato dal Consorzio Venezia nuova: un gruppo di potere che ha lavorato durante tutte le sindacature che si sono succedute dalla prima Giunta di Massimo Cacciari a quella di Giorgio Orsoni
"Il sindaco deve aver dimostrato di conoscere a fondo Venezia e i suoi problemi, di essersi schierato a favore della salvaguardia e della messa in valore (non adoperiamo la parola ”valorizzazione”) delle qualità naturali e storiche della città e dei suoi territori d’acqua e di terra e della difesa dei beni comuni dalla mercificazione.
"Deve impegnarsi: a difendere le fasce più deboli della popolazione (bambini, donne, anziani, emarginati per povertà, etnia, cultura), a privilegiare gli interessi dei cittadini in quanto tali rispetto a quelli dei poteri economici, a garantire la trasparenza dei processi decisionali, a promuovere l’uscita dalla crisi economica senza ripercorrere le strade che l’hanno prodotta, a difendere il lavoro senza compromettere (ma anzi accrescendo la qualità) dei patrimoni comuni.
"La squadra deve essere tale da garantire, nel suo insieme, tutte le competenze necessarie in coerenza con il progetto politico che proponiamo.
"Gli appartenenti alla squadra (e in particolare alla giunta) dovranno essere proposti in relazione alla loro competenza, esperienza e coerenza al progetto politico, e non all’appartenenza partitica o di gruppo".
Il potere è passato di mano
Tralascio gli altri punti del documento che abbiamo scritto per "Venezia cambia 2015". Voglio mettere in evidenza una questione che mi sembra cruciale nell’esperienza veneziana e veneta, e che è passata in terzo piano: il radicale spostamento di potere che è avvenuto per opera del clan costruito a ridosso del Consorzio Venezia Nuova.
Si tratta di un clan che ha saputo agire con tutti gli strumenti illegittimi e legittimi che le loro dotazioni finanziarie consentivano. Per conto mio continuo a ripetere che la benemerita indagine aperta dai magistrati veneziani illumina una parte soltanto del gruppo di potere politico-economico che domina lo scenario veneto. non dimenticherei attori come come l’ente Porto di Venezia, e come la SAVE, padrona degli aeroporti di Venezia e Treviso e promotrice dell’operazione immobiliare Tessera city, sulla quale troppi amministratori sono stati compiacenti, o addirittura complici.
Così come sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il Consorzio Venezia Nuova ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare sulla trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e – last but not least, quello della cultura, dei centri di ricerca e dell’università.
Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi al lavoro alla magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Le armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso e impadronirsi del dominio non sono costituite solo dalle truffe e la corruzione diretta. Come cittadino e modesto diffusore di una visione critica delle cose interesserebbe sapere chi si accingerà a questo compito difficile e delicato, ma a mio parere indispensabile. Una volta c’era il giornalismo d’inchiesta, oggi è quasi scomparso, e molte “inchieste” sono caratterizzate più dalla ricerca dell’effetto che dal faticoso svolgimento di un’accurata analisi.
Non do troppa importanza ai risultati elettorali. La democrazia rappresentativa è molto malata, nel nostro paese. E’ in gran parte il risultato della penetrante azione mediatica di quei «persuasori occulti» che il sociologo statunitense Vance Packard già analizzava nel lontano 1957. Ma non credo che la democrazia diretta sia oggi capace di sostituire quella delegata.
Come ha riconosciuto un marxista non imputabile di simpatie statalistiche, il geografo anglo-americano David Harvey, la dimensione orizzontale e quella verticale della democrazia devono integrarsi. Mi sembra che il documento presentato nell’area Tsipras da Paolo Cacciari sia uno stimolo utile per lavorare in questa direzione, ma credo che ci sia ancora da cercare, ragionare e sperimentare molto prima di trovare un corretto equilibrio tra la dimensione orizzontale e quella verticale della democrazia.
