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Il manifesto, 18 luglio 2014

Il mini­stro Fran­ce­schini è vis­suto a Fer­rara e cono­sce ciò che quella mera­vi­gliosa città ha saputo costruire: un mira­bile equi­li­brio tra la bel­lezza urbana e il pae­sag­gio. Lo affermo per­ché rimasi col­pito di una sua dichia­ra­zione nel novem­bre 2012 in occa­sione della morte del grande Paolo Ravenna. Soste­neva Fran­ce­schini che a lui si doveva molto del rispetto della cul­tura dei luo­ghi, dalle mura al parco agri­colo che le cinge. A leg­gere le parti salienti del pro­getto di riforma del Mibac viene da pen­sare che siano state quelle parole vane, come sem­pre più spesso ci abi­tua una poli­tica che vive di slo­gan. Ma forse, nes­suno poteva aspet­tarsi – e dun­que nep­pure il mini­stro - che il Pre­si­dente del con­si­glio avrebbe ini­ziato a costruire il suo pro­filo isti­tu­zio­nale pro­prio riem­piendo di con­tu­me­lie i «pro­fes­so­roni» e attac­cando buro­crati e Soprin­ten­denze di Stato. Solo dei grigi buro­crati come i soprin­ten­denti, appunto, non capi­scono che il futuro dell’Italia è nella messa a red­dito del nostro petro­lio, e cioè lo straor­di­na­rio patri­mo­nio cul­tu­rale che ci fa un caso unico nella sto­ria della cul­tura mon­diale. Un atteg­gia­mento cul­tu­rale che è l’esatto con­tra­rio dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sem­pre per restare a Fer­rara, di Gior­gio Bas­sani.

Sarà un caso, ma pro­prio due giorni prima la pre­sen­ta­zione del pro­getto di riforma tutto cen­trato sulla valo­riz­za­zione, è stato reso pub­blico uno stu­dio della Società Auto­strade per l’Italia che si occupa niente meno dello svi­luppo turi­stico e cul­tu­rale del parco dell’Appia antica di Roma. Tra le tante perle con­te­nute in quel docu­mento — tutte elen­cate in un ottimo documento-appello dell’associazione Bian­chi Ban­di­nelli- c’è anche scritto che in alcuni luo­ghi si sareb­bero creati dei punti di ven­dita ristoro con pro­dotti tipici in modo da risco­prire l’importanza del gran tour nella Roma del set­te­cento. È scritto pro­prio così e nes­sun soprin­ten­dente di Stato avrebbe mai imma­gi­nato una simile genia­lità. Chissà cosa avrebbe scritto Anto­nio Cederna, una vita spesa per sal­va­guar­dare l’Appia antica. Que­sta fol­lia c’entra molto con il pro­getto di riforma di Fran­ce­schini. Il ruolo dei soprin­ten­denti diviene infatti mar­gi­nale e uno dei pila­stri che regge la riforma sta nel fatto che i più impor­tanti luo­ghi della cul­tura ita­liana potranno dive­nire spe­ciali e per ciò stesso affi­dati a mana­ger esterni all’amministrazione dello Stato. Tutti meno i soprin­ten­denti. Una vera osses­sione.
E veniamo al nodo che riguarda il pae­sag­gio. Il mini­stro sa che nella discus­sione par­la­men­tare è stato inse­rito un comma all’articolo 12 in cui ven­gono isti­tuiti i «comi­tati di garan­zia per la revi­sione dei pareri pae­sag­gi­stici», una mostruo­sità giu­ri­dica –la messa sotto tutela mini­ste­riale del capil­lare lavoro degli organi decen­trati dello Stato- che signi­fica una sola cosa: la fine della tutela pae­sag­gi­stica del ter­ri­to­rio, que­stione con­te­nuta nei prin­cipi fon­da­men­tali della nostra Costi­tu­zione. E anche qui c’è una coin­ci­denza impor­tante. Il 4 luglio scorso la regione Toscana ha adot­tato il Piano pae­sag­gi­stico regio­nale, un ottimo stru­mento di tutela voluto dall’assessore Anna Mar­son e a cui ha par­te­ci­pato attra­verso intesa isti­tu­zio­nale il Mini­stero dei Beni cul­tu­rali. Forse chi ha pre­sen­tato l’emendamento voleva azze­rare per sem­pre l’azione regio­nale di tutela del ter­ri­tori ed è grave che Fran­ce­schini abbia accet­tato l’emendamento e non rista­bi­lito il cor­retto fun­zio­na­mento dello Stato. Molti par­la­men­tari e qual­che mini­stro hanno a cuore le beto­niere che hanno deva­stato l’Italia.
Alcuni anni fa la Soprin­ten­denza del Lazio per tute­lare l’agro romano meri­dio­nale impose un vin­colo gene­rico. Ini­zia­rono lo stesso i lamenti che denun­zia­vano il «blocco» delle costru­zioni. Pos­siamo pro­porci di accom­pa­gnare que­sti par­la­men­tari e il mini­stro verso le cam­pa­gne del Divino Amore a Roma – luogo interno al vin­colo — e con­tare insieme il numero dei grandi quar­tieri che sta sor­gendo in aperta cam­pa­gna in una città che ha due­cen­to­mila abi­ta­zioni vuote Il pro­blema non sono i vin­coli o i soprin­ten­denti: sono il rispetto della sto­ria e della cul­tura che fanno grandi le nazioni e le città. Come la splen­dida Ferrara.

Afferma Francesco Indovina: «Dovevamo controllare i fondi e verificare la Legge speciale. Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?». Di certo non per la collettività. Il Gazzettino, 17 luglio 2014, con postilla

«Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Né un cenno di assenso, né di condivisione, né di critica». Parla Francesco Indovina, docente IUAV, uno degli esperti dell'Ufficio di Piano del Magistrato alle Acque, l'ente che ha stilato il dossier con gli 11 miliardi arrivati in 30 anni a Venezia.

«Abbiamo lavorato per anni. Ci siamo misurati con la realtà veneziana con incontri, audizioni, studi e progetti, ma alla fine l'impressione che noi tutti avevamo era che, tutto ciò che avevamo analizzato, non servisse proprio a nulla. E ci veniva un senso di inquietudine e di forte disagio». Francesco Indovina, noto docente dell'Istituto di Architettura, in attesa di conoscere il futuro del Magistrato alle Acque visti gli annunci di soppressione annunciati dal Governo Renzi, è uno degli esperti che sedeva nel cosiddetto "Ufficio di Piano". l'ente voluto fortemente dal Comune di Venezia in collaborazione con Palazzo X Savi e il ministero delle Infrastrutture per la gestione del "caso Venezia".
«Quello che posso dire - sottolinea Indovina - è che abbiamo avuto due "velocità". In un primo momento, fin dalla costituzione dell'Ufficio nel 2004, si trattava di puntare alla progettazione e alla valutazione delle proposte; in seconda istanza monitorare le opere in fase di realizzazione. Un lavoro improbo, ma che con il tempo ci ha consentito di redigere una serie di "relazioni" nelle quali si faceva il punto della situazione sulle opere e i finanziamenti utilizzati. Ma ben presto ci siamo resi conto che quanto andavamo a produrre non veniva minimamente preso in considerazione dalla città e dalle sue istituzioni».
Indovina è molto diretto e chiaro: «Sia ben chiaro: tutti fornivano la loro collaborazione con più o meno solerzia; c'era l'impegno di tutti che, senza alcun problema, offrivano il loro contributo». Indovina rivendica, comunque, il lavoro svolto in questi anni. «Nelle relazioni - sottolinea il docente - vi è un resoconto chiaro e preciso delle opere che sono state fatte non solo dal punto di vista infrastrutturale, ma anche ambientale. Non è un caso che proprio nel maggio scorso sia stato licenziato dal nostro Ufficio anche il cosiddetto Piano Morfologico. Tutti impegni che però hanno avuto scarsa rispondenza negli enti locali e in particolar modo nell'amministrazione comunale di Venezia». Ma al di là di tutto vi è il rammarico. «In questi anni - conclude Indovina - generalmente non abbiamo avuto alcun cenno di assenso, nè di considerazione nè tantomeno di critica. Eravamo e stavamo lì, senza alcun interlocutore, neanche quello istituzionale chiamato "Comitatone". Una situazione bizzarra anche perchè in un certo modo tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?».

postilla
Le simpatie di Francesco Indovina per il MoSE, come grande occasione per lo sviluppo della città sono note ai veneziani, ma non solo ad essi. Rinviamo in proposito a un suo articolo sul manifesto del novembre 2006,ripreso da eddyburg: Io sto con il Mose, vi spiego perché . E' contenuta nell'ampia cartella da questo sito dedicata a quella Grande opera soggetta a critiche, solo oggi largamente condivise.
Meno note sonole critiche che gli esperti che, come Indovina, lavoravano per il MoSE. Peccato che queste ultime siano rimaste racchiuse nel silenzio degli organismi che lavoravano per il MoSE. Per il
MoSE, e soprattutto per quello che del mostro sembra essere stato il maggior promotore, autore, difensore e beneficiario: il Consorzio Venezia Nuova. Sembra oggi che l'unico colpevole del danno provocato dalla vicenda, per molti aspetti ancora oscura, sia del povero ing. Mazzacurati.

A proposito del MoSE, Gianni Belloni e Antonio Vesco provano a di rispondere a una domanda nodale: «quali meccanismi generalizzati accompagnano e facilitano l'estendersi e il radicarsi di condotte generalizzate e sedimentate nell'azione quotidiana di amministratori, imprenditori, politici di un territorio?». Inviato a eddyburg il 15 luglio 2014

«Siamo immersi in un sistema di corruttela troppo strutturato, troppo consolidato, nella pubblica amministrazione e nella magistratura, nella Corte dei conti e nei Tar, fino anche al Consiglio di Stato. Ovunque funziona così. Se vuoi i lavori pubblici, devi fare queste cose. Tant'è che i ricorsi delle gare per gli appalti le vinceva chi pagava di più». Le parole di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan – pronunciate nel corso di un'intervista a Repubblica di poche settimane fa – sottolineano la sistematicità del meccanismo corruttivo, che va analizzato al di là delle responsabilità e delle condotte dei singoli partecipanti.

Claudia Minutillo mette poi in luce un altro aspetto della vicenda: «eravamo convinti che quello fosse l'unico sistema possibile, che non si potesse fare diversamente. Solo quando ci hanno arrestato abbiamo capito la gravità delle nostre azioni». Assistiamo così all'elaborazione di un sistema di credenze grazie alle quali poter neutralizzare il peso morale dei propri atti e che si nutre di uno spirito del tempo: l’attuale spirito del capitalismo che forgia individui pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell’epoca. Individui che non agiscono in uno scenario caotico e disorganizzato, ma piuttosto all'interno di una cornice organizzativa in cui le condotte di ciascun attore sono incardinate entro copioni prefissati e seguono regole codificate (1).

Per non cedere alla tentazione di inquadrare questo sistema come un organismo a sé stante – un blocco monolitico di istanze criminali e tensioni accumulatrici – pensiamo sia utile rintracciare le dinamiche sociali e culturali che hanno facilitato il coinvolgimento dei diversi attori. Ponendoci quindi un'ambiziosa domanda: quali meccanismi generalizzati accompagnano e facilitano l'estendersi e il radicarsi di condotte generalizzate e sedimentate nell'azione quotidiana di amministratori, imprenditori, politici di un territorio? Questa interrogazione, a cui diamo seguito con un primo ed esitante abbozzo, potrebbe rivelarsi utile anche per ricostruire, da queste macerie, convivenze migliori.

Politici

Posto che «lo scambio tra legittimità e consenso, da una parte, ed esercizio dell'autorità, dal lato opposto, costituisce da sempre una costante, pur se occulta e inconfessabile, dell'esperienza politica occidentale» (2), a partire dagli anni settanta i partiti hanno funzionato essenzialmente come società di professionisti della politica che gestiscono agenzie parastatali (3). Dobbiamo tenere presente questo dato (differenziato, naturalmente, tra le diverse esperienze politiche occidentali) per analizzare i sistemi corruttivi che abbiamo di fronte. I partiti con cui abbiamo a che fare appaiono indefiniti e indefinibili, alleanze instabili di filiere di potere, strutturalmente – per la loro fame inesauribile di risorse e per la mancanza di cornici di controllo e di definizione normativa – orientati all'illegalità. Partiti dove si assiste a una «pervasività crescente del denaro» (4), un processo che fa sì che la politica si trasformi di fatto in una attività decisoria di élite. In questo senso non è inutile richiamare l'intreccio tra crescenti diseguaglianze e corruzione: le diseguaglianze dovute all'abnorme concentrazione della ricchezza in poche mani e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate tra loro, costituendo la conseguenza principale e più grave dell'intreccio, ormai inevitabile, fra politica ed economia (5). Un processo che finisce per mutare nella sostanza il meccanismo stesso della rappresentanza, le sue logiche e i suoi codici, provocando una «privatizzazione» delle funzioni politiche6.

Venendo al Veneto, possiamo scorgere delle specificità utili a inquadrare la vicenda che ci si sta squadernando di fronte agli occhi. In questo territorio, la politica ha sempre mantenuto un atteggiamento non interventista nei confronti delle dinamiche economiche e comunitarie. Il vecchio ceto democristiano si è limitato a garantire il mantenimento di un ordine sociale sostenibile. Ora la «rottura del vecchio intreccio tra economia, società e politica» (7) ha destinato quest'ultima al ruolo di semplice strumento di facilitazione degli affari. Così essa diviene un ingrediente tra agli altri, una casacca come un'altra che si può indossare e dismettere – nelle carte dell'inchiesta incontriamo politici che pianificano la loro prossima carriera di affaristi –, dimenticando la missione progettuale del proprio ruolo e mettendosi a disposizione, in funzione subordinata, rispetto agli interessi diretti ed immediati dei suoi suoi interlocutori.

Tecnici
La cooptazione degli organi di sorveglianza (magistrato alle acque, commissione di Valutazione d'impatto ambientale, corte dei conti ecc.) e di repressione (guardia di finanza, servizi segreti, carabinieri) mostrano come oggi la pratica della corruzione (non riferita allo specifico reato, ma intesa in senso lato) permea in modo più strutturale e pericoloso la pubblica amministrazione e comunque richiede nuovi e più raffinati paradigmi di indagine e di lettura.

Se nella tangentopoli degli anni ottanta e novanta i cosiddetti tecnici avevano un ruolo di collegamento e intermediazione tra il sistema delle imprese e quello dei partiti (8), a giudicare dalle vicende emerse dall'inchiesta veneziana, la frantumazione dei partiti ha indotto i tecnici ad assumere il ruolo di protagonisti attivi nel rapporto con il mondo delle imprese. Un rapporto più diretto, garantito da un sistema di convenienze reciproche tra «tecnici» e imprenditori. Una vera e propria alleanza – pensiamo al rapporto tra il Magistrato alle acque e il Consorzio Venezia Nuova – fondata sulla totale assenza di controlli che ha garantito l'impunità nella gestione illegale dei lavori. Attorno all’apparato amministrativo-burocratico regionale è emersa una concentrazione abnorme e anomala di poteri che ha generato talvolta palesi situazioni di conflitto di interessi e di compatibilità di incarichi, portando parallelamente alla subordinazione di organi di alta consulenza tecnico-scientifica al potere politico, come ha documentato l'Osservatorio ambiente e legalità di Venezia nel caso della commissione Via regionale, composta per lo più da politici e da professionisti interessati alle stesse opere che avrebbero dovuto analizzare (9).

Imprenditori

Che tipo di sistema produttivo abbiamo di fronte? Un sistema chiuso e protetto dalle incertezze dei mercati, dalla esasperazione della competitività. Il sistema costruito attorno al Consorzio Venezia Nuova garantiva agli imprenditori una rendita di posizione invidiabile e, in molti casi, vitale, visto che per una quota non trascurabile di imprenditori «gli scambi occulti e gli accordi collusivi finiscono per essere concepiti come un modo per stare sul mercato, se non addirittura l’unico modo per sopravvivere economicamente» (10) (e saltare da una tangentopoli a un'altra, come nel caso di Piergiorgio Baita).

Siamo di fronte a circuiti protetti, a reti di reciprocità all’interno delle quali vengono ammorbidite – dalla logica dei favori e degli scambi occulti – le severe leggi del mercato e della concorrenza. Una regolazione sistematica delle opere pubbliche dà vita a circuiti chiusi dell'economia locale, accessibili soltanto per le imprese in possesso dei requisiti economici e del capitale sociale necessario. In una recente intervista rilasciata a un giornale locale, un imprenditore veneziano dichiarava che sarebbe stato disposto a corrompere qualcuno pur di salvare l'impresa in difficoltà, ma che non sapeva a chi rivolgersi dal momento che i circuiti corruttivi rimanevano accessibili solo a una élite imprenditoriale11. L'economista Stefano Solari descrive questo meccanismo come «compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati». Un compattamento nel quale è difficile «discernere l'attività di malaffare» e in cui si riduce la qualità, ma non la consistenza, del capitale sociale in circolazione.

Di fronte a questa tendenza sistemica suonano particolarmente imbarazzanti (e imbarazzate) le reazioni dei rappresentanti degli imprenditori rispetto alle vicende emerse. Il tentativo è quello di una normalizzazione del dibattito che contribuisca a derubricare gli avvenimenti a pure deviazioni rispetto a un ordinario funzionamento dell'economia e delle procedure. Assieme alla vibrante condanna da parte dei vertici di Confindustria del Veneto, abbiamo assistito alla tendenza a individuare alcuni colpevoli decontestualizzando il loro operato. Abbiamo invece l'impressione che vent'anni di esaltazione del modello imprenditoriale nordestino abbiano in realtà sfibrato il ceto imprenditoriale, disabituandolo a un confronto con la realtà e con punti di vista diversi. I ripetuti ossequi ai meriti dell'impresa da parte di (quasi) tutti i protagonisti del dibattito pubblico a prescindere dai suoi meriti – che ovviamente ci sono stati - hanno reso la stessa rappresentanza delle imprese vulnerabile – anche perché disabituata alle critiche ed assuefatta ad un clima di ideologico conformismo - ed incapace di originali elaborazioni.

Intrecciate alle figure degli imprenditori, emergono infine le gesta di faccendieri e professionisti, che sembrano esercitare un ruolo cruciale nel contesto del capitalismo di relazione. Personaggi-cerniera – pensiamo ai commercialisti nominati nelle società pubbliche – che operano a cavallo tra la politica e l'imprenditoria, acquisendo progressivamente una sempre maggiore importanza, sia a causa della trasformazione del modello aziendale, dove alla capacità di fare impresa si affiancano – o si sostituiscono – quella di connettere e intrecciare informazioni e quella di scambiare obblighi e favori, sia per la perdita di autorevolezza e di assertività della sfera politica, che deve ricorrere a queste figure perché non è più in condizioni di controllare i troppi risvolti del complesso sistema decisionale e amministrativo.

Società civile e università

Gli intrecci criminali che emergono dalle carte dell'inchiesta sono stati intuiti da una combattiva minoranza di attivisti e intellettuali che in questi anni hanno denunciato e combattuto quello che genericamente veniva definito il «sistema Galan». Mentre (quasi) tutti i partiti proponevano uno scenario ineluttabile e indiscutibile in nome del quale le opere divenivano necessarie, comitati e associazioni si sono presi in carico il problema di politicizzare il dibattito risalendo al cuore delle questioni: «quali opere e per quale modello di sviluppo?». Il problema è che non si è mai aperto un luogo di discussione reale che potesse entrare radicalmente nel merito delle scelte e persuadere. Ma se le minoranze che si sono opposte al Mose – così come ad altre opere in odore di cricca − hanno visto riconosciuto il loro punto di vista solo in seguito a un'inchiesta della magistratura, dobbiamo trarre alcune conseguenze rispetto al ruolo possibile, e a quello reale, rivestito dalle minoranze nel nostro sistema politico. Tanto più alla luce dell'indirizzo maggioritario e ispirato alla governabilità che sembra ormai egemone in questo paese.

I No Mose sono stati, a Venezia come altrove nel Veneto, una minoranza. La città in realtà è stata narcotizzata da un effluvio di finanziamenti, giostrati dal Consorzio Venezia Nuova, che hanno riguardato quasi tutti gli ambiti della società. Anche se non tutti condividono le stesse responsabilità, ben pochi possono dirsi del tutto estranei al sistema che ha dominato fino a pochi mesi fa. Una marea di denaro che ha creato sicurezza, ha ammorbidito i toni, offuscato lo sguardo e reso meno stridente la convivenza della città con un «monstrum» politico-imprenditoriale e istituzionale come il Consorzio.

In particolare, quest'ultimo ha dedicato non poche risorse al finanziamento del mondo della cultura e dell'Università. Diversi intellettuali hanno segnalato come questa attenzione abbia sortito i suoi effetti in termini di legittimazione dell'opera (12). E se la massima istituzione pubblica deputata alla formazione e alla ricerca ha mostrato in questi anni una pur minima «apertura» rispetto ai suoi finanziatori, che cosa ci prepara il futuro a fronte di un crescente disimpegno dello Stato, a una legislazione e un'organizzazione didattica e della ricerca che agevola l'intervento dei privati?

Conclusioni

Facendo il verso al vecchio di Treviri, possiamo riprometterci di affrontare seriamente questa farsa, prestandole i toni più consoni della tragedia, dato che chi ha voluto fare politicamente i conti con la tragedia – la tangentopoli anni novanta – si è trovato, non accidentalmente, a buttarla in farsa. Dalle inchieste giudiziarie occorre passare alle inchieste sociali, non già per affollare il banco degli imputati, ma per provare a rintracciare le dimensioni sociali e politiche della corruzione – e quindi della radicale privatizzazione dei beni comuni – e identificare i terreni su cui è possibile (e necessario) agire.

Note
1 Donatella Della Porta, Alberto Vannucci, Mani Impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Laterza, Bari, 2007
2 A. Mastropaolo, Il ceto politico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1993
3 Katz, R. S., P. Mair, 1995, Changing Models of Party Organization and Party Democracy: The Emergence of the Cartel Party, in “Party Politics”, 1, I.
4 Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013
5 Guido Rossi, Corruzione e ineguaglianze minacciano la democrazia, il Sole 24 ore, 15 giugno 2014
6 Rocco Sciarrone, Mafie del nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma, 2014
7 Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino 2013
8 Ivan Cicconi, Project financing e grandi opere. Il nuovo volto della corruzione dopo Tangentopoli, Quaderno n°4, Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Marzo 2014 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
9 Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Ombre e disfunzioni della Commissione Via, Dossier, Luglio 2013 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
10 Rocco Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, 2009

11 Francesco Furlan, L'imprenditore confessa: «Pur di lavorare pagherei le tangenti», La Nuova di Venezia, 21 marzo 2012.

12 Filippomaria Pontani, I mobili argini di Venezia, 4 giugno 2014 in www.ilpost.it

« La "paradisiaca» campagna attorno a Palermo, ricoperta di agrumeti, teatro da decenni di speculazioni edilizie e terra di conquista delle mafie senza alcun contrasto, è ancora priva di tutele. Mentre nuovi interessi preparano un altro assalto cementizio». Il manifeso, 17 luglio 2014

Meno di quarant’anni fa, Fer­nand Brau­del, in un suo sag­gio sulle terre del Medi­ter­ra­neo, riser­vava l’attributo che è pro­prio di un pae­sag­gio per­fetto esclu­si­va­mente alla cam­pa­gna attorno a Palermo: la Conca d’oro, rico­perta di alberi di limone e man­da­rino, era «para­di­siaca». Ma già da vent’anni era arri­vato l’inferno. Tra il 1965 e il 1970 ogni anno ave­vano cam­biato uso oltre 200 ettari – 3000 nei due decenni – e da terre di leg­gen­da­ria fer­ti­lità erano diven­tate una brutta peri­fe­ria di cemento e di asfalto. Fu «il sacco di Palermo». Mafia, poli­tica e affari ave­vano assunto un unico volto: quello di Lima e Cian­ci­mino, con la com­pli­cità della Chiesa e dell’aristocrazia pro­prie­ta­ria, nel silen­zio della bor­ghe­sia e degli intel­let­tuali con la sola ecce­zione del gior­nale L’Ora.
In que­gli anni si rag­giun­ge­ranno, scri­verà la Com­mis­sione Anti­ma­fia, «ver­tici sco­no­sciuti nell’inosservanza delle leggi» e gli orti e i frut­teti che costi­tui­vano il pre­va­lente uso del suolo, espri­mendo al meglio i carat­teri di uti­lità e bel­lezza che sono pro­pri delle pia­nure costiere medi­ter­ra­nee fer­tili e irri­gue, si ritro­va­rono ai mar­gini della piana, faz­zo­letti pro­fu­mati e colo­rati tra i palazzi della spe­cu­la­zione. Solo qual­che ampio agru­meto resi­steva ancora inte­gro: nella bor­gata di Cia­culli la mafia li aveva riser­vati per sé, futuro bot­tino men­tre pro­ce­deva all’assalto del cen­tro sto­rico. Il con­sumo di suolo, negli anni che segui­rono, si atte­nuò appena, scese a 70 ettari tra il 1990 e il 2000 e quindi arrivò a 40. Il sacco di Palermo sem­brava però non avere fine: prima il Quar­tiere Zen, monumento all’autocompiacimento degli studi di archi­tet­tura, poi le 314 vil­lette arram­pi­cate sulla «col­lina della ver­go­gna», quindi l’abusivismo irre­fre­na­bile (60.000 richie­ste di con­dono) e cen­tri com­mer­ciali su oltre cento ettari. L’ultimo di que­sti, aggiun­gendo la beffa al danno, fu bat­tez­zato «Conca d’oro».
Non servì nean­che un buon piano rego­la­tore. Quello di Cer­vel­lati, redatto nel 1994 ma defi­ni­ti­va­mente appro­vato nel 2002, riser­vava grande atten­zione al verde agri­colo: l’agrumeto di Cia­culli – il più vasto e inte­gro della città – ben­ché pri­vato, veniva vin­co­lato come bene di inte­resse pub­blico. In que­gli anni un pro­getto finan­ziato dalla Ue, che mirava alla crea­zione di un parco agri­colo periur­bano, regalò alla città il pre­mio di “città soste­ni­bile”, agli agri­col­tori l’acqua per irri­gare a metà prezzo e con­ti­nuare così a col­ti­vare con pro­fitto gli agru­meti sto­rici, agli abi­tanti e ai turi­sti il pia­cere di pas­seg­giare tra le zagare e i frutti degli agrumi. Durò poco, appena un anno: la poli­tica locale non lo con­si­derò prio­ri­ta­rio e la Regione si limitò, nell’approvazione del Prg, a con­si­de­rare i giar­dini (così i sici­liani chia­mano i loro frut­teti) di Cia­culli nor­male zona di verde agri­colo. Si apriva la strada alle varianti: quella dei cen­tri com­mer­ciali, delle coo­pe­ra­tive edili e dei piani inte­grati men­tre nuove con­ces­sioni occu­pa­vano le aree ancora dispo­ni­bili del piano regolatore.
Nel 2012, repu­tando neces­sa­rio avviare la revi­sione del piano Cer­vel­lati, la giunta della nuova ammi­ni­stra­zione Orlando votò le diret­tive gene­rali per la for­ma­zione del nuovo Prg: abu­si­vi­smo e varianti ave­vano mutato lo stato dei luo­ghi e biso­gnava sod­di­sfare gli stan­dard urba­ni­stici. Come se non bastasse, la pre­ce­dente ammi­ni­stra­zione — di cen­tro­de­stra — si era eser­ci­tata in un imma­gi­ni­fico piano stra­te­gico che, nel nome della «valo­riz­za­zione delle risorse eco­lo­gi­che e ambien­tali», pre­ve­deva cen­tri dire­zio­nali, nuovi mer­cati gene­rali, una tan­gen­ziale che riu­niva le due auto­strade verso Tra­pani o Mes­sina, un “water front” che riqua­li­fi­cava i por­tic­cioli della costa. Il con­sumo di suolo era pronto a ripren­dere nuova lena. Porti turi­stici nelle bor­gate di pesca­tori, nuovo cemento sugli agru­meti e una tan­gen­ziale da incubo: alle pen­dici delle mon­ta­gne che chiu­dono la Conca, 18,5 chi­lo­me­tri con 6 svin­coli, un via­dotto di mille metri e cin­que gal­le­rie per com­ples­sivi 9 km, con grandi rischi di dis­se­sto idro­geo­lo­gico in un ter­ri­to­rio già com­pro­messo e un costo pre­vi­sto di 800 milioni di euro che la stessa Anas, che ha redatto lo stu­dio pre­li­mi­nare, defi­ni­sce ai limiti della soste­ni­bi­lità. Facile imma­gi­nare – è la lezione del sacco – cosa suc­ce­de­rebbe dei resi­dui ettari di verde al di qua della tan­gen­ziale pede­mon­tana.
Le diret­tive del nuovo Prg del 2012 par­lano di assenza di armo­nia tra il vec­chio Prg e il piano stra­te­gico, che più volte viene dichia­rato supe­rato, ma mai for­mal­mente respinto. La sua pre­senza tra gli alle­gati alle diret­tive ali­menta anzi una con­ti­nua pole­mica tra chi non si accon­tenta di gene­rici impe­gni ma vor­rebbe atti chiari: un no deciso alla tan­gen­ziale e uno stral­cio nel vec­chio Prg, annun­ciato ma mai arri­vato, delle zone verdi esi­stenti per evi­tare nuove urba­niz­za­zioni, come quelle in variante del cimi­tero da rea­liz­zare pro­prio a Cia­culli o dei nuovi mer­cati gene­rali nel quar­tiere di Bona­gia su un’area di oltre 20 ettari, che con­fina con il nin­feo barocco della set­te­cen­te­sca Villa Tra­bia di Cam­po­fio­rito. Un clima di sospetto per­mane tra l’amministrazione e la gran parte delle asso­cia­zioni di cit­ta­dini, che invo­cano quel pro­cesso di urba­ni­stica par­te­ci­pata annun­ciato, ma mai decol­lato per reci­pro­che dif­fi­denze.
In attesa che si isti­tui­sca l’ufficio del nuovo piano o, come si è anche ipo­tiz­zato, si pro­ceda ade­guando il vec­chio con defi­niti piani par­ti­co­la­reg­giati, il futuro urba­ni­stico di Palermo rimane incerto, tra noti­zie allar­manti: un nuovo cen­tro com­mer­ciale, un mega acqua­rio, l’idea mai abban­do­nata di un cen­tro dire­zio­nale.
A chi teme un nuovo assalto cemen­ti­zio non può bastare che si scriva che deve con­te­nersi il con­sumo di suolo. Ser­vono poli­ti­che con­crete e non ade­sioni a slo­gan. Potrebbe bastare dare seguito a due deli­bere di giunta. Una riguarda i 235 ettari della Favo­rita, parco ibrido tra aree natu­rali, giar­dini sto­rici e pae­saggi agrari tra­di­zio­nali, per il quale è neces­sa­rio arri­vare a un piano di gestione; e non bastano popu­li­stici pro­clami di chiu­sura al traf­fico di strade oggi irri­nun­cia­bili per col­le­gare la fre­quen­ta­tis­sima bor­gata bal­neare di Mon­dello. L’altra riguarda quel 25% della super­fi­cie com­ples­siva della Conca d’oro ancora non coperto dal cemento e per la cui sal­va­guar­dia si deve pun­tare ad una difesa attiva degli spazi verdi che pro­muova l’attività agri­cola, incen­ti­vando vec­chi e nuovi pro­dut­tori e, con­si­de­rando l’ inte­resse pub­blico, sostenga gli inte­ressi ambien­tali, sociali, cul­tu­rali e non sia affi­data solo alla legge del mer­cato per quanto inte­res­sato a tipi­cità e qua­lità. Se così non fosse, se non si riu­scisse a soste­nere la pre­senza degli agri­col­tori, all’abbandono dei giar­dini, come avviene in misura ogni giorno cre­scente, segui­rebbe l’invasione dei rovi e degli ailanti, la morte degli alberi da frutto, gli incendi, le disca­ri­che, l’abusivismo e poi, chissà, nuovi palazzi.
Non si tratta di affer­mare una visione nostal­gica che guarda a un glo­rioso pas­sato agri­colo ma ope­rare – e, essendo stato asses­sore all’ambiente fino allo scorso aprile, penso che ce ne siano tutte le pre­messe poli­ti­che – per la nascita di un sistema agri­colo locale, urbano e periur­bano, cen­trato sul rac­cordo (a km zero) tra pro­du­zione e con­sumo, sul rico­no­sciuto ruolo poli­fun­zio­nale dell’agricoltura non solo pro­dut­trice di ali­menti, ma anche depo­si­ta­ria di valori e di stili di vita, capace di gestire in modo equi­li­brato le risorse natu­rali e ambien­tali e di tute­lare e sal­va­guar­dare un pae­sag­gio agra­rio tra i più illu­stri.

Per giun­gere a que­sto, gra­zie alla spinta di un comi­tato civico costi­tuito da più di set­tanta enti e asso­cia­zioni, veniva fir­mato un pro­to­collo d’intesa con la Regione che avrebbe dovuto por­tare ad un piano di inve­sti­mento inte­grato per uti­liz­zare le risorse della pro­gram­ma­zione comu­ni­ta­ria 2014–2020. Con la Favo­rita (tra i più grandi par­chi urbani nel mondo, ricco di sto­ria e natura), con la rina­scita dell’agricoltura della Conca d’oro, insieme al recu­pero dei giar­dini di cul­tura isla­mica del Genoard, con i tanti giar­dini sto­rici che per­cor­rono la sto­ria del pae­sag­gio medi­ter­ra­neo, con una diversa atten­zione a un sistema verde mul­ti­fun­zio­nale di ecce­zio­nale valore, vale la pena di ripro­porre la domanda che Guido Pio­vene si pose in un suo viag­gio in Sici­lia del 1957: «Come sarà Palermo tra una cin­quan­tina d’anni? Forse nes­suna città ita­liana costringe a que­sta domanda con tanta nettezza».

Anche la soprintendenza ai beni culturali avalla l'accordo tra la decaduta giunta Orsoni e il nefasto Ente porto, volto a rafforzare la presenza della Grandi navi nella città antica, ad aprire il varco all'ingresso delle automobili e a ridurre gli spazi pubblici in un settore densamente popolato di Venezia. La NuovaVenezia, 17 luglio 2014

Per il nuovo terminal per l’arrivo del tram a San Basilio è arrivato adesso anche il via libera della Soprintendenza. Un parere sostanzialmente favorevole al progetto predisposto dal Comune d’intesa con l’Autorità Portuale, con l’accordo di programma siglato tra le parti, ma con alcune prescrizioni che riguardano l’impatto ambientale della nuova opera, che fa molto discutere, anche perché per attuarla Ca’ Farsetti ha revocato il precedente piano regolatore generale di Santa Maria e San Basilio, modificando le destinazioni a uso e verde pubblico e residenziale delle zone interessate all’intervento.
Per questo molto si era polemizzato sul progetto di Porto e Comune dentro e fuori del Consiglio comunale, con impegni di revisione degli aspetti meno convioncenti del piano, di fatto disattesi dal Comune. Sarà ora la Provincia con la propria Commissione Via a valutare l’impatto del nuovo terminal per il definitivo via libera che arriverà probabilmente dal commissario prefettizio Vittorio Zappalorto, in assenza del Consiglio comunale.
Tra le novità del progetto - proprio nel momento in cui in città si continua a parlare della riduzione del passaggio delle Grandi Navi in Bacino di San Marco - la realizzazione di un ottavo punto di attracco per le navi da crociera. La bozza di accordo prevede che il Comune investa 15 milioni per finanziare il collegamento tramviario, che realizzi un nuovo approdo di fronte al nuovo terminal del tram e che realizzi un ponte pedonale sul canale della Scomenzera al servizio del porto passeggeri. Il porto, dal canto suo, investirà 24 milioni proprio nel potenziamento della portualità costruendo un nuovo terminal da 28 mila metri cubi al posto del piazzale d’imbarco dei traghetti, che saranno trasferiti presto a Fusina. L’ex stazione marittima di San Basilio sarà riadattata, forse attraverso un intervento in finanza di progetto, a stazione del tram. Il Porto restaurerà tre ex magazzini per un costo complessivo di 7,5 milioni e realizzerà per due milioni un parcheggio multipiano da 700 posti sul molo di Levante. Poi c’è un investimento da 10 milioni che il Porto si impegna a fare nell’area ex lavaggio treni a Santa Marta. Il tram scenderà lungo la rampa che porta a Santa Marta e correrà lungo la riva, girando dietro l’ex chiesa di Santa Marta e proseguendo dietro la banchina portuale fino alla stazione terminale. Ci saranno tre fermate: una in prossimità del ponte pedonale di collegamento con piazzale Roma-people mover, una a Santa Marta e una al capolinea. La stazione sarà ristrutturata e adattata anche con servizi commerciali.
«Se sarà attuato questo accordo di programma per il tram - sottolinea il docente dell’Iuav Stefano Boato, già assessore comunale all’Urbanistica - si butterà all’aria il lavoro, la lotta e la pianificazione durata trent’anni per restituire alla città la zona di San Basilio. Il tram è il cavallo di troia per stravolgere decenni di pianificazione e di accordi presi con la popolazione. In tutto il mondo le vecchie aree portuali vengono dismesse, riutilizzate e integrate alle città. Anche a Venezia il Comune aveva elaborato nel 1989-90 e poi approvato dieci anni dopo questa prospettiva nel Piano regolatore. Il Piano ancora in vigore prevede la dismissione delle aree portuali di San Basilio e Santa Marta, la demolizione “senza ricostruzione della stazione passeggeri” la rimozione dei collegamenti ferroviari e carrabili conservando la possibilità di conservare l’attracco delle navi. Oggi si rischia però di tornare indietro di 30 anni con un tratto di penna».

Lagatta frettolosa fece i gattini ciechi. Accanto alla prevaricazione di segnopre-democratico dalle riforma del Parlamento e della legge elettorale, anche lafrettolosa approssimazione con la quale si affronta la “riforma” dei poterilocali è un segno del degrado italiano. Un commento da Milano, inviato aeddyburg il 13 luglio


1.La legge n. 56 del 7 aprile 2014, nota come legge Del Rio, ha istituito leCittà Metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari,Napoli e Reggio Calabria, più Roma Capitale con disciplina speciale. L’entratain funzione è fissata al primo gennaio 2015 (con una dilazione al 2016 perReggio C.). Condizione perché il sindaco metropolitano possa essere elettodirettamente dai cittadini è che il comune capoluogo venga suddiviso in zone (omunicipi) dotate di autonomia amministrativa. Senza questa suddivisione, la leggeprevede che la carica venga assunta automaticamente dal sindaco del comunecapoluogo con un evidente deficit di democrazia.
Milimito qui al caso milanese, dove il pubblico dibattito latita, mentre affiorano prese di posizione con agli estremidue alternative: da un lato quella di chi vede nell’istituzione della CittàMetropolitana l’occasione per abolire il Comune di Milano (in tal modo, percostoro, si farebbe finalmente giustizia di una politica centralistica edisattenta ai problemi cronici della periferia urbana); dall’altro quella dichi pensa si debba procedere con la massima attenzione e cautela, esaltando le potenzialitàdel decentramento senza abolire un ambito di governo come quello comunalepotenzialmente in grado di esprimere una politica unitaria per la città nel suoinsieme. È questo anche l’orientamento di chi scrive. È mia convinzione infattiche si debba procedere a un’articolazione del governo locale così da risponderenel modo più adeguato ai problemi evitando la trappola di populismi vecchi enuovi.
2. Ogni abitante della Città Metropolitana èinteressato da almeno tre livelli relazionali su cui si definiscono anche le appartenenze/identità:
- il luogo in cui abita (con un orizzonte esteso alquartiere);
- la città (o cittadina, o paese) in cui in diversamisura si riconosce;
- la metropoli in cui esplica comunemente le sueattività nell’arco delle 24 ore.
Ognunadi queste appartenenze/identità chiede di essere rappresentata politicamente,anche perché ad ognuna di esse corrispondono ambiti di polarizzazione deiproblemi che il governo locale è chiamato ad affrontare. Ma, per risponderepositivamente a questa richiesta, va ricercato un equilibrio fra livellidecisionali, cominciando con il mettere ben in chiaro chi decide che cosa (unamateria su cui, a poco più di quattro mesi dell’entrata in funzione del Governometropolitano, grava una fitta nebbia). Equilibrio significa che ogni livello –locale, urbano, metropolitano – deve saper pervenire a una sintesi nell’ambitodi sua competenza, in una dialettica complessa con gli altri livelli.
Èquesta la materia che va ordinata dallo Statuto: un nodo da sciogliere primadel nuovo anno.
Perinciso, alle incognite che si addensano su questo passaggio delicato se neaggiunge un’altra. Il Governo metropolitano dovrà vedersela con la RegioneLombardia. Un rapporto, questo tra città Metropolitana e Regione, per nullaregolato dalla legge Del Rio e su cui, se non si prende una adeguata iniziativapolitica, potrebbe crearsi una situazione incresciosa: quella che potrebbevedere tutte le altre realtà provinciali (con la finta abolizione delleprovince) coalizzate contro la Città Metropolitana Milanese (Barbarossa docet).
Perrestare alla questione degli equilibri interni alla Città Metropolitana, aifautori della cancellazione di Palazzo Marino chiedo: per quale motivo icittadini di Milano dovrebbero rinunciare alla seconda delle treappartenenze/identità sopra indicate? Hanno forse da scontare una doppia colpa:l'egemonia esercitata dal capoluogo sulla metropoli e sulle sue zone deldecentramento? A chi pensa che sia giunto il momento di una resa dei conti,faccio osservare che una simile operazione da piazza pulita sarebbe unarivoluzione condotta a tavolino. Un non senso sul piano storico. Le egemonie sicombattono sul loro terreno, facendone sostanza della politica. Puntare aeliminare i problemi con improvvisate ingegnerie istituzionali portaimmancabilmente al fallimento.
3. Mi preoccupa poi la moltiplicazione dei parlamentini e degliapparati burocratici. E dei costi relativi. Che si arrivi cioè a spendere lerisorse scarse per mantenere in piedi macchine amministrative farraginose esovradimensionate invece che per fare le cose necessarie.
In una situazione come quella italiana dove una della cause deldissesto del bilancio dello Stato, oltre che nelle politiche governative, stain quella parte della Pubblica Amministrazione che va sotto il nome di EntiLocali (a tutti i livelli), una riforma come quella della Città Metropolitana,dovrebbe essere obbligatoriamente accompagnata da una quantificazione dei costieconomici. Senza questo bilancio, ogni proposta è difficilmente giudicabile esarebbe comunque un'operazione mistificatoria. Il decentramento, ilfederalismo, la sussidiarietà in questo nostro malandato Paese presentano unquadro che fa acqua da tutte le parti.
Se non si procede con accortezza e con una logica sperimentale,c'è il rischio di perdere la bussola in nome del localismo. Per bussola intendoun progetto politico e civile volto a combattere e a correggere gli squilibriinterni e a portare qualità urbana,vivibilità e vitalità dove non c'è.
Un simile progetto richiede:
a) una mobilitazione di intelligenze e di risorse apartire da un'analisi condivisa;
b) la messa a punto di un quadro degli interventi daattuare sulla base di una sintesi tra una visione d'assieme e una visionedall'interno dei diversi contesti in cui è articolata la città (una prospettivapraticabile solo se crescita politica e crescita civile procedonoparallelamente);
c) la definizione di priorità in un processo che nonpotrà che essere graduale e di medio periodo.
Tuttecose che, a tutt'oggi, la giunta Pisapia non ha voluto o saputo mettere incampo, giocando invece di rimessa rispetto all'iniziativa privata eall'insorgere di problemi.
4.Senza un progetto come quello sopra richiamato, il decentramento èun'operazione velleitaria e populistica che porterà solo a complicare le cose ea sollevare dalle responsabilità chi assumerà la guida del Governometropolitano. Oggi, come milanese, mi sento coinvolto rispetto a quel chesuccede a Lambrate o a Baggio; quando il Comune di Milano verrà suddiviso in 9parti, ogni Municipio (ex-zona) sarà forse più vicino ai cittadini ma certo piùisolato e impotente.
Pernon dire della debolezza con cui ogni Municipio ex-zona dovrà fare i contiquando avrà come interlocutore la grande società immobiliare o anche Ferroviedello Stato.
Cosìcome stanno le cose, si rischia di decentrare per scaricare i problemi. Sipotrà anche avere una maggiore partecipazione dei cittadini, ma parallelamentesulle grandi questioni aumenterà, c'è da scommettere, il senso di impotenza edi inadeguatezza.
5.Se dici Isola, o Niguarda, ti viene in mente una parte di città che ha trattiidentitari per chi ci abita, come anche per gli altri abitanti della città edella metropoli; se dici Zona 2 il riferimento resta muto. E si potrebbecontinuare. L'identità non è una cosa che si inventa a tavolino.
AMilano sopravvive qualcosa di un policentrismo storico; altre focalità sipotrebbero individuare in un progetto unitario capace di fare sistema. A Barcellonalo si è fatto in modo esemplare (a partire dagli anni settanta!) per l'interacittà su una dimensione ancora più ampia di quella di Milano, che tutto sommatoresta una città piccola ma con una precoce e spiccata propensionemetropolitana. Il progetto che può rendere effettivamente policentrica Milanova coltivato e realizzato in un'ottica metropolitana.
Primadi ogni progetto istituzionale occorre un piano di interventi volto non a unaastratta equipotenzialità del territorio (Giancarlo De Carlo), ma a superare ledisparità in fatto di qualità urbana dei luoghi. Quelli che alcuni chiamano conun certa sufficienza "quartieri" (per Milano l'elenco sarebbe moltolungo, almeno sei volte 9) hanno al loro interno energie per orientare ilprogetto unitario di riqualificazione della città in un'ottica di superamentodegli squilibri (De Carlo, che invece su questo aveva ragione, chiamava questaprospettiva la piramide rovesciata).

Senzaun progetto strategico, spezzare Milano in 9 piccoli comuni è pura macelleriaistituzionale che non porterà a risolvere i problemi: porterà solo a moltiplicarecosti e burocrazia (magari sistemando qualche politico a spasso) e a riprodurrein piccolo, quando non a moltiplicarli, gli squilibri e le disfunzioni chesulla carta si vuole combattere. Non si farà un passo per avvicinare icittadini alle istituzioni: ci sarà un triste spettacolo dove i pochi soldipubblici, invece che essere spesi per migliorare la città, verranno sperperatiper tenere in piedi apparati pletorici.

Corriere della Sera Lombardia, 16 luglio 2014

L’Enac ritira il progetto della terza pista di Malpensa, parte integrante del piano di sviluppo futuro dell’aeroporto. A Sarebbe stato lo stesso il presidente della Sea, Pietro Modiano, a prendere la decisione di chiedere una pausa di riflessione. Il gestore aeroportuale rinuncia così all’ampliamento dello scalo, ma — secondo fonti interne alla società — non per sempre. Si tratterebbe veramente di una pausa, per poi ricominciare il percorso da capo. I dati su cui era stato costruito il masterplan, in sostanza, non sono più attuali, dicono in azienda, e la decisione di abbandonarlo è finalizzata anche a riformulare con più calma nuove proposte di sviluppo futuro.

Ora il «dossier sviluppo» è stato preso in mano da Modiano, e nelle intenzioni dei vertici c’è ben chiara l’idea che in futuro sia indispensabile il consenso del territorio. La terza pista e l’intero masterplan, infatti, sono stati oggetto di una forte contestazione in provincia di Varese in questi anni. Nello specifico, il lavoro fatto finora andrà perso ma è stato ritenuto più utile ricominciare da zero, tenendo conto delle mutate condizioni di traffico aereo e di qualità dei veicoli, piuttosto che procedere con continue integrazioni richieste dal ministero dell’ambiente dopo le osservazioni piovute dagli enti locali del territorio.

Del resto, due anni fa la Sea prevedeva di aumentare i passeggeri del 5 per cento annuo. Negli ultimi sei anni è invece c’è stata la «fuga» di Alitalia, il «Dehubbing» e infine la crisi economica che ancora affligge il traffico aeroportuale. Il masterplan, cioè il documento che contiene le previsioni di crescita dell’aeroporto, racchiudeva una gigantesca operazione di strategia industriale. In una relazione tecnica del 2009 gli investimenti previsti erano stimati in 2 miliardi di euro: la sola terza pista aveva un costo preventivato di 237 milioni di euro. E con 847 milioni di euro si prevedeva di allargare il terminal 1 e di costruire un nuovo terminal in mezzo alle attuali piste.

Oggi alla Sea non si esclude che il piano possa essere riproposto in futuro, dal momento che ogni aeroporto dovrebbe avere un proprio masterplan. In realtà è un documento in continua elaborazione dal 2005, quando uno studio dell’istituto Mitre di Washington, specializzato in trasporto aereo, indicò luogo e modalità per lo sviluppo della terza pista e dei servizi collegati. Lo scorso anno il progetto era giunto alla valutazione di impatto ambientale al Ministero dell’ambiente, dopo un sostanziale via libera della Regione Lombardia. Il ministero aveva richiesto alcune integrazioni, ma era stata la stessa Sea nel 2013 a chiedere una sospensiva, intuendo forse che le possibilità di realizzarlo si stavano assottigliando.

Il motivo sta proprio nel mutamento dei numeri di riferimento: quando tutto è partito si sognava un’espansione di Malpensa fino a 50 milioni di passeggeri l’anno, che oggi sono 18,5 milioni annui. Il risultato è che esce dall’agenda l’idea di realizzare una terza pista e viene accantonata anche l’idea di costruire migliaia di metri cubi di capannoni logistici che il masterplan avrebbe previsto a ridosso di Malpensa. L’impatto ambientale rimane ancora da valutare.
Nel frattempo esulta Legambiente, che si augura di poter parlare di «fine di un incubo», accusando Sea di aver voluto «un progetto faraonico per ampliare un’infrastruttura già nata sovradimensionata e disfunzionale».

«Un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e dell'architettura: dalle opere nate per il museo arriviamo al museo nato senza avere le opere. E la direzione è di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi)». Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2014

Certo, la posa della prima pietra non poteva avvenire in un momento più simbolico. Siamo a Mestre e il cantiere è quello dell'M9, che non è un servizio segreto evoluto, ma un enorme Museo del Novecento (9.200 mq, 100 milioni di euro di costo). La ditta vincitrice dell'appalto –forse nessuno si sorprenderà– è la Maltauro, a tutti gli italiani nota grazie allo scandalo dell'Expo.

Ma cosa sarà, esattamente, l'M9? «M9 risponde il sito del progetto – sarà un polo culturale di nuova concezione, con un museo, spazi espositivi, una mediateca-archivio, aree per le attività didattiche e servizi al pubblico. M9 nasce per far conoscere il passato, comprendere il presente e avere fiducia nel futuro: sarà un luogo in cui rappresentare, studiare e interrogarsi sulla modernità e la contemporaneità. M9 rappresenta un passo importante per l'affermazione dell'identità culturale della terraferma veneziana e allo stesso tempo si propone come un esperimento ambizioso di elaborazione di un nuovo standard museale, applicato a un tema difficile e importante qual è quello del raccontare la storia del Novecento».

La cosa singolare è che non si sa bene cosa sarà esposto in questo museo. Né quale e quanto personale scientifico potrà essere assunto. Insomma, più che di un museo si tratta di un grande contenitore. Si tratta di un'evoluzione della secolare perdita di funzione dell'arte e poi anche dell'architettura: dalle opere nate direttamente per il museo siamo arrivati al museo nato senza avere le opere. E la direzione è quella di arrivare ad avere città senza cittadini (Venezia è a un passo, in tutti i sensi).

È chiaro che il progetto di Mestre vuol essere specie di remake italiano del Guggenheim di Bilbao: una storia di successo che in molti hanno cercato di replicare. Quasi sempre, però, con scarsissimo successo. La fondazione di un museo dovrebbe inserirsi nel progetto che una comunità urbana ha sul proprio futuro: è solo un simile progetto che permette di rileggere il passato. Da noi quasi sempre è il contrario: si fa il mega-museo per coprire il vuoto progettuale e politico. Ma invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non resta lo stesso.

Si avvicina l'inaugurazione di un progetto simbolo della scellerata gestione (si fa per dire) della città, svenduta ai più bassi interessi con la scusa di “modernizzarsi”. Due articoli da la Repubblica e Corriere della Sera locali, postilla (f.b.)

la Repubblica
Piazza Sant’Ambrogio riapre dopo otto anni di polemiche e rinvii
di Alessia Gallione e Oriana Liso

Otto anni fa, nell’agosto del 2006, i primi scavi archeologici. Poco meno di quattro anni fa, nel novembre 2010, l’avvio dei lavori di cantiere: per tanti anni piazza Sant’Ambrogio è stata prima parzialmente e poi del tutto chiusa, per realizzare un parcheggio al centro di tante polemiche e tante battaglie. Da questa mattina, però, chi passa davanti alla Basilica vedrà qualcosa di nuovo: gli operai al lavoro per rimuovere le transenne del cantiere. Entro questa sera, infatti, il novanta per cento della piazza verrà riaperto: bisognerà aspettare fine mese — al più tardi la prima settimana di agosto, assicura il Comune — per vedere il lavoro completato. Con la piazza finalmente aperta e rinnovata e con il parcheggio interrato in attività.

La riapertura di oggi permetterà di vedere la piazza attraverso i due “cannocchiali prospettici”, ovvero i due assi che partono dalla Basilica e dall’ingresso dell’università Cattolica: gli spazi saranno ben diversi dal passato, con alberature, viali lastricati di pietra, panchine. Si vedrà, ovviamente, anche l’accesso al parcheggio, che si sviluppa sottoterra per cinque piani, con 223 posti a rotazione e 347 box per i residenti, per un totale di 570 posteggi. Il costo finale, a carico delle imprese che l’hanno realizzato (ovvero il raggruppamento formato da Borio Mangiarotti, Botta e Garage Velasca) è di circa 18,5 milioni. Fa il conto alla rovescia per la riapertura definitiva, fra meno di un mese, l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «In questi anni abbiamo lavorato con grande attenzione, anche con la Sovrintendenza, per rispondere alle esigenze di qualità e di bellezza imprescindibili per quella piazza. Speriamo che questa restituzione possa far superare le polemiche e i problemi che hanno accompagnato questa vicenda », spiega De Cesaris, proprio riferendosi all’odissea di uno dei parcheggi più contestati del “piano Albertini”, quel lungo elenco di opere in project financing deliberate dall’allora sindaco e, in larga parte, decadute con le giunte successive.

Parlano i numeri: dei 240 progetti immaginati negli anni Novanta, sono già 98 quelli che, ufficialmente, non saranno realizzati: 14 perché la localizzazione è stata ritenuta non idonea (tra questi, via Zecca Vecchia, via Washington, via Lodovico il Moro) e 84 per inadempienza, rinuncia o revoca del pubblico interesse, e qui ci sono i casi più famosi, come piazzale Lavater, via San Barnaba, piazzale Libia, via Bernini, senza considerare il parcheggio simbolo, quello della Darsena, già cancellato dalla precedente giunta. Su altri 5 parcheggi il giudizio è sospeso: gli uffici stanno completando le istruttorie. Non ci sono solo le cancellazioni, ma anche i 10 parcheggi ultimati — co- me piazza XXV Aprile — , quelli con i cantieri in corso, che dovranno concludersi entro Expo (oltre Sant’Ambrogio: Rio de Janeiro, Maffei e Valsesia Est) e gli 8 per cui i lavori inizieranno dopo l’ottobre 2015.

La strategia dell’amministrazione è chiara: privilegiare le localizzazioni fuori dal centro, con posti a rotazione e per residenti. Nei prossimi mesi apriranno tre nuovi indirizzi, per un totale di 1.347 posti auto (più 97 posti moto) per i quali il Comune pensa a forme di abbonamento in chiave anticrisi: 140 in via Pichi-Magolfa, gli altri nei due parking al Portello, per auto e moto, e alla Comasina, dove il parcheggio di interscambio avrà 306 posti. Non nuovi posteggi ma un aumento degli stalli esistenti, invece, è previsto per Famagosta e San Donato: all’inizio del 2015 Atm, dopo il via libera del Comune, potrà affidare i lavori per altri 870 posti.

Corriere della Sera
«Isola verde in Sant’Ambrogio». La piazza riapre dopo otto anni
di A.D.M.

Non è ancora un’inaugurazione vera e propria. Quella si terrà tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sarà pronto anche l’ingresso del parcheggio interrato. Oggi però qualcosa accadrà in piazza Sant’Ambrogio: dopo otto anni di cantiere il 90 per cento dell’area verrà liberata dalle transenne. Sarà «scoperta» la passeggiata che collega la piazza a via Terraggio: un percorso pedonale delimitato da aiuole e alberi (le panchine non ci sono ancora, verranno posate a breve). Via i ponteggi anche dal lato opposto. I box auto, invece, apriranno a fine mese: 570 posti in cinque piani interrati, 223 a rotazione, 347 per i residenti.

Un traguardo che arriva alla fine di un percorso lungo e accidentato: il progetto dei parcheggi risale al 2000. La Procura l’ha messo sotto inchiesta, poi l’ha assolto. Il cantiere per i box è partito nel 2006 con i saggi archeologici effettuati dalla ditta costruttrice, la Borio Mangiarotti. Nel 2010 sono cominciati gli scavi, con consegna prevista entro la fine del 2012. Nel mezzo ci sono state le proteste dei residenti, gli appelli degli storici, la preoccupazione per i reperti paleocristiani nel sottosuolo e le critiche ai parcheggi. La stessa giunta Pisapia aveva annunciato al momento dell’insediamento che non avrebbe mandato avanti il progetto.

«Abbiamo provato in tutti i modi a evitare l’opera, ma la penale per l’interruzione ci sarebbe costata troppo, oltre i 10 milioni di euro — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Quindi abbiamo cercato di concludere in fretta l’intervento, lavorando con la Soprintendenza per garantire la massima tutela storico-artistica della piazza, un luogo dal grande valore culturale e religioso. La giornata di oggi è un piccolo passo importante in vista dell’inaugurazione completa di fine mese. Un momento che dovrebbe essere positivo per tutti, visto che la riqualificazione è il frutto di un lavoro corale». Non la pensano così i residenti: «Siamo felici di liberarci dalle transenne, questo sì — dice Roberto Losito —. I lavori ci hanno tenuti in reclusione per oltre otto anni, creando crepe nei nostri pavimenti e rendendoci la vita impossibile per colpa del rumore. Ma la piazza che vediamo oggi sembra un’autostrada: non si sposa certo con la storia del luogo».

postilla
La cosa tragicomica è che l'ex amministratore di condominio facente ahinoi funzioni di sindaco Gabriele Albertini ribadisce che fosse stato per lui di sforacchiamenti così ce ne sarebbero stati decine, centinaia in più, insomma una bella città “mudern” che neppure nelle più feroci inquadrature di Jacques Tati, con ingegneri e politicanti da macchietta lì ad applaudirsi addosso mentre sostituiscono via via piazzole di sosta a case, parchi, monumenti. In questi anni molta parte dell'opposizione ai progetti di autosilo, specie nella zona più centrale, si è focalizzata su aspetti storici, estetici, di vivibilità, e va benissimo. Esiste però anche un'altra prospettiva, spesso un pochino sorvolata, ed è quella della coerenza rispetto a processi evidentemente in corso. La modernità farlocca pervicacemente inseguita o sbandierata dal centrodestra forse si sposa con quella idea di città automobilistica, di New York anni '20 de noantri, che permeava di sé i piani di epoca fascista e in parte anche il periodo dalla ricostruzione al boom. Oggi crolla il ruolo centrale del veicolo privato a motore, si afferma una idea diversissima di mobilità urbana, e dulcis in fundo tra le tante cose del dibattito sull'Expo è ritornata a galla l'idea per nulla peregrina di scoperchiare la Cerchia dei Navigli. Quel gruviera sforacchiato del Sant'Ambrogio Central Box, con tutte le sue centinaia di piazzole pateticamente vintage, sta all'interno della cerchia, raggiungibile teoricamente solo scavalcando un poetico ponticello: che senso ha? Forse quello di accogliere a braccia aperte la sera i rampolli della Brianza suburbana, intossicati insieme dal mito del Suv e della movida? Anche di questo, bisognerà ricordarsi, a lungo (f.b.)

«È singolare che il Comune e il sindaco uscente abbiano preso posizioni contro il passaggio delle Grandi Navi da San Marcoe poi non abbiano voluto questa mostra che ne documenta l’impatto».Non è tanto strano: tra il dire e il fare c'è una laguna di chiacchiere La Nuova Venezia, 13 luglio 2014 (m.p.r.)

Ora tutti vogliono fare anche a Venezia una mostra con le immagini di Gianni Berengo Gardin dedicata al passaggio «claustrofobico» delle Grandi Navi in laguna, che sono esposte da due giorni nell’esposizione che il Fai ha voluto realizzare a Villa Necchi Campiglio a Milano, presentando anche la nuova campagna del Fondo per l’ambiente Italiano dedicata ai Luoghi del Cuore da segnalare per tutelarli, che include anche il Canale della Giudecca, “segnato” dal passaggio delle navi da crociera. E lo stesso grande fotografo a rivelarlo il giorno dopo l’inaugurazione della sua mostra di cui si è parlato ovunque. «Oggi (ieri ndr) - mi hanno chiamato i rappresentanti di due fondazioni private veneziane, che si sono messe subito a disposizione per realizzare la mostra con le mie foto delle Grandi Navi anche in laguna, ma io ho risposto di no. La mostra a Venezia la voglio fare, ma in uno spazio pubblico, proprio perché il problema del passaggio delle navi da crociera e il loro impatto sulla città è un problema di tutti».

E torna, quindi, per Berengo, l’amarezza per non aver potuto realizzare da subito la mostra con le sue foto a Venezia, con tre istituzioni pubbliche che lo hanno tenuto «a bagnomaria» per oltre un anno, con una disponibilità apparente a realizzare l’esposizione, senza poi farne nulla. «È singolare che il Comune e il sindaco uscente abbiano preso posizioni contro il passaggio delle Grandi Navi da San Marco - commenta ancora Gianni Berengo Gardin - e poi non abbiano voluto questa mostra che ne documenta l’impatto». Berengo Gardin non lo dice esplicitamente, ma le tre istituzioni pubbliche che hanno di fatto detto no alle sue fotografie che stanno facendo il giro del mondo, fanno capo in buona parte proprio all’Amministrazione comunale e coinvolgerebbero in particolare la Fondazione Musei Civici e la Fondazione Bevilacqua La Masa.
«Nessuno mi ha mai fatto sapere esplicitamente che non voleva la mostra con le immagini delle Grandi Navi in Bacino di San Marco - ricorda Berengo Gardin - ma mi hanno fatto sapere che c’erano problemi di spazio, di calendario o di natura organizzativa, senza mai arrivare a una risposta precisa, fino a indurmi a rinunciare». La mostra delle foto di Berengo Gardin sulle Grandi Navi, l’avrebbe fatta volentieri Jiva Kraus, curatrice dell’Ikona Gallery, galleria privata veneziana che fa proprio delle mostre fotografiche il suo punto di forza. «È un’amica - commenta Berengo Gardin - ma le ho detto di no, proprio perché volevo fortemente che queste fotografie venissero viste in uno spazio pubblico. Del resto i titolari di altre due grosse gallerie private veneziane mi hanno detto che non avrebbero mai potuto fare una mostra con queste mie fotografie, perché gli avrebbero sicuramente spaccato le vetrine...».
Tema incandescente quello delle Grandi Navi a Venezia, dunque, anche se affrontato con l’ottica di un grande fotografo come Gianni Berengo Gardin. «Ma la mostra a Venezia con queste fotografie voglio comunque farla, non rinuncio a questa idea - insiste ancora - ma deve essere, appunto, in uno spazio pubblico, perché si tratta di un dovere civile quello di dibattere su un problema come questo, che riguarda l’immagine e l’integriità di una città come Venezia». E chissà che non possa essere lo stesso Fai veneziano - quello che è diventato di fatto uno spazio pubblico, pur non essendolo, come il Negozio Olivetti di Carlo Scarpa in Piazza San Marco - a pensare di portare finalmente anche in laguna le immagini di Berengo Gardin, che sta proponendo a Milano. A poca distanza dal passaggio quotidiano dei «Mostri a Venezia» - come è il titolo della sua mostra - in Bacino San Marco.

Alessandro Capponi intervista l'assessore Giovanni Caudo sulla spinosa vicenda dello stadio a Tor di Valle. I "paletti" del Comune alla scelta obbligata da una sciagurata legge nazionale. La Repubblica, ed. Roma 13 luglio 2014

«La penso come il presidente dell’associazione dei costruttori: non sono loro i poteri forti». L’assessore all’Urbanistica, Giovanni Caudo, sta parlando di quanto fatto «in un anno per tutti gli operatori del settore, piccoli e grandi, senza guardare in faccia nessuno»: la polemica è ormai quotidiana - con tutto ciò che sta accadendo tra lo stadio della Roma, Parnasi, Caltagirone - e di certo le ultimissime puntate dello scontro racchiudono il curioso record di aver messo d’accordo l’editore del Messaggero e Legambiente, «un miracolo dei tempi moderni» come scritto da Stefano Menichini su Europa, in un editoriale dal titolo perfetto per spiegare ciò che sta accadendo con lo stadio della Roma: «Una partita di potere».

Assessore, buongiorno. Ma quindi farete lo stadio a Tor di Valle così come si legge in questi giorni? Così senza metropolitana e con 220 milioni di compensazioni?
«Due premesse. La prima: qualsiasi proposta è soggetta a modifiche e quindi anche questa. La seconda: io lo chiamerei lo stadio della trasparenza, visto che il dibattito a tratti polemico al quale lei faceva riferimento l’ho voluto io perché tutti i documenti sono nella Casa della Città, un luogo tra Garbatella e Ostiense nel quale tutti i romani possono visionare questo e altri importanti progetti. Tutto aperto ai cittadini, altro segno di discontinuità col passato».

Il progetto, nel merito.
«La proposta ci è stata presentata da un gruppo privato in accordo con la Roma, sulla base di una legge nazionale. Per me si tratta di una proposta semplicistica: oltre i 340 milioni per lo stadio ne metterebbero 50 per le opere infrastrutturali, gli altri 220 andrebbero compensati con edificabilità per uffici...».
Troppi?
«Ragioniamo, il progetto è complesso e vale, euro in più euro in meno, un miliardo. Sia chiaro: io non ho pregiudizi ma l’amministrazione non può ridursi al ruolo di passacarte e nell’operazione dev’esserci spazio per l’utilità pubblica. 220 milioni da compensare sono troppi o pochi? Io in verità, in un momento nel quale a Roma grazie al piano casa molti uffici si stanno trasformando in case, rilancerei: cosa ne sarà di questi uffici una volta completati? Rimarranno vuoti? C’è una capacità di attrarre investimenti e creare nuova occupazione? Sono queste le domande a cui si deve dare una risposta».
Ce ne sarebbe un’altra, prima: la metropolitana...
«La cura del ferro per quella zona non è solamente importante, è fondamentale. Lì ci sono tre stazioni: Tor Di Valle sulla Roma-Lido, Muratella e Magliana sulla tratta del trenino da Fiumicino. In questo senso la loro proposta è carente: propongono di arrivare a Tor Di Valle con la linea B. Evidentemente non basta, perché tutte le tratte, inclusa quella del trenino, devono essere in rete. La nostra condizione è chiara: allo stadio bisogna poter arrivare in metropolitana. Voglio dire che in questa proposta l’interesse della Roma e quello dei privati sono chiari: ma quello pubblico?».
Risponda lei.
«È il sindaco che chiede di realizzare un progetto che metta al centro il riordino dell’area e in cui sia immediatamente percepito l’interesso pubblico che non può esaurirsi nel dare un magnifico stadio alla squadra ma deve incontrare una definizione più chiara dei tanti vantaggi che Roma deve avere. Il nostro interesse è risolvere i problemi che già ci sono in quella zona, le infrastrutture, e mentre il progetto sulla strada va bene - il collegamento tra la Roma-Fiumicino e l’Ostiense-via del mare con lo svincolo che consente di uscire prima e poi entrare in zona Eur - sulla cura del ferro non ci siamo...».

Intanto, con il progetto dello stadio, questa amministrazione ha fatto ritrovare sulle stesse posizioni Legambiente e Francesco Gaetano Caltagirone...
«Anche questo è un esito dell’operazione “Lo stadio della trasparenza”, siamo interessati a raccogliere tutte le opinioni e le osservazioni. Ricordo poi che il 3 agosto dello scorso anno, appena insediati, abbiamo cancellato 23 milioni e 610 mila metri quadrati di aree potenzialmente edificabili ma alla notizia non è stato dato il benché minimo risalto... In più di un anno non abbiamo fatto un atto che cancellasse anche solo un metro quadrato di aree agricole, niente, e invece abbiamo liberato 9.500 ettari di città malamente costruita che saranno rigenerati, e si badi che quello della rigenerazione è l’unico settore dell’investimento edilizio in crescita...».

Poi si lamenta se i costruttori la attaccano...
«Tutti a Roma devono poter lavorare. Ma abbiamo anche fatto in modo che tutti i costruttori dessero seguito agli obblighi firmati sulle convenzioni, in modo da costruire parchi o scuole o strade a seconda dei casi, ed è evidente che il privato ha fin qui sfruttato la disattenzione dell’amministrazione nel passato... Dico di più: una delibera consentiva a Porte di Roma di cambiare cubatura per il 30 per cento del totale, l’abbiamo portata al 18; in questo caso riguardava il costruttore Parnasi, mentre a Grottaperfetta abbiamo difeso le regole anche se scontentavamo i comitati... È necessario far rispettare le regole: per tornare alla richiesta avanzata ai costruttori di dare seguito agli impegni presi, si sappia che abbiamo pezzi di quartieri che non sono nel contratto di servizio Ama, strade mai completate...».


Riferimenti

Sulla legge che "liberalizza" gli stadi 8e i numerosi annessi e connessi) vedi su eddyburg l'articolo di Paolo Baldeschi, La legge sugli stadi in un paese normale

i terreni sono privati. Inviato l'11 luglio 2014.

Un villaggio neolitico. Una fattoria romana. Un quartiere medievale. Il casino di caccia di Federico II. Accanto, una masseria settecentesca e forse più antica. Periferia di Foggia, tra la superstrada per Candela e via di san Lorenzo. Dalla sterpaglia ecco i ruderi della Masseria Pantano, poco lontano il tratturo Foggia-Ordona-Lavello, così trascurato che il cartello che racconta uno dei percorsi della transumanza è stato cancellato dal sole.

E' il minore degli scandali. Lo scandalo vero è l'avanzata a tenaglia dell'edificazione di questa grande fetta di territorio, così importante per la città di Foggia, così abbandonata. Com'è possibile?

Federico II, convogliando le acque di un torrente vicino, aveva costruito qui un invaso – ancora visibile – a servizio del suo casino di caccia insieme al vivarium e ai padiglioni mobili. Qui ospitava amici e legazioni straniere, qui andava a caccia: al posto dei prati c'erano boschi ricchi di acqua e animali, altri ne aveva naturalizzati il re. Studi e scavi sono ancora da completare.

Poco più in là la Masseria reale, o Masseria Pantano, dal nome del luogo, san Lorenzo in Pantano. Un grande edificio rurale a volte, di cui restano vasti ambienti e si intravedono i piani sottostanti. Volte e archi abbracciati da fichi e rampicanti, semi sepolti da enormi cumuli di macerie, quasi fosse una discarica per calcinacci e scarti di mattonelle. Quasi come tutti i costruttori di Foggia si fossero dati di gomito: andate lì, per scaricare materiali inerti non si paga, in discarica sì. A difendere le mura, una rete da polli abbattuta in più parti, forse dai camion dei cantieri. Poco segnalata persino la “fossa granaria”, un pericolo per chi ci cadesse dentro.

Perché? Il luogo non è ignoto. L'università di Foggia lo ha studiato, il Fai ha fatto più di un'iniziativa per riportarlo in uno stato decente, convegni, manifestazioni, istanze al sindaco. Invano. Hanno ottenuto dal Comune un'ordinanza di messa in sicurezza che vale meno della carta su cui è stata scritta, e infatti.

La questione è che quei terreni sono privati – possibile che nessuno, in Soprintendenza o in Comune o in Regione, abbia pensato all'esproprio: è un bene culturale una zona così ricca, o no? – e che probabilmente i proprietari abbiano presentato proposte di edificazione. Già preesistenze neolitiche sono state conglobate negli scantinati di alcuni dei palazzi in costruzioni, le cui gru stringono d'assedio la Masseria Pantano.

Impossibile verificare le voci: sta di fatto che quando si chiede di chi sono quelle aree, molti cambiano discorso e distolgono lo sguardo. Persone potenti, certo. Tanto da cancellare un gran pezzo di storia di Foggia? Pensate: Federico II trasferì a Foggia la capitale del Regno delle Sicilie, prima a Palermo. Innamorato di questa città e conscio della sua posizione strategica, vi costruì un palazzo imperiale di cui poco resta, se non il portale accanto al Museo Civico. Ancor più importante, dunque, la testimonianza di pietra di Masseria Pantano.

Invece no. Invece la valanga di calcinacci fin dentro la Masseria. Invece una rovina forse accelerata dalla mano umana, vandalizzata, così che quel “dente cariato” sia cancellato più presto dall'orizzonte. C'è chi, invitato a un laboratorio urbanistico, assicura che in comune si prevede sia cementificata tutta l'area e che i cittadini sarebbero stati convocati per chieder loro qualche compensazione vogliano, una pista ciclabile o l'area giochi per bambini.

Intanto le gru avanzano, a tenaglia. Da un lato la superstrada, dagli altri i cantieri dei palazzi di speculazione. Non c'è una piazza, non c'è un ritrovo, l'unico luogo “sociale” è il centro commerciale. Negli edifici già costruiti, poche le case occupate davvero, ma si va avanti, le betoniere macinano cemento, i camion marciano, le gru s'affannano. La Masseria Pantano, la sua storia, la sua ricchezza di testimonianze non è che un trascurabile inciampo nella gloriosa edificazione di una brutta periferia in una città che sceglie di essere sempre più brutta. E perde se stessa.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, blog"Città e Città"

Evoluzione quasi naturale delle politiche su una mobilità meno legata all'auto privata, il nuovo limite di velocità manca però di una indispensabile chiara idea spaziale di riferimento. La Repubblica Milano, 13 luglio 2014, postilla (f.b.)

É il provvedimento con l’impatto più forte sulla mobilità di Milano, dopo Area C: Palazzo Marino vara il progetto di trasformare tutte le strade all’interno della Cerchia dei Navigli in un’unica “Zona 30” in cui, quindi, le auto dovranno viaggiare a bassissima velocità. L’ordinanza è stata firmata venerdì e disegna il percorso che arriverà a completa attuazione entro l’inaugurazione di Expo, anche se una prima partenza è fissata già a inizio 2015. È tanto il lavoro da fare: bisogna far realizzare e sistemare tutti i cartelli che andranno posizionati all’inizio delle vie lungo l’intera Cerchia per segnalare agli automobilisti l’obbligo di rallentare.

Spiega l’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran che «con questo passaggio il centro diventa a tutti gli effetti una zona a pedonalità privilegiata, sull’esempio di altre metropoli europee». Tradotto, più spazio a chi lo percorre a piedi, in bici o con i mezzi pubblici, scoprendone i suoi tesori artistici e archeologici, spingendo (metaforicamente) sull’acceleratore di un percorso già iniziato con la congestion charge, le isole pedonali, le piste ciclabili. L’obiettivo è anche quello di ridurre il rumore e il pericolo incidenti, come si è visto nelle città in cui i limiti di velocità in centro sono già realtà da tempo.

La filosofia è contenuta lì, in quelle due pagine di ordinanza che l’assessore ha firmato tre giorni fa a nome del sindaco. E che fa nascere la nuova “Zona a velocità limitata”. Perché la circonferenza della Cerchia dei Navigli abbraccia pezzi di città «di pregio dal punto di vista artistico, storico e urbanistico», si legge, da vivere ancora di più a piedi o in bicicletta: da Sant’Ambrogio con il reticolo di vie della Milano romana a Brera, dal «polo attrattivo di fama mondiale» rappresentato dal Quadrilatero della Moda a Corso Venezia che corre costeggiando i giardini, fino ai raggi — corso di Porta Ticinese, corso di Porta Romana, corso Italia, corso di Porta Vittoria — che puntano verso il Duomo, «dove la componente di mobilità pedonale risulta preponderante rispetto alle altre», cita il documento. Un altro strumento che Palazzo Marino ha scelto «per aumentare la vivibilità » e che si affianca alle chiusure vere e proprie ai motori, come l’ultima isola pedonale di piazza Castello. «Questa ordinanza — spiega Maran — certifica quello che sta già avvenendo con i progetti della “Milano Romana” ad esempio, o gli interventi per le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi in corso Venezia, e che sarà ancora più evidente durante i sei mesi di Expo: il centro storico è sempre più pedonale ». Non solo centro, però. Il piano complessivo di Palazzo Marino, infatti, prevede che sempre più porzioni di città diventino “Zone 30”. «In questi giorni stanno finendo i la- vori in via Caterina da Forlì e presto partiranno quelli in via Melzo. L’idea è di aprire un cantiere in ogni quartiere», continua Maran. Seguendo una mappa da disegnare negli anni che va dall’Isola a via Washington.

L’ordinanza sul centro storico, dopo gli studi e i progetti accarezzati anche nel piano del traffico approvato l’anno scorso, ora fa scattare la fase operativa. La macchina del Comune può mettersi in moto per organizzare la rivoluzione (dolce) per la mobilità. L’obiettivo, sull’esempio di altre metropoli europee è ridurre la velocità delle auto, il numero e la pericolosità degli incidenti, il rumore. Secondo i dati del Comune, ad esempio, con questo modello a Londra c’è stato un calo degli incidenti del 40 per cento; in Germania la norma è partita dal 1980 e, ormai, le stime dicono che il 70 per cento della popolazione delle grandi città vive in “Zona 30”. Inizialmente, Palazzo Marino aveva ipotizzato di far partire la sua rivoluzione in un’area ancora più vasta, ovvero farla coincidere con la Cerchia dei Bastioni per irrobustire gli effetti della congestion charge.

«Ma in questo momento — è la spiegazione dell’assessore — ci sembra che quelli dei Navigli siano i confini migliori perché sono già quelli di una sorta di Zona 30 naturale». Cosa succederà quando saranno montati i cartelli? In tutte le vie all’interno della Cerchia le auto dovranno viaggiare a 30 chilometri all’ora. Lungo la circonvallazione più piccola non cambierà il limite, così come non saranno modificate le strade già oggi pedonali o riservate a bus e tram. L’ordinanza prevede anche sanzioni: «L’inosservanza è punita ai sensi del combinato disposto de- gli articoli 7 e 142 del vigente Codice della strada», si scrive nel documento. «Ma non ci saranno telecamere o autovelox per dare multe — dice già oggi Maran — . Questo non è un provvedimento per fare cassa, ma per dare una visione di progressiva pedonalizzazione del centro, per responsabilizzare chi si muove in macchina a rispettare chi si muove a piedi. Servirà anche agli stessi progettisti del Comune come un impegno a intervenire in quest’ottica ogni volta che sarà rivisto un incrocio o ridisegnata la viabilità».

postilla


Pare davvero logico, intelligente, consequenziale, che il primo grande spazio in cui applicare quella che a New York e altrove chiamano Visione Zero, ovvero la massima sicurezza stradale garantita dal limite dei 30kmh, sia il nucleo più centrale di Milano. In fondo non stiamo neppure parlando di chissà cosa, al netto della ipersensibilità dei pochi che considerano questa fettina urbana “la città”, se pensiamo che non si chiude un bel nulla, ma semplicemente si riduce di qualche punto percentuale il pessimo vizio di schiacciare troppo l'acceleratore. Non si costruisce neppure un tappo alla circolazione, visto che le auto continueranno a entrare e uscire, solo un po' più lente, e neppure tanto. Ma rispetto a New York e alle altre grandi città della Visione Zero, le lacune (superabili) del piano milanese traspaiono se necessario dal fatto che si senta solo ed esclusivamente la voce del pimpante assessorino a ambiente e mobilità, solo lui. Così come successo in occasione delle Isole Digitali, o del progetto attorno al Castello, pare che tutto ruoti attorno a un'idea sola, mentre invece non è affatto così: che si dice ad esempio dell'indispensabile adattamento spaziale delle carreggiate, degli attraversamenti, dei nodi? Le amministrazioni delle città del mondo pubblicano addirittura dei manuali divulgativi, con tanto di nomignoli per il nuovo tipo di innesto a L con scivolo e aiuola, dove l'auto può curvare e il passeggino attraversare in comodità e sicurezza. Noi niente, solo cartelli, vigili e multe, perché “non è di mia competenza”? (f.b.)

Le istituzioni asservite ai grandi gruppi economici adoperano la vecchia arma di tutte le dittature, la censura, per non far conoscere la verità agli abitanti e ai visitatori della città saccheggiata. «Volevo esporle in una sede pubblica, nessuna risposta. Così il lavoro di Berengo Gardin è ora a Milano, grazie al Fai». La Nuova Venezia, 12 luglio 2014

Una selezione da 300 scatti fatti quando «entrano a catturare la loro preda» Il Canale della Giudecca Luogo del Cuore Il Fai a fianco di Gianni Berengo Gardin e contro i “mostri” della laguna.

Il Fondo per l’Ambiente Italiano ha preso decisamente a cuore il problema del passaggio delle Grandi Navi per il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. Ieri a Villa Necchi Campiglio, a Milano, è stata inaugurata la mostra fotografica “Mostri a Venezia”, dedicata proprio alle immagini delle grandi navi da crociera che passano di fronte a Piazza San Marco scattate dal grande fotografo Gianni Berengo Gardin. Che avrebbe voluto vederle in mostra a Venezia, ma non c’è riuscito: «Attraverso una influente signora veneziana» dice «ho cercato contatti con enti pubblici per poter esporre queste immagini. Per un anno e mezzo ho aspettato un cenno che non è mai arrivato, ricevevo solo rinvii. Si è fatta avanti una galleria privata, ma non era la sede per questo lavoro: è denuncia prima che arte. Forse è un tema che Venezia non vuole sollevare».
Quali siano questi enti pubblici, il fotografo non lo dice. Le ventisette immagini di Berengo Gardin selezionate per la mostra milanese da 300 scatti realizzati a partire dal 2010, ritraggono il quotidiano passaggio delle mastodontiche navi da crociera nel Canale della Giudecca. Un segno forte che il Fai intende lanciare in un momento cruciale per le decisioni del Governo sul problema del passaggio delle Grandi Navi all’interno di Venezia e che coincide anche con l’avvio della nuova campagna del Fondo per la scelta dei Luoghi del Cuore, quelli che cioè gli italiani amano maggiormente e che sono invitati a votare, per garantirne la tutela. E proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del passaggio delle Grandi Navi da San Marco, il Fai ha da quest’anno inserito tra i nuovi Luoghi del Cuore che potranno essere indicati dai cittadini anche il canale della Giudecca, per sottolineare così la necessità di difendere - attraverso la principale arteria acquea a fianco del Bacino di San Marco - l’integrità di Venezia e la sua immagine, messa a repentaglio per molti proprio dal passaggio delle grandi navi da crociera.
Un tema caro anche a Ilaria Borletti Buitoni, già presidente del Fai e ora sottosegretario ai Beni Culturali. Una mostra di grande impatto, quella milanese, che intende far riflettere su questi mostri che quotidianamente minacciano Venezia, che con i loro “inchini” fanno tremare più volte al giorno i suoi preziosi monumenti, che con i loro volumi producono onde e correnti sottomarine che logorano le delicate fondamenta della città, e che con i loro motori inquinano l’aria, secondo le denunce dei comitati ambientalisti. Le fotografie costituiscono un reportage duro, severo, rigoroso: un lavoro di testimonianza e di denuncia da parte di uno dei più grandi fotografi italiani, Gianni Berengo Gardin che ha vissuto a lungo a Venezia, città di suo padre.
Un lavoro che equivale a una presa di posizione netta, che il fotografo sente come un dovere civile: «Sono rimasto sconvolto, quando le ho viste. In effetti, quando passano, non si vede altro. Queste fotografie sono solo una goccia d’acqua nel mare dell’opposizione, ma sono una denuncia civile, una battaglia vera. Non si tratta solo di questione estetica, ma di pericoli reali». Gianni Berengo Gardin ha trovato il tempo di scattare queste immagini dopo che, accompagnando la sua mostra antologica a Palazzo dei Tre Oci, alla Giudecca, ha visto e rivisto il passaggio delle grandi navi. Si è alzato alle 5 del mattino «per riprenderle quando entrano a catturare la loro preda». Nelle foto, ha dato loro tutto lo spazio che si prendono: l’intera visuale. «Non ho usato teleobiettivi per “schiacciare” le distanze, al massimo un 80 millimetri». Quello che si vede, dunque, «non è un effetto ottico: la fiancata della nave toglie tutto lo sfondo, diventa la fine dello sguardo di tutte le calli e i campi di riva degli Schiavoni e della Giudecca». Tra le tante forme di protesta che accompagnano il passaggio delle Grandi Navi questa, con il silenzio della fotografia, è quella che urla più forte: è il grido delle immagini, e dell’arte. (ha collaborato Silvia Zanardi)
Riferimenti
Chi vuole conoscere i dati di un corretto bilancio costi/benefici del cricierismo delle Grandi navi aVenezia legga l'aureo lbtretto dell'economistafuori dal coro Giacomo Tattara, Misurare il crocierismo, Collana Occhi aperti su Venezi, Corte del fòntego editore, 3 €

Pare davvero surreale che proprio nei giorni in cui la padania va sott'acqua esattamente per gli eccessi dell'urbanizzazione speculativa a vanvera, il partito dei palazzinari non arretri di un millimetro. La Repubblica Milano, 10 luglio 2014 (f.b.)

Forza Italia e Ncd pronti a stravolgere la legge sul consumo del suolo dell’assessore Viviana Beccalossi. Norme non più retroattive e vincoli solo sui terreni agricoli. Tre anni di tempo per comuni e costruttori per adattarsi alle nuove regole e approvare i progetti attuativi. Una vittoria per il partito dei costruttori. Dopo la nuova legge sui boschi, che aumenta il periodo di tempo in cui è possibile abbattere gli alberi sia in montagna che in pianura senza autorizzazione e il pagamento di compensazioni, il centrodestra che governa la Lombardia è pronto ad abolire le restrizioni previste dal progetto di legge sul consumo del suolo dell’assessore regionale all’Urbanistica e al Territorio Viviana Beccalossi di Fratelli d’Italia approvato dalla giunta lo scorso febbraio. Ora in stallo, ancora in attesa del voto del Consiglio regionale dopo il no di Forza Italia e Nuovo centrodestra a un testo ritenuto eccessivamente penalizzante per la categoria dei costruttori. Dopo una serie di rinvii, un vertice di maggioranza con il governatore Roberto Maroni e una riunione del tavolo di lavoro ristretta solo ai partiti della maggioranza la scorsa settimana, torna riunirsi oggi il tavolo allargato anche agli esponenti dell’opposizione.

Il compromesso proposto da forzisti e alfaniani agli alleati prevede la non retroattività della legge. L’eliminazione dei limiti volumetrici previsti dal testo della giunta per sostituirli con «criteri» per definire di volta in volta il concetto consumo del suolo. Inoltre, i comuni avranno fino a tre anni di tempo per adeguarsi alle nuove regole. Adeguandosi al nuovo piano regionale. Lo stesso limite di tempo concesso ai costruttori per verificare l’attualità dei progetti per le aree di espansione lottizzate a destinazione residenziale e produttiva dove tutto resterà come prima. Il vincolo dello stop al consumo del suolo, di fatto, si applicherà solo ai terreni agricoli. Mentre tutti i progetti già approvati relativi ai centri urbani saranno considerati diritti acquisiti. Novità che di fatto smantellano la rivoluzione promessa dall’assessore Beccalossi, quando aveva illustrato la legge in giunta. Un testo poi rimasto nel cassetto a causa delle divisioni interne nella maggioranza. A cominciare da Forza Italia, preoccupata, secondo alcuni maligni, di non irritare troppo la lobby dei costruttori e in particolare Paolo Berlusconi, fratello di Silvio. Tanto che il provvedimento era stato messo in calendario per la scorsa seduta del Consiglio regionale di martedì, per poi essere rinviato alla prossima del 15. Anche se ormai con ogni probabilità il voto finale slitterà a dopo l’estate. Negli scorsi giorni, però, Ncd e Forza Italia avrebbero incontrato sia Maroni che l’assessore Beccalossi proponendo una mediazione. Il tavolo di lavoro oggi dirà se la quadra è stata trovata realmente. Il capogruppo di Forza Italia Claudio Pedrazzini è fiducioso.

Nel frattempo, l’opposizione di centrosinistra alza il tiro. Il presidente del tavolo di lavoro Agostino Alloni del Pd ha già minacciato di dimettersi se oggi non arriverà un testo. Il movimento Cinque stelle, al contrario, fa sapere che resterà. «Sul consumo del suolo basta melina — dichiara il grillino Gianmarco Corbetta — l’esondazione del Seveso è solo l’ultimo esempio dei danni ai quali ha portato la totale anarchia nella cementificazione in Lombardia».

«L’intenzione di Fersuoch è dimostrare che non esiste un’opera buona, il Mose, inquinata dalla corruzione. È il Mose in sé un’opera che non si sa se funzionerà, persino dannosa, bocciata fin dal 1998». La Repubblica, 8 luglio 2014

Nel 2013 sono state 156 le volte in cui le maree, a Venezia, hanno superato di 80 centimetri il livello medio. Dato che le paratoie del Mose si innalzano a quota 110 centimetri, bloccando l’accesso in laguna, per 156 giorni, nel 2013, una parte di Venezia sarebbe stata invasa dall’acqua anche con il Mose. Una parte piccola, ma pur sempre piazza San Marco. È uno dei paradossi denunciati da scienziati, ingegneri, strutturisti e dalle associazioni ambientaliste impegnati da anni, inascoltati, nell’opposizione al Mose, che ora si vorrebbe portare comunque a compimento, nonostante si sia scoperto quanto fosse spinto nel suo cammino dalle tangenti.

Obiezioni, studi, cifre, raffronti internazionali sono raccolti da Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra veneziana, in un agile, ma documentato libretto
A bocca chiusa. Sipario sul Mose (Corte del Fontego editore). L’intenzione di Fersuoch è dimostrare che non esiste un’opera buona, il Mose, inquinata dalla corruzione. È il Mose in sé un’opera che non si sa se funzionerà, persino dannosa, bocciata fin dal 1998 dalla commissione per la Valutazione d’impatto ambientale, mai smentita da un altro organismo scientifico, affidata in regime di monopolio al Consorzio Venezia Nuova, che badava a tutto, ai progetti, all’esecuzione, e poi, come sta accertando la Procura, all’acquiescenza di tecnici e accademici di varie discipline e alla corruzione di politici, amministratori e funzionari pubblici.

Le criticità addebitate al Mose iniziano dallo sconvolgimento dell’equilibrio lagunare, della dinamica dei flussi e dei riflussi di maree, vitale per l’esistenzadel bacino e per il benessere di Venezia. D’altronde del Mose non è mai stato elaborato un progetto esecutivo, ma solo il preliminare e il definitivo. Le barriere alle bocche di porto, stando alla legge, sarebbero dovute essere realizzate solo dopo altri interventi, che invece non sono mai stati compiuti. Fin dal 1994 si è denunciato il rischio che le paratoie (78 nelle tre bocche di porto, Lido, Malamocco e Chioggia), una volta sollevate e sollecitate dalla marea, oscillassero e lasciassero dei varchi dai quali l’acqua sarebbe passata. Il Mose, quindi, non garantiva una chiusura ermetica.

E ancora: le cerniere che tengono agganciate le paratoie ai cassoni di calcestruzzo (manufatti alti quanto un palazzo di dieci piani), per decisione del Magistrato alle acque, sono saldate e non fuse, come prevedeva il progetto originario. Ma chi in quella struttura sollevò dubbi sui costi e sulla manutenzione fu rimosso da Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato alle acque, ora agli arresti.

E poi le cerniere sono così costose perché le paratoie si alzano andando contro la corrente. Nel 2005 Vincenzo Di Tella, ingegnere idraulico, dimostrò che si sarebbe potuto invertire il senso delle paratoie, alzandole assecondando la corrente, con un risparmio enorme. Ma la sua soluzione fu bocciata. Da chi? Dal Consorzio e dal Magistrato alle acque. Il libro inanella i passaggi che hanno accompagnato il Mose. E segnala tanti giudizi negativi rimasti senza conseguenze. Come quello di Antonio Mezzera, giudice della Corte dei Conti: la cui relazione, ha accertato la Procura, venne modificata su pressioni del

"A bocca chiusa. Sipario sul Mose", di Lidia Fersuoch ( Corte del Fontego editore, pagg. 36, euro 3)

A furia di pensare i flussi di mobilità in modo meccanico e sconnesso rispetto alla qualità degli spazi, dei soggetti, dei comportamenti, si combinano un sacco di evitabili guai. Due aspetti diversi da due articoli di Ivan Berni ( la Repubblica) e Marta Ghezzi (Corriere della Sera Milano), 6 luglio 2014 (f.b.)

la Repubblica
CHE AVVENTURA RISPETTARE I LIMITI
di Ivan Berni


Fra le notizie, diciamo così minori, delle ultime settimane mi ha particolarmente colpito quella del numero delle multe per eccesso di velocità «prodotte» dai nuovi sette autovelox installati da Comune e Prefettura lo scorso 10 marzo. Sono 9000 infrazioni al giorno, di cui 4349 inflitte ai trasgressori del limiti sul Cavalcavia Ghisallo. Per chi non lo sapesse, il cavalcavia Ghisallo è il grande raccordo che porta alle autostrade dei Laghi e alla Milano Venezia. Siccome sono fra chi percorre, un paio di volte al mese, quel raccordo — e dato che mi è quasi certamente capitato, senza accorgermene, di violare i limiti — mi sono impegnato in una prova di autodisciplina: rispettare rigorosamente la segnaletica, senza sgarrare di un solo chilometro rispetto alle indicazioni. Sono sopravvissuto, ma ho corso il rischio di essere travolto da un paio di camion, da una decina di furgoni e da un numero incalcolabile di auto. Nessuno andava piano come me. Sono stato sorpassato da sinistra e da destra — e strombazzato — da camioncini carichi di macerie, compattatori dell’Amsa, una Panda con quattro suore e persino da un carro funebre. La quantità di contumelie, insulti, esibizioni di dito medio e vaffa assortiti la lascio, facilmente, immaginare a chi legge.

È stata una pessima e pericolosa avventura perché chi ha posizionato gli autovelox — segnalati, è vero, da appositi (ma piccoli) cartelli — se ne è allegramente sbattuto di «armonizzare » la segnaletica verticale (sui pali) e orizzontale (sulla strada). Sicché imboccando viale De Gasperi, che precede l’inizio del Cavalcavia Ghisallo vero e proprio, i cartelli indicano un limite di 50 all’ora, mentre sulla carreggiata è dipinto un limite di 70 chilometri orari. Quando inizia la rampa ecco apparire i cartelli con i 70 all’ora, ma un centinaio di metri più avanti — mentre le corsie disponibili per senso di marcia sono quattro, come in una highway di Los Angeles — ecco ricomparire nuovamente un limite di 50 all’ora. Poco dopo si torna a 70, ma è un’illusione che dura un attimo, perché in corrispondenza di una immissione da destra tornano in vigore i 50. La tortura dura all’incirca tre chilometri e l’automobilista ligio alle regole ne esce con una doppia convinzione: non ripetere mai più l’esperienza per non subire un tamponamento rovinoso e che anche a Milano i limiti di velocità, come più in generale le regole in Italia, funzionano, per così dire, a la carte. A seconda della convenienza di chi li impone. Non sappiamo, infatti, quante delle 4349 infrazioni quotidiane registrate sul «Ghisallo » vengano realmente perseguite. Sappiamo, però, che chi si propone di non violare le regole lo fa a suo rischio e pericolo.

Per uscirne basterebbe stabilire un limite unico — i 70 all’ora citati dagli assessori al momento della messa in servizio degli autovelox, (ma perché non i 90 all’ora di qualsiasi strada provinciale a due corsie?) — togliere la segnaletica verticale contraddittoria e, magari, mettere un pannello a segnaletica variabile all’imbocco del cavalcavia con una indicazione chiara. E a quel punto punire severamente chi sgarra. Gli automobilisti ligi, ma anche quelli discoli, ringrazierebbero. E comincerebbero a pensare che i limiti di velocità, nelle strade urbane di grande scorrimento, non sono un trucco per far cassa. Ma sono un provvedimento sensato, che serve alla sicurezza di tutti.

Corriere della Sera
UNA CITTà A MISURA DI TUTTI
di Marta Ghezzi


I conti sono stati fatti partendo da dati concreti. Nelle ultime edizioni di Expo i visitatori con disabilità erano 800 mila. La differenza, questa volta, la farà la crisi. Ma secondo le associazioni di settore, «Nutrire il Pianeta, Energia per la vita» attirerà il prossimo anno almeno 300 mila disabili. All’inizio di Expo mancano 300 giorni. Pochi per mappare l’accessibilità del capoluogo lombardo, sufficienti per testare una decina di percorsi «sensibili». Itinerari ad alto tasso di interesse artistico-culturale, arterie dello shopping, zona del nuovo skyline che devono dimostrarsi friendly con chi ha mobilità o vista ridotta.

In un pomeriggio di sole, Marco Rasconi, presidente Ledha, ne verifica uno. E mentre da piazza Duomo si avvia verso la Loggia dei Mercanti, lancia subito una proposta. «Quando c’è carenza di risorse bisogna mettere in campo tutte quelle disponibili — dice —. La mappatura è un’operazione complessa, che richiede tempo ed energie: perché non coinvolgere Università e scuole superiori? Sarebbe anche un modo indiretto per creare cultura sulla disabilità». Parla e intanto le ruote della carrozzina faticano sul pavé. «È un problema, ovviabile asfaltando o rendendo piani i soli attraversamenti pedonali».

Lungo i marciapiedi del centro gli scivoli sono onnipresenti (anche se di frequente occupati da mezzi con le quattro frecce accese), e il percorso non risulta difficile. Il problema sono i negozi: un gradino di 3-4 centimetri è sempre presente, spesso anche più alto. «Un brutto biglietto da visita, a pochi passi dal Duomo», riflette Rasconi. È solo cattiva volontà: basterebbero piccole pedane». Poca sensibilità e zero spirito pratico. Mohamed Baidi, studente di Economia in Cattolica, ferma la carrozzina davanti all’insegna di una toilette per disabili di un bar. «Ma come la raggiungo se è in fondo a una rampa di scale?», osserva divertito. Abituato a girare sui mezzi pubblici, aspetta un tram con pedana estraibile. Salita perfetta, discesa rocambolesca: il pulsante per l’autista è rotto, bisogna affidarsi agli altri passeggeri, rischiando di non scendere in tempo. «Sono abituato — commenta — abito a Qt8, ma la prima fermata di metrò accessibile è Amendola, la distanza la copro in carrozzina».

Anche l’Unione Italiana Ciechi ha risposto all’appello del Comune sulla mappatura. Franco Lisi, referente Commissione Autonomia Lombardia, e Francesco Cusati, delegato Tavolo tecnico Expo, affrontano il percorso da via Vivaio ai Giardini di Porta Venezia. Si muovono rapidi, evitando angoli e ostacoli. «Non sarà così per chi viene per la prima volta», chiariscono. La riflessione davanti alle strisce pedonali di via Cappuccini. Un punto pericoloso: la curva del marciapiede, non in asse con le strisce, invita a una discesa sbagliata. «Gli attraversamenti sono la criticità: dovrebbero essere sempre indicati con l’apposito codice tattile a terra, in colore contrastante per gli ipovedenti», rilevano. Stesso problema per il semaforo. In corso di Porta Venezia mancano guide tattili a terra: affidarsi all’intuito? Fermare un passante? «Si pensa che il dispositivo sonoro risolva tutto, ma per attivare il pulsante di chiamata devo prima raggiungere il semaforo». Intanto fioriere, cartelli pubblicitari, moto, costringono chi cammina con il bastone a uno zig zag continuo e improvviso. Nuovo pericolo a pochi passi dall’ingresso del parco.

C’è la ciclabile, ma come scoprirlo? «Le bici sono mezzi silenziosi e veloci: è fondamentale segnalarne il passaggio». Nello stesso momento, Guido Marchetto e Paolo Parimbelli testano l’accessibilità nella nuova zona di Porta Garibaldi. E provano a individuare la fermata di un mezzo pubblico. Impossibile, senza un aiuto. «Basterebbe poco: guide a terra e segnalazione sonora, come all’estero», dicono. Expo è oramai dietro l’angolo, ma potrebbe essere il punto di partenza.

Il 25 giugno scorso si è svolta a Venezia, Forte Marghera, un’assemblea organizzata dal coordinamento veneziano della lista “L’altra Europa con Tsipras”. Pubblichiamo la relazione di Edoardo Salzano e l’intervento di Mattia Donadel. In calce i link ad altri documenti presentati da Armando Danella

MoSE, IL CAVALLO DI TROIA
PER IL SACCHEGGIO DEL VENETO
intervento di Mattia Donadel

Si dice spesso dei Veneziani che, a torto o a ragione, si ritengano un po’ troppo al centro dell’attenzione. Ma nel caso del terremoto causato dall’inchiesta “MOSE”, non vi è dubbio che l’epicentro sia collocato proprio a Venezia.

Il MOSE, la grande opera pensata per salvare Venezia e la laguna, è stato infatti il cavallo di Troia attraverso il quale è stato costruito negli ultimi 30 anni un vero e proprio sistema di potere mafioso che si è impadronito dell’intera Regione, e oltre.

La storia è nota: a metà degli anni ’80 viene creato il Consorzio Venezia Nuova, il concessionario unico dello Stato per la realizzazione del MOSE e delle altre opere di salvaguardia in Laguna, che in deroga a tutte le normative europee in materia di appalti, ha stornato miliardi di euro dei contribuenti alle proprie ditte consorziate, ed entrate a far parte del Consorzio medesimo senza alcuna procedura di evidenza pubblica. Soldi e appalti che hanno permesso di far lievitare in pochi anni i fatturati e gli utili di alcune ditte come ad esempio la Mantovani spa; ma anche soldi che attraverso false fatturazioni, prezzi gonfiati, lavori inventati sono serviti per assicurare un potere incontrastato alla classe politica che ha Governato il Veneto fino ad oggi; classe politica si badi bene, che è stata diretta espressione di questa cricca “cricca” e non banalmente vittima del burattinaio del Consorzio Venezia Nuova. Un potere così pervasivo da riuscire a inquinare e condizionare tutti i settori della società: dagli apparati di controllo, alla comunicazione, al mondo scientifico e della cultura, e perfino la Chiesa.

Per quanto il MOSE sia stato ed è un’opera pensata per risucchiare quantità colossali di soldi anche oltre alla sua realizzazione, ben presto, come una specie di cancro, il “sistema” ha cominciato a diffondersi in ogni direzione alla ricerca di fonti sempre nuove di alimentazione: proprio le opere pubbliche sono diventate il terreno di coltura privilegiato, si tratti di nuove autostrade, ospedali, infrastrutture energetiche poco importa, importante è che siano grandi e costose.

Altrettanto affinati sono stati gli strumenti messi a punto per avviare e gestire il business delle grandi opere: Legge Obiettivo, uso dell’emergenza e dei Commissari straordinari, pieno controllo della Commissioni tecniche di Valutazione (es. commissioni VIA-VAS) hanno permesso di eludere vincoli e controlli di ogni sorta espropriando le comunità locali di ogni potere decisionale e mettendo fuori gioco comitati, associazioni, chiunque tentasse di mettersi di traverso.

Il problema del progressivo esaurimento di fondi pubblici ha indotto poi all’invenzione del cosiddetto Project Financing, grazie al quale sarebbero state proprio le cordate private a finanziare le opere in cambio di concessioni o canoni decennali. In realtà una vera e propria truffa, perché a fronte di piani economico-finanziari truccati, nelle convenzioni che regolano le concessioni tutti i costi finiscono per essere scaricati sugli enti pubblici in modo differito nel tempo.

Passante: la testa di ariete

E se il MOSE è stato il Cavallo di Troia, la testa d’ariete per dare la stura a questo sistema si chiama Passante di Mestre, l’unica grande opera realizzata e già funzionante in Veneto.

Il Passante, infatti, ha permesso di sperimentare tutte queste leve e anche oltre: la Legge Obiettivo, il Commissario Straordinario, l’affidamento dei lavori a un “general contractor” mediante procedura discrezionale. E’ bene ricordare poi che le principali ditte che hanno costruito il by-pass di Mestre sono socie del Consorzio Venezia Nuova, e alcune di queste in particolare si trovano al centro dell’inchiesta, mantovani spa e Co.Ve.Co. sopra tutte. E sarà pure una coincidenza, ma guarda caso la stessa Sezione generale della Corte dei Conti denunciava un aumento ingiustificato dei costi per il completamento della nuova autostrada e delle opere complementari (da circa 750 milioni di euro preventivati, a oltre 1,4 miliardi di euro finali), nonché gli scarsi controlli, il forte rischio di corruzione e di infiltrazione mafiosa.

La lievitazione dei costi in questo caso non rimanda semplicemente al malaffare, ma anche ad un ulteriore sviluppo: quello della finanziarizzazione delle grandi opere.

Ricostruimao un po’ la storia: i soldi per il Passante sono stati erogati direttamente dallo Stato (circa 290 milioni di euro) e dalla SpA al 100% pubblica ANAS (per circa 1 Meuro). Nel 2008 è stata creata la CAV SpA, partecipata al 50% dalla stessa ANAS e per l’altro 50% dalla Regione del Veneto. Nella Convenzione di Concessione la CAV è tenuta non solo alla gestione del Passante e di altre tratte stradali, ma anche alla restituzione ad ANAS dei soldi che questa aveva anticipato per la realizzazione dell’opera attraverso il gettito dei pedaggi. Nonostante l’elevato flusso di traffico, è apparso subito chiaro che il debito non era ripagabile. Di qui partono alcune operazioni di rifinanziamento: nel 2013, grazie all’avvallo della Giunta Regionale, CAV riceve 350 milioni di euro dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e 73,5 milioni di euro da Cassa Depositi e Prestiti (CDP), il tutto a tassi di interesse di mercato. Di debito in debito il “buco” si allarga, e proprio nei prossimi giorni partirà un’ulteriore rifinanziamento, ancora più pericoloso: la CAV si appresta infatti ad emettere titoli finanziari legati all’opera (i famigerati Project Bond) per circa 700 milioni di euro. Si tratta della prima operazione di svendita di un’opera pubblica in Italia; per l’acquisto dei titoli sono già in “pole position” Royal Scotland Bank, Unicredit, Societè Generale, Intesa e Bnp Paribas. Cosa succederà nel momento in cui la bolla speculativa che è stata creata esploderà?

Ma non è finita qui, perché la costruzione del Passante è stato il vero grimaldello per dare il via a una colossale speculazione immobiliare nella zona tra Dolo e Pianiga, là dove la nuova arteria si collega all’autostrada A4. Parliamo di Veneto City: i terreni agricoli di questa area sono stati acquistati ad un valore molto basso circa 15 anni fa da una società, la Veneto City spa, costituita da noti imprenditori veneti; molti di questi sono stati protagonisti delle famose “delocalizzazioni”delle attività produttive che per lungo tempo hanno caratterizzato il modello “nord est”. Nel 2011, nonostante la forte opposizione dei comitati locali, la Giunta Zaia ha varato la variante urbanistica per la realizzazione di Veneto City, facendo aumentare di almeno 10 volte in un istante il valore del capitale detenuto dai soci della Veneto City spa.

In conclusione, ripercorrendo la storia del MOSE e del Passante di Mestre, ci si rende conto di come la questione “grandi opere” è qualcosa che va ben oltre al tema dell’ambiente. Il nodo “grandi opere” è assai più denso e abbraccia temi di estrema importanza come per esempio quello della democrazia, della crisi della politica, del lavoro, delle finanziarizzazione del capitale, del debito pubblico, oltre che, come si è visto, al malaffare… A ben vedere quando parliamo di “grandi opere” stiamo parlando di come le dinamiche globalizzate del sistema neo-liberista si materializzano, qui ed ora nei nostri territori.Indubbiamente un tema imprescindibile per chi si pone l’obiettivo di ricostruire un’alternativa sociale e politica di sistema.

OPINIONI PER L'OGGI E IL DOMANI
DALL'EUROPA A VENEZIA
di Edoardo Salzano

Due vicende

Condivido il proposito del “Coordinamento” di lavorare per ricostruire dal basso una rappresentanza politica cittadina capace di ridare dignità e prestigio alle istituzioni politiche veneziane e venete. Vorrei però che, in questo periodo di grande confusione, vi fossero alcuni punti di chiarezza.

In primo luogo, la distinzione tra due vicende:
1. la lista L’altra Europa con Tsipras nasce in vista di un’elezione del Parlamento europeo, ed è una parte di un un’iniziativa e un’azione europea;
2. la questione del Consorzio Venezia Nuova, del Mose e degli interventi infrastrutturali nel Veneto, della corruzione e del sistema di potere che attorno a questi temi si sono manifestati è un’altra storia – veneziana, veneta e italiana – che richiede iniziative e attori diversi dalla prima.

Esistono indubbiamente importanti connessioni tra le due vicende. La principale è quella esprimibile nella domanda: quale politica intendiamo praticare? Ma verrò su questo punto alla fine del mio intervento

La vicenda europea

Proseguire la storia della lista L’altra Europa e costruire in Italia una nuova formazione politica è un cimento di lungo respiro. La sua organizzazione è solo l’ultimo passo. Occorre in primo luogo definire un’ideologia (intendo per ideologia «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali»,), una strategia e una tattica, un programma di lungo e di medio periodo coerenti tra loro, e solo su questa base una organizzazione.

Il percorso per costruire questi elementi richiede in primo luogo di definire una scelta di campo. Questa è già stata individuata nei suoi elementi essenziali nei punti programmatici della lista, ma non è stata seguita a sufficienza nei fatti. Il diverso peso tra le componenti formalizzate (il SEL e il PRC) e il mondo dei comitati è uno degli elementi critici che è emerso. E’ in primo luogo su questo, e sugli altri elementi critici che è necessario discutere.

Le persone che abbiamo concorso ad eleggere al Parlamento devono rendere conto del loro operato ai loro elettori, e non a questa o quell’altra componente daei variegati mondi che hanno concorso alla loro elezione. Se quest’ultimo dovesse essere il loro riferimento mi sembra ovvio che i referenti dovrebbero essere le persone che hanno promosso e coordinato la lista.

