«Tra i critici anche [perfino - ndr] Giuliano Amato, Giudice della Consulta. Il progetto realizza le promesse di B. quando era premier». Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2014
Il mito della velocità è spirito del tempo e diviene finalmente – dopo un parto durato mesi – pratica legislativa. Il decreto legge si chiama Sblocca Italia, ed è una potente proiezione di ciò che diverrà il nostro Paese. Persino Giuliano Amato, il dottor Sottile, la punta massima dell’eccellenza insieme politica e tecnocratica, sembra abbia dato una sbirciatina al turbopremier e in un biglietto riservato al capo dello Stato avrebbe poi vergato le sue prime considerazioni: ciò che non è riuscito a fare Berlusconi lo fa ora Renzi. Napolitano ha letto il biglietto ma ha firmato ugualmente. È incostituzionale? Se la veda il Parlamento.
In effetti la legge, organizzata nei dettagli da Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e gran rappresentante di interessi diffusi, è stata sottoposta al vaglio di legittimità della dottoressa Nicoletta Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze oggi a presidio dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. Il decreto trasforma le peggiori promesse in realtà.
Inizia col prendere di petto (articolo 1) la costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Napoli-Bari e indica nell’amministrazione delegato delle Fs il commissario all’opera. Costui ha poco tempo (due anni) per fare e avrà – ex lege – poca voglia di discutere. Sottoporrà il progetto definitivo, quindi già impacchettato bene, alle varie amministrazioni dello Stato e agli uffici chiamati alla tutela del paesaggio (che pure è un precetto costituzionale, articolo nove della Carta). Il commissario aspetterà (comma 4) che i burocrati annuiscano presto e bene. Se così non fosse o – peggio – non si presentasse al tavolo della concertazione o – peggio del peggio – si presentasse ma senza averne titolo, il commissario tirerà dritto e aprirà i cantieri. Non deve informare il ministero che manca il visto ma fa come se ci fosse.
Se l'odioso burocrate si presentasse e manifestasse dissenso e lo motivasse persino, il commissario si prenderebbe una pausa di riflessione. Riflettendo con sè medesimo valuterebbe se l’obiezione fosse fondata o incongrua, adeguata o tignosa, volenterosa del bene comune (quindi del cemento) o solo di quello dei pini marittimi. Dopo aver brevemente dibattuto (esame interna corporis) il commissario decide se andare avanti o fermarsi. Da solo. Sembra una barzelletta ma è il risultato del combinato disposto degli undici commi nei quali si concentra e si espande la figura di questo superpotente per far viaggiare in tempo i treni tra Napoli e Bari. È una norma per adesso riferita a due sole opere (quella citata e la tratta Palermo-Catania-Messina ), ma nel futuro diverrà il modello autocratico, la dimensione del fare a qualunque costo. Fare o fare silenzio.
Tutte le opere definite grandi, urgenti e indifferibili, avranno una catena di comando blindata e un progetto chiuso. Le amministrazioni locali e tutti gli altri uffici chiamati a decidere potranno annuire e basta. Ed infatti il progetto, che prima doveva essere presentato nella sua formulazione “preliminare”, adesso viene concesso in visione a chi deve giudicare sull’impatto ambientale dell’opera da costruire nella sua versione definitiva. Non ci può essere una obiezione assoluta (es: no a una tangenziale che tagli in due il Vesuvio), è consentita invece l’obiezione costruttiva. Un secondo esempio sarà utile: si localizza un ponte su un terreno massimamente franoso. Bisognerà riconsiderare i termini dell’evidenza e addolcirla, sminuzzarla, renderla supina alla ragion di Stato. Cercare dunque, se proprio non ce n’è altri, un terreno meno franoso sul quale costruire il ponte. E magari incrociare le dita.
Nell'ideologia renziana il mito della velocità è un cardine assoluto e l’uomo del fare farà a qualunque costo. Grandi facilitazioni anche a chi volesse installare antenne, tralicci e ogni altra specie di impianti radioelettrici.
Il penultimo comma dell’articolo 6 rende giustizia a Tim, Vodafone e a tutte le altre compagnie: possono poggiarle liberamente e ovunque, senza chiedere “autorizzazioni paesaggistiche” a condizione che non siano alte più di un metro e mezzo. Chiese, cattedrali, forse anche il Colosseo: ripetitori ovunque e dovunque e per tutte le tasche. E via libera anche (comma 7 dell’articolo 7) a tutti e servizi di collettamento delle acque, agli impianti di depurazione, alle varie bonifiche. L’autorizzazione s’intende concessa se il burocrate entro i trenta giorni non dà parere. Il silenzio-assenso funziona così.
Il turbopremier non ha previsto due casi di scuola: se il burocrate di turno, solo e disperato, fosse chiamato nello stesso periodo di tempo a redigere uno sproposito di pareri in quel medesimo territorio come potrebbe onorare la puntualità? Oppure, secondo caso, potrebbe colpevolmente distrarsi. Perché convinto a stare zitto (magari corrotto?) oppure restare inerte per la sua inguaribile fannullonaggine. In quel caso la sua condotta non verrà più sanzionata.
Prima del decreto l’autorità appaltante chiedeva la sostituzione del funzionario infingardo, a cui poteva seguire un provvedimento disciplinare. Da oggi il silenzio è come la tana libera tutti: meno si è meglio si appare.
Uguale uguale l’architettura legislativa per la costruzione degli inceneritori. Si possono localizzare anche dietro piazza della Signoria. Se l’ufficio non vede, cuore non duole. L’impatto ambientale che significa, nel caso per esempio di una fabbrica di pesticidi da autorizzare, anche impatto sulla salute di chi vive nelle vicinanze è rubricato come un fastidio e tenuto in conto con l’attenzione che si ha verso un ronzìo di mosche. Basta scacciarle con una mano o e il gioco è fatto. Renzi va veloce e, a quel che promette, il cemento pure.
Corriere della Sera Lombardia, 17 settembre 2014, postilla (f.b.)
MILANO — Una nuova superstrada di circa 30 chilometri nei territori del Parco Agricolo Sud Milano e del Parco del Ticino. Dopo l’apertura a luglio della BreBeMi, la nuova autostrada che collega Brescia con Milano, ma che per ora è snobbata dagli automobilisti, in Lombardia si torna a parlare di una nuova bretella. È la Malpensa-Milano-Vigevano, prosecuzione della Malpensa-Boffalora, superstrada inaugurata nel 2008 e che collega l’aeroporto con il casello dell’A4. La nuova Malpensa- Vigevano completerebbe il collegamento fra la Lomellina, l’aeroporto e Milano.
Dopo dodici anni di progetti, polemiche e dietrofront, anche per questa strada si avvicina una fase decisiva. Stando a quanto annunciato dalla Regione ai sindaci dei Comuni coinvolti, nelle prossime settimane Sea presenterà il nuovo progetto: un tracciato non molto dissimile dal primo, ipotizzato da Anas e Pirellone nel 2001.
Partendo da Magenta, la strada scenderebbe in direzione di Albairate, liberando dal traffico la Statale 526 «dell’Est Ticino». All’altezza di Abbiategrasso sarebbe costruita una circonvallazione, che sposterebbe, invece, il traffico dalla statale Vigevanese fuori dal centro abitato. Il progetto del 2001 ipotizzava anche un raddoppio della provinciale Milano-Baggio fra Albairate e la Tangenziale Ovest, per collegare la nuova superstrada a Milano, ma quest’ultima bretella potrebbe saltare per mancanza di fondi.
I finanziamenti già stanziati ammontano a circa 212 milioni di euro, ma sono troppo pochi per un’opera del genere. Perciò il progetto viene rivisto. Della superstrada se ne riparlerà venerdì, allo Spazio Fiera di via Ticino ad Abbiategrasso, in un incontro pubblico organizzato dal settimanale cittadino Ordine e Libertà. Saranno presenti, tra gli altri, i sindaci Andrea Sala di Vigevano e Pierluigi Arrara di Abbiategrasso, l’assessore regionale all’Economia Massimo Garavaglia, i rappresentanti del comitato «No tangenziale» e del «Comitato Sì alla strada», presieduto da Fabrizio Castoldi, patron della Bcs di Abbiategrasso che spiega. «Ogni giorno i pendolari da Vigevano a Milano impiegano circa 3 ore in più rispetto al tempo che impiegherebbero su una nuova superstrada posta lontano dai centri abitati. Tre ore della propria vita buttate via ogni giorno respirando gas di scarico».
Di tutt’altro avviso i comitati «No Tangenziale», le organizzazioni ambientaliste e gli agricoltori, che negli anni hanno raccolto 13 mila firme contro il progetto. E anche alcune amministrazioni comunali (Cassinetta di Lugagnano, Cisliano, Albairate e Cusago) si battono da tempo contro la superstrada e hanno presentato una candidatura all’Unesco per far diventare il Parco Sud una riserva della biosfera. Un modo per metterlo al riparo dalle autostrade. Il sindaco di Abbiategrasso Pierluigi Arrara è scettico: «Siamo favorevoli alla costruzione del tratto da Vigevano alla nostra città, ma non a un progetto faraonico come quello originale».
postillaCome ci aveva sinistramente avvisato pochi giorni fa il lobbista oggi in carica governatoriale della road gang padana, quando vediamo un'autostrada desolatamente vuota dobbiