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«Tra i critici anche [perfino - ndr] Giuliano Amato, Giudice della Consulta. Il progetto realizza le promesse di B. quando era premier». Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2014

L’evoluzione della specie. In 45 articoli e 56 pagine, rese pubbliche quattro giorni fa sulla Gazzetta Ufficiale Matteo Renzi si congeda dal sospetto e sviluppa – apertis verbis – le fattezze di Silvio Berlusconi, raccoglie e mette in pratica i dieci comandamenti dell’uomo del fare. Fare strade, autostrade, ferrovie, tralicci, ponti, inceneritori, canali di scolo e ogni altro genere di combinato col calcestruzzo nel più breve tempo possibile. Fare, soprattutto progettare, possibilmente senza gufi intorno, mani alzate, vincoli, osservazioni, consigli, deduzioni.

Il mito della velocità è spirito del tempo e diviene finalmente – dopo un parto durato mesi – pratica legislativa. Il decreto legge si chiama Sblocca Italia, ed è una potente proiezione di ciò che diverrà il nostro Paese. Persino Giuliano Amato, il dottor Sottile, la punta massima dell’eccellenza insieme politica e tecnocratica, sembra abbia dato una sbirciatina al turbopremier e in un biglietto riservato al capo dello Stato avrebbe poi vergato le sue prime considerazioni: ciò che non è riuscito a fare Berlusconi lo fa ora Renzi. Napolitano ha letto il biglietto ma ha firmato ugualmente. È incostituzionale? Se la veda il Parlamento.

In effetti la legge, organizzata nei dettagli da Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e gran rappresentante di interessi diffusi, è stata sottoposta al vaglio di legittimità della dottoressa Nicoletta Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze oggi a presidio dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. Il decreto trasforma le peggiori promesse in realtà.

Inizia col prendere di petto (articolo 1) la costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Napoli-Bari e indica nell’amministrazione delegato delle Fs il commissario all’opera. Costui ha poco tempo (due anni) per fare e avrà – ex lege – poca voglia di discutere. Sottoporrà il progetto definitivo, quindi già impacchettato bene, alle varie amministrazioni dello Stato e agli uffici chiamati alla tutela del paesaggio (che pure è un precetto costituzionale, articolo nove della Carta). Il commissario aspetterà (comma 4) che i burocrati annuiscano presto e bene. Se così non fosse o – peggio – non si presentasse al tavolo della concertazione o – peggio del peggio – si presentasse ma senza averne titolo, il commissario tirerà dritto e aprirà i cantieri. Non deve informare il ministero che manca il visto ma fa come se ci fosse.

Se l'odioso burocrate si presentasse e manifestasse dissenso e lo motivasse persino, il commissario si prenderebbe una pausa di riflessione. Riflettendo con sè medesimo valuterebbe se l’obiezione fosse fondata o incongrua, adeguata o tignosa, volenterosa del bene comune (quindi del cemento) o solo di quello dei pini marittimi. Dopo aver brevemente dibattuto (esame interna corporis) il commissario decide se andare avanti o fermarsi. Da solo. Sembra una barzelletta ma è il risultato del combinato disposto degli undici commi nei quali si concentra e si espande la figura di questo superpotente per far viaggiare in tempo i treni tra Napoli e Bari. È una norma per adesso riferita a due sole opere (quella citata e la tratta Palermo-Catania-Messina ), ma nel futuro diverrà il modello autocratico, la dimensione del fare a qualunque costo. Fare o fare silenzio.

Tutte le opere definite grandi, urgenti e indifferibili, avranno una catena di comando blindata e un progetto chiuso. Le amministrazioni locali e tutti gli altri uffici chiamati a decidere potranno annuire e basta. Ed infatti il progetto, che prima doveva essere presentato nella sua formulazione “preliminare”, adesso viene concesso in visione a chi deve giudicare sull’impatto ambientale dell’opera da costruire nella sua versione definitiva. Non ci può essere una obiezione assoluta (es: no a una tangenziale che tagli in due il Vesuvio), è consentita invece l’obiezione costruttiva. Un secondo esempio sarà utile: si localizza un ponte su un terreno massimamente franoso. Bisognerà riconsiderare i termini dell’evidenza e addolcirla, sminuzzarla, renderla supina alla ragion di Stato. Cercare dunque, se proprio non ce n’è altri, un terreno meno franoso sul quale costruire il ponte. E magari incrociare le dita.

Nell'ideologia renziana il mito della velocità è un cardine assoluto e l’uomo del fare farà a qualunque costo. Grandi facilitazioni anche a chi volesse installare antenne, tralicci e ogni altra specie di impianti radioelettrici.

Il penultimo comma dell’articolo 6 rende giustizia a Tim, Vodafone e a tutte le altre compagnie: possono poggiarle liberamente e ovunque, senza chiedere “autorizzazioni paesaggistiche” a condizione che non siano alte più di un metro e mezzo. Chiese, cattedrali, forse anche il Colosseo: ripetitori ovunque e dovunque e per tutte le tasche. E via libera anche (comma 7 dell’articolo 7) a tutti e servizi di collettamento delle acque, agli impianti di depurazione, alle varie bonifiche. L’autorizzazione s’intende concessa se il burocrate entro i trenta giorni non dà parere. Il silenzio-assenso funziona così.

Il turbopremier non ha previsto due casi di scuola: se il burocrate di turno, solo e disperato, fosse chiamato nello stesso periodo di tempo a redigere uno sproposito di pareri in quel medesimo territorio come potrebbe onorare la puntualità? Oppure, secondo caso, potrebbe colpevolmente distrarsi. Perché convinto a stare zitto (magari corrotto?) oppure restare inerte per la sua inguaribile fannullonaggine. In quel caso la sua condotta non verrà più sanzionata.

Prima del decreto l’autorità appaltante chiedeva la sostituzione del funzionario infingardo, a cui poteva seguire un provvedimento disciplinare. Da oggi il silenzio è come la tana libera tutti: meno si è meglio si appare.

Uguale uguale l’architettura legislativa per la costruzione degli inceneritori. Si possono localizzare anche dietro piazza della Signoria. Se l’ufficio non vede, cuore non duole. L’impatto ambientale che significa, nel caso per esempio di una fabbrica di pesticidi da autorizzare, anche impatto sulla salute di chi vive nelle vicinanze è rubricato come un fastidio e tenuto in conto con l’attenzione che si ha verso un ronzìo di mosche. Basta scacciarle con una mano o e il gioco è fatto. Renzi va veloce e, a quel che promette, il cemento pure.

Corriere della Sera Lombardia, 17 settembre 2014, postilla (f.b.)

MILANO — Una nuova superstrada di circa 30 chilometri nei territori del Parco Agricolo Sud Milano e del Parco del Ticino. Dopo l’apertura a luglio della BreBeMi, la nuova autostrada che collega Brescia con Milano, ma che per ora è snobbata dagli automobilisti, in Lombardia si torna a parlare di una nuova bretella. È la Malpensa-Milano-Vigevano, prosecuzione della Malpensa-Boffalora, superstrada inaugurata nel 2008 e che collega l’aeroporto con il casello dell’A4. La nuova Malpensa- Vigevano completerebbe il collegamento fra la Lomellina, l’aeroporto e Milano.
Dopo dodici anni di progetti, polemiche e dietrofront, anche per questa strada si avvicina una fase decisiva. Stando a quanto annunciato dalla Regione ai sindaci dei Comuni coinvolti, nelle prossime settimane Sea presenterà il nuovo progetto: un tracciato non molto dissimile dal primo, ipotizzato da Anas e Pirellone nel 2001.

Partendo da Magenta, la strada scenderebbe in direzione di Albairate, liberando dal traffico la Statale 526 «dell’Est Ticino». All’altezza di Abbiategrasso sarebbe costruita una circonvallazione, che sposterebbe, invece, il traffico dalla statale Vigevanese fuori dal centro abitato. Il progetto del 2001 ipotizzava anche un raddoppio della provinciale Milano-Baggio fra Albairate e la Tangenziale Ovest, per collegare la nuova superstrada a Milano, ma quest’ultima bretella potrebbe saltare per mancanza di fondi.

I finanziamenti già stanziati ammontano a circa 212 milioni di euro, ma sono troppo pochi per un’opera del genere. Perciò il progetto viene rivisto. Della superstrada se ne riparlerà venerdì, allo Spazio Fiera di via Ticino ad Abbiategrasso, in un incontro pubblico organizzato dal settimanale cittadino Ordine e Libertà. Saranno presenti, tra gli altri, i sindaci Andrea Sala di Vigevano e Pierluigi Arrara di Abbiategrasso, l’assessore regionale all’Economia Massimo Garavaglia, i rappresentanti del comitato «No tangenziale» e del «Comitato Sì alla strada», presieduto da Fabrizio Castoldi, patron della Bcs di Abbiategrasso che spiega. «Ogni giorno i pendolari da Vigevano a Milano impiegano circa 3 ore in più rispetto al tempo che impiegherebbero su una nuova superstrada posta lontano dai centri abitati. Tre ore della propria vita buttate via ogni giorno respirando gas di scarico».

Di tutt’altro avviso i comitati «No Tangenziale», le organizzazioni ambientaliste e gli agricoltori, che negli anni hanno raccolto 13 mila firme contro il progetto. E anche alcune amministrazioni comunali (Cassinetta di Lugagnano, Cisliano, Albairate e Cusago) si battono da tempo contro la superstrada e hanno presentato una candidatura all’Unesco per far diventare il Parco Sud una riserva della biosfera. Un modo per metterlo al riparo dalle autostrade. Il sindaco di Abbiategrasso Pierluigi Arrara è scettico: «Siamo favorevoli alla costruzione del tratto da Vigevano alla nostra città, ma non a un progetto faraonico come quello originale».

postillaCome ci aveva sinistramente avvisato pochi giorni fa il lobbista oggi in carica governatoriale della road gang padana, quando vediamo un'autostrada desolatamente vuota dobbiamo aspettare, con fede, che si compia il grande disegno di cui quell'opera è solo un segmento. Ed ecco qui un altro segmento del medesimo disegno, al solito presentato, discusso, sostenuto e osteggiato come opera in sé, guardando al dito (pestato, ma sempre del dito si tratta) anziché alla luna. Le due cittadine sulle opposte sponde del fiume azzurro, e dentro l'omonimo parco regionale che il mondo ci invidia, sono solo pedine in un gioco assai più grande di loro, che forse la stampa progressista farebbe bene a raccontare come tale: il Grande Raccordo Anulare lombardo, presupposto all'urbanizzazione dispersa della regione milanese. Tutto portato avanti, nei decenni, senza dichiararlo, con ricatti miserabili come quelli dei due comuni citati qui, dotati di decentissima comunicazione stradale reciproca, nonché di ottime circonvallazioni, se solo quelle strade faticosamente realizzate, non fossero poi state, quasi subito, liberamente ed entusiasticamente sfruttate per il vero scopo, che naturalmente anche qui non ha nulla a che vedere col traffico e le comunicazioni: costruirci su un lato e sull'altro, costruendo in contemporanea la prossima emergenza strozzature, la necessità di una nuova opera, e via di questo passo. Certo non si può chiedere a comitati e forze locali di farsi carico di formulare alternative, o quantomeno opposizioni di ampio respiro, ma forse ai partiti progressisti si. C'è qualche speranza? Per adesso pare di no (f.b.)
Vedi anche F. Bottini,
I capannoni della Zia T.O.M. (Mall 2008)

Roma. Solo venerdì è stato pubblicato il testo del cosiddetto decreto "Sblocca Italia". Ci sono voluti quasi 15 giorni prima che venisse alla luce essendo stato licenziato nel Consiglio dei Ministri del 29 Agosto scorso. Un lungo travaglio che, però, non è servito per migliorarne il contenuto. Anzi si tratta di un provvedimento che segnala un deciso cambio di fase nelle politiche governative costruendo un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, l'incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare le bonifiche.

Ma ciò che, come Forum dei Movimenti per l'Acqua, c'interessa maggiormente evidenziare è la gravità di quelle norme che, celandosi dietro la foglia di fico della mitigazione del dissesto idrogeologico (Capo III, art. 7), mirano di fatto alla privatizzazione del servizio idrico.
Infatti, con questo decreto si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione del bene acqua arrivando ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi.

Ciò si configura come un primo passaggio propedeutico alla piena realizzazione del piano di privatizzazione e finanziarizzazione dell'acqua e dei beni comuni che il Governo sembra voler definire compiutamente con la Legge di Stabilità. In questo provvedimento, probabilmente, verranno inserite quelle norme, in parte già presenti nelle prime versioni del decreto circolate all'indomani del Consiglio dei Ministri di fine agosto, volte a imporre agli Enti Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e accorpamento secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending review”. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.

Con il decreto “Sblocca Italia” si svelano, dunque, le reali intenzioni del Governo, ovvero la diretta consegna dell'acqua e degli altri servizi pubblici locali agli interessi dei grandi capitali finanziari. Infatti, la strategia governativa, pur ammantandosi della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della politica mediante lo slogan “riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”, non garantirà certamente l'interesse collettivo ma solo quello economico e di massimizzazione dei profitti delle grandi aziende multiutilities che già gestiscono acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale.

Come Forum dei Movimenti per l'Acqua intendiamo denunciare con forza la gravità di questo provvedimento che si pone esplicitamente in contrasto con la volontà popolare espressa con il referendum del 2011 e dichiariamo sin da subito che ci mobiliteremo per contrastare il tentativo di privatizzazione dell'acqua e dei beni comuni, anche rilanciando un nuovo modello di pubblico che guardi alla partecipazione diretta della cittadinanza alla gestione come elemento qualificante e realmente innovativo.

«Il secondo comma dell'articolo 4 del decreto, pubblicato venerdì in Gazzetta Ufficiale, permette al progetto autostradale tra Lazio e Veneto di accedere ai benefici della "defiscalizzazione". Un contributo pubblico indiretto pari a quasi 2 miliardi di euro, su un totale di dieci, cui -secondo la legge in vigore fino all'altra settimana- l'opera non avrebbe avuto diritto». Altraeconomia.it, 15 settembre 2014

Lo “Sblocca Italia” libera la Orte-Mestre. Il gioco è tutto in un comma, il secondo dell'articolo 4, che modifica il “decreto del Fare” del 2013 aprendo le porte della “defiscalizzazione” per l'autostrada tra Lazio e Veneto, e garantendo così all'opera benefici per quasi 2 miliardi di euro.

Era stata la Corte dei Conti, a metà luglio, a porre l'accento su un problema legale, “burocrazia” direbbe qualcuno: la norma in vigore fino alla settimana scorso in materia di defiscalizzazione prevedeva che le misure previste non fossero applicabili “agli interventi da realizzare mediante finanza di progetto le cui proposte sono state già dichiarate di pubblico interesse alla data di entrata in vigore del presente decreto”. È questo, appunto, il caso della Orte-Mestre, un’opera inserita in Legge Obiettivo (2001) e dichiarata di pubblica utilità nel lontano 2003.
Sabato, però, tutto è cambiato, grazie appunto all’articolo 4 comma 2 dello “Sblocca Italia” -pubblicato venerdì sera in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal giorno dopo-, che ha soppresso la frase incriminata. La defiscalizzazione è per tutti, anche per un vecchio progetto, pensato in un altro momento storico ed economico, come la Orte-Mestre.

Avevano ragione Maurizio Lupi e il ministero delle Infrastrutture, nelle settimana scorse, ad inserire l’autostrada Orte-Mestre tra le opere avviate grazie al decreto “Sblocca Italia”. Anche se il nome non figurava nell’elenco dello “Sblocca Cantieri”, c'era un comma nascosto capace di “riabilitare” il più grande progetto autostradale d’Italia, quasi 400 chilometri per oltre 10 miliardi di euro d’investimento.

La bocciatura dei magistrati contabili, che avevano bocciato il progetto preliminare della Orte-Mestre, lo stesso che era stato invece approvato dal CIPE nel novembre 2013, era dovuta al fatto che senza i benefici della “defiscalizzazione”, che il piano economico e finanziario allegato alla delibera quantificava in circa 1,8 miliardi di euro, quasi il 20 per cento dell’investimento complessivo, il progetto non stava in piedi. Se la Orte-Mestre non avesse potuto accedere allo sconto IVA, IRES e IRAP, un meccanismo introdotto nell'ordinamento da una norma di fine 2012 dalgoverno Monti, e poi ripreso nel “decreto del fare” dell’estate 2013, i viadotti dell’autostrada traballavano, la sostenibilità dell’investimento veniva meno.

Per questo, la Corte dei Conti aveva imposto lo stop, superato -adesso- con il decreto “Sblocca Italia”, da un governo che ha una chiara trazione autostradale. Le “novità” dello “Sblocca Italia” saranno al centro delle azioni promosse dalla Rete Stop Orte-Mestre, che ha convocato per il 20 e 21 settembre due giornate di mobilitazione in contemporanea su tutti i territori attraversati dalla nuova autostrada, da Venezia all’Umbria. Chiedono una cosa sola: lo stralcio, definitivo, dell'opera.

Il manifesto, 14 settembre 2014, con postilla

«Siamo sem­pre pronti a discu­tere di tutto. Ho rispetto per il corag­gio di chi dice no ma chi dice no non può dire stop. I cit­ta­dini hanno il diritto di vedere rea­liz­zate le opere che ser­vono». Così il pre­mier Mat­teo Renzi si è espresso ieri sul gasdotto Tap, che gio­vedì ha otte­nuto dal mini­stro dell’Ambiente Gian Luca Gal­letti, la firma sul decreto di com­pa­ti­bi­lità ambien­tale dell’opera.

Dopo aver ter­mi­nato l’intervento nel giorno dell’inaugurazione della Fiera del Levante, il pre­mier ha incon­trato i sin­daci di Melen­du­gno e Vernole.

Un’idea di demo­cra­zia alquanto biz­zarra quella di Renzi: si può dire di no, ma non ci si può met­terin mezzo ed inter­fe­rire con quanto decide un governo e le mul­ti­na­zio­nali del gas. E se poi sono gli abi­tanti stessi a non volere sul loro ter­ri­to­rio deter­mi­nate opere, non è dato sapere chi sono i cit­ta­dini citati da Renzi che hanno «diritto» a vedere rea­liz­zate opere defi­nite stra­te­gi­che per l’economia nazio­nale ed europea.

Sulla vicenda della Tap, ieri è inter­ve­nuto nuo­va­mente il gover­na­tore della Puglia Nichi Ven­dola. Sot­to­li­neando che i due no alla rea­liz­za­zione dell’opera pro­nun­ciati dal comi­tato tec­nico di Via della Regione non hanno una matrice disfat­ti­sta o aprio­ri­stica: ma si basano su delle rile­vanze, anche di natura scien­ti­fica, spo­sate in pieno dal mini­stero dei Beni Cul­tu­rali che sem­pre gio­vedì ha espresso il suo parere nega­tivo sulla rea­liz­za­zione del pro­getto in un ter­ri­to­rio, come quello del Salento, di pre­gio ambien­tale, sto­rico e turistico.

Inol­tre, Ven­dola ha mani­fe­stato la con­tra­rietà della Regione anche in merito a un altro argo­mento spi­noso e molto sen­tito dalle popo­la­zioni che affac­ciano sull’Adriatico: le tri­vel­la­zioni in mare. «Abbiamo il diritto di ribel­larci alle tri­velle in que­sta nostra stri­scia di mare, pen­siamo che l’Adriatico non possa subire l’impatto di una sua muta­zione in piat­ta­forma ener­ge­tica. Diciamo sì alla gene­ra­zione dif­fusa di rin­no­va­bili, sì alla soma­tiz­za­zione delle città, sì all’efficientamento ener­ge­tico degli edi­fici. Diciamo no a ciò che ci toglie l’orgoglio di essere pro­ta­go­ni­sti del nostro svi­luppo: la ric­chezza non è nasco­sta sotto i fon­dali, la ric­chezza è la costa, la pesca, il turi­smo, il colore del nostro mare».

Il tour pugliese del pre­mier Renzi, nella gior­nata di ieri ha toc­cato altri due luo­ghi sim­bolo della Regione: Peschici e Taranto. Nel Gar­gano il pre­si­dente del con­si­glio ha riba­dito l’impegno del governo per far sì che il ter­ri­to­rio deva­stato dall’alluvione dello scorso 5 set­tem­bre, torni quanto prima ai suoi anti­chi splen­dori. Riba­dendo che il Gar­gano non è morto ed è pronto a risorgere.

Cer­ta­mente più com­pli­cata e spi­nosa la que­stione dell’Ilva di Taranto. L’arrivo del pre­mier è stato annun­ciato da Palazzo Chigi sol­tanto nella tarda serata di venerdì. Un incon­tro in Pre­fet­tura com­ple­ta­mente blin­dato, al quale hanno pre­sto parte solo le isti­tu­zioni e i sin­da­cati. Defi­niti «i rap­pre­sen­tanti dei lavo­ra­tori»: cosa alquanto biz­zarra anche que­sta, visto che oltre il 60% dei lavo­ra­tori dell’Ilva di Taranto non ha tes­sera sin­da­cale. E che all’incontro è stata vie­tata la par­te­ci­pa­zione degli ope­rai Ilva del comi­tato «Cit­ta­dini e Lavo­ra­tori Liberi e Pen­santi». Così come è stato negato l’accesso alla stampa e soprat­tutto ai rap­pre­sen­tanti delle tante asso­cia­zioni locali che da anni si bat­tono con­tro l’inquinamento pro­dotto dal più grande side­rur­gico d’Europa. Il cen­ti­naio scarso di cit­ta­dini pre­senti in sit-in all’esterno della Pre­fet­tura, ha con­te­stato dura­mente il pre­mier, arri­vando anche al con­tatto con le forze dell’ordine: la ten­sione però è pre­sto rientrata.

Anche in que­sto caso però, Renzi è stato ina­mo­vi­bile: entro Natale tor­nerà a Taranto, per­ché entro dicem­bre l’Ilva avrà quasi cer­ta­mente un’altra pro­prietà e altri azio­ni­sti. Renzi ha con­fer­mato l’esistenza di vari gruppi indu­striali stra­nieri inte­res­sati a rile­vare l’Ilva, riba­dendo un con­cetto noto: che qual­si­vo­glia piano indu­striale dovrà rece­pire il piano ambien­tale, per con­sen­tire allo sta­bi­li­mento taran­tino la ricon­ver­sione degli impianti inqui­nanti dell’area a caldo.

Un’impresa tita­nica, che abbi­so­gna di sva­riati miliardi di euro. Ma spa­zio per altri con­fronti o per una ricon­ver­sione dell’economia del ter­ri­to­rio taran­tino non ce ne sono: per­ché anche in que­sto caso l’Ilva è un’azienda stra­te­gica per una «potenza indu­striale» come l’Italia. Sia come sia, la situa­zione finan­zia­ria dell’Ilva è tutt’altro che rosea: otte­nendo in set­ti­mana la prima tran­che del pre­stito ponte dalla ban­che ammon­tante a 155 milioni, il com­mis­sa­rio straor­di­na­rio Piero Gnudi ha dato il via al paga­mento degli sti­pendi di ago­sto, che molti ope­rai otter­ranno sol­tanto domani, in ritardo di alcuni giorni sulla data del 12 che è da sem­pre quella in cui ven­gono pagati gli stipendi.

Renzi ha con­cluso il suo tour pugliese, affer­mando che «la gente fa il tifo per me»: resta da chia­rire a chi si riferisse.

postilla

Il nostro presidente del consiglio non conosce la lingua italiana. Come farebbe altrimenti ad affermare che «chi dice no non può dire stop»? Ma non è questo il peggio. Abbiamo già denunciato le scelte sbagliate e distruttive che sono alla base dall'accettazione italiana del gasdotto Tap. Ma le parole che ha pronunciato a proposito della distruzione di Peschici sono impressionanti. Non può non sapere che il suo Sblocca Italia, e tutto ciò che il governo Renzi-Lupi nella politica del territorio è la matrice di nuove catastrofi innaturali: se non si tratta di cinismo si tratta di incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni.

Quello dell'orsa inopinatamente abbattuta non è un problema da animalisti romantici e mollaccioni, o di caso specifico, ma pone una questione di metodo nel nostro approccio all'ambiente e al territorio, fondamentale nel millennio dell'urbanizzazione planetaria. Corriere della Sera, 12 settembre 2014, postilla (f.b.)

L’epilogo della storia di Daniza è stato definito il fallimento di una convivenza. Il fallimento, a mio parere, è nostro e la convivenza di fatto non è mai iniziata né mai si sono creati corretti presupposti perché comunque potesse durare nel tempo. Il presupposto fondamentale è culturale. La salvaguardia della fauna selvatica si fonda su conoscenze scientifiche di ecologia, biologia, fisiologia, comportamento delle diverse specie. La gestione della fauna selvatica è una disciplina inserita nei corsi di laurea e tema anche di prestigiosi master. È stata introdotta da decenni proprio per rispondere alla necessità di formare competenze specifiche in materia di valorizzazione del nostro patrimonio faunistico. Oggi abbiamo una generazione preparata ad affrontare temi di gestione ambientale che opera anche nelle amministrazioni locali. Ma evidentemente non basta. La presenza dell’orso in Trentino era stata accolta positivamente in quanto garanzia di buona qualità di quel territorio. Ma quando mamma Daniza ha reagito verso un uomo invadente solo per proteggere la prole è stata dichiarata «animale problematico». Il resto è cronaca nota. Si poteva forse non arrivare al triste epilogo con un maggiore e più capillare impegno di educazione.

Gli orsi se non disturbati non attaccano. Va reso noto il loro comportamento, le loro esigenze e cosa fare in caso di incontri ravvicinati. In altri Paesi questo è fatto tutto l’anno con operatori specializzati e cartellonistica sparsa ovunque. In caso di razzie di bestiame i rimborsi sono garantiti e veloci. Insomma si opera per attenuare tensioni e conflitti fra interessi opposti. Nel caso di Daniza, al contrario si è creata una pressione quasi ossessiva, una sorta di ridicola sfida antica fra uomo e fiera. Mamma orsa inspiegabilmente andava catturata, al di là di ogni ragione della scienza e dei sentimenti. La cattura, si sa, prevede un’anestesia, operazione di per sé complessa e delicata. Ho consultato un po’ dell’ampia letteratura scientifica e ho scoperto interessanti dettagli. Ad esempio ci sono aree del corpo più sensibili su cui indirizzare l’anestetico; periodi più favorevoli per farlo, ad esempio quando l’orso entra in stato di ipotermia; è ovviamente indispensabile una valutazione attenta del dosaggio. Infine vanno rilevati i parametri fisiologici di base per garantire l’eventuale trasporto. Per Daniza qualcosa non ha funzionato ed è morta. Aveva solo reagito per difendere i suoi cuccioli e ora, rimasti soli, anche su di loro grava un destino incerto.

postilla

Forse hanno a modo loro ragione, quelli che liquidano la faccenda con sorrisetto da compatimento, come romanticismo da orsacchiotti, ma senza sapere che proprio l'orsacchiotto di peluche segna un passaggio fondamentale nell'idea di gestione del territorio naturale in epoca urbana e industriale. Il pupazzetto “Teddy Bear” nasce come immagine popolare, infatti, quando il presidente americano Teddy Roosevelt manifestò un primo gesto di riflessione ufficiale sul nostro rapporto non meccanico con l'ambiente, proprio durante una battuta di caccia all'orso, rifiutandosi di abbatterne uno ferito. Il fatto è datato 1902, e pochi anni più tardi iniziavano ad esempio le riflessioni sulla “megalopoli verde” dell'Appalachian Trail, appendice naturale del grande sistema insediativo e socioeconomico delle metropoli atlantiche che un paio di generazioni più tardi la geografia avrebbe ribattezzato Bos-Wash. Un progetto di pianificazione regionale sviluppato da un tecnico del settore parchi federale molto sponsorizzato dal Presidente. In altre parole, col gesto originario di pietà di Roosevelt nasce la prima scintilla di una consapevolezza piuttosto dura da affermare: non solo siamo parte integrante dell'ambiente come esseri umani, ma anche le nostre attività di trasformazione dell'ambiente, l'industria, l'agricoltura, l'urbanizzazione, in esso si inseriscono e con esso si devono confrontare in un dialogo. Dialogo che deve farsi sempre più stretto, va quasi da sé, nel millennio dell'urbanizzazione del pianeta. Nel millennio in cui passa quasi inosservato quel particolare, dell'orsa abbattuta nel suo territorio, a pochi minuti da un centro abitato. Ne dobbiamo fare di strada, e non solo per inventarci migliori dosaggi di sedativo (f.b.)

«Il Festi­val della poli­tica (inau­gu­rato ieri a Mestre) asso­mi­glia alla “costi­tuente pro­gram­ma­tica” del cen­tro­si­ni­stra fram­men­tato dal pros­simo voto delle Comu­nali». Occasione, per il PMR di riprendere la politica del craxiano De Michelis sconfitta dal PCI (e dai Parlamenti italiano ed europeo) venticinque anni fa? Le alternative ci sono. Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla

Lo scan­dalo Mose ha tra­volto anche il ver­tice sto­rico del Pd vene­ziano, che nel 2010 si è fatto «soste­nere» dal Con­sor­zio Vene­zia Nuova. E pro­prio i con­tri­buti elar­giti dall’ingegner Gio­vanni Maz­za­cu­rati hanno anni­chi­lito il sin­daco Gior­gio Orsoni, giu­sto alla vigi­lia del secondo man­dato. Prima gli arre­sti domi­ci­liari, poi le dimis­sioni al vetriolo, infine l’esplicita dichia­ra­zione di guerra al Pd.

Ca’ Far­setti è com­mis­sa­riata: Vit­to­rio Zap­pa­lorto dal 3 luglio garan­ti­sce solo l’ordinaria ammi­ni­stra­zione. Vene­zia non conta più al tavolo di palazzo Chigi, pronto a “cam­biar verso” con nuovi deva­stanti can­tieri. I dipen­denti comu­nali sono in rivolta da set­ti­mane, men­tre il bilan­cio ha impie­to­sa­mente tagliato ser­vizi e poli­ti­che sociali.

Il baro­me­tro in laguna è tutt’altro che inco­rag­giante. La Lega acca­rezza il sogno di repli­care il cla­mo­roso trionfo di Padova. Renato Boraso, ex ber­lu­sco­niano, ha schie­rato fin da giu­gno la lista civica per­so­na­liz­zata. E si pro­fila la can­di­da­tura di Luigi Bru­gnaro, pre­si­dente della Reyer Basket, paròn di Umana Hol­ding, già al ver­tice di Con­fin­du­stria, che con 513 mila euro voleva com­prarsi l’isola di Pove­glia. Intanto il M5S sta per sce­gliere la sua punta di dia­mante: in lizza Davide Scano, Antony Can­diello e Elena La Rocca.

E il Pd? Para­liz­zato dalla Pro­cura, gioca una tat­tica esa­spe­rata con il ter­rore di un flop alle Pri­ma­rie. Così ci pen­sano la Fon­da­zione Gianni Pel­li­cani (e Mas­simo Cac­ciari, già tre volte sin­daco…) ad accen­dere i riflet­tori sulla “piat­ta­forma di idee”. Sta­mat­tina alle 11 nella ten­so­strut­tura di piaz­zale Can­diani a Mestre è in pro­gramma l’inequivocabile dibat­tito sul tema «Labo­ra­to­rio Città — Expo 2015 a Vene­zia: Acqua e Terra». Rin­for­zato nel pome­rig­gio dal con­ve­gno sull’innovazione a Nord Est che anno­vera anche Cesare De Miche­lis, pre­si­dente di Vene­zia Expo…

Fino a dome­nica si va avanti così. Ed è netta l’impressione che sia la pre­messa alla can­di­da­tura di Nicola Pel­li­cani: figlio del lea­der miglio­ri­sta del Pci-Pds-Ds, gior­na­li­sta del Gruppo Repub­blica, ha rice­vuto il 28 ago­sto la visita pri­vata del pre­si­dente Napo­li­tano e viene cal­deg­giato dagli opi­nion makers.

L’alternativa natu­rale è Felice Cas­son: il magi­strato dell’inchiesta sul Petrol­ki­mico, sena­tore civa­tiano, in prima fila nel con­tra­sto all’illegalità inci­stata nel “modello veneto” rap­pre­senta le spe­ranze di tra­spa­renza e rin­no­va­mento. Ma Cas­son è rima­sto più che scot­tato dalla scon­fitta del 2005, quando il bal­lot­tag­gio pre­miò a sor­presa Cac­ciari. Comun­que sarà deci­sivo se dav­vero si faranno le Primarie.

Ma il puzzle in casa Pd è osti­coco. Tanto per comin­ciare biso­gna fare i conti con San­dro Simio­nato: vice di Orsoni, con­tava di “reg­gere” la tran­si­zione alle urne da natu­rale erede. È uomo di Ber­sani che oggi garan­ti­sce lo zoc­colo duro più e meglio di Davide Zog­gia (bru­ciato dalle “con­su­lenze” al Cvn). Non basta, per­ché è pronta la con­cor­renza di almeno altri due gio­vani aspi­ranti sin­daci. Si tratta di Andrea Fer­razzi, asses­sore uscente, e del ren­ziano della prima ora Jacopo Molina.

Senza dimen­ti­care il jolly: Pier Paolo Baretta, 65 anni, attuale sot­to­se­gre­ta­rio all’Economia. È acquat­tato nelle lar­ghe intese, pronto a scen­dere in campo se sal­te­ranno in aria le ambi­zioni altrui e soprat­tutto quando il “vec­chio” cen­tro­si­ni­stra non sarà in grado di reg­gere. Cat­to­lico, sin­da­ca­li­sta metal­mec­ca­nico e segre­ta­rio gene­rale aggiunto della Cisl di Bonanni, nel 2008 diventa par­la­men­tare fino a tro­vare un ruolo nel governo Letta che gli è stato con­fer­mato da Renzi.

E la par­tita delle Comu­nali di Vene­zia si intrec­cia con la rin­corsa alle Regio­nali e la seconda sfida al leghi­sta Luca Zaia.

Il segre­ta­rio ren­ziano Roger De Menech ha già annun­ciato in autunno la con­sul­ta­zione delle urne pre­ven­tive. Un altro bel rischio, visto che all’orizzonte man­cano can­di­dati diversi dall’autosufficienza Pd. Addi­rit­tura sarebbe una guerra all’ultima pre­fe­renza fra sole “pri­me­donne”. Con Laura Pup­pato che avrebbe dovuto gui­dare il cen­tro­si­ni­stra nel 2010, ma che fu vit­tima della “sus­si­dia­rietà” dei vec­chi lea­der Ds e Mar­ghe­rita. Ma anche Ales­san­dra Moretti, ex por­ta­voce di Ber­sani, che alle Euro­pee è diven­tata “rot­ta­ma­trice” a furor di pre­fe­renze. E Simo­netta Rubi­nato, depu­tata ren­ziana, che sabato riu­ni­sce i suoi soste­ni­tori nel mona­stero di Maranco a Caorle.

Pec­cato che da Vicenza torni a levarsi la voce (ampli­fi­cata dal quo­ti­diano locale) di chi pre­tende la can­di­da­tura del sin­daco Achille Variati che l’anno scorso ha otte­nuto la con­ferma al primo turno con il 53% dei voti. Classe 1953, ban­ca­rio, a 37 anni diventa primo cit­ta­dino gra­zie alla Dc per poi pas­sare in Regione dal 1995 fino al 2008, quando torna a gui­dare il Comune. Anche da “ren­ziano civico”, è arduo spac­ciarlo come il nuovo che avanza

postilla
Venticinque anni sono molti: una generazione. Eppure sembra passato molto più tempo dalla battaglia che non solo il PCI di quegli anni, ma una parte consistente della popolazione veneziana sconfisse una strategia che sembrava devastante per la città. Allora Venezia fu aiutata anche dalle rappresentanze parlamentari italiane ed europee. . Per ricordare quel momento rinviamo all'editoriale dell'Unità che ne raccontava la conclusione.



«Il comitato attacca Zappalorto: "La sua astensione al Comitatone? Decisione pilatesca"». La Nuova Venezia, 11 settembre 2014 (m.p.r.)

«Zappalorto al Comitatone ha preso una decisione pilatesca decidendo di non votare. Doveva invece chiedere al governo il rispetto della legge, dal momento che si è deciso di scavare un canale che non è previsto dal Piano regolatore portuale». Non bastassero i comunali, le società sportive e le associazioni, contro il commissario che governa Ca’ Farsetti arrivano adesso gli strali del Comitato «No Grandi Navi». Il portavoce Silvio Testa rincara la dose sulla famosa riunione di agosto in cui – con l’astensione del Comune rappresentato da Zappalorto – il governo ha autorizzato l’esame della Valutazione di Impatto ambientale per il progetto dello scavo del nuovo canale, proposto dall’Autorità portuale. «In realtà ha preso una decisione pilatesca», scrive il rappresentante del comitato, «perché se da un lato ha consentito che la riunione del Comitatone si tenesse, dall’altro ha impedito che la città si esprimesse, lasciando così che altri decidessero per noi».

Quanto al «rispetto della legge», Testa ricorda che «non c’è dubbio alcuno che lo scavo del nuovo canale per le grandi navi imporrebbe una modifica del Piano regolatore portuale, che non lo prevede. Mentre la decisione romana si muove in direzione contraria: il Piano regolatore dovrà essere adeguato alle opere nel frattempo realizzate». Ancora, la legge portuale, cita Testa, «prevede che il Piano portuale non possa contrastare con i piani urbanistici. E questo è il caso, dal momento che l’articolo 35 bis del Pat, Piano di Assetto del Territorio approvato dalla giunta Orsoni chiede l’allontanamento delle navi incompatibili dalla laguna». Infine un dubbio. «Siamo davvero sicuri che quella riunione dell’8 agosto sia stata una rìunione di Comitatone? Non era presieduta dal presidente del Consiglio, né dal ministro dei Lavori pubblici come prevede la Legge Speciale ma dal sottosegretario Delrio». La battaglia continua, dunque. E i comitati stanno perfezionando il loro ricorso al Tar contro la delibera dell’Autorità portuale di agosto che dà il via libera all’iter per l’approvazione del progetto Contorta.

Corriere della Sera Lombardia, 11 settembre 2014, postilla (f.b.)

La mancanza di collegamenti. A sud, verso l’Autosole. E a nord, verso l’A4 Milano-Venezia. Il peccato originale di Brebemi, con i suoi sessanta chilometri di asfalto pochissimo percorso che corrono fra la bassa bresciana e la periferia orientale di Milano, sembra stare tutto lì. Nel fatto che è un asset viario che collega il nulla col nulla . Almeno per ora. Ed è per questo che ieri il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ha invitato tutti a portare un po’ di pazienza. «Prima di dare una valutazione — ha detto — aspetterei fino a che la Teem (la tangenziale esterna di Milano, ndr ) sia completata e la Brebemi sia così collegata con le altre due autostrade».

Questione più volte sollevata anche dallo stesso Francesco Bettoni, presidente di Unioncamere Lombardia e vero grande ispiratore dell’infrastruttura: secondo le proiezioni del suo staff, infatti, la bretella di connessione fra A35 e Autosole dovrebbe portare a un incremento del 15% di traffico sul tracciato inaugurato alla presenza del premier Matteo Renzi lo scorso 23 luglio. Fatti due calcoli, 3.500 automobili in più rispetto alle 22 mila giornaliere dichiarate dalla società controllata dal gruppo Gavio e da Intesa Sanpaolo. Che non sono spiccioli per un’operazione infrastrutturale — prima del genere in Italia — a totale trazione privata costata qualcosa come 2,4 miliardi di euro. La Teem, che metterà in comunicazione diretta Agrate a Melegnano con un doppio raccordo con l’A4 e l’A1 per un totale di 32 chilometri, è stata ideata per alleggerire il carico di traffico che grava sulla vecchia Tangenziale Est, ma sono in molti a sostenere possa dirottare verso Brebemi parte dei flussi pesanti diretti da e verso i centri logistici dell’hinterland meridionale oggi di stanza sulla Milano-Venezia.

Ne sembra convinto anche il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che martedì sera a Brescia, in occasione dell’inaugurazione della Fiera dell’aeronautica, ha sostanzialmente anticipato il pensiero di Maroni: «Il problema del poco traffico sulla Brebemi — ha detto — sta a valle. La realizzazione della Teem completerà l’opera e integrerà il sistema infrastrutturale lombardo creando un’alternativa all’A4». Questione di tempo, dunque. Forse solo di mesi. A oggi di Teem è stato inaugurato solamente un tratto di sette chilometri fra Pozzuolo Martesana e Liscate, ma Maroni giura che l’opera «sarà completata prima di Expo».

Il governatùr, in effetti, sta facendo del capitolo strade un elemento fondamentale nella sua strategia di sviluppo regionale. «Ribadisco il fatto — ha proseguito — che, per garantire la sufficiente mobilità alle imprese e ai cittadini lombardi, servono almeno altri 200 chilometri di strade veloci e di autostrade. Per questo il nostro obiettivo è quello di completare la Pedemontana, mentre ieri (martedì, ndr ) in Consiglio abbiamo assunto l’impegno di sospendere il pagamento del pedaggio per tutto il 2015 sulle tangenziali di Como e di Varese». Ricordava ieri un attento lettore che, nel 1976, quando venne aperto il primo tratto del corridoio M25 che circonda Londra, il Times bollò l’opera come «inutile» perché «troppo periferica». Oggi è uno dei raccordi anulari più trafficati del mondo. Che sia davvero questione di tempo?

postilla
Casca proprio a fagiolo l'osservazione del lettore sulla London Orbital, e per un motivo che a quanto pare continua a sfuggire ai nostri commentatori (favorevoli o contrari all'opera pare conti poco): ci vuole tempo, come ci dice Maroni, per completare i Grandi Disegni. Se nel caso di Londra si trattava però dell'anello autostradale schematizzato nel piano metropolitano di Patrick Abercrombie del 1944, a segnare in qualche modo il confine della greenbelt agricola, le grandi infrastrutture stradali milanesi e lombarde da mezzo secolo a questa parte seguono quel non-piano che si chiamava un tempo Sviluppo Lineare, al solo scopo di sabotare l'unica idea territoriale forte e intelligente prodotta nel '900 alla scala adeguata, ovvero la cosiddetta Turbina del Piano Intercomunale Milanese. Che fissando alcune invarianti nelle forme dell'urbanizzazione e delle aree aperte mirava – esattamente – a evitare il famoso “sviluppo del territorio” o sprawl o città infinita che dir si voglia, promosso invece sciaguratamente prima dalla Democrazia Cristiana e poi dagli altri interessi conservatori che ne hanno ereditata la cultura, in testa Cielle e Lega, per quel che conta. Ecco, è questo che ci dice Maroni: aspettate che si finisca il lavoro, ovvero di seppellire e ritagliare tutto il territorio in una immensa lottizzazione (come si può ancora leggere nelle immagini pubblicate su Urbanistica n. 50-51) con qualche grosso giardinetto per i bambini e i perdigiorno. La cosa triste è che nessuno, Pd in testa, pare avere idee alternative. Si spera ovviamente di sbagliarsi (f.b.)
Su Eddyburg Archivio abbondanza di materiali di riferimento per il Piano Intercomunale Milanese; su Millennio Urbano qualche considerazione in più sull'assenza di un Grande Disegno Alternativo

Altreconomia.it, 10 settembre 2014 (m.p.r.)

Forse -come suggerisce al lettore una foto pubblicata dal Corriere della Sera del 10 settembre- il “deserto d'asfalto” che unisce Brescia a Melzo è colpa dell'erba alta davanti ai cartelli, che non permette agli automobilisti di raggiungere la BREBEMI, la nuova autostrada A35 inaugurata a fine luglio alla presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

O, con maggiore cognizione di causa, l'assenza di automobilisti lungo l'infrastruttura può essere imputata alla “concorrenza” della vicina autostrada A4, che unisce il Veneto (e da Bergamo ha addirittura con 4 corsie) fino ad incontrare la Tangenziale Est, mentre la BREBEMI finisce nei campi.

A differenza di chi, oggi, dedica reportage “all'autostrada che nessuno percorre”, noi ciò che accade oggi l'avevamo detto, e scritto, nel corso degli anni. Quando ancora non erano stati spesi circa 2,4 miliardi di euro (al netto degli oneri finanziari); quando ancora il “deserto d'asfalto” non c'era; quando ancora le inchieste di un grande quotidiano avrebbero potuto smuovere l'opinione pubblica, portando magari il governo a frenare il progetto, prima di essere costretto a metter mano al portafogli, come farà a breve -vaticiniamo- il CIPE, per rispondere alle richieste di “sgravi fiscali” avanzate a più riprese dal presidente della società di gestione, Francesco Bettoni, e dal presidente di Regione Lombardia, Roberto Maroni. Lo Stato -qualora il governo accogliesse la richiesta- dovrebbe rinunciare ad incassare circa mezzo miliardo di euro nei prossimi anni, scrivono alcuni grandi quotidiani, senza “contestualizzare” il perché né il come.

Crediamo sia necessario, pertanto, riassumere per punti tutto ciò che è necessario sapere sulla BREBEMI, per comprendere oggi un fallimento costruito nel corso degli anni, e di cui pagheremo i costi per molti anni a venire:

1 la defiscalizzazione, per legge, è un provvedimento che può essere richiesto per rendere sostenibile il piano economico e finanziario di interventi realizzati in project financing che si trovino in condizione di “squilibrio”, rappresentando -né più né meno- un clamoroso “fallimento del mercato”. Vale la pena sottolineare che la defiscalizazzione è stata introdotta nell'ordinamento italiano durante il governo Monti, quando ministro e viceministro delle Infrastrutture erano Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex dirigenti del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che è azionista della società che ha costruito e gestirà BREBEMI;

2 la insostenibilità del project financing era già “provata”, se possibile, dal mancato interesse dei grandi gruppi bancari privati a partecipare al reperimento dei fondi necessari a realizzare l'intervento: a fronte di una vulgata (che continua a ripetersi sui media mainstream, come se fosse una verità che si auto-avvera) che vorrebbe la BREBEMI come “la prima autostrada realizzata senza finanziamenti pubblici”, i soci -da Intesa Sanpaolo a Gavio, da Unieco a Pizzarotti fino ai piccoli Comuni della bassa bresciana bergamasca attraversati dal tracciato- sanno di aver contato sui finanziamenti della banca pubblica dell'Unione europea, Banca europea degli investimenti, e della “cassaforte degli italiani”, quella Cassa depositi e prestiti controllata dal ministero del Tesoro;

3 i dati di traffico relativi all'autostrada BREBEMI, che secondo quanto comunicato dalla società stanno intorno ai 20mila passaggi al mese, ben al di sotto del preventivato, evidenziano la “risposta del mercato” a un intervento pesante per tutto l'est milanese: senza il completamento della Tangenziale Est esterna di Milano -che la collegherebbe alla viabilità ordinaria, veicolando il traffico verso Milano- la BREBEMI non “esiste”. Questo esemplifica come "asfalto" chiami "asfalto", in un circolo vizioso dannoso per il Paese.

Spiace, oggi, verificare che l'opposizione in Regione Lombardia invece di criticare il “modello autostradale made in Formigoni”, mutuato nel “modello Maroni”, rivendichi l'esigenza di garantire al “progetto BREBEMI” maggiori risorse pubbliche onde evitare che alcuni Comuni dell'hinterland di Milano siano strozzati dal traffico;

4 se le mettiamo insieme, però, queste due infrastrutture hanno occupato o andranno ad occupare, nel caso di un completamento di TEEM, oltre 500 ettari di terreni agricoli, che saranno persi per sempre, comportando -come abbiamo spiegato su Ae 150, ad aprile 2014- un costo di gestione dei servizi ambientali per i territori coinvolti di 6.500 euro per ettaro all'anno.

Ecco ciò che sappiamo di BREBEMI. E lo sapevamo -e scrivevamo- mesi fa. Non c'era bisogno di attraversare l'autostrada semi vuota per descriverla. Era già scritto nelle parole di un dirigente di una grande banca milanese, che nel corso di un convegno di Assolombarda dedicato alle autostrade, un paio d'anni fa, aveva spiegato il motivo per cui alcuni interventi non erano considerati “bancabili”: «Come posso credere che sull'autostrada x passino 80mila veicoli al giorno, e che gli stessi veicoli passino anche su un'arteria che dovrebbe correre parallela, a pochi chilometri dall'altra?».

Riferimenti.

Numerosi articoli e documenti sulla follia della BREBEMI son su eddyburg Basta inserire le lettere nel lo spazio a sinistra della piccola lente in cima a qualsiasi pagina.

«Un giro sterminato di tangenti, con donazioni milionarie a funzionari che governano autorizzazioni paesaggistiche e concessioni edilizie nelle aree di maggior pregio». La Nuova Sardegna, 10 settembre 2014

Cagliari. Un giro sterminato di tangenti, con donazioni milionarie a funzionari e dirigenti che governano le autorizzazioni paesaggistiche e le concessioni edilizie nelle aree di maggior pregio della Costa Smeralda, fino agli ampliamenti degli hotel dorati ex Colony Capital, Romazzino, Cala di Volpe e Pitrizza: rimbalza a Cagliari un’inchiesta della Procura di Tempio che sembra destinata, se le ipotesi accusatorie troveranno conferma, a far tremare ancora una volta la politica sarda.

Perquisizioni. Per adesso gli indagati sono tre: il potentissimo ingegnere cagliaritano Tonino Fadda, ex componente della commissione Urbanistica del Comune di Cagliari e poi collaboratore dell’urbanistica regionale, il fratello geometra Raimondo Fadda e l’ex responsabile dell’ufficio tecnico di Arzachena Antonello Matiz, per anni plenipotenziario e crocevia burocratico di ogni iniziativa che riguardasse il cemento d’alto bordo nella Gallura degli appetiti immobiliari. L’accusa contestata fino a questo momento dal procuratore capo di Tempio Domenico Fiordalisi è per tutti e tre di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ma il materiale acquisito ieri mattina dai carabinieri di Sassari nell’abitazione di Fadda in vico Merello 7 e negli studi professionali di Cagliari e di Roma lascia prevedere per le prossime settimane un’ondata di avvisi di garanzia, mentre si parla di perquisizioni già programmate per questa mattina in diverse località della Gallura.

Iniziative immobiliari. L’inchiesta è in pieno svolgimento, Fiordalisi si è mosso in periodo feriale per tagliare corto e bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di inquinamento delle prove: il decreto di perquisizione è stato controfirmato dal gip Marco Contu, che ha valutato in queste ore il materiale probatorio raccolto dai militari dell’Arma nel corso dell’estate. Al centro dell’indagine sono gli atti di concessione, i permessi di costruire, le autorizzazioni paesaggistiche che hanno reso possibili negli ultimi anni alcune iniziative immobiliari di grande impatto, le nuove suite degli hotel smeraldini ma anche le megaville di La Conia, la località di Arzachena in cui hanno realizzato i loro ritiri estivi numerosi dirigenti generali dello Stato e alti funzionari della tutela paesaggio.

Operazioni dubbie. È qui, tra Serra di Entu fino a La Conia passando per la proprietà Pasella che gli uomini di Fiordalisi hanno scoperto operazioni edilizie di dubbia legalità, sulle quali stanno indagando. Per scoprire le origini di quello che appare una sorta di sacco paesaggistico a base di tangenti il magistrato ha puntato decisamente su Tonino Fadda, per anni progettista di riferimento di Colony Capital e ancora sotto contratto fino a dicembre con la nuova proprietà che fa capo al Qatar, uomo vicinissimo al potente dirigente dell’urbanistica regionale Gabriele Asunis, indagato per corruzione e poi prosciolto nel procedimento romano per la P3 in cui è imputato Ugo Cappellacci.

Modifiche arbitrarie. Dalle carte dell’indagine sembra emergere un’asse solidissimo tra Fadda e Matiz, il primo come uomo delle proposte immobiliari a cinque stelle e il secondo nelle vesti di referente tecnico. In mezzo, fra progetti che sembrano aver passato agevolmente le verifiche urbanistiche e paesaggistiche, compaiono misteriose donazioni di cui i carabinieri hanno trovato traccia nei documenti sequestrati negli studi di Fadda: un appartamento al centro di Londra, acquistato e poi ceduto a un personaggio piuttosto conosciuto negli ambienti politici, passaggi di denaro molto consistenti, nell’ordine dei milioni di euro, che riporterebbero sempre a nomi noti. Filtrano indiscrezioni sulle perquisizioni compiute ieri, in presenza dell’avvocato Rita Dedola che difende i fratelli Fadda: Fiordalisi ha chiesto ai militari di cercare documenti riferiti al piano regolatore di Arzachena, che per ragioni da verificare sarebbero usciti dagli uffici del municipio gallurese per finire nello studio dell’ingegnere cagliaritano. Si parla di modifiche arbitrarie che lo strumento di pianificazione avrebbe subito nel tempo per garantire i permessi di costruire in aree coperte da vincoli, soprattutto quelle di La Conia. Ma sembra emergere un fitto reticolo di interessi legati a proprietà immobiliari private, con intermediari immancabilmente vicinissimi a personaggi della politica protagonisti nella legislatura Cappellacci.

Contratto principesco. Fadda, che dell’assessorato all’urbanistica era una sorta di fiduciario, avrebbe svolto il ruolo di tramite fra la Regione e gli interessi immobiliari che gravitano attorno alla Gallura rivierasca. Assunto con un contratto principesco dall’imprenditore statunitense Tom Barrack, l’ingegnere cagliaritano ha lavorato alla progettazione delle suite negli hotel smeraldini – la sola concessione rilasciata riguarda però il Romazzino – e in contemporanea avrebbe dato supporto tecnico a una serie di personaggi legati alla politica nazionale e sarda interessati a costruire in Gallura. Chiunque desiderasse un buen retiro dalle parti di Porto Cervo e dintorni si rivolgeva a lui, che secondo indiscrezioni avrebbe maturato parcelle per una cifra vicina ai 40 milioni di euro, guadagnati nella piena legittimità.

Carte e computer. I militari hanno bussato di buon mattino prima all’abitazione dell’ingegnere, che secondo l’avvocato Dedola ha fornito piena collaborazione e disponibilità. Sempre in un clima sereno gli investigatori inviati da Fiordalisi si sono trasferiti allo studio professionale di Fadda, dove hanno fotocopiato documenti e esaminato il contenuto dei computer. Nelle stesse ore i commilitoni di Roma perquisivano lo studio che Fadda ha aperto nella capitale. Ora il materiale raccolto sarà esaminato e trasmesso all’ufficio di Fiordalisi per una prima valutazione.

Altri nomi. Stando sempre a indiscrezioni da confermare, i documenti acquisiti dovrebbero consentire alla Procura di Tempio nuovi passi d’indagine. Il numero degli indagati – nel decreto di perquisizione sono tre – sarebbe molto più elevato e altri nomi saranno aggiunti di qui a breve in un’inchiesta dagli sviluppi imprevedibili.

Il Fatto Quotidiano. 9 settembre 2014

MA E' ROMA O E'DISNEYLAND?
di Carlo Antonio Biscotto,
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri. è vero mecenatismo?

Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.

Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commerciali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?

Che fosse necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.

A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.

Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.

Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.

Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com  ?

Frattanto il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.

Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.

NON TUTTO SI PUÒ VENDERE
UN MONUMENTO NON È UNO STADIO

di Tomaso Montanari

Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico con le sponsorizzazioni: dovremmo farlo? Quando avessimo coperto tutti i nostri monumenti in restauro con pubblicità commerciali, e quando avessimo associato tutti i siti monumentali bisognosi di fondi a marchi, imprese e prodotti, quale risultato avremmo ottenuto? La commercializzazione totale, la letterale mercificazione del patrimonio culturale inciderebbe, o no, sul messaggio di quei monumenti? Ne modificherebbe o no la funzione civile?

La sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni ha scritto che dovremmo iniziare a ribattezzare alcune parti dei nostri monumenti con i nomi dei grandi donatori, come avviene nei musei degli Stati Uniti. Potremmo avere il corridoio Eataly degli Uffizi, la navata Sony di San Giovanni in Laterano, la sala Della Valle della Pinacoteca di Brera.
Prima di farlo davvero, tuttavia, sarebbe bene conoscere le conseguenze che simili scelte hanno avuto in America. Qui la maggior parte delle squadre di baseball della Major League vende i diritti di denominazione dei propri stadi, così oggi abbiamo il FedEx Field e il Gilette Stadium. Dallo sport, la pratica è passata alle città: si sono cominciati a vendere i diritti di denominazione degli spazi pubblici (stazioni della metropolitana, stazioni ferroviarie, parchi pubblici e sentieri dei parchi nazionali), in quello che si chiama marketing municipale. Ma anche le macchine della polizia, le pompe antiincendio, le celle delle prigioni e si sono letteralmente coperte di pubblicità. Le pagelle delle scuole pubbliche hanno le inserzioni di Mc Donald's, e Microsoft ha pagato 100.000 dollari per dare il proprio nome a una presidenza di una scuola. Questa massiccia occupazione dello spazio e dei servizi pubblici ha provocato movimenti di lotta, campagne di denuncia, riflessioni critiche. Il filosofo della politica Michael Sandel ha scritto che “nell'appropriarsi del mondo comune, i diritti di denominazione e il marketing municipale ne sminuiscono il carattere pubblico. Oltre al danno che procura a certi beni, lo spirito commerciale erode la comunanza. Vogliamo una società in cui ogni cosa è in vendita? Oppure ci sono certi beni morali e civici che i mercati non onorano e che i soldi non possono comprare?”. Questa è la domanda, ora anche per noi.

La Repubblica Milano, 8 settembre 2014, postilla (f.b.)

Qualche giorno fa, nel corso di una mesta cerimonia dominata dalla faccia da funerale del presidente uscente della Provincia Guido Podestà, la Regione ha ricevuto in dote da Palazzo Isimbardi la holding Asam, ovvero la scatola societaria che contiene le partecipazioni nel settore delle infrastrutture delle Province di Milano e Monza. Sono per gran parte quote di società autostradali, fra le quali la celebre Serravalle, fonte di infiniti guai politico giudiziari per gli ex presidenti provinciali Colli e Penati nonché di colossali grane per gli ultimi tre sindaci di Milano Albertini, Moratti e Pisapia. La Regione gestirà l’Asam - gravata da 130 milioni di debiti - fino a dicembre 2016 e poi dovrà riconsegnarla alla, nel frattempo, neonata città metropolitana di Milano.

A dispetto dell’imponente debito, l’arrivo del pacco Asam in Regione è stato accolto con sorprendente buonumore dal presidente leghista Maroni, che si è immediatamente lanciato nell’annuncio che in Lombardia si dovranno realizzare, al più presto s’intende, altri 200 chilometri di nuove autostrade o strade a scorrimento veloce. Quasi in contemporanea, sono stati resi pubblici i dati sul primo mese di esercizio della Brebemi, ovvero l’ultimo gioiello autostradale lombardo inaugurato il 22 luglio. Una media giornaliera di soli 18mila transiti, contro i 120mila nel tratto Milano Brescia della A4, l’arteria della quale la Brebemi rappresenterebbe l’alternativa più comoda e veloce.

Un flop indiscutibile, in parte spiegabile con la segnaletica insufficiente, forse con la mancanza di informazioni chiare all’utenza, o forse ancora per il fatto che usciti, in direzione Milano, ci si trova imbottigliati nella terribile Cassanese o nella tortuosissima e quasi impercorribile Rivoltana. Un flop che tuttavia trova la sua spiegazione più semplice nel costo: 10,50 euro per 62 chilometri. L’autostrada più cara d’Italia, quasi il doppio del ticket per lo stesso tratto percorso sulla A4. Dunque al governatore leghista che promette asfalto per altri 200 chilometri di highway in Lombardia risponde sinistramente il primo rendiconto di un’opera annunciata diciotto anni fa, cantierizzata nel 2009 e per cui si prevedeva una spesa — in project financing — di 800 milioni lievitati, nel frattempo, a 2,4 miliardi. Una «grande opera » in teoria interamente finanziata da privati ma che oggi, per reggersi, chiede al governo defiscalizzazioni e contributi per circa 500 milioni e il prolungamento della concessione da 20 a 30 anni. E poi impone tariffe che consegnano la nuova autostrada alla marginalità, se non alla totale inutilità nel sistema della mobilità lombarda.

Maroni non dice dove vorrebbe stendere i nuovi 200 chilometri di autostrade in Lombardia. Non lo dice perché, da consumato attore della politica, sa perfettamente che qualsiasi annuncio darebbe un vantaggio agli oppositori. Però chiama alla collaborazione i privati, riproponendo quel project financing di cui stiamo ammirando gli effetti sulla Brebemi. Probabilmente verranno ripescati gli assurdi progetti autostradali per la bassa, come la Broni-Mortara e la Cremona — Mantova. Sbucheranno bretelle e rami di collegamento con la Pedemontana, la Tem e con la stessa Brebemi. Tornerà dall’oblio la Rho-Monza e chissà quanto ancora saprà partorire la creatività asfaltatrice del governatore. Il tutto in una regione che sta attraversando la crisi profonda di un sistema produttivo che andrebbe ripensato insieme a una nuova mobilità. A infrastrutture e servizi che agevolino e incoraggino il passaggio a un modello rispettoso dell’ambiente, dei territori e persino della logica economica. Costruire autostrade verso il nulla non può essere il futuro della Lombardia.

postilla
Pare che finalmente, davanti a fatti incontestabili, si stia facendo strada anche nell'informazione l'idea di uno “sviluppo del territorio” dove le opere siano funzionali a qualche genere di idea, e non viceversa. Mentre invece la politica, Maroni in testa ma ne siamo certi anche la maggioranza dei suoi formali oppositori, resta saldamente legata al modello classico secondo cui prima si decidono le trasformazioni, sulla base di alcuni interessi economico-speculativi, e poi a colpi di studi parziali, convegni, disinformazione, cooptazione, se ne stabilisce una utilità qualsivoglia. Speriamo che la coscienza del disastro, attraverso una stampa che pare vagamente emersa dalle nebbie padane dello sviluppismo coatto, inizi a sfiorare anche i nostri decisori (f.b.)

p.s. Le citate surreali Autostrada della Lomellina, e Cremona-Mantova fanno parte della medesima storia, ovviamente

Nell’alluvione di parole ognuno ci mette le sue. Qualcuno anche qualche ricordo virtuoso, da cui però oggi pochi propongono di riprendere la lezione, aggiornandone i termini. Ieri si chiamavano “New Deal” negli USA e “Piano del lavoro" in Italia. Oggi hanno un nome? La Repubblica, 7 settembre 2014

TRA le riforme “a ogni costo” che ora il premier annuncia per salvare l’Italia dalla crisi economica e sociale, ce n’è una che merita la priorità perché riguarda una questione di sopravvivenza: quella del territorio e dell’assetto idrogeologico. Piove sul Gargano alla fine di un’assurda estate meteorologica e va in emergenza la Puglia, la regione più “trendy” per il nostro malandato turismo, l’unica fra quelle meridionali a registrare il “tutto esaurito” in questa stagione delle vacanze. E insieme alle vittime, siamo costretti ancora una volta a contare anche i danni, materiali e d’immagine, che la violenza della natura e l’incuria degli uomini infliggono in solido a questa terra, alla sua popolazione e indirettamente a tutto il Paese.

Basta, però, con l’alluvione delle parole. Con le denunce, gli allarmi, le lamentazioni, le promesse. La rovina della Penisola è sotto gli occhi di tutti ormai da troppo tempo. Finora s’è fatto troppo poco per prevenire, contenere, contrastare questo disastro annunciato. Ne conosciamo fin troppo bene anche le cause: dal riscaldamento del pianeta provocato dall’inquinamento atmosferico e dall’effetto serra all’abbandono e al degrado dell’agricoltura; dalla manomissione continuata dei corsi d’acqua e delle coste alla cementificazione selvaggia e all’abusivismo. Ora bisogna finalmente intervenire. Dalle Alpi al Salento e alle Isole, lo Stivale è a rischio.

Occorrono senz’altro fondi, risorse economiche e finanziarie. Ma è necessario anche organizzare un “esercito del lavoro”, come auspicava già l’economista Ernesto Rossi nel suo saggio intitolato “Abolire la miseria”, composto magari da giovani incaricati di questo servizio pubblico a supporto della Protezione civile; ovvero un “Corpo giovanile per la difesa del territorio”, di cui parla una recente proposta di legge presentata dai deputati di Sel. Non a caso fu proprio questo – come ama ricordare Giorgio Nebbia, un docente universitario e ambientalista particolarmente legato alla Puglia – il primo obiettivo del presidente Roosevelt quando assunse nel 1933 la guida di un’America afflitta dalla disoccupazione dopo la Grande crisi del ‘29.

Per il Sud e per l’Italia intera, la difesa del suolo non è soltanto un impegno morale, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Né esclusivamente una spesa, seppure necessaria e irrinunciabile. È un investimento sulla sicurezza, sul futuro, sulla vita collettiva, sul turismo e infine sull’occupazione. E sappiamo tutti che, anche in campo ambientale, prevenire è meglio e assai meno costoso che curare.

È da qui, dunque, che può iniziare la ripresa nazionale. Contro la rassegnazione che giustamente il presidente Renzi esorcizza. Contro i mali endemici del pessimismo e del disfattismo. L’Italia, distrutta dalla speculazione e dal degrado, va ricostruita a partire dalla sua Bellezza; dal suo patrimonio naturale; dal territorio e dal paesaggio.

Riferimenti

Si vedano, su eddyburg, gli articoli di Giorgio Nebbia e di Eddyburg. E magari si leggano anche le proposte politiche della lista "L'altra Europa con Tsipras" e i numerosi articoli, anche su questo sito, di Luciano Gallino, Guido Viale, Piero Bevilacqua... Basta nel cerca, in alto a sinistra della piccola lente, digitare le parole new deal

La grossolanità dei formatori del pensierocorrente manipola la verità concorrendo all’indebolimentodi casi di buongoverno per favorire i soliti interessi dei saccheggiatori del territorio. Dove si dimostra anche che chi meno legge più diventa servo di chi comanda


La Repubblica apre il fronte di lotta:
Il piano paesaggistico vuole distruggere i vigneti
La cosiddetta ‘guerra del vino’ comincia mercoledì 27 agostoquando su Repubblica, ed. Firenze esce un articolo a firmaMaurizio Bologni, dal titolo Il Chianti:Pit frittata, minaccia i vigneti. Sottotitoli: “Il Consorzio all’attaccodel piano del paesaggio: pascoli al posto dei filari e divieto di reimpiantinei vecchi. L’assessore Salvadori si associa: oltraggioso per l’agricoltura.Marson ammette: su alcune cose si può discutere”.
Ecco come comincia l’articolo di Bologni: «Pascoli al postodelle vigne, per garantire l’ancestrale alternanza di colture. E altolà alreimpianto delle viti, che invece sono troppo vecchie e hanno bisogno di essererinnovate». In realtà la fonte, come si evince subito dopo, è il presidente delConsorzio Vino Chianti (che non è il Consorzio Chianti Classico), che si chiamaGiovanni Busi, ma che nell’articolo compare come Aldo (potenza dellaletteratura…), al quale si attribuisce la seguente affermazione: «“È una clamorosa frittata, è come se la Regione ci venissea dire che i vigneti, finora considerati un elemento caratterizzante e tipicodella bellezza delle colline, deturpano il paesaggio toscano - attacca ilpresidente del Consorzio Chianti Aldo Busi - Si mette a rischio un pilastrodell’economia e dell’occupazione, oltre che il più inflessibile custode delpaesaggio”».
Continua l’articolo: «Gianni Salvadori, l’assessoreregionale all’agricoltura, sta con loro. “È vero, nel Piano ci sono previsioniche penalizzano e sono addirittura oltraggiose per la vitivinicoltura e perl’intera agricoltura, ma c’è tempo per emendare”. L’assessore all’ambiente,Anna Marson, difende la filosofia del Piano, ma non chiude a correzioni: “Ilmosaico delle colture va mantenuto, ma su alcune cose si può discutere”. (…) L’assessoreSalvadori sposa la causa di imprese, piccole e grandi, dei lavoratori. “Nellaparte descrittiva del Piano ci sono passaggi pregiudizievoli per l’agricolturache di per sé fa il paesaggio”, dice».
Ma come sarà nata, e nella testa di chi, l’idea dei pascolial posto dei vigneti? Che cosa intende Anna Marson quando parla di mosaico dicolture, così come quando ne parla il Pit e chiunque si sia mai interessato dipaesaggio? È chiaro che non ci si riferisce più, oggi, a quel particolare mododi coltivare grano, vino e olio sullo stesso appezzamento, che era tipico dellamezzadria e quindi di buona parte della Toscana centrale, ma del qualerimangono solo alcune tracce. Esiste ancora, tuttavia, quell’alternanza dicolture (che poi sono sempre le stesse, cereali, viti e olivi) e di bosco checonsente ancora di leggere nel paesaggio toscano l’impronta storica della classicacoltura promiscua e dell’appoderamento. Per i pascoli, in quel sistemaproduttivo, non c’era proprio posto: bisogna lasciare le aree della mezzadria,risalire la montagna o scendere nelle maremme, seguire i percorsi dellatransumanza. Tra pascoli e vigneti non c’è mai stata nessuna relazione, sonospazi ecologicamente e storicamente separati.
S'inserisce Libero: Via le vigne, largo alle pecore

Eppure l’idea è subito piaciuta, anzi diventa un’ideona,secondo Libero che il giorno dopotitola: Ideona della Toscana: via levigne, largo alle pecore, un articolo di Tommaso Lorenzini. Leggendomeglio, si scopre che la distorsione la fa il titolo, e ancora di più ilsottotitolo (“Il nuovo Piano paesaggistico regionale prevede pascoli al postodei vecchi filari: idea ‘geniale’ per settore turistico e investimenti”),mentre nel testo viene riportata (correttamente) una dichiarazione di AnnaMarson. «“Non abbiamomai detto né scritto che le vecchie vigne saranno tolte di mezzo. Per ogniobiezione c'è ancora tempo, siamo aperti a ogni confronto, che peraltro intempi non sospetti c'era già stato con le varie categorie ed esperti disettore. La realtà è che noi abbiamo sollevato criticità sulla proliferazione di vigneti di tipoindustriale: i piccoli vignaioli ma anche le buone, grandi aziende, devonostare tranquilli”».

Con maggiore attenzione, il tema viene ripreso il venerdì 29dal Corriere Fiorentino, nel dossiera cura di Giulio Gori e Ivana Zuliani, dal titolo Con troppe viti troppi rischi? Pro e contro le nuove regole. «Adaccedere la miccia della polemica - leggiamo nel dossier - è stato GiovanniBusi, presidente del consorzio Vino Chianti (…): “Non può essere un attopolitico a dire dove io devo piantare viti o dove non posso farlo, deve essereil viticoltore a scegliere, perché conosce il vino e come lo si fa”».
Scendono in campo i consorzi:
sappiamo noi come fare, via lacci e lacciuoli
Seguiamo ancora il dossier: «Dietro a Busi, si accodanotutti gli altri consorzi. Letizia Cesari (Vernaccia di San Gimignano) teme chei coltivatori si ridurranno «a fare i giardinieri per mantenere la beltà senzaproduttività», mentre Fabrizio Bindocci (Brunello di Montalcino) ricorda che “nonci sono dissesti se c’è un agricoltore attento, perché usa pochiantiparassitari, regimenta le acque, tiene i fossi puliti perché l’acquascorra, per le ristrutturazioni recupera le pietre e i vecchi docci perché lecase rispettino il più possibile il contesto toscano”. Andrea Giorgi (VinoOrcia) ritorna con la memoria a quando “il paesaggio forse era più bello, manon era adatto a un’agricoltura redditizia”. Al contrario, Andrea Natalini(Nobile di Montepulciano) afferma che “duecento anni fa c’erano molte più vignedi ora”».
Natalini forse non sa che nell’Ottocento erano molto rari ivigneti: la vite era diffusa sì, manella forma promiscua, maritata agli aceri e ai pioppi, o in collina agliolivi. Ma le altre affermazioni sono accettabili in un serio dibattito e potevanocontribuire a riportare la discussione sui binari giusti. Tanto più che lostesso 29 agosto Repubblica Firenze usciva con un articolo di Massimo Vanni dal titoloMarson: Nessun divieto ma cautele,che iniziava con le parole dell’assessore: «“Nessun divieto assoluto per inuovi vigneti nel Piano paesaggistico, solo alcune condizioni per chi vuolerealizzarli”».
L’articolo contrappone però alle parole di Marson quelle delcollega all’agricoltura Gianni Salvadori: «“C’è un taglio culturale generaleche va adeguato, non possiamo fermare le imprese che vogliono crescere”», per arrivarea questa dichiarazione bellicosa: «È la ‘battaglia dei vigneti’». E questa èl’espressione , variamente declinata (guerra, battaglia) che d’ora in avanti conquistail primato fra i media.
Ancora, Marson aggiunge «“Invito tutti a leggere il testo,non ci sono prescrizioni di sorta”», mal’articolo precisa che il testo conta ben 3 mila pagine: come dire, leggerlo èimpossibile per un comune mortale. Né basta l’assicurazione, sempre da parte diMarson, che «“uno degli obiettivi del Piano è riportare all’uso agricolo gliappezzamenti lasciati in eredità dalla mezzadria e oggi incolti o boschisecondari, trasformandoli anche in vigneti”».
Troviamo subito ripresa la ‘guerra delle vigne’ sabato 30agosto sul Corriere Fiorentino: Supertuscan alla guerra delle vigne «Noi nonsiamo degli speculatori», recita il titolo del servizio di Leonardo Testai.Eccone un passaggio: «Ci fa piacere leggere - spiega Luca Brunelli, presidentedi Cia Toscana e produttore vinicolo a Montalcino - nelle dichiarazioni delpresidente Enrico Rossi e degli assessori competenti, che la Regione Toscananon vuole vietare i nuovi vigneti. Ne prendiamo atto con soddisfazione.Tuttavia nel Piano i divieti per i nuovi vigneti ci sono, eccome; così come ci sonoper il florovivaismo, l’ortofrutticoltura, l’agricoltura intensiva in genere.Altrimenti di cosa parla il Piano quando usa termini come “limitare”,“contrastare”, “ostacolare” “evitare”?».

È già: non ci si può mica fidare delle affermazioni delpresidente o degli assessori. Quello che è scritto è scritto, nelle 3 milapagine: lì, da qualche parte, i divieti ci sono! E i primi a doverli applicaresaranno proprio i sindaci. I sindacistretti tra l’incudine e il martello, titola Repubblica Firenze di sabato 30 agosto. Qui Massimo Mugnaini eMassimo Vanni riferiscono le parole del sindaco di Greve, Paolo Sottani: «“Cosadirei al produttore del mio Comune che mi chiedesse di reimpiantare o estenderei suoi vigneti? Teoricamente gli direi di si. Tecnicamente però sono tenuto arecepire le prescrizioni del nuovo Piano e, quindi, a dirgli che quasisicuramente non potrà farlo”».
E di seguito quelle del sindaco di Montalcino SilvioFranceschelli: «“Le schede d’ ambitoche stabiliscono cosa si possa e cosa non si possa fare a livello agricolo, nonsi limitano a raccomandazioni ma contengono vere e proprie prescrizioni che nonrendono onore al nostro lavoro, durato anni, di armonizzazione tra crescitaeconomica e compatibilità paesaggistica”, sostiene».
Finalmente qualcuno ha letto almeno una parte del Pianopaesaggistico, e ne cita il contenuto: si tratta di una delle venti scheded’ambito in cui si articola la ricchissima documentazione raccolta dal gruppo di lavoro del Piano, formato come ènoto dai tecnici della Regione insieme ai docenti e ai borsisti del CentroInteruniversitario di Scienze del Territorio. Si tratta appunto di un ampioquadro conoscitivo che non si limita a descrivere la situazione di fatto, ma nericostruisce le dinamiche storiche e – soprattutto – segnala per ogni tematicaquali sono i valori e quali le criticità per ciascun ambito territoriale, perpoi indicare alcuni indirizzi per una coerente politica del territorio. Nelleschede si segnalano criticità, e si indicano indirizzi di tutela, dal punto divista dell’assetto idrogeologico, della rete ecologica, del sistema urbano edel paesaggio agrario. Anche la scheda numero 17 (Val d’Orcia e val d’Asso),che il sindaco di Montalcino dichiara di aver letto, contiene osservazionicritiche sull’estensione dei vigneti sui terreni delle crete, sui rischiidrogeologici ed ecologici di molti dei nuovi impianti. Ma non si tratta di“prescrizioni”, come ritiene il sindaco , bensì di indirizzi, in genere piuttostocauti: di fronte ai quali argomenti del tipo “ma chi sono e che cosa ne sannoquesti professoroni, lasciate fare a noi che di vigneti ce ne intendiamo”dimostrano soltanto la volontà di difendere ad ogni costo qualsiasi sceltaoperata nel passato e rinunciare all’opportunità di mettere insieme i saperidei coltivatori con quelli delle scienze del territorio.
Su molti giornali vengono riportate le parole di StefanoCarnicelli, docente di pedologia e attuale direttore del CIST, che fornisce gliesempi di impianti a rischio: fra i quali proprio quelli di Montalcino, cheormai si estendono anche su terreni argillosi, pur di sfruttare il marchio:alcuni degli interessati, che hannoevidentemente la coda di paglia, si dichiarano terribilmente offesi. Difenderein blocco l’intera categoria non serve a nessuno. Aggiungo per mia esperienzapersonale che chi avesse visto costruire, alla fine degli anni ’90, i famosivigneti di Poggio alle Mura, ovvero la cosiddetta villa Banfi, alla confluenzadell’Orcia nell’Ombrone, avrebbe avuto la sorpresa di trovare un vero e propriocantiere che disponeva chilometri di tubazioni per realizzare un drenaggio deltutto artificiale.
Sempre nelle pagine della Repubblica Firenze del 30 agosto sono riportate anche le parole delpresidente Rossi: «“Voglio ribadire che i termini presenti nel piano non siriferiscono affatto a vincoli o divieti. Sono raccomandazioni che ovviamentevanno calate nella realtà del territorio delle varie aziende e da cui ci si puòdiscostare motivatamente. Sono raccomandazioni tese a far adottare tutti gliaccorgimenti necessari per evitare le criticità o le conseguenze indesiderateevidenziate dal piano stesso”».

L’argomento è ripreso il giorno seguente dal Corriere Fiorentino, Guerra dei vigneti, il governatore: servonoregole, sì al dialogo, a firma G.G. , Enrico Rossi così si esprime: «“Aproposito del piano del paesaggio ho la sensazione che qualcuno vorrebbe che siriducesse ad un solo articolo: in Toscana ognuno fa quello che gli pare. Einvece, per non piangere lacrime di coccodrillo, è bene mettere regole e allostesso tempo semplificare. Proprio come abbiamo fatto noi”».
Dal Chianti alle Apuane
Le signorìe del vino alleate con le signorìe del marmo?
Ma le parole non bastano, la ‘guerra’ continua, anzi siinasprisce. Domenica 31 interviene il QuotidianoNazionale dei Monti-Riffeser, a firma Pino Di Blasio: È guerra del vino in Toscana: «La Regione blocca i nostri vigneti»,A sostenerlo, questa volta nientemeno che ‘le Signorie del vino’. Leggiamo: «Primale cave di marmo delle Apuane, da dove Michelangelo prendeva la materia per isuoi capolavori. Ora le Signorie del vino, dinastie di viticoltori che hannosuperato la trentesima generazione, come i Ricasoli, i Frescobaldi e gliAntinori, che in Toscana combattono la stessa battaglia di aziende agricole dauna dozzina d’ettari».
L’analogia con quanto era successo nel mese di luglio con larivolta delle imprese del marmo contro il Piano la troviamo anche il 2 settembresul Corriere Fiorentino: Cave e vigne,gli ultimi ostacoli al piano Marson, sempre a firma G.G., dove si legge che«Il governatore Rossi difende Marson e assicura che il Pit al contrario darànuove opportunità all’agricoltura specializzata: le direttive per combattere ildissesto idrogeologico riguarderanno solo le nuove vigne; che comunque potrannoessere realizzate su 200 mila ettari di territorio strappati ai boschi discarso pregio».
Mentre l’assessore all’agricoltura Gianni Salvadori sischiera coi viticoltori: come del resto non manca di sottolineare il Quotidiano Nazionale, lo stesso giorno: Salvadori difende le imprese del vino,sempre a firma Pino Di Blasio. Dove l’assessore mostra di condividere lepreoccupazioni che abbiamo già sentito: «“Il problema del piano regionale è ilsuo indirizzo culturale, che non riguarda solo il vino, ma tocca anche glialtri comparti. Prima afferma che l’agricoltura è una grande opportunità e unarisorsa per la Toscana, poi elenca le criticità del settore. Siccome tutto iltesto diventerà legge, si rischia di generare confusione e contraddizioni. Lecriticità non sono prescrizioni, ma rischiano di diventarlo applicando il piano”».
Finalmente uno che legge il piano
Il 3 settembre un nuovo dossier sul Corriere Fiorentino, Boschi,terrazze e pastori (per evitare l’effetto Barolo), a firma M.B. (MauroBonciani), riporta un sottotitolo categorico, “La legge sul paesaggio: cosa sipuò fare e cosa no”, ma poi si vede che l’autore è andato davvero a leggere idocumenti di piano, e si è interessato alle schede riguardanti il Chianti, laMaremma e la Val d’Orcia. Sul Chianti, per esempio, la lettura che troviamo nell’articoloè corretta: «Da qui – dall’analisi delle criticità - gli indirizzi per ilfuturo compreso quello di “indirizzare l’evoluzione della maglia agraria versounità meno estese, nel senso del versante, e realizzando adeguati sistemi digestione dei deflussi”, (…) e di “limitare la perdita degli ambienti agropastoralie agricoli tradizionali, evitando la diffusione estensiva di nuovi vignetispecializzati in ambito collinare, che quando presenti in modo esteso edominanti costituiscono ambienti agricoli di scarso valore naturalistico”.Obiettivo finale, “tutelare la complessità della maglia agraria del sistema diimpronta mezzadrile e riqualificare i contesti interessati da fenomeni disemplificazione, banalizzazione e perdita degli assetti paesaggisticitradizionali”»).
Le foto che accompagnano il servizio mostrano un esempionegativo (intorno al castello di Barolo, accanto a uno positivo (Panzano), perquanto riguarda la tessitura dei vigneti: magari il bersaglio poteva esserescelto meglio, tra le tante monocolture del vino. Almeno i vigneti del Barolosono sistemati e curati meglio di quelli di Panzano dove domina il ‘rittochino’con effetti perversi anche dove la maglia è relativamente piccola. Del restoanche sulla copertura della cantina Antinori recentemente costruita al Bargino(San Casciano) è stato piantato un bel vigneto a ‘rittochino’, proprio quellasistemazione che condannavano i Georgofili di una volta (ai quali l’attuale titolaredell’azienda Antinori si appella in piena guerra delle vigne, vedi QN del 4 settembre, Filari, colline e cipressi. Il vino crea paesaggi stupendi).
Ma al presidente fanno dire:
scrivete troppo difficile
Leggere i documenti del Piano non è dunque impossibile: lefamose 3 mila pagine non costituiscono il “faldone” con cui si è cercato discoraggiarne la consultazione, ma sono tutte facilmente accessibili in versionedigitale. Tuttavia un’affermazione un po’ avventata del presidente Rossi nelcorso di una visita a una delle famiglie di produttori storici (i Frescobaldidi Nipozzano) viene subito utilizzata a sproposito dal servizio che Repubblica dedica all’episodio. Iltitolo è Rossi e il paesaggio: “Nelnostro Piano problemi di linguaggio”. Idea che viene ulteriormenteenfatizzata nei sottotitoli: “E tra i filari boccia lo stile Marson:Accademico”. Si trattava in realtà solo di un passaggio («Posso già dire chesemplificheremo il linguaggio del piano, troppo burocratico e accademico», silegge sul Corriere).
Per Massimo Vanni, che firma l’articolo, si trattaaddirittura di una nuova fase nella guerra delle vigne: «È il Piano che haportato zizzania fin dentro lo stesso governo della Regione, perché contro lagigantesca opera di 3 mila pagine - più lunga di un terzo di Guerra e pace (nell'edizione Mondadori)- firmata dall'assessore all'urbanistica Anna Marson, si è scagliato anche ilresponsabile agricoltura Gianni Salvadori. Raccogliendo nel merito le accuse di‘dirigismo’ e di eccessiva burocratizzazione inviate dai consorzi di tutela edagli stessi sindaci all'indirizzo personale dell'assessore Marson. Ma adessole parole del governatore, che era sembrato fin qui schierarsi con la propriaresponsabile dell'urbanistica, aprono una nuova fase».