La storia veneziana e veneta

La prima scadenza che si pone nella vicenda dell’indagine giudiziaria sugli appalti nel Veneto è quella dell’elezione del sindaco e del Consiglio comunale di Venezia. In relazione a questa scadenza abbiamo già scritto con Ilaria Boniburini, , e illustrato al gruppo “Venezia cambia 2015”, ciò che ci sembrava e mi sembra necessario chiedere e chiedersi. Ne riporto alcuni elementi:

"Sindaco e squadra non devono essere stati in alcun modo coinvolti (né con le loro azioni né con i loro silenzi) con il gruppo di potere guidato dal Consorzio Venezia nuova: un gruppo di potere che ha lavorato durante tutte le sindacature che si sono succedute dalla prima Giunta di Massimo Cacciari a quella di Giorgio Orsoni

"Il sindaco deve aver dimostrato di conoscere a fondo Venezia e i suoi problemi, di essersi schierato a favore della salvaguardia e della messa in valore (non adoperiamo la parola ”valorizzazione”) delle qualità naturali e storiche della città e dei suoi territori d’acqua e di terra e della difesa dei beni comuni dalla mercificazione.

"Deve impegnarsi: a difendere le fasce più deboli della popolazione (bambini, donne, anziani, emarginati per povertà, etnia, cultura), a privilegiare gli interessi dei cittadini in quanto tali rispetto a quelli dei poteri economici, a garantire la trasparenza dei processi decisionali, a promuovere l’uscita dalla crisi economica senza ripercorrere le strade che l’hanno prodotta, a difendere il lavoro senza compromettere (ma anzi accrescendo la qualità) dei patrimoni comuni.

"La squadra deve essere tale da garantire, nel suo insieme, tutte le competenze necessarie in coerenza con il progetto politico che proponiamo.

"Gli appartenenti alla squadra (e in particolare alla giunta) dovranno essere proposti in relazione alla loro competenza, esperienza e coerenza al progetto politico, e non all’appartenenza partitica o di gruppo".

Il potere è passato di mano

Tralascio gli altri punti del documento che abbiamo scritto per "Venezia cambia 2015". Voglio mettere in evidenza una questione che mi sembra cruciale nell’esperienza veneziana e veneta, e che è passata in terzo piano: il radicale spostamento di potere che è avvenuto per opera del clan costruito a ridosso del Consorzio Venezia Nuova.

Si tratta di un clan che ha saputo agire con tutti gli strumenti illegittimi e legittimi che le loro dotazioni finanziarie consentivano. Per conto mio continuo a ripetere che la benemerita indagine aperta dai magistrati veneziani illumina una parte soltanto del gruppo di potere politico-economico che domina lo scenario veneto. non dimenticherei attori come come l’ente Porto di Venezia, e come la SAVE, padrona degli aeroporti di Venezia e Treviso e promotrice dell’operazione immobiliare Tessera city, sulla quale troppi amministratori sono stati compiacenti, o addirittura complici.

Così come sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il Consorzio Venezia Nuova ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare sulla trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e – last but not least, quello della cultura, dei centri di ricerca e dell’università.

Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi al lavoro alla magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Le armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso e impadronirsi del dominio non sono costituite solo dalle truffe e la corruzione diretta. Come cittadino e modesto diffusore di una visione critica delle cose interesserebbe sapere chi si accingerà a questo compito difficile e delicato, ma a mio parere indispensabile. Una volta c’era il giornalismo d’inchiesta, oggi è quasi scomparso, e molte “inchieste” sono caratterizzate più dalla ricerca dell’effetto che dal faticoso svolgimento di un’accurata analisi.

Le elezioni a Venezia

Non do troppa importanza ai risultati elettorali. La democrazia rappresentativa è molto malata, nel nostro paese. E’ in gran parte il risultato della penetrante azione mediatica di quei «persuasori occulti» che il sociologo statunitense Vance Packard già analizzava nel lontano 1957. Ma non credo che la democrazia diretta sia oggi capace di sostituire quella delegata.

Come ha riconosciuto un marxista non imputabile di simpatie statalistiche, il geografo anglo-americano David Harvey, la dimensione orizzontale e quella verticale della democrazia devono integrarsi. Mi sembra che il documento presentato nell’area Tsipras da Paolo Cacciari sia uno stimolo utile per lavorare in questa direzione, ma credo che ci sia ancora da cercare, ragionare e sperimentare molto prima di trovare un corretto equilibrio tra la dimensione orizzontale e quella verticale della democrazia.

Certo è – almeno per me – che oggi le logiche dei partiti sono, del tutto obsolete, incapaci di incidere positivamente sulla realtà, lontane, e “allontananti”, dalle aspirazioni, le speranze e perfino le attenzioni delle vittime del neoliberismo ai cui interessi ci appelliamo. Lo ha scritto con chiarezza Marco Revelli: «non c’è più spazio per nessuna delle identità esistenti. O cambiare tutti, o morire tutti».

Ciò tanto più a Venezia. Devo dire che l’atteggiamento dei partiti e dei gruppi rappresentati nella Giunta e nel Consiglio comunale e aggregati nelle maggioranze che si sono succedute nell’ultimo quindicennio mi ha spesso stupito e amareggiato.

I suoi esponenti, anche quelli apparentemente più alternativi, non hanno mai seriamente denunciato il MoSE e il sistema di potere su cui si sorregge. Non hanno mai scelto di contrastare i sindaci (in particolare negli anni di Costa e inb quelli di Orsoni) nelle loro scelte peggiori: dal MoSE nella fase degli 11 punti . che avrebbero dovuto rovesciare il progetto MoSE e hanno costituito invece la copertura del voto favorevole del sindaco di Venezia al devastante progetto. Inspiegabili gli ultimi atti della giunta e del consiglio, dove non hanno assunto loro la responsabilità di provocare le dimissioni del sibdaco amico di Mazzacurati, lasciando al PD diMatteo Renzi il merito di provocare la rottura con sindaco, reo di “intelligenza col nemico”. Arrivano oggi perfino a difenderlo – non come persona, il che potrebbe essere comprensibile – ma come rappresentante dell città.

Non do – ripeto e concludo – troppa importanza alle elezioni e ai loro risultati. Ma secondo me la partecipazione delle cittadine e dei cittadini alle campagne elettorali è importantissimo perché è un primo concreto momento di apprendimento della politica da parte delle persone che vi partecipano e che sono “nuove” alla politica. Della politica come sintesi di una pluralità di esigenze, interessi, attese e speranze tra cui occorre – appunto – trovare la sintesi che dia una risposta coerente a tutti.

Credo, insomma alla preparazione alle elezioni come apprendimento di una nuova politica, aperta a tutti i cittadini, a partire da quelli che già fanno “politica insieme” nei gruppi di cittadinanza attiva. La loro esperienza politica nella campagna elettorale potrà o non potrà alimentare la nuova formazione politica che ci si propone di costruire a partire dall’esperienza “con Tzipras”.

Spero di si, Ma toccherà a loro deciderlo.

Riferimenti.

Mattia Donadel è intervenuto all'assemblea di Forte Marghera come coordinatore del Comitato Opzione Zero, Edoardo Salzano come candidato della lista "L'altra Europa con Tsipras" alle elezioni per il Parlamento europeo. L'intervento di Paolo Cacciari è stato pubblicato su il manifesto (vedi qui su eddyburg.). Armando Danella ha illustrato i due ricorsi al Consiglio di Stato e alla Procura della Repubblica che trovate allegati in formato .pdf

La Nuova Sardegna, 5 luglio 2014, con postilla

Il Consiglio comunale di Arzachena ha approvato nei giorni scorsi un piano attuativo, oltre 7mila metricubi nei pressi di Porto Cervo. La cornice è lo strumento urbanistico (PdiF) utilizzato negli anni '40 e '50, con l'approssimazione di quel tempo lì, e di manica larga – per dirla in modo sbrigativo.

L'acronimo PdiF sta per Programma di Fabbricazione, voluto per assicurare un minimo di disciplina edilizia nei più piccoli comuni dalla legge del 1942, scritta quando del paesaggio nella pianificazione se ne parlava nella cerchia ristretta di Croce e Bottai.

Se lo sono tenuto ben stretto, a Arzachena, quella specie di piano, dandogli ogni tanto un' aggiustata con la prudenza dei collezionisti antiquari, e mancando ostinatamente a tutti gli appuntamenti con la storia dell' Autonomia in materia di governo del territorio. Per cui delle disposizioni di legge dagli anni '80 a oggi, non c'è traccia nel PdiF del comune gallurese, del quale è certificata l'intolleranza alle disposizioni della pianificazione paesaggistica, avviata in Sardegna verso una terza fase.

Il PdiF di Arzachena è più figlio della cultura dell'Italia anteguerra che delle riforme prodotte nell'isola al tempo di Mario Melis o di Renato Soru. Così evocano un mondo antico in bianconero quelle planimetrie ingiallite: inchiostro di china, foto Alinari, cinegiornali Luce, ecc., più che il clima multicolore degli anni '70 (me la immagino custodita tra i cimeli la carta originale, quella visionata dal principe Karim quand'era ancora sposato con Begun Salimah).

Insomma una trascuratezza imperdonabile. D'altra parte per il Comune gallurese è passato da un po' il tempo dell'innocenza; e non può pensare che uno dei posti più belli del pianeta – nelle mire dei più attrezzati gruppi imprenditoriali – si possa difendere con il bluff delle armi scariche. Ti aspetteresti squadre di tecnici specialisti, muniti di sofisticati attrezzi, a presidiare la splendida natura residua, e invece scopri la leggerezza di una conduzione familiare.

E tuttavia fa pensare il consenso scarno alla delibera del mese scorso (9 voti a favore, 8 tra astenuti e assenti). Segno di preoccupazione diffusa tra i consiglieri per la debordante liberalità di quell'atto che sfrutta una specie di congiunzione astrale: quel vecchio PdiF accomodante che incontra il recente furbesco piano casa, perfetto lasciapassare per grandi affari (ma presentato come risposta alle necessità di ogni famiglia).

E così un ettaro di terra intercluso (?) a Porto Cervo è trattato come un lotto nella periferia di un centro abitato tutto l'anno. Per quanto in Sardegna un villaggio turistico (dove magari risiede qualcuno pure d'inverno) debba essere oggi compreso per legge e buonsenso tra “gli insediamenti di tipo prevalentemente stagionale”. L'importanza di chiamarsi “C”: un vetusto privilegio utile per sfuggire alle disposizioni del Ppr complice il piano casa salvacondotto. La famigerata legge regionale ispirata da Berlusconi e incorporata al Pps, sta consentendo dappertutto pratiche simili a questa, uno stillicidio di cui ci scandalizzeremo quando vedremo gli effetti.

Il caso di Porto Cervo è un dettaglio – il diavolo è spesso nei dettagli, pare – che spiega il senso delle politiche del precedente governo regionale, ispirate dagli ultras della liberalizzazione edilizia, ovvero di “su connottu” contro ogni moderna idea di tutela del territorio.

Anche per questo, come promesso dal presidente Pigliaru, è necessario liberarsi quanto prima di tutti i lasciti ingombranti e pericolosi di Cappellacci urbanista: in grado di disorientare i comuni impegnati ad aggiornare i propri piani. E quindi le stesse iniziative della Regione a sostegno della pianificazione locale in grave ritardo e di cui ha parlato l' assessore Erriu agli organi d'informazione. Una bella notizia, ed è importante notare che i centri urbani inadempienti sono quelli dove il vento della speculazione immobiliare è stato più forte.

postilla
Quello che molti lettori non sanno è che il "programma di fabbricazione" (PdF) non è un piano urbanistico vero e proprio, ma solo un allegato grafico al Regolamento Edilizio. E magari non sanno neppure che in Sardegna è stato eliminato dal 1989 (come del resto in tutte le regioni italiane). Stupisce però che in Sardegna non si sia provveduto ancora a operare perché i comuni che non abbiano ancora provveduto a sostituirli con veri e propri piani urbanistici comunali (magari adeguati ai piani paesaggistici) non siano stati commissariati.

Sarà difficile trovare ancora avvocati difensori capaci di far prevalere la tesi che debba essere punito chi ha criticato gli errori del MoSE e le malefatte dei suoi numerosi promotori, autori e coadiutori. La Nuova Venezia, 5 luglio 2014

VENEZIA I danneggiati del Mose. Non c’è soltanto chi ha preso soldi (tangenti, contributi, studi) dal Consorzio Venezia Nuova. Ma anche chi avendo criticato la grande opera si è ritrovato in tribunale con richieste danni. L’ultimo caso è quello di Vincenzo Di Tella, ingegnere esperto in tecnologie sottomarine. Suo, insieme agli ingegneri Paolo Vielmo e Gaetano Sebastiani, il progetto delle «Paratoie a gravità», alternativa al Mose – «meno costosa e più affidabile», garantivano gli ingegneri – presentata in Comune nel 2006 dal sindaco Massimo Cacciari.
Il governo non l’aveva nemmeno considerata. E il Consorzio aveva citato in tribunale Di Tella, chiedendogli mezzo milione di euro di danni. Alla fine l’ingegnere era stato assolto. «Diritto di critica», aveva sentenziato il giudice. «Non avevo offeso nessuno», ricorda, «solo messo in dubbio il funzionamento della struttura, perché il sistema con cui avevano fatto le prove era quello dei modelli matematici, senza prove in vasca. Li ho sfidati pubblicamente, ma non hanno mai accettato il confronto. Nemmeno quando la società di ingegneria Principia aveva messo nero su bianco le «criticità» del sistema Mose e la tenuta delle paratoie in caso di mare agitato.
Altra querela milionaria quella presentata nel 2005 dal Consorzio ai danni di Carlo Ripa di Meana, ex commissario europeo all’Ambiente ed ex presidente della Biennale che da candidato sindaco aveva condotto allora una campagna molto forte contro i danni ambientali della grande opera. «Mi avevano chiesto tre milioni di euro», ricorda, «poi la querela era stata ritirata davanti al Tribunale di Perugia. Adesso la storia ci dà ragione».
Un plotone di avvocati di peso – a Venezia Alfredo Bianchini e Alfredo Biagini, a Milano lo studio Vanzetti. Cause e risarcimenti che in qualche caso hanno prodotto l’uscita degli interessati dalla battaglia contro il Mose. Come nel caso di Riccardo Rabagliati, ex direttore dell’Accademia di Belle Arti e presidente della sezione veneziana di Italia Nostra. Alla fine degli anni Ottanta aveva affisso in città decine di locandine del settimanale «Il Mondo» con la foto del Mose davanti a San Marco e lo slogan «Le idiozie che costano miliardi». Querela ritirata dopo molti anni. Ma Italia Nostra nel frattempo era stata «azzoppata» dalle richieste di danni.
Denunce qualche anno più tardi anche per i dimostranti del Morion che avevano occupato i cantieri e la sede del Consorzio in campo Santo Stefano. Una delle cause più note era stata quella intentata ai due fratelli Spagnuolo, geometri padovani che avevano lavorato per la diga del Vajont. Per anni avevano esposto manifesti e distribuito volantini e dossier in campo San Salvador, denunciando la «pericolosità» del Mose. La vicenda penale si era conclusa per la morte di entrambi.
«Non solo richieste danni, molti di noi hanno pagato per la loro opera di tecnici indipendenti», ricorda Andreina Zitelli, docente Iuav e componente della commissione Via (Valutazione di Impatto ambientale) che nel 1998 aveva bocciato il Mose. «Io, Zitelli e Vittadini fummo oggetto di una campagna denigratoria», ricorda Carlo Giacomini, anche lui docente Iuav, «solo perché avevamo fatto il nostro dovere. All’epoca c’erano i tecnici inossidabili e quelli ossidabili. Noi facevamo parte della prima categoria». Difficoltà al Cnr anche per Georg Umgiesser, che aveva dimostrato l’efficacia delle opere alternative al Mose per ridurre le acque alte, per l’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos («Il Mose aggrava lo squilibrio della laguna») e per Paolo Pirazzoli, del Cnr francese.
Polemiche e vicende che dopo l’inchiesta vanno rilette sotto un’altra luce.

Ogni tanto, quando il mitico mercato pare proprio non funzionare affatto, soprattutto nelle mani dei monopolisti, anche i cristallini liberali se ne accorgono. Corriere della Sera, 5 luglio 2014 (f.b.)

Come molti, anche io, a suo tempo, ho salutato con favore il nuovo corso delle Ferrovie inaugurato dall’ingegner Moretti e simboleggiato dall’Alta Velocità. Mi pare però, che alla lunga l’ansia sacrosanta di stare sul mercato, di avere bilanci in ordine e di ottenere utili, stia facendo perdere di vista alle Ferrovie medesime altri obiettivi non meno importanti. Per esempio quello di non deturpare parti importanti del patrimonio artistico-culturale del Paese: e cioè le stazioni, alcune stazioni ferroviarie.

Il desiderio di fare soldi comunque, a qualunque costo, infatti, sta inducendo da tempo la società di Fs che si occupa di tale settore a trasformare in altrettanti centri commerciali intasati di box e chioschi orribili, dediti alla vendita di ogni cosa, stazioni come quella di Roma, di Milano, di Firenze, che costituiscono pezzi importanti della storia dell’architettura italiana. Con l’inspiegabile beneplacito degli organi statali di vigilanza, opere di pregio — talora di altissimo pregio come la stazione di Michelucci a Firenze — vengono trasformate in squallide caricature di shopping center di periferia.

Un solo esempio macroscopico che dura da anni: nell’atrio d’ingresso della stazione Termini di Roma la possibilità voluta dal progettista che da una grande parete a vetri laterale si vedesse uno dei pochi tratti sopravvissuti della più antica cerchia di mura della città (le mura serviane) è stata brutalmente cancellata. Tutto quel lato, infatti, oggi è oscurato da un grande magazzino. E più o meno è così in molti altri posti. Infischiandosi di tutto quanto non sia il loro guadagno le Ferrovie che ancora si dicono (e sono) dello Stato stanno alterando gli equilibri volumetrici, i rapporti spaziali, il disegno, le prospettive visive, di manufatti spesso insigni della nostra vicenda culturale.

Cioè in pratica li stanno distruggendo. E in questo modo stanno anche rendendo impossibile in molte stazioni l’attesa dei passeggeri, costretti per la presenza di box e chioschi commerciali in spazi comuni sempre più piccoli, privi della possibilità di accomodarsi nei pochi sedili a disposizione, costretti in piedi per decine di minuti, stipati come un gregge.