Certo è – almeno per me – che oggi le logiche dei partiti sono, del tutto obsolete, incapaci di incidere positivamente sulla realtà, lontane, e “allontananti”, dalle aspirazioni, le speranze e perfino le attenzioni delle vittime del neoliberismo ai cui interessi ci appelliamo. Lo ha scritto con chiarezza Marco Revelli: «non c’è più spazio per nessuna delle identità esistenti. O cambiare tutti, o morire tutti».
Ciò tanto più a Venezia. Devo dire che l’atteggiamento dei partiti e dei gruppi rappresentati nella Giunta e nel Consiglio comunale e aggregati nelle maggioranze che si sono succedute nell’ultimo quindicennio mi ha spesso stupito e amareggiato.
I suoi esponenti, anche quelli apparentemente più alternativi, non hanno mai seriamente denunciato il MoSE e il sistema di potere su cui si sorregge. Non hanno mai scelto di contrastare i sindaci (in particolare negli anni di Costa e inb quelli di Orsoni) nelle loro scelte peggiori: dal MoSE nella fase degli 11 punti . che avrebbero dovuto rovesciare il progetto MoSE e hanno costituito invece la copertura del voto favorevole del sindaco di Venezia al devastante progetto. Inspiegabili gli ultimi atti della giunta e del consiglio, dove non hanno assunto loro la responsabilità di provocare le dimissioni del sibdaco amico di Mazzacurati, lasciando al PD diMatteo Renzi il merito di provocare la rottura con sindaco, reo di “intelligenza col nemico”. Arrivano oggi perfino a difenderlo – non come persona, il che potrebbe essere comprensibile – ma come rappresentante dell città.
Non do – ripeto e concludo – troppa importanza alle elezioni e ai loro risultati. Ma secondo me la partecipazione delle cittadine e dei cittadini alle campagne elettorali è importantissimo perché è un primo concreto momento di apprendimento della politica da parte delle persone che vi partecipano e che sono “nuove” alla politica. Della politica come sintesi di una pluralità di esigenze, interessi, attese e speranze tra cui occorre – appunto – trovare la sintesi che dia una risposta coerente a tutti.
Credo, insomma alla preparazione alle elezioni come apprendimento di una nuova politica, aperta a tutti i cittadini, a partire da quelli che già fanno “politica insieme” nei gruppi di cittadinanza attiva. La loro esperienza politica nella campagna elettorale potrà o non potrà alimentare la nuova formazione politica che ci si propone di costruire a partire dall’esperienza “con Tzipras”.
Spero di si, Ma toccherà a loro deciderlo.
Riferimenti.
La Nuova Sardegna, 5 luglio 2014, con postilla
Il Consiglio comunale di Arzachena ha approvato nei giorni scorsi un piano attuativo, oltre 7mila metricubi nei pressi di Porto Cervo. La cornice è lo strumento urbanistico (PdiF) utilizzato negli anni '40 e '50, con l'approssimazione di quel tempo lì, e di manica larga – per dirla in modo sbrigativo.
L'acronimo PdiF sta per Programma di Fabbricazione, voluto per assicurare un minimo di disciplina edilizia nei più piccoli comuni dalla legge del 1942, scritta quando del paesaggio nella pianificazione se ne parlava nella cerchia ristretta di Croce e Bottai.
Se lo sono tenuto ben stretto, a Arzachena, quella specie di piano, dandogli ogni tanto un' aggiustata con la prudenza dei collezionisti antiquari, e mancando ostinatamente a tutti gli appuntamenti con la storia dell' Autonomia in materia di governo del territorio. Per cui delle disposizioni di legge dagli anni '80 a oggi, non c'è traccia nel PdiF del comune gallurese, del quale è certificata l'intolleranza alle disposizioni della pianificazione paesaggistica, avviata in Sardegna verso una terza fase.
Il PdiF di Arzachena è più figlio della cultura dell'Italia anteguerra che delle riforme prodotte nell'isola al tempo di Mario Melis o di Renato Soru. Così evocano un mondo antico in bianconero quelle planimetrie ingiallite: inchiostro di china, foto Alinari, cinegiornali Luce, ecc., più che il clima multicolore degli anni '70 (me la immagino custodita tra i cimeli la carta originale, quella visionata dal principe Karim quand'era ancora sposato con Begun Salimah).
Insomma una trascuratezza imperdonabile. D'altra parte per il Comune gallurese è passato da un po' il tempo dell'innocenza; e non può pensare che uno dei posti più belli del pianeta – nelle mire dei più attrezzati gruppi imprenditoriali – si possa difendere con il bluff delle armi scariche. Ti aspetteresti squadre di tecnici specialisti, muniti di sofisticati attrezzi, a presidiare la splendida natura residua, e invece scopri la leggerezza di una conduzione familiare.
E tuttavia fa pensare il consenso scarno alla delibera del mese scorso (9 voti a favore, 8 tra astenuti e assenti). Segno di preoccupazione diffusa tra i consiglieri per la debordante liberalità di quell'atto che sfrutta una specie di congiunzione astrale: quel vecchio PdiF accomodante che incontra il recente furbesco piano casa, perfetto lasciapassare per grandi affari (ma presentato come risposta alle necessità di ogni famiglia).
E così un ettaro di terra intercluso (?) a Porto Cervo è trattato come un lotto nella periferia di un centro abitato tutto l'anno. Per quanto in Sardegna un villaggio turistico (dove magari risiede qualcuno pure d'inverno) debba essere oggi compreso per legge e buonsenso tra “gli insediamenti di tipo prevalentemente stagionale”. L'importanza di chiamarsi “C”: un vetusto privilegio utile per sfuggire alle disposizioni del Ppr complice il piano casa salvacondotto. La famigerata legge regionale ispirata da Berlusconi e incorporata al Pps, sta consentendo dappertutto pratiche simili a questa, uno stillicidio di cui ci scandalizzeremo quando vedremo gli effetti.
Il caso di Porto Cervo è un dettaglio – il diavolo è spesso nei dettagli, pare – che spiega il senso delle politiche del precedente governo regionale, ispirate dagli ultras della liberalizzazione edilizia, ovvero di “su connottu” contro ogni moderna idea di tutela del territorio.
Anche per questo, come promesso dal presidente Pigliaru, è necessario liberarsi quanto prima di tutti i lasciti ingombranti e pericolosi di Cappellacci urbanista: in grado di disorientare i comuni impegnati ad aggiornare i propri piani. E quindi le stesse iniziative della Regione a sostegno della pianificazione locale in grave ritardo e di cui ha parlato l' assessore Erriu agli organi d'informazione. Una bella notizia, ed è importante notare che i centri urbani inadempienti sono quelli dove il vento della speculazione immobiliare è stato più forte.
postilla
Quello che molti lettori non sanno è che il "programma di fabbricazione" (PdF) non è un piano urbanistico vero e proprio, ma solo un allegato grafico al Regolamento Edilizio. E magari non sanno neppure che in Sardegna è stato eliminato dal 1989 (come del resto in tutte le regioni italiane). Stupisce però che in Sardegna non si sia provveduto ancora a operare perché i comuni che non abbiano ancora provveduto a sostituirli con veri e propri piani urbanistici comunali (magari adeguati ai piani paesaggistici) non siano stati commissariati.
Sarà difficile trovare ancora avvocati difensori capaci di far prevalere la tesi che debba essere punito chi ha criticato gli errori del MoSE e le malefatte dei suoi numerosi promotori, autori e coadiutori. La Nuova Venezia, 5 luglio 2014
Ogni tanto, quando il mitico mercato pare proprio non funzionare affatto, soprattutto nelle mani dei monopolisti, anche i cristallini liberali se ne accorgono. Corriere della Sera, 5 luglio 2014 (f.b.)
Come molti, anche io, a suo tempo, ho salutato con favore il nuovo corso delle Ferrovie inaugurato dall’ingegner Moretti e simboleggiato dall’Alta Velocità. Mi pare però, che alla lunga l’ansia sacrosanta di stare sul mercato, di avere bilanci in ordine e di ottenere utili, stia facendo perdere di vista alle Ferrovie medesime altri obiettivi non meno importanti. Per esempio quello di non deturpare parti importanti del patrimonio artistico-culturale del Paese: e cioè le stazioni, alcune stazioni ferroviarie.
Il desiderio di fare soldi comunque, a qualunque costo, infatti, sta inducendo da tempo la società di Fs che si occupa di tale settore a trasformare in altrettanti centri commerciali intasati di box e chioschi orribili, dediti alla vendita di ogni cosa, stazioni come quella di Roma, di Milano, di Firenze, che costituiscono pezzi importanti della storia dell’architettura italiana. Con l’inspiegabile beneplacito degli organi statali di vigilanza, opere di pregio — talora di altissimo pregio come la stazione di Michelucci a Firenze — vengono trasformate in squallide caricature di shopping center di periferia.
Un solo esempio macroscopico che dura da anni: nell’atrio d’ingresso della stazione Termini di Roma la possibilità voluta dal progettista che da una grande parete a vetri laterale si vedesse uno dei pochi tratti sopravvissuti della più antica cerchia di mura della città (le mura serviane) è stata brutalmente cancellata. Tutto quel lato, infatti, oggi è oscurato da un grande magazzino. E più o meno è così in molti altri posti. Infischiandosi di tutto quanto non sia il loro guadagno le Ferrovie che ancora si dicono (e sono) dello Stato stanno alterando gli equilibri volumetrici, i rapporti spaziali, il disegno, le prospettive visive, di manufatti spesso insigni della nostra vicenda culturale.
Cioè in pratica li stanno distruggendo. E in questo modo stanno anche rendendo impossibile in molte stazioni l’attesa dei passeggeri, costretti per la presenza di box e chioschi commerciali in spazi comuni sempre più piccoli, privi della possibilità di accomodarsi nei pochi sedili a disposizione, costretti in piedi per decine di minuti, stipati come un gregge.
Durissima e documentata critica a tutti quei governanti (nazionali e locali), amministratori, funzionari pubblici, magistrati, esperti che hanno consentito il protrarsi dei finanziamenti al Consorzio Venezia nuova illegittimi dal 1995. Non è necessario "revocare" la concessione, essa non sussiste più., e chi ha sbagliato deve pagare. Inviato a eddyburg il 4 luglio 2014
Molti, a Venezia e nell’intero paese, per eliminare alla radice il centro di tanti comportamenti devianti, propongono di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova, credendo forse, in buona fede e data la dimensione e importanza del Mose – e dell’intera Salvaguardia di Venezia e della sua laguna -, che il Consorzio sia pubblico o partecipato dal pubblico, oppure istituito e/o regolato da norme di natura pubblica. Purtroppo quel Consorzio è privatissimo, di totale proprietà privata dei suoi soci, e regolato tutto e solo dalle norme del diritto privato; ed è quindi impossibile (e inutile) pensare di sopprimerlo con decisione pubblica di natura meramente politica.
Più appropriatamente, alcuni discutono e propongono di revocarne la concessione unica (e senza gara) di studi, piani, progetti e lavori (tutto insieme!), concessione di cui il Consorzio, dal 1984, in modo del tutto privilegiato ha goduto e lucrato (e continua a godere e lucrare) ricchissimi frutti ma senza motivo né merito e a spese (costosissime) della laguna e della città, e del pubblico erario.
Idea e proposta che sarebbe corretta, se non fosse che quella concessione, come anche gli interessati sanno benissimo (e però tacciono), per legge è … già invalidata. E dal 1995.
In quell’anno infatti, con il comma 1 dell’art. 6 bis del Decreto Legge 1995 n96 (nel testo modificato dall’Allegato dell’articolo 1 c.1 della Legge di conversione 1995 n206, entrato in vigore l’1 giugno 1995 e tuttora vigente), il Parlamento, dopo aver valutato dieci anni di esperienze (già allora negative) di quel sistema concessionale (voluto e deciso nel 1984 dal Presidente Craxi -e vice Forlani- e dal ministro Nicolazzi -e colleghi DeMichelis e Signorile-) e dopo averne ricevuti giudizi negativi già allora sferzanti della Corte dei Conti, ha dichiarato ‘abrogati i commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge 1984 n798’. Ha cioè abrogato proprio quei commi di legge con i quali, per l’attuazione delle opere statali di riequilibrio e salvaguardia della laguna (opere alle Bocche –barriere mobili comprese-, marginamenti, rinforzi, difese del litorale, interventi di riequilibrio e ripristino, apertura delle valli da pesca, e allontanamento del trasporto di petroli e derivati) era stata autorizzato il ricorso a una ‘concessione … a trattativa privata’ .