A nulla valgono le dichiarazioni delle stesso presidenteriportate il giorno dopo su ToscanaNotizie: «Smentisco nel modo più assoluto di aver voluto prendere ledistanze dall'assessore Marson». Così il presidente Enrico Rossi interviene aseguito di alcuni articoli dedicati oggi dalla stampa alle sue dichiarazioninel corso della visita all'azienda vitivinicola Frescobaldi. «Anzi, voglionuovamente ringraziarla per aver elaborato e proposto il Piano paesaggisticoche è stato approvato da tutta la giunta. Rivendico con orgoglio – prosegue ilpresidente Rossi – il fatto che grazie al nostro Piano si sia aperta nellapolitica e nella società una discussione seria su come conciliare a livelli qualitativamentesempre più alti il rapporto tra economia, ambiente e paesaggio».
Il presidente precisa:
ma i grandi mass media oscurano
Ma né RepubblicaCorriere riportano queste dichiarazioni,che si possono leggere solo sulle pagine del Tirreno. Il Quotidiano Nazionale, addirittura, fornisce la suainterpretazione: la Regione fadietrofront, si legge nel titolo del servizio del 4 settembre.
Certo, si può anche modificare il linguaggio: ma non si puòconfondere raccomandazioni e indirizzi con prescrizioni e vincoli. Il Piano suuna cosa non transige: ogni trasformazione che comporta alterazioni delpaesaggio va studiata bene, che si tratti di cave come di vigneti o diinfrastrutture. Ogni intervento richiede un progetto, questa è la vera novità:ma sembra che proprio l’obbligo di confrontarsi con un progetto faccia paura.Se il Piano paesaggistico contribuirà a instaurare una nuova cultura delprogetto, avrà raggiunto il suo scopo principale.

Purtroppo la cronaca di questa vicenda mostra come sia più comodofidarsi del linguaggio giornalistico che non risalire alle fonti: e anche cometalvolta sono i titoli a trarre in inganno, quando magari il testo sarebbecorretto. Ma non c’è limite alle distorsioni giornalistiche: mentre scrivoquesta cronaca, esce un articolo su Liberonel cui titolo ormai il Piano paesaggistico è semplicemente un piano antivigne (e per il resto apre sìuna nuova fase: quella della macchina del fango, sulla quale è meglio tacere).
Riferimenti
Lo studio di Claudio Greppi è pubblicato in rete anche sul sito di ReTe (Territorialmente). Il piano paesaggistico può essere consultato qui.

Un emendamento M5S propone di introdurre nel disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 (AC 2093) una nuova sanzione economica contro l’abusivismo edilizio. Dum spiro spero, sebbene sperare in questo parlamento sia davvero difficile.

Gli abusivi ora dovranno “pagare”. L’abusivismo edilizio, questa piaga che ha distrutto le nostre coste e la vivibilità delle città, ha finalmente un efficace strumento di contrasto. Tutto questo grazie a un emendamento inserito dal Movimento 5 stelle (a prima firma di Claudia Mannino) nel testo del collegato ambientale evaso dalla Commissione ambiente, di prossima discussione alla Camera.

Il testo, semplice quanto innovativo, dispone che qualora l’abusivo non demolisca il proprio manufatto entro 90 giorni dall’ordine di demolizione, esso debba pagare una sanzione da 2.000 a 20.000 euro e, qualora l’abuso sia realizzato in zona vincolata, soprattutto a livello idrogeologico, che questa sanzione sia comminata nella misura massima.

La sanzione, inoltre, potrà essere reiterabile (ad esempio ogni anno) qualora persista la mancata demolizione e, ovviamente, la sua corresponsione non sana l’abuso.

Gli abusivi, quindi, si dovranno fare due conti. Se ad oggi, tutto sommato, delinquere gli conveniva poiché le demolizioni si contano sulle dita di una mano e loro abitano in immobili per i quali non si paga nulla allo Stato e ai comuni (né oneri concessori, né IRPEF, né TARSU), la nuova sanzione potrebbe spingerli concretamente all’autodemolizione. E questo non perché abbiano a cuore la legalità, il paesaggio e le generazioni future, ma solo perché non farlo fa male al loro portafoglio.

I comuni, intanto, cominciano a sfregarsi le mani rispetto a questa nuova forma di entrate totalmente destinata a loro (anche se da dedicare esclusivamente al controllo del territorio e alla realizzazione di parchi pubblici). D’altronde chi non ha un abuso sul proprio territorio? Secondo il Dossier “Terra rubata” del FAI e del WWF dal 1948 al 2013 sono stati realizzati 4 milioni e seicentomila abusi edilizi e per il Dossier “L’Italia frana” di Legambiente sono state depositate, fra il 1983 e il 2004, 2.040.544 domande di condono di cui il 41,3% ad oggi ancora inevase ( e in buona parte da dichiarare inammissibili o rinunciate). Le somme sono presto fatte: ci sono ancora due milioni di abusi edilizi non sanati in piedi, di cui poco meno di un milione con una improbabile domanda di condono e poco più di un milione senza neanche uno straccio di carta a giustificarne l’esistenza. Le cifre sono confermate dal risultato del censimento delle case “fantasma” (perché in gran parte abusive) effettuato nel 2010. Si tratta di un milione e duecentomila case, come ha dichiarato il Governo Monti a marzo 2012.

Tenendosi prudenzialmente sul milione di immobili moltiplicato per la sanzione minima di 2000 euro, abbiamo la cifra record di 2 miliardi da destinare (potenzialmente ogni anno) ai comuni, in particolare a quelli delle 5 regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia) dove risiedono i due terzi degli abusi edilizi d’Italia.

Ovviamente è importante che ognuno faccia la sua parte, anche i dipendenti comunali,che dovranno infliggere le sanzioni economiche da mancata demolizione, senza dimenticarsene, come è avvenuto, in gran parte, nel Lazio dove nel 2008 è stata introdotta questa sanzione. Pertanto, nella disposizione sono state previste apposite ripercussioni, anche economiche, per i dirigenti “distratti”.

La strada è ancora lunga. Ora il provvedimento approderà all’assemblea della Camera e poi al Senato dove si spera che i parlamentari e il Governo siano d’accordoche a pagare siano, una volta tanto, quelli che violano le regole e non quelli che le rispettano.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a carte in regola

Chissà se c’è - almeno in Italia, almeno tra Fuorigrotta e Bagnoli - un nesso tra il disprezzo della legalità che c’è in alto e quello che c’è in basso. La Repubblica, 6 settembre 2014

Un inseguimento che finisce in tragedia. Non esistono più né guardie, né ladri. Né bene né male. Tutto è assai complesso, difficile non solo da comprendere ma anche e soprattutto da raccontare. Quando accadono tragedie come questa, si tende a focalizzarsi sulla dinamica. Anche il sindaco De Magistris, nel primo messaggio di cordoglio per la morte di Davide Bifolco, ha assicurato che in breve tempo si sarebbe fatta chiarezza. Ecco, questa è Napoli (e questa è l’Italia), un luogo in cui l’etichetta è rispettata, in cui tutto verrà fatto (almeno così assicurano) secondo le procedure, ma poi nulla viene realmente chiarito.

Tre persone su uno scooter, (a Napoli è la prassi) di cui una latitante e una con precedenti (questo ovviamente è stato appurato poi), che non si fermano all’alt della pattuglia dei carabinieri. C’è chi giurerà che non potevano le forze dell’ordine lasciar correre quell’infrazione. Che bisogno c’era però di sparare? Nessuno, e infatti il carabiniere ha dichiarato che il colpo gli è partito per sbaglio. Per sbaglio? È dagli anni ‘70 che si usa l’espressione “colpo accidentale”, comunicazione che non fa altro che generare diffidenza verso chi la pronuncia. Non bisogna aver maneggiato la Beretta Mod 92 semiautomatica e conoscerne il peso di quasi un chilo con proiettili 9 millimetri, per capire che un colpo accidentale può partire (cosa che accade raramente) se l’arma cade o se impugnandola senza sicura e con il colpo in canna il dito nello sforzo della corsa fa scattare il grilletto: ma in quel caso è difficile che il proiettile vada a segno. Nulla di tutto questo, a quanto sembra. E quindi bisognerebbe smettere di usare l’espressione accidentale e iniziare a chiedere solo silenzio e attesa delle indagini.

Ma questi discorsi, che occupano pagine e pagine di carta e del web e che coinvolgeranno molti italiani indignati per l’ennesimo morto bambino, questi discorsi “belli, tondi e ragionevoli”, non restituiscono affatto la realtà di Napoli. Questi discorsi restano in superficie. E nascondono un tema molto più importante, un tema che non è più possibile ignorare eppure viene costantemente, quotidianamente ignorato: Napoli è una città in guerra. Ad agosto del 2013 il conducente di una Smart inseguì e investì, uccidendoli, due presunti rapinatori (presunti perché non c’è alcuna evidenza che la rapina sia realmente avvenuta), oggi è una pattuglia dei carabinieri a ingaggiare un inseguimento per bloccare uno scooter “sospetto”, come è stato definito il motorino che guidava Davide.

Potremo scoprire (forse) le dinamiche di questa ennesima tragedia annunciata, ma i cittadini continueranno ad avere paura, le forze dell’ordine a essere tesissime e il territorio a essere attraversato da un’assenza totale di regole. Qualcuno dovrebbe domandarsi: cosa significa essere un cittadino al Rione Traiano? Cosa significa essere un carabiniere al Rione Traiano? Chiedetelo pure a loro. Rione Traiano, anello fondamentale per il traffico di coca. Rione dove manca quasi completamente ogni genere di servizi, dove la fermata della Cumana fa paura anche a mezzogiorno.

Era il regno di Nunzio Perrella, capo di una delle famiglie di narcotrafficanti più note, il clan Puccinelli. Ora è entrato in crisi, lasciando però a comandare sul territorio i propri eredi, ma il territorio è un budello conteso tra le famiglie di Soccavo, i Grimaldi, e quelle di Miano ossia i mille rivoli dei Lo Russo e i dissidenti dei Zaza di Fuorigrotta e tutti i gruppi che sanno che basta una partita di coca da appena 1 chilo (guadagno circa 210milaeuro) per assicurarsi decine e decine di stipendi di disperati e ambiziosi ragazzini da affiliare. Un coacervo incredibile di interessi che ha reso questo quartiere sempre difficilissimo da vivere. Rione Traiano è terra di faide da sempre: nel 2012 fu gambizzata Maria Ivone, figlia di un boss e fu ferita anche una donna incensurata. Nel luglio scorso, in pieno pomeriggio, due ragazzini di 17 e 18 anni sono stati feriti alla mano e alla spalla. Stiamo parlando di un luogo che aveva

creato un polo criminale rivale all’Alleanza di Secondigliano, la cosiddetta “Nuova Mafia Flegrea” che si è dissolta in faide interne e arresti, generando guerre su guerre: ce n’è stata persino una tra i Rioni Traiano “di sopra” e “di sotto”.

Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un’amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all’alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c’è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide.

Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. “Je so’ nato e so’ cresciuto ind’a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera” (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni ‘90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c’è guerra. Quando viene esploso un proiettile, che sia esecuzione, che sia errore o che sia necessità militare (e in questo caso non ve n’era alcuna), è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere.

Adesso anche l’Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c’era

stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla ‘ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. Ma di quale rinascita parliamo se l’economia più significativa nel nostro Paese è quella criminale e gli imprenditori che non si piegano sono abbandonati?

Sta affondando l’Italia, a stento respira. E affonda come sempre da Sud. Il pianto della famiglia di Davide ci parla di un male antico, di un male terribile. Non solo il dolore, quello reale, per la perdita di un figlio, di un fratello, di un amico, ma la necessità di doverlo mettere in scena come unico strumento rimasto per attirare attenzione e quindi per chiedere giustizia. Le sedie in strada, tutta la famiglia che fa dichiarazioni: il dolore nella mia terra non è mai privato. È pubblico e rumoroso, vuole invadere, celebrarsi, teme di essere sottovalutato, ignorato, isolato. È un dolore costretto alla teatralità per provare ad essere accolto.

E senta il governo intero, il peso delle parole di una ragazzina: «La camorra non avrebbe mai ucciso un ragazzo di 16 anni lo Stato sì». Frase ingenua, falsa, ma difficile da sopportare. Questo dice la cugina stravolta di Davide. Lei non sa che la camorra ha ucciso e uccide non solo sedicenni, ma ragazzi e bambini ancora più piccoli. Questa sua ingenuità mostra la necessità di parlare della camorra e che anzi è proprio il silenzio che porta a fraintendimenti di questo genere. I clan ne sono felici. «La camorra ci protegge lo Stato no» ripetono a Rione Traiano. «Le mafie fanno il loro lavoro, mentre voi istituzioni, voi pubbliche persone mentite, rubate, oltraggiate. Voi, i veri criminali, camorra, mafia, ‘ndrangheta, infondo, sono palesi nel loro essere fuori legge, sono oneste in questo». Ecco cosa drammaticamente leggo in decine di blog, in migliaia di commenti. La tragedia è accorgersene solo quando muore un ragazzino ucciso da un carabiniere. È sempre stato così: c’è bisogno di sangue per ricordare che dall’inferno a Napoli non si è mai usciti.

Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2014

“Contrarietà Mibact”: è la formula che punteggia sulle ultime bozze dello Sblocca Italia. In altre parole, il ministero per i Beni culturali è l'ultimo argine che tenta di impedire un azzeramento senza precedenti delle leggi che tutelano il territorio nazionale. Un argine debole, tuttavia: perché, negli stessi giorni, Dario Franceschini deve ottenere la sospirata firma del presidente del Consiglio in calce alla riforma del suo ministero. Una partita incrociata che rischia di vedere un unico sconfitto: il Paese.