Durissima e documentata critica a tutti quei governanti (nazionali e locali), amministratori, funzionari pubblici, magistrati, esperti che hanno consentito il protrarsi dei finanziamenti al Consorzio Venezia nuova illegittimi dal 1995. Non è necessario "revocare" la concessione, essa non sussiste più., e chi ha sbagliato deve pagare. Inviato a eddyburg il 4 luglio 2014

Molti, a Venezia e nell’intero paese, per eliminare alla radice il centro di tanti comportamenti devianti, propongono di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova, credendo forse, in buona fede e data la dimensione e importanza del Mose – e dell’intera Salvaguardia di Venezia e della sua laguna -, che il Consorzio sia pubblico o partecipato dal pubblico, oppure istituito e/o regolato da norme di natura pubblica. Purtroppo quel Consorzio è privatissimo, di totale proprietà privata dei suoi soci, e regolato tutto e solo dalle norme del diritto privato; ed è quindi impossibile (e inutile) pensare di sopprimerlo con decisione pubblica di natura meramente politica.

Più appropriatamente, alcuni discutono e propongono di revocarne la concessione unica (e senza gara) di studi, piani, progetti e lavori (tutto insieme!), concessione di cui il Consorzio, dal 1984, in modo del tutto privilegiato ha goduto e lucrato (e continua a godere e lucrare) ricchissimi frutti ma senza motivo né merito e a spese (costosissime) della laguna e della città, e del pubblico erario.

Idea e proposta che sarebbe corretta, se non fosse che quella concessione, come anche gli interessati sanno benissimo (e però tacciono), per legge è … già invalidata. E dal 1995.

In quell’anno infatti, con il comma 1 dell’art. 6 bis del Decreto Legge 1995 n96 (nel testo modificato dall’Allegato dell’articolo 1 c.1 della Legge di conversione 1995 n206, entrato in vigore l’1 giugno 1995 e tuttora vigente), il Parlamento, dopo aver valutato dieci anni di esperienze (già allora negative) di quel sistema concessionale (voluto e deciso nel 1984 dal Presidente Craxi -e vice Forlani- e dal ministro Nicolazzi -e colleghi DeMichelis e Signorile-) e dopo averne ricevuti giudizi negativi già allora sferzanti della Corte dei Conti, ha dichiarato ‘abrogati i commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge 1984 n798’. Ha cioè abrogato proprio quei commi di legge con i quali, per l’attuazione delle opere statali di riequilibrio e salvaguardia della laguna (opere alle Bocche –barriere mobili comprese-, marginamenti, rinforzi, difese del litorale, interventi di riequilibrio e ripristino, apertura delle valli da pesca, e allontanamento del trasporto di petroli e derivati) era stata autorizzato il ricorso a una ‘concessione … a trattativa privata’ .

Tralasciando qui il non secondario dettaglio che anche nel 1984, ‘a trattativa privata’ non equivaleva a ‘senza gara’ (come invece qualcuno volle intendere, mistificando la legge), ciò che più conta è che dal 1995 non esiste più alcuna norma che consenta atti e disposizioni attuative di concessione a privati, e che, quindi, quella Concessione del 1984 è ormai dal 1995 priva di ogni legittimazione e legittimità. Tanto che quella stessa legge del 1995 non ha chiesto e non ha previsto la necessità di alcun atto di revoca, a quel punto già allora ormai superfluo (in quanto ogni nuovo provvedimento di ulteriore concreto affidamento o finanziamento in concessione sarebbe ormai semplicemente privo di ogni copertura di legge, e quindi illegittimo e annullabile, se non già nullo).

In altre parole, della revoca non c’era e non c’è bisogno, perché quella concessione è, dall’1 giugno 1995, già abrogata e inefficace, avendo perduto il precedente appoggio di legge sulla quale si era basata. Tanto che la stessa legge del 1995 si è preoccupata solo di disporre la norma transitoria di sistemazione di quel (poco) che, con quella concessione, era già arrivato a esecuzione e attuazione tra il 1984 e il 1995: lo stesso Parlamento, con il comma 2 di quello stesso articolo di decreto-legge, ha infatti disposto che ‘restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni [abrogate]’.

Disposizione doverosa riguardo agli impegni formali già perfettamente vincolanti assunti verso il privato.

Ma, si badi bene, appunto solo per gli impegni formali già contrattualmente assunti verso il privato e già perfezionati e vincolanti al 31 maggio 1995. Sono fatti salvi, quindi, solo gli impegni già oggetto di regolare atto di convenzione operativa già dotata di copertura finanziaria, ratificata e perfezionata entro il 31 maggio 1995, sulla base delle leggi e dei decreti di finanziamento promulgati ed emessi non oltre il 31 maggio 1995.

Diversamente da come il concessionario, e non pochi ministri e Presidenti del Consiglio (e del Magistrato alle acque, e pure qualche magistrato amministrativo), inconsapevoli o conniventi, hanno voluto credere e leggere (ma forzosamente e senza giustificazione giuridica), tale disposizione transitoria non può valere da illimitata ‘tana liberatutti’; non può valere cioè come recupero della possibilità di affidamento in concessione anche oltre il 31 maggio 1995, di ogni opera e intervento che per qualche appiglio esplicativo, narrativo o logico taluno cerchi di far apparire, a posteriori, come effetto o in connessione con le (poche) opere regolarmente e perfettamente già concesse (con tanto di atti stipulati, impegnativi e vincolanti) prima di quella abrogazione.

In altre parole, il ‘fatti salvi’ e il ‘restano validi’ può essere applicato solo per gli impegni perfezionati e assunti direttamente ed espressamente con le Convenzioni n. 6393, 6479, 6745, 7025, 7138, 7191, 7295, 1568, 1685, 7322 e 7395, sottoscritte tra il 1984 e il 1993, finanziate dalle Leggi 171/1973, 798/1984, 910/1986, 67/1988, 360/1991 e 139/1992, per un importo complessivo massimo di 953,989 milioni di euro (al lordo delle quote riservate, su quegli importi, ai Comuni e alla Regione). E non invece per quanto taluna autorità ha voluto affidare in concessione (senza copertura di legge) con le decine di convenzioni sottoscritte successivamente al 31 maggio 1995 e finanziate tutte da leggi successive al 31 maggio 1995 (ancorchè fosse o sia stato fatto apparire logicamente connesso o materialmente integrato con qualche parte già in precedenza regolarmente concessa e finanziata).

In pratica può esserci legittimazione e regolarità giuridico-amministrativa solo per gli interventi (e i relativi pagamenti) concessi e definiti in modo perfetto e completo fino al 31 maggio 1995, per un valore, tutt’al più, nel complesso, di poco meno di un miliardo di euro (ma da ridurre delle quote di Regione e Comuni). Mentre erano e sono privi di copertura di legge e quindi legittimità tutti gli affidamenti in concessione, tutte le decine di convenzioni (e tutti i relativi pagamenti) sottoscritte dopo l’1 giugno 1995 e appoggiate (ancorchè illegittimamente) su leggi successive a quella data. Sino a oggi per ulteriori oltre 7,7 miliardi di euro (di cui 5,5 circa per il Mose, progetto approvato finanziato e convenzionato dopo il 2002).

E questo, tanto più dopo il persino precedente comma 10 dell’articolo 12 della Legge 537 del 1993 (entrato in vigore l’1 gennaio 1994 e tuttora vigente), che aveva sancito che per tutti gli interventi della Salvaguardia di Venezia e della sua Laguna ‘gli studi, le sperimentazioni, le pianificazioni, le progettazioni di massima, i controlli di qualità dei progetti esecutivi e delle realizzazioni delle opere, i controlli ambientali (anche mediante ispezioni), la raccolta dati e l’informazione al pubblico devono essere svolti in forma unitaria’, e quindi, inevitabilmente, attuati o quanto meno diretti e regolati solo dalla pubblica autorità competente, direttamente e senza più possibilità di affidamento ‘unitario’ in concessione ‘unica’ a privati. Disposizione efficace e cogente da allora, subito, senza bisogno di ulteriori disposizioni o norme delegate (come invece era necessario per il successivo comma 11, che ipotizzava che tali attività e funzioni fossero poi affidate a una nuova società pubblica regionale-statale, per la quale invece espressamente occorrevano ulteriori norme e disposizioni). Tanto che, altrettanto immediatamente, proprio per questo ‘trasferimento’ di cui al comma 10 (‘restituzione’ dal Concessionario all’autorità pubblica concedente e naturalmente competente, di tutte quelle funzioni e attività strategiche, immediatamente cogente, e quindi a prescindere ed anche prima e persino anche senza l’attuazione dell’ipotesi del comma 11), dall’1 gennaio 1994 il comma 12 (tuttora vigente) ha disposto che ‘il corrispettivo per le spese generali previsto dalle concessioni di cui all’articolo 3 della L. 798/1984 è ridotto dal 12 al 6 %’.

Ai giudici qualcuno dovrà finalmente spiegare perché invece, ignorando queste disposizioni, in tutti questi successivi venti anni si è voluto ribadire e proseguire con gli affidamenti in concessione al Consorzio Venezia Nuova, per di più riconoscendogli ‘corrispettivi’ ancora del 12 % invece che del 6 % (per una immotivata regalia a privati, e un sovracosto per il pubblico erario, nel complesso, pari a circa 500 milioni di euro, per la sola differenza tra 12 e 6 %, e pari invece a circa 1000 milioni di euro, considerando l’intero costo dei ‘corrispettivi’ di spese generali di concessione).

Ce n’è che basta per fermare ogni ulteriore atto amministrativo, liquidazione, finanziamento, collaudo delle opere affidate in concessione al Consorzio Venezia Nuova.

Quanto meno fino a che non sarà fatta fino in fondo, nelle ragionerie e nei tribunali, una veritiera ‘resa di conti’

(A meno che qualcuno, anche Presidente o Ministro che sia, a questo punto consapevolmente preavvisato, ugualmente firmando voglia rischiare, in proprio, tutto l’eventuale danno all’erario (e ambientale) che deriverebbe da ulteriori atti che risultassero poi, a un controllo di legittimità finalmente onesto e rigoroso, illegittimi).

Nel frattempo di questa sospensione e ‘resa dei conti’, potremo finalmente verificare, anche rapidamente ma con giudizi veramente esperti e finalmente ‘terzi’, cosa è giusto e cosa è sbagliato (forse non poco), cosa funziona e cosa non funziona (forse molto) del progetto Mose, e come e quanto variarlo e correggerlo in corso d’opera, almeno in quello che ancora (non poco) possiamo correggerlo.

i criticato da Tomaso Montanari, gli risponde, e Montanari replica. Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2014, con postilla

"Non ho mai parlato di petrolio"
di Emilio Casalini

Scrive Tomaso Montanari che ci sono degli ingenui che hanno la pretesa di inserire la parola “bellezza” nell’articolo uno della Costituzione. L'iniziativa della deputata di Sel, Serena Pellegrino, per cambiare l'articolo uno della Costituzione era sconosciuta ai più, me compreso, fintanto che lo stesso Montanari non ne ha parlato su questo giornale. Quanto al mio libro, che Montanari gentilmente cita (Fondata sulla bellezza un ebook Sperling&Kupfer), se lo avesse letto, avrebbe scoperto che l'aborrita parola “petrolio”, in 120 pagine di testo, non c’è. Invece ricorre il termine “risorsa” perché il libro è un viaggio-inchiesta tra i paradossi che bloccano lo sviluppo del Paese.

La bellezza forse non salverà l'Italia, ma una mano potrebbe darla. Il turismo, nel mondo, crescerà del +5% per i prossimi 15 anni, la produzione industriale pesante è in calo costante da 40 anni. Dove sarebbe utile investire? Abbiamo l’Alitalia in crisi che però non ha voli diretti verso la Cina, mentre Lufthansa ne ha 47 settimanali. O la Sicilia che, nel 2012, ha registrato 6 milioni di pernottamenti di turisti, mentre le isole Canarie, stessa lunghezza di coste, ma molto meno da offrire, ne hanno avuti 75 milioni. Abbiamo gravi problemi nell’accoglienza, nella promozione dei nostri tanti musei sempre più vuoti. Ma quando si propone di riportare alla luce le opere nascoste e portarle in giro per il mondo, ecco il purista che grida alla prostituzione dell’arte.

La bellezza è invece un marchio identitario da sfruttare, come propone il creativo Maurizio di Robilant attraverso la fondazione “Italia Patria della Bellezza”. Lo certifica il rapporto “Future Brand Country Index”: il mondo ci riconosce ancora la leadership in turismo, arte, cultura e cibo. Attività caratterizzate da piccole imprese che non inquinano, che tutelano l’ambiente, non delocalizzabili, con capitale diffuso, che stimolano la creatività dei singoli. Oltre l’economia, quindi, c'è una coscienza comune raccolta intorno alla bellezza. La formulazione dell’attuale articolo uno della Costituzione è un compromesso del ‘47, figlio del confronto tra Fanfani e Togliatti, che voleva una “Repubblica di lavoratori” di stampo sovietico.

A nulla valsero le parole del deputato di Ezio Coppa che ricordava come il lavoro fosse un mezzo, non un fine. Tutto questo aveva, forse, un senso in un’Italia in macerie, divisa tra stelle e falci, strisce e martelli. Un incipit costituzionale moderno (bellissimo quello del Sudafrica di Mandela) potrebbe includere i valori universali dell’uomo e impegnare i nostri governanti nel promuovere lo sviluppo delle potenzialità del popolo italiano tra cui la Bellezza. Su cui l’Italia è già fondata.

La replica
di Tomaso Montanari


Per la bellezza vale ciò che si dice del sesso: chi ne parla molto, ne fa poco. E a proposito di elitarismo: non sarà un po’ snob, radical-chic, e appunto elitario permettersi di gettare il tempo in simili pipponi? L’articolo 1 sta bene come sta. Ma se Casalini è convinto del contrario basta dare un colpo di telefono alla fatina Maria Elena Boschi: e con un colpo di bacchetta magica la Costituzione e l’Italia risorgeranno, fondate sulla bellezza. In bocca al lupo.

Postilla

All'Autore del libro citato da Montanari sfugge una importante distinzione lessicale: quella tra risorsa e patrimonio. Considerare le qualità che storia e natura hanno depositato nel territorio come una risorsa anziché come un patrimonio significa considerarli come qualcosa che (come, appunto, il petrolio, o il marmo delle Alpi apuane può essere estratto, trasformato in altro da sè, venduto. Considerarle invece come un patrimonio significa considerarle un bene che deve essere conservato, accresciuti, trasmesso ai posteri.

Il manifesto, 2 luglio 2014

Tra gli anni Set­tanta e Ottanta, Massa Car­rara è stata il tea­tro della lotta con­tro il polo chi­mico e la Far­mo­plant che diventò parte dell’«educazione sen­ti­men­tale» alla poli­tica di una gene­ra­zione apuana, pas­sato il decen­nio furioso dei movi­menti. Oggi, di nuovo, quella terra si fa por­ta­trice di istanze radi­cali in una lotta che non è solo locale, ma deci­sa­mente nazio­nale: quella con­tro l’escavazione di marmo sulle Alpi Apuane. Mon­ta­gne mar­to­riate – come «denti cariati» per citare T. S. Eliot – da una pro­du­zione espo­nen­zial­mente cre­sciuta negli ultimi trent’anni gra­zie alle nuove tec­no­lo­gie, che si man­giano un costone di mon­ta­gna in pochis­simo tempo. Richie­dendo un decimo di mano­do­pera, que­ste tec­no­lo­gie hanno dram­ma­ti­ca­mente decli­nare l’occupazione nel set­tore estrat­tivo. E per cosa, poi? Non per le sta­tue di Miche­lan­gelo, come vor­rebbe la vile reto­rica dei padroni del marmo, ma per la pro­du­zione di car­bo­nato di cal­cio per pro­du­zioni indu­striali: il den­ti­fri­cio, uno per tutti, sim­bolo dello scempio.

L’assessore regio­nale toscano all’urbanistica, pia­ni­fi­ca­zione ter­ri­to­riale e al pae­sag­gio Anna Mar­son ha ten­tato di met­tere mano al far west delle cave con alcune norme con­te­nute nel Piano pae­sag­gi­stico regio­nale con le quali ha posto final­mente la que­stione di una rego­la­men­ta­zione e ha imma­gi­nato un futuro pos­si­bile di ricon­ver­sione pro­dut­tiva. Que­sto piano, gra­zie alle lar­ghe intese di fatto tra Pd e Forza Ita­lia (ma il gover­na­tore Enrico Rossi non aveva detto che il suo era un governo di sini­stra?), verrà appro­vato monco delle sue parti più impor­tanti e innovative.

Se prima il testo imma­gi­nava – sia pure in maniera vaga, ma quan­to­meno indi­cava una dire­zione — una ricon­ver­sione dalle atti­vità estrat­tive ad atti­vità rispet­tose dell’ambiente, adesso que­sta parte è stata cas­sata. Non solo: si con­cede di ria­prire cave chiuse anche da vent’anni, ormai rina­tu­ra­liz­zate, e ver­ranno con­sen­titi amplia­menti del fronte di cava anche senza chie­dere varianti. I padroni hanno vinto. Dicia­molo: que­sta è lotta di classe, sia pure ricon­fi­gu­rata su uno sce­na­rio ine­dito all’epoca dell’Internazionale, quello della sal­va­guar­dia ambien­tale, e sulla con­trap­po­si­zione tra nuovi «padroni» e «comune». E tut­ta­via, pur avendo vinto, a loro non basta ancora. Gli «spi­riti sel­vaggi del capi­ta­li­smo» non accet­tano il ben­chè minimo vin­colo. Le loro richie­ste – estre­mi­sti­che, come la loro cam­pa­gna di stampa – erano di poter aprire cave nuove! Per­ciò hanno deciso di fare guerra alla legge regio­nale, poi­ché essa vieta final­mente di aprire cave in cre­sta, dove sulle Apuane ci sono cre­ste abbas­sate di cin­quanta metri dalle escavazioni.
La legge impone inol­tre una valu­ta­zione di impatto pae­sag­gi­stico che i padroni non vogliono, per­ché si con­si­de­rano parte del pae­sag­gio, si con­si­de­rano «natura». Entro il 2020 si pre­vede il 50% della lavo­ra­zione dell’escavato in loco. Senza le cave, hanno scritto i signori padroni, le Apuane «sareb­bero mon­ta­gne come le altre». Una vera bana­lità, impos­si­bile da met­tere a valore. E allora, signori, can­cel­liamo il Parco, que­sta ultima, infima, inu­tile ipocrisia. L’alternativa è ripri­sti­nare il testo ori­gi­nale, attual­mente in discus­sione in con­si­glio regio­nale, come chie­dono gli ambien­ta­li­sti apuani che ieri sono andati a Firenze e hanno con­se­gnato a Enrico Rossi le cen­to­mila firme di una peti­zione online su Avaaz che chiede la chiu­sura pro­gres­siva delle cave.
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