Tralasciando qui il non secondario dettaglio che anche nel 1984, ‘a trattativa privata’ non equivaleva a ‘senza gara’ (come invece qualcuno volle intendere, mistificando la legge), ciò che più conta è che dal 1995 non esiste più alcuna norma che consenta atti e disposizioni attuative di concessione a privati, e che, quindi, quella Concessione del 1984 è ormai dal 1995 priva di ogni legittimazione e legittimità. Tanto che quella stessa legge del 1995 non ha chiesto e non ha previsto la necessità di alcun atto di revoca, a quel punto già allora ormai superfluo (in quanto ogni nuovo provvedimento di ulteriore concreto affidamento o finanziamento in concessione sarebbe ormai semplicemente privo di ogni copertura di legge, e quindi illegittimo e annullabile, se non già nullo).
In altre parole, della revoca non c’era e non c’è bisogno, perché quella concessione è, dall’1 giugno 1995, già abrogata e inefficace, avendo perduto il precedente appoggio di legge sulla quale si era basata. Tanto che la stessa legge del 1995 si è preoccupata solo di disporre la norma transitoria di sistemazione di quel (poco) che, con quella concessione, era già arrivato a esecuzione e attuazione tra il 1984 e il 1995: lo stesso Parlamento, con il comma 2 di quello stesso articolo di decreto-legge, ha infatti disposto che ‘restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni [abrogate]’.
Disposizione doverosa riguardo agli impegni formali già perfettamente vincolanti assunti verso il privato.
Ma, si badi bene, appunto solo per gli impegni formali già contrattualmente assunti verso il privato e già perfezionati e vincolanti al 31 maggio 1995. Sono fatti salvi, quindi, solo gli impegni già oggetto di regolare atto di convenzione operativa già dotata di copertura finanziaria, ratificata e perfezionata entro il 31 maggio 1995, sulla base delle leggi e dei decreti di finanziamento promulgati ed emessi non oltre il 31 maggio 1995.
Diversamente da come il concessionario, e non pochi ministri e Presidenti del Consiglio (e del Magistrato alle acque, e pure qualche magistrato amministrativo), inconsapevoli o conniventi, hanno voluto credere e leggere (ma forzosamente e senza giustificazione giuridica), tale disposizione transitoria non può valere da illimitata ‘tana liberatutti’; non può valere cioè come recupero della possibilità di affidamento in concessione anche oltre il 31 maggio 1995, di ogni opera e intervento che per qualche appiglio esplicativo, narrativo o logico taluno cerchi di far apparire, a posteriori, come effetto o in connessione con le (poche) opere regolarmente e perfettamente già concesse (con tanto di atti stipulati, impegnativi e vincolanti) prima di quella abrogazione.
In altre parole, il ‘fatti salvi’ e il ‘restano validi’ può essere applicato solo per gli impegni perfezionati e assunti direttamente ed espressamente con le Convenzioni n. 6393, 6479, 6745, 7025, 7138, 7191, 7295, 1568, 1685, 7322 e 7395, sottoscritte tra il 1984 e il 1993, finanziate dalle Leggi 171/1973, 798/1984, 910/1986, 67/1988, 360/1991 e 139/1992, per un importo complessivo massimo di 953,989 milioni di euro (al lordo delle quote riservate, su quegli importi, ai Comuni e alla Regione). E non invece per quanto taluna autorità ha voluto affidare in concessione (senza copertura di legge) con le decine di convenzioni sottoscritte successivamente al 31 maggio 1995 e finanziate tutte da leggi successive al 31 maggio 1995 (ancorchè fosse o sia stato fatto apparire logicamente connesso o materialmente integrato con qualche parte già in precedenza regolarmente concessa e finanziata).