Ma cosa stabilisce il decreto? L'articolo 1 prevede che l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nominato commissario per la realizzazione degli assi ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, possa condividere con le altre amministrazioni coinvolte non una bozza, ma un progetto finale. Nel caso che esse non siano favorevoli, egli potrà decidere se i pareri avversi siano “regolari”, e quindi se tenerne conto o meno. Un potere privo di qualsiasi freno e controllo: se occorrerà bucare una montagna piena di amianto o spianare una città antica, ebbene si potrà fare. E il principio è letale: una soprintendenza non potrà più respingere un progetto perché incompatibile con la tutela del territorio, e dovrà invece comunque accettarlo. L'articolo 5 stabilisce che si possano posare pali per reti a banda ultra larga senza autorizzazione preventiva: anche in aree vincolate paesaggisticamente. L'articolo 10 dimezza i tempi con cui valutare la pericolosità degli inceneritori. L'articolo 12 sancisce la fine della cosiddetta archeologia preventiva: d'ora in poi in caso di ritrovamenti (anche importantissimi) le soprintendenze non potranno più indicare come tutelare e valorizzare le scoperte, ma saranno costrette ad accettare le soluzioni proposte dalle ditte. Che è come chiedere alla volpe come desideri proteggere il pollaio.

L'articolo 13 stabilisce che se in due mesi una soprintendenza non riesce a esaminare una autorizzazione paesaggistica, il silenzio viene interpretato come un assenso: e si procede d'ufficio. Un provvedimento criminale: perché pretende efficienza da un corpo dello Stato che si è dolosamente depotenziato inibendo il turn over e azzerando i fondi; e perché l'inefficienza dell'amministrazione viene fatta scontare ai cittadini, che si vedono distrutto l'ambiente in cui vivono.

L'articolo 14 liberalizza in modo selvaggio gli impianti fotovoltaici e a biomasse, e le torri eoliche: per i quali non sarà necessaria più nessuna autorizzazione paesaggistica. Il che ribalta la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, e una recente pronuncia del Consiglio di Stato per cui “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Insomma, un enorme regalo a imprese in alcuni casi perfino legate alla criminalità organizzata: nonché la fine di quel che resta del paesaggio italiano.

L'articolo 28 bis prevede che chi vuole costruire possa autocertificare che ha fatto tutto secondo le regole, pagare una tassa e aspettare il disco verde: quella che è un’attività di controllo a tutela del territorio, diviene così una compravendita. E, si sa, il cliente ha sempre ragione. Ci si chiede con quale faccia chi approverà una simile porcheria andrà poi ai funerali delle prossime vittime delle frane e delle alluvioni causate dallo stupro edilizio del territorio.

Ma non è finita. L'articolo 45 prevede di usare lo strumento del project financing per eliminare ciò che resta del demanio: i privati potranno presentare progetti di valorizzazione di un bene demaniale, che in parte sarà dato loro in concessione per attività for profit, in parte sarà ceduto agli enti locali. E, per finire in bellezza, si dà carta bianca alle costruzioni nei campeggi, dicendo che “non rappresentano nuovi volumi o nuove superfici”. Il che consente di realizzare, senza titolo edilizio, edifici per finalità residenziali, produttive e di deposito, ma destinati alla sosta e al soggiorno dei turisti. Ma che “turisti” sono quelli che abitano e lavorano, o hanno depositi, in aree qualificate come “campeggi”?

Se ci avesse provato Silvio Berlusconi, il Pd avrebbe portato in piazza mezza Italia: e invece ora lo fa un berlusconiano doc come Maurizio Lupi, dentro un governo guidato dal segretario del Pd. “Padroni in casa propria” è il motto delle Larghe Intese al tempo di Matteo Renzi: solo che la casa, e cioè il territorio del popolo italiano, questa volta rischia di uscirne distrutta. Per sempre.

La farsa di Bagnoli e della Città della Scienza a Napoli sottolinea spietatamente la nullità della classe politica nazionale e locale. E' ora di cominciare a compilare la lista dei "dormienti" in tutte le città d'Italia, :non li vorremmo rivedere nelle liste. La Repubblica, ed. Napoli, 5 settembre 2014

Per discolparsi di pasticci compiuti i bambini dicono: Io non c’ero, se c’ero dormivo e se dormivo sognavo di non esserci… . Il detto ormai caratterizza il modo di partecipare alle decisioni più nefaste di una classe dirigente che si dice “di sinistra”.

L’Accordo per Città della scienza. Renzi firma il testo così come scritto in prima battuta, mai emendato di una virgola dai componenti il tavolo interistituzionale. Tra loro (forse dormiva…) il vice sindaco Sodano, mandato dal sindaco (che non c’era e pure lui dormiva sognando di non esserci…). Entrambi noncuranti che nemmeno tanto prima –ottobre 2011- la (prima) giunta de Magistris aveva votato e fatto votare al Consiglio comunale un netto “no” a stravolgimenti dell’urbanistica, e poi ancora nel 2012, sollecitata da 14 mila firme, per la spiaggia a Bagnoli libera, di tutti, senza intasamenti né occupazioni privilegiate a favore di una pseudocultura prevaricante sulle istanze del paesaggio e della gente.

Non c’era, dormiva e sogna ancora di non esserci, pure l’assessore all’Urbanistica, partecipazione e beni comuni (siamo in tanti ormai a sognarli…) che agli incontri delle associazioni arriva a sostenere, con fanciullesco candore, che Città della scienza si sposta dalla spiaggia. E Renzi infine lascerà dormire sindaco, vice e assessore affidando al Commissario Bagnoli tutta e facendo risvegliare invece quelli che, in buona pace, Bassolino e De Lucia avevano messo a dormire.

Non c’era, dormiva e certamente sognava di non esserci anche la sinistra del Consiglio regionale. Ha finto di opporsi al Collegato alla finanziaria della Campania che riapre i condoni edilizi e per l’occupazione abusiva degli immobili pubblici, cassa vincoli di tutela e le salvaguardie impresse dai piani paesaggistici anticipandone la soppressione in vista dell’approvazione del fantomatico “Piano Paesaggistico Regionale” che con i promessi condoni e gli ostacoli frapposti con legge alle demolizioni, promuoveranno altri aspiranti a scranni politici nazionali, regionali e metropolitani. Quella sinistra dormiva pure ai tavoli delle commissioni che hanno predisposto il testo anticostituzionale della norma, accorgendosi dei “pasticci” del centrodestra solo al voto.

Certamente non c’era al tavolo per l’Accordo di Città della scienza nè a quello per l’approvazione del Collegato regionale, il Ministero per i beni culturali, che però c’era (dormiva?) al Consiglio dei ministri d’agosto. Ci si augura che non finga di non esserci davanti ai contenuti dell’Accordo Idis contra leges (decreto di vincolo dello stesso Ministero, legge per la bonifica, piano regolatore), a quelli della pianificazione urbanistica, ai poteri del Commissario e davanti a una legge regionale in contrasto col Codice per i beni culturali, ricordando invece che il Codice ha esautorato la Regione, inadempiente ormai da cinque anni, dai suoi compiti sulla pianificazione dei siti tutelati.

Non ci conforta che nemmeno il Ministero adempia a sostituire l’inerzia della Regione, e piuttosto, oltre che compartecipare alla distruzione del paesaggio per decreto legge, continui inerte a guardare il proliferare di iniziative legislative di un’istituzione che imperterrita calpesta il dettato costituzionale dell’art. 9 che sancisce il primato del paesaggio, sovraordinato a qualsiasi interesse di parte, sistematicamente soddisfatto invece da chi c’era.
E pure da chi sognava di non esserci… .

Gli appartamenti costruiti dal governo Berlusconi dopo il sisma non sono affatto sicuri. Dopo il crollo di tre giorni fa il Sindaco ha emanato un'ordinanza di divieto. Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014

A Preturo, a soli undici chilometri da L’Aquila, una delle frazioni devastate dal sisma del 2009, di finanziamenti pubblici ne sono arrivati molti per l’aeroporto, dove sono sbarcati i Grandi della Terra, ma oggi di aerei che decollano e atterrano neppure l’ombra. Mentre, anche per mancanza di manutenzione, crollano, come fossero di carta pesta, i balconi delle C.a.s.e. costruite per dare un tetto agli sfollati. “Abbiamo sentito un boato e la prima cosa a cui abbiamo pensato è stato il terremoto e siamo usciti in strada” raccontano i condomini di via Volonté, una delle 19 new town volute dall’allora premier Silvio Berlusconi, che ospitano oltre 16 mila famiglie.

Molte di loro, da ieri, come recita l’ordinanza emessa dal sindaco, non potranno più affacciarsi sui balconi finché non terminerà il sopralluogo che ne dovrà constatare la non pericolosità. La causa? «Tutta da accertare» ci spiega il Procuratore capo Fausto Cardella che ha assegnato il fascicolo dell’indagine appena aperta alla dottoressa Roberta D’Avolio. Reato ipotizzato: crollo colposo di costruzioni. Nel frattempo che vengano accertate le responsabilità penali, il sindaco Massimo Cialente punta il dito sulla mancanza di risorse per la manutenzione delle C.a.s.e. realizzate con 500 milioni di finanziamento dell’Unione europea che dallo Stato sono passate di proprietà del Comune.
A realizzare i 23 palazzi dislocati tra Preturo, Collebrincioni, Sassa e Arischia era stato un raggruppamento di imprese su bando indetto dalla Protezione civile allora capeggiata da Bertolaso. Ma «a ditta che ha realizzato la palazzina dove è avvenuto il crollo del balcone è fallita» come fa notare il sindaco. Tra i condomini c’è chi ancora ricorda quel 19 agosto 2009 quando Silvio Berlusconi con le braccia aperte rivolte alla folla al di là delle transenne “benedì” il cantiere incassando un fiume di applausi. «Eravamo disperati e lui ci restituiva una casa, dovevamo fischiarlo? Ma se tornasse oggi la musica sarebbe diversa». Erano quelli i tempi della distribuzione delle dentiere e dello spumante sul tavolo della cucina da stappare appena varcata la soglia della nuova vita offerta dal governo Berlusconi.
L’importante è fare e il “come” lo vede chi si trova di nuovo senza una casa. Monica spinge il passeggino della sua piccola Cristina, nata tre anni dopo il terremoto. È giovane ma i suoi occhi sono tristi nel guardare il palazzo dove è venuto giù il balcone a pochi metri da quello dove abita lei. Occhi che la morte l’hanno vista troppo da vicino, sotto le macerie ha perduto la sua più cara amica, per poterla dimenticare: «Sono indignata e allo stesso tempo stanca di indignarmi». Rabbia e rassegnazione due sentimenti che si respingono e si mescolano fino a togliere la forza per sperare ancora in una vita dignitosa e soprattutto sicura. Ne sa qualcosa il signor Leonardis, 88 anni, che dorme nella camera che dà sul balcone su cui si è schiantato quello del piano di sopra. «Era appena mezzogiorno quando sono rientrata in casa e poco dopo un boato ci ha riportato indietro di cinque anni» racconta la figlia Luciana Leonardis proprietaria di un noto ristorante. «Mio padre è vivo per miracolo, era stato sul balcone fino a qualche minuto prima come fa ogni giorno per annaffiare le piante. Questo è quello che dobbiamo continuare a sopportare, un’angoscia senza fine».
Due famiglie di nuovo sfollate e molte altre costrette a vivere con la paura finchè tutti i sopralluoghi disposti non accerteranno che non vi è pericolo di altri crolli. E dire che sono state realizzate senza guardare a spese visto che le C.a.s.e., acronimo di antisismiche, sostenibili, ecocompatibili, sono costate 2.800 euro al metro quadrato. Case dove vengono giù i balconi, dove anche le caldaie non sono a norma, dove volano via pezzi di tetto, dove gli isolatori antisismici (cilindri posti alla base delle case per rafforzare l’effetto antisismico) sono difettosi come ha dimostrato l’inchiesta sui Grandi Rischi. A Sassa, altra frazione terremotata, ne sono state evacuate 30 perché ritenute inagibili. Un dono della Protezione civile di Guido Bertolaso, costruite attraverso un bando di 500 milioni di euro finanziato dall’Unione europea.
È una furia l’assessore al bilancio Lelio De Santis: «Il crollo conferma quello che in tanti avevano detto sul progetto C.a.s.e.: costi pesanti, realizzazioni superficiali e fatte con i piedi, sicurezza poco e nulla e affari per le imprese” che pensa a come mettere in sicurezza le persone prima che vengano giù altri balconi visto che la pioggia continua a cadere e le previsioni non sono benevoli. E infine si rivolge al governo, reo di non aver stanziato risorse per la manutenzione: «Noi abbiamo messo in bilancio un milione di euro, ma c’è bisogno di fondi straordinari. Poi dobbiamo accelerare le procedure per il soggetto che deve gestire per una manutenzione seria altrimenti il patrimonio cadrà a pezzi». Manutenzione ordinaria che il Comune aveva affidato alla società Manutencoop e che richiede almeno nove milioni. Mentre il tempo continua a dimostrare che il terremoto non è stata la sola disgrazia che si è abbattuta su L’Aquila.

Roma, Via Giulia. Riemerge una proposta che minaccia di «vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo» E la giunta Marino l'approva. Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2014

Nel cuore di Roma, prove tecniche di Sblocca Italia: ovvero come vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo. Firmato: giunta Marino e ministero per i Beni culturali. È questa, in estrema sintesi, la prospettiva che si sta concretizzando per un pezzo di una delle vie più famose, belle e importanti del mondo. Qui l'aborto di uno sventramento fascista (1931) aveva lasciato in eredità un vuoto, che la fantasia degli amministratori romani non ha saputo riempire se non progettando di murarci un gran cubo porta-macchine.

I saggi di archeologia preventiva della soprintendenza statale hanno portato, però, a scoperte (di edifici di età augustea: un quartiere termale e soprattutto una rarissima stalla dei cavalli che correvano al circo) che “consentono un sostanziale avanzamento della conoscenza della topografia antica del Campo Marzio e potranno costituire d’ora in avanti un sicuro riferimento per la storia dello sviluppo urbano antico” (così la relazione finale degli scavi).

In un paese normale che si farebbe? Si accoglierebbe finalmente la richiesta dei residenti, che vorrebbero un giardino, e si troverebbe il modo di tenere insieme il verde e l'archeologia. Invece a Roma no: nonostante le severe prescrizioni dell'altra soprintendenza (quella comunale) e del Dipartimento urbanistica del Comune stesso, il 3 luglio scorso la Giunta approva la variante del parcheggio interrato (che poi interrato non sarà). Con la conseguenza che la rampa di accesso dal lungotevere costituirà una profonda trincea, invalicabile dai pedoni, e verrà compromessa la continuità dell’asse tra i rioni Trastevere eRegola. Né sarà più possibile vedere i reperti, che in parte sarannoriseppelliti, in parte trasferiti altrove (!). Non c'è da stupirsi se il 9agosto scorso due associazioni (Coordinamento Residenti Città Storica eCittadinanzattiva Lazio) hanno formalmente diffidato il sindaco “a nonrilasciare il permesso a costruire del parcheggio interrato”. Anche il buonsenso lo diffiderebbe.

Riferimenti

Vedi, su eddyburg, l'articolo di Paolo Grassi del 27 dicembre 2004, quello di Anna Rita Cillis del 17 febbraio 2013 e quello di Tomaso Montanari del 9 marzo 2013, ripresi dalla stampa nazionale nonchè, su carteinregola, la documentata nota di Paolo Gelsomino, del 18 agosto 2014

Bologna: nel traffico inquinante dei viali non moriranno solo gli ippocastani, ma soffocheranno anche gli umani. Ma ciò che conta, per gli amministratori d'oggi, è l'immagine. Postilla

Come cittadino, mi sento sempre più disadattato. La comunicazione politica mi irrita a causa del suo tenore mistificato e farlocco e nessuno si ribella. Guardate questa. «Bologna. Il 13 settembre si inaugura la Tangenziale della bicicletta .

Per i pochi che non lo sanno, Bologna anticamente aveva delle mura che furono abbattute verso la fine del XIX secolo. Al loro posto sorge oggi una sorta di lungo marciapiede che rinchiude la città in un anello che s’interrompe all’altezza delle antiche e ancora visibili (non proprio tutte) dodici porte, attraversate dalle vie radiali che conducono all’esterno verso Rimini, Ravenna, Modena, ecc. All’interno e all’esterno di questo marciapiede corrono le due carreggiate, ciascuna a doppia corsia, dei cosiddetti viali di circonvallazione.