In pratica può esserci legittimazione e regolarità giuridico-amministrativa solo per gli interventi (e i relativi pagamenti) concessi e definiti in modo perfetto e completo fino al 31 maggio 1995, per un valore, tutt’al più, nel complesso, di poco meno di un miliardo di euro (ma da ridurre delle quote di Regione e Comuni). Mentre erano e sono privi di copertura di legge e quindi legittimità tutti gli affidamenti in concessione, tutte le decine di convenzioni (e tutti i relativi pagamenti) sottoscritte dopo l’1 giugno 1995 e appoggiate (ancorchè illegittimamente) su leggi successive a quella data. Sino a oggi per ulteriori oltre 7,7 miliardi di euro (di cui 5,5 circa per il Mose, progetto approvato finanziato e convenzionato dopo il 2002).
E questo, tanto più dopo il persino precedente comma 10 dell’articolo 12 della Legge 537 del 1993 (entrato in vigore l’1 gennaio 1994 e tuttora vigente), che aveva sancito che per tutti gli interventi della Salvaguardia di Venezia e della sua Laguna ‘gli studi, le sperimentazioni, le pianificazioni, le progettazioni di massima, i controlli di qualità dei progetti esecutivi e delle realizzazioni delle opere, i controlli ambientali (anche mediante ispezioni), la raccolta dati e l’informazione al pubblico devono essere svolti in forma unitaria’, e quindi, inevitabilmente, attuati o quanto meno diretti e regolati solo dalla pubblica autorità competente, direttamente e senza più possibilità di affidamento ‘unitario’ in concessione ‘unica’ a privati. Disposizione efficace e cogente da allora, subito, senza bisogno di ulteriori disposizioni o norme delegate (come invece era necessario per il successivo comma 11, che ipotizzava che tali attività e funzioni fossero poi affidate a una nuova società pubblica regionale-statale, per la quale invece espressamente occorrevano ulteriori norme e disposizioni). Tanto che, altrettanto immediatamente, proprio per questo ‘trasferimento’ di cui al comma 10 (‘restituzione’ dal Concessionario all’autorità pubblica concedente e naturalmente competente, di tutte quelle funzioni e attività strategiche, immediatamente cogente, e quindi a prescindere ed anche prima e persino anche senza l’attuazione dell’ipotesi del comma 11), dall’1 gennaio 1994 il comma 12 (tuttora vigente) ha disposto che ‘il corrispettivo per le spese generali previsto dalle concessioni di cui all’articolo 3 della L. 798/1984 è ridotto dal 12 al 6 %’.
Ai giudici qualcuno dovrà finalmente spiegare perché invece, ignorando queste disposizioni, in tutti questi successivi venti anni si è voluto ribadire e proseguire con gli affidamenti in concessione al Consorzio Venezia Nuova, per di più riconoscendogli ‘corrispettivi’ ancora del 12 % invece che del 6 % (per una immotivata regalia a privati, e un sovracosto per il pubblico erario, nel complesso, pari a circa 500 milioni di euro, per la sola differenza tra 12 e 6 %, e pari invece a circa 1000 milioni di euro, considerando l’intero costo dei ‘corrispettivi’ di spese generali di concessione).
Ce n’è che basta per fermare ogni ulteriore atto amministrativo, liquidazione, finanziamento, collaudo delle opere affidate in concessione al Consorzio Venezia Nuova.
Quanto meno fino a che non sarà fatta fino in fondo, nelle ragionerie e nei tribunali, una veritiera ‘resa di conti’
(A meno che qualcuno, anche Presidente o Ministro che sia, a questo punto consapevolmente preavvisato, ugualmente firmando voglia rischiare, in proprio, tutto l’eventuale danno all’erario (e ambientale) che deriverebbe da ulteriori atti che risultassero poi, a un controllo di legittimità finalmente onesto e rigoroso, illegittimi).
Nel frattempo di questa sospensione e ‘resa dei conti’, potremo finalmente verificare, anche rapidamente ma con giudizi veramente esperti e finalmente ‘terzi’, cosa è giusto e cosa è sbagliato (forse non poco), cosa funziona e cosa non funziona (forse molto) del progetto Mose, e come e quanto variarlo e correggerlo in corso d’opera, almeno in quello che ancora (non poco) possiamo correggerlo.
i criticato da Tomaso Montanari, gli risponde, e Montanari replica. Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2014, con postilla
La bellezza forse non salverà l'Italia, ma una mano potrebbe darla. Il turismo, nel mondo, crescerà del +5% per i prossimi 15 anni, la produzione industriale pesante è in calo costante da 40 anni. Dove sarebbe utile investire? Abbiamo l’Alitalia in crisi che però non ha voli diretti verso la Cina, mentre Lufthansa ne ha 47 settimanali. O la Sicilia che, nel 2012, ha registrato 6 milioni di pernottamenti di turisti, mentre le isole Canarie, stessa lunghezza di coste, ma molto meno da offrire, ne hanno avuti 75 milioni. Abbiamo gravi problemi nell’accoglienza, nella promozione dei nostri tanti musei sempre più vuoti. Ma quando si propone di riportare alla luce le opere nascoste e portarle in giro per il mondo, ecco il purista che grida alla prostituzione dell’arte.
La bellezza è invece un marchio identitario da sfruttare, come propone il creativo Maurizio di Robilant attraverso la fondazione “Italia Patria della Bellezza”. Lo certifica il rapporto “Future Brand Country Index”: il mondo ci riconosce ancora la leadership in turismo, arte, cultura e cibo. Attività caratterizzate da piccole imprese che non inquinano, che tutelano l’ambiente, non delocalizzabili, con capitale diffuso, che stimolano la creatività dei singoli. Oltre l’economia, quindi, c'è una coscienza comune raccolta intorno alla bellezza. La formulazione dell’attuale articolo uno della Costituzione è un compromesso del ‘47, figlio del confronto tra Fanfani e Togliatti, che voleva una “Repubblica di lavoratori” di stampo sovietico.
A nulla valsero le parole del deputato di Ezio Coppa che ricordava come il lavoro fosse un mezzo, non un fine. Tutto questo aveva, forse, un senso in un’Italia in macerie, divisa tra stelle e falci, strisce e martelli. Un incipit costituzionale moderno (bellissimo quello del Sudafrica di Mandela) potrebbe includere i valori universali dell’uomo e impegnare i nostri governanti nel promuovere lo sviluppo delle potenzialità del popolo italiano tra cui la Bellezza. Su cui l’Italia è già fondata.
La replica
di Tomaso Montanari
Per la bellezza vale ciò che si dice del sesso: chi ne parla molto, ne fa poco. E a proposito di elitarismo: non sarà un po’ snob, radical-chic, e appunto elitario permettersi di gettare il tempo in simili pipponi? L’articolo 1 sta bene come sta. Ma se Casalini è convinto del contrario basta dare un colpo di telefono alla fatina Maria Elena Boschi: e con un colpo di bacchetta magica la Costituzione e l’Italia risorgeranno, fondate sulla bellezza. In bocca al lupo.
Postilla
All'Autore del libro citato da Montanari sfugge una importante distinzione lessicale: quella tra risorsa e patrimonio. Considerare le qualità che storia e natura hanno depositato nel territorio come una risorsa anziché come un patrimonio significa considerarli come qualcosa che (come, appunto, il petrolio, o il marmo delle Alpi apuane può essere estratto, trasformato in altro da sè, venduto. Considerarle invece come un patrimonio significa considerarle un bene che deve essere conservato, accresciuti, trasmesso ai posteri.
L’assessore regionale toscano all’urbanistica, pianificazione territoriale e al paesaggio Anna Marson ha tentato di mettere mano al far west delle cave con alcune norme contenute nel Piano paesaggistico regionale con le quali ha posto finalmente la questione di una regolamentazione e ha immaginato un futuro possibile di riconversione produttiva. Questo piano, grazie alle larghe intese di fatto tra Pd e Forza Italia (ma il governatore Enrico Rossi non aveva detto che il suo era un governo di sinistra?), verrà approvato monco delle sue parti più importanti e innovative.