Sorta di autostrada ancora cinquant’anni fa; oggi collo di bottiglia, specialmente in certe ore e all’altezza di certe porte. Sotto il marciapiede vivono, vivacchiano, sopravvivono o addirittura muoiono le radici di alti ippocastani che spuntano dalle aiuole e svettano verso un cielo raramente limpido. Farebbero un bel vedere in generale e anche ombra durante l’estate se non fossero ridotti alle condizioni di malati al Lazzaretto. Quando erano più in salute, lungo questo marciapiede capitava di passeggiare e di fermarsi a bere qualcosa o mangiare angurie e gelati presso uno dei tanti chioschi aperti nella bella stagione. Vi ricorda qualcosa il nome di Oliviero? Uno di quei chioschi ebbe un momento di notorietà nazionale quando negli anni ’80 Michele Serra dirigeva Cuore. Nella rubrica "Botteghe oscure", dedicata ad esercizi commerciali stravaganti anche solo nel nome, fu segnalata la Cocomerhouse, dove talvolta anche chi scrive, in una torrida e afosa notte felsinea, andò a rinfrescarsi materia e spirito.

Già molto ma molto tempo prima che l’aggettivo «verde» si applicasse alle teorie e alle pratiche ecologiche, quei viali erano percorsi da filobus elettrici frequenti, silenziosi e confortevoli; gioia per noi che non avevamo tante macchine e per gli ippocastani che si avvelenavano molto meno di oggi, ricambiando la loro gratitudine sul piano estetico.

Quel che successe in città dopo gli anni ’70 sul piano politico, amministrativo e sociale voglio soltanto accennarlo. Sarà stata la fine dell’«Età dell’oro del capitalismo», come la chiama J.Hobsbawm, sarà stato il ’77, saranno state la massoneria, le banche, le coop e la curia, sta di fatto che Bologna, da allegra e attraente che era, si è sempre più avvicinata alla definizione che ne diede anni fa il suo vescovo, quella di città «sazia e disperata». Dal sindaco Zangheri al sindaco Vitali l’aderenza delle amministrazioni ai movimenti sociali innovativi, nonché la loro credibilità politica, hanno raggiunto un livello disperante di credibilità. E se ciò che era stato promesso e impostato negli anni ’70 – Cervellati sull’urbanistica, Loperfido, Rebecchi e Ancona sul piano sociosanitario, ecc – non fu poi realizzato se non in parte, ciò fu dovuto alla sconfitta più generale della strategia delle riforme in Italia. Al contrario, quel che avvenne a partire dagli anni ’80 furono annunci roboanti, sul proscenio della politica parlata, e trattative e accordi dietro le quinte fra i poteri forti. Proviamo ad evocare.
1. Referendum nel 1984 sulla pedonalizzazione del centro storico. Favorevoli: 70%; applicazione: non pervenuta.
2. Annuncio della costruzione della metropolitana nel 1987. Oggi si fa ancora fatica a mandare avanti il progetto di sistema ferroviario metropolitano, con tutti i binari che corrono sul territorio comunale.
3. Alla fine del 1987 il rettore di Unibo Fabio Roversi Monaco annuncia la celebrazione del nono centenario dell’ateneo che si articolerà durante tutto l’anno successivo. Fu l’occasione che sancì la fine del centro storico come quartiere residenziale e il suo avvio a divenire «cittadella» degli studi, del divertimento, ecc. E oggi persino gli uffici comunali sono stati spostati in sede periferica.

E i nostri viali di circonvallazione? Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, dinanzi alla previsione dell’ovvio, ossia l’aumento esponenziale del traffico automobilistico, mai seriamente contrastato da una politica incentivatrice del mezzo pubblico, nessuno abbia mai fatto nulla, salvo tagliare ogni tanto qualche albero ammalato. Non so cosa abbiano fatto gli studiosi, ma certo i politici non se ne sono dati pena. Nella nuova situazione di intasamento e inquinamento, chi ha potuto (chioschi e prostitute) si è spostato altrove; chi non ha potuto (gli alberi) attende sconsolatamente la sua fine.

La così proclamata «Tangenziale della bicicletta» corre proprio sul letto di morte di questi alberi. Il che è triste di per sé. Ma ancor più triste è rendersi conto della follia che deve aver colto qualche nostro amministratore. Al quale vorrei ricordare quanto avveniva nelle vecchie miniere di carbone. Si teneva un animale, cane o uccellino in gabbia. E quando lo si vedeva stramazzare, questo era il segno che ci si doveva rapidamente togliere da lì. Mancava l’ossigeno. Ora, non ci dice niente la sofferenza degli ippocastani? E che altro dovrebbe dirci se non il fatto che lungo i nostri viali di circonvallazione manca l’ossigeno? Ebbene, proprio lungo un percorso caratterizzato da deficit di ossigeno e dalla sovrabbondanza di gas derivati dalla combustione dei motori, lungo un percorso così si chiede a degli esseri umani di produrre lo sforzo supplementare del pedalare respirando quell’aria.

Magari fra dieci anni, a fronte di un aumento delle affezioni polmonari, benigne e persino maligne, qualcuno produrrà risultati statistici e qualcun altro farà la scena di tirarsi una secchiata d’acqua facendo finta di essere molto sensibile ai temi della ricerca. A questo qualcun altro la secchiata dovremmo tirarla noi e subito. Ma non di acqua...
P.S. – Mi dite perché chiamare tangenziale una cosa che tangenziale non è? Non sarà per via delle tangenti? Ma no, cosa vai a pensare!


postilla
Lo sviluppo delle nostre città è stato, come sappiamo, mostruoso. Invece della razionalità ha dominato l’anarchia dello spontaneismo, invece dell’obiettivo del maggior benessere degli abitanti quello della massimizzazione del patrimonio dei proprietari immobiliari. Oggi patiamo le conseguenze di errori commessi nel corso di decenni. Un effetto devastante ha avuto la scelta politica di favorire, in Italia, la motorizzazione individuale. Il traffico automobilistico ha soffocato le città, e l’assenza di una corretta pianificazione del territorio ha peggiorato le cose. Le stagioni felici vi sono state, i tentativi di affrontare i problemi nel verso giusto anche. Vogliamo ricordare, a Bologna, il salvataggio delle colline, le battaglie per la pedonalizzazione e per la riqualificazione del centro storico, gli autobus a zero lire per i cittadini, quello per la pianificazione del territorio provinciale? Poi la stagione della speranza e dei tentativi che coglievano il punto è tramontata. Si affrontano i problemi un pezzettino alla volta, più attenti all’efficacia propagandistica dell’azione (o della promessa) che della sua efficacia. Perciò nascono i paradossi che Carlo Loiodice denuncia. Ricordo che a Strasburgo, in Francia, quando gli amministratori decisero di istituire una modernissima linea di tram urbano nel centro cittadino, i tecnici comunali si impuntarono e pretesero che, nell’occasione, si riprogettasse completamente l’intero assetto fisico della sede stradale, da parete edificata a parete edificata (da mur à mur) portando tutta l’area pedonale al livello dei predellini del tram, pedonalizzando dovunque possibile e riducendo al minimo l’accesso alle automobili. Sarebbe stato bello se si fosse operato così anche a Bologna, riprogettando l’insieme della sede dei viali assicurando la priorità nel progetto alla salvaguardia della salute e del verde, alla mobilità dei pedoni e dei ciclisti e all’utilizzazione di impianti meccanizzati per il trasporto collettivo in alternativa all’automobile individuale.

Ma i politici (gli eletti) avrebbero dovuto avere due requisiti, che oggi sono del tutto assenti: la capacità di una visione di lungo periodo, centrata sull’obiettivo del benessere degli abitanti, a partire dai più deboli, e quella di scegliere gli strumenti adatti. Due di questi, particolarmente utili, sono oggi addirittura in via di liquidazione: una buona “burocrazia “, cioè un apparato tecnico-amministrativo motivato, capace, autorevole, e il ricorso sistematico al metodo della pianificazione, cioè dell’unico metodo di rispondere in modo efficace e trasparente a un insieme di problemi le cui soluzioni sono interconnesse.

La Repubblica, 31 agosto 2014. Postilla

«I privati nella gestione dei musei? Non certo in quelli grandi, ma laddove lo Stato non riesce a garantire l’apertura, la possibilità di visita e la custodia». Quindi nessuno dei venti siti d’arte, come gli Uffizi, Brera o Capodimonte, che avranno una spiccata autonomia e direttori scelti con concorso? «Nessuno di quelli. Fra i modelli possibili ci sono anche le fondazioni, come l’Egizio di Torino, dove pubblico e privato collaborano. Ma anche il Porto di Traiano, vicino a Fiumicino». Dario Franceschini prova ad attenuare la portata dell’ingresso di privati nella conduzione dei musei. E alla richiesta esplicita di fare un esempio di un luogo da affidare a un soggetto non pubblico si tira indietro.

La riforma del ministero per i Beni culturali, sebbene approvata venerdì dal governo, ancora non c’è nella versione definitiva. Ma, specifica il ministro, «nessun contrasto con Palazzo Chigi». Da dove sono partite le sollecitazioni affinché l’ipotesi di interventi privati fosse in bella evidenza. «Questa riforma, insieme alla legge sull’Art bonus, è una base di partenza per tornare a investire su cultura e turismo», assicura Franceschini, che sei mesi fa ha ereditato un ministero ridotto allo stremo, sia per i tagli che dal 2001 hanno ridotto i finanziamenti di oltre il 40 per cento, sia per l’emorragia di personale, che nei prossimi anni continuerà a causa di pensionamenti cui non corrispondono adeguatamente i nuovi ingressi. Ma cultura e turismo, insiste il ministro, sono settori vitali.«Puntiamo alla qualità, non alla massa di turisti che in mezza giornata pretende di vedere Venezia, scendendo da una nave, arrivando a piazza san Marco e tornando indietro».

Gestione di musei non più affidata alle soprintendenze. Abolizione delle soprintendenze storico-artistiche. Porte aperte ai privati (ma tutto da vedere dove e come). Sono i punti cardine della riforma. E anche quelli sui quali si concentrano le critiche. Le sintetizza Vezio De Lucia, presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli: «Il ministro doveva potenziare le strutture periferiche che fanno la tutela sul campo e alleggerire la burocrazia centrale. È successo l’opposto: nascono nuove direzioni generali. Siamo poi contrari a sopprimere le soprintendenze storico-artistiche: è un appiattimento di competenze grave. Come grave è la rottura del legame fra soprintendenze e musei, un punto di forza del nostro patrimonio, che rimanda al rapporto fra storia e paesaggio. In fondo si rende la struttura del ministero sempre meno rispondente alle sue finalità scientifiche e più influenzabile dal potere politico».

Alla riforma del ministero De Lucia affianca alcuni aspetti del decreto Sblocca Italia. Anche in questo caso non c’è un testo definitivo, ma alcuni passaggi preoccupano: «Per le Grandi Opere sono nettamente abbassati i poteri di controllo e di tutela paesaggistica: si stabilisce che un soprintendente ha tempo 30 giorni, in un caso addirittura 15, per dare il suo parere. Se non ce la fa, vale l’assenso. Con le soprintendenze ridotte come sono ridotte, questo è mostruoso: il ministro Lupi realizza la filosofia berlusconiana».

postilla

Peggio di Berlusconi. Con Silvio almeno c’era una opposizione vasta; Matteo, con l’aiuto di Giorgio, si è mangiato tutti.

«Venezia ora è in mano al ministero di Lupi, alleato col "Padrone" del Porto Paolo Costa: a breve parte lo scavo del canale per le "Grandi Navi"». Gli imbroglioni hanno in mano le carte che contano e le leve piccole e grandi del potere. Lavorano in fretta per distruggere ciò che è rimasto di un millennio di storia. Il mondo sta a guardare . Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2014

Poche righe, quattro non di più, e un paio di minuti di dibattito parlamentare: tanto basta a riorganizzare una filiera di potere. La storia riguarda la Venezia del dopo scandalo Mo-se, la sua politica sputtanata (e quindi debole), la sua laguna, le grandi navi che l’attraversano e gli uomini che nel bene o nel male la governano in loco e, ovviamente, da Roma. L’inchiesta che ha falcidiato Comune, Magistratura delle Acque, le imprese del consorzio Venezia Nuova e pezzi di vecchio potere regionale ha imposto una rapida messa a punto dei meccanismi di gestione della città. In campo ora – dopo le dimissioni di Giorgio Orsoni da sindaco causa scandalo – sono rimasti in due: l’ex sindaco (ed ex ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi) Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale, e il ministero delle Infrastrutture, guidato da Maurizio Lupi, con la sua tecnostruttura e le sue articolazioni territoriali. Il decreto, l’emendamento e le tracce di Ncd È successo così.

Il 24 giugno il governo partorisce il decreto Pubblica amministrazione: un fritto misto, che il Parlamento è riuscito a peggiorare assai. All’articolo 18 del testo firmato da Marianna Madia si trovava – tra le altre cose – la soppressione del “Magistrato delle acque per le province venete e Mantova”, che controlla tutto ciò che riguarda la laguna, appalti compresi: i relativi poteri passavano al Provveditorato per le opere pubbliche. Gli ultimi eventi, d’altronde, non testimoniavano a favore della permanenza dell’antico istituto: nell’inchiesta Mose hanno arrestato ben due ex “Magistrati”. Messa così, niente da segnalare. Alla Camera, però, accade una cosa strana. Due deputati del partito del ministro Maurizio Lupi, Nuovo Centrodestra (Dorina Bianchi e Filippo Piccone, non veneti, né esperti di appalti pubblici) presentano un emendamento proprio sui poteri del Magistrato delle acque: vi si stabilisce che i poteri passino al Provveditorato interregionale per il Veneto e il Friuli (un organismo del ministero delle Infrastrutture). Non solo: il potere del Provveditore viene esteso anche a quei progetti il cui “importo ecceda i 25 milioni di euro”. In genere, infatti, sopra quella cifra la palla passa al Consiglio superiore dei lavori pubblici. A Venezia non più perché quell’emendamento – impercettibilmente riformulato dal relatore Emanuele Fiano (Pd) e fatto proprio dal governo - è stato approvato in commissione il 25 luglio ed è diventato legge l’11 agosto, quando il Senato ha dato il via libera definitivo al decreto. Il 18 agosto il testo è in GazzettaUfficiale e il nuovo sistema è operativo.

Chi comanda oggi a Venezia? Quelli di ieri, con una novità Domanda: chi comanda sulla laguna di Venezia ora che non c’è più il Magistrato delle acque? Risposta: il Magistrato delle acque. Quel posto infatti – grazie alla relativa nomina del ministro Lupi – dall’agosto 2013 era appannaggio dell’ingegner Roberto Daniele, dirigente del ministero delle Infrastrutture, che non casualmente è pure il capo del Provveditorato interregionale per il Veneto, cioè il nuovo dominus della laguna. Il suo nome, non da indagato, compare pure nelle carte dell’inchiesta Mose: è uno delle centinaia di “collaudatori” dell’opera, compito per cui incassò oltre 400mila euro. Insomma sarà lui – con un Comune commissariato e in attesa della complicata trasformazione che lo porterà ad essere città metropolitana – a gestire i passaggi più rilevanti che riguarderanno la laguna. Quelli più vicini sono due: l’appalto per la manutenzione del Mose (che dovrebbe entrare in funzione nel 2017 e costare dai 30 milioni l’anno in su) e il nuovo canale per far entrare le “grandi navi” a Venezia senza passare dal Canal Grande.
È quest’ultima vicenda quella più recente e economicamente rilevante e risale sempre alla settimana di Ferragosto: se infatti il decreto Madia è stato approvato l’11 agosto, il “Comitatone” che ha dato l’ok al contestatissimo progetto del canale Contorta è del 14. I nuovi business: l’affaire del “passaggio” Contorta Funziona così: politica e poteri economici veneti non vogliono rinunciare alle navi da crociera, nonostante il danno ambientale e la minaccia dell’Unesco di escludere la città dalla lista dei patrimoni dell’umanità. Ha spiegato il governatore Luca Zaia: “La crocieristica veneziana vale 4.255 occupati e 283,6 milioni l’anno”. Peccato che il professor Giuseppe Tattara dell’Università Ca’ Foscari abbia calcolato in circa 270 milioni i danni ambientali. Poco importa, più curioso che il “Comitatone” abbia scelto di sottoporre a Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) solo lo scavo del canale Contorta-Sant’Angelo – bocciato da esperti e cittadini perché dannoso per l’ambiente e più costoso di altre vie (115 milioni la stima ufficiale, oltre 300 quella indipendente) – assai sponsorizzato da Paolo Costa. Il 14 agosto, a benedire il progetto del capo dell’Autorità portuale, c’era mezzo governo. L’unico che non votò a favore, in quella sede, fu il commissario che governa Venezia da quando si è dimesso l’ex sindaco Orsoni, Vittorio Zappalorto: “Avrei preferito che al giudizio della Commissione di VIA non fosse inviato solo lo scavo del Contorta, ma anche qualcuno degli altri proposti, per avere un giudizio più globale. Si poteva aspettare un mese o due in più, ma cercare di ottenere questo risultato”. Il potere, però, ha orrore del vuoto. E va di fretta.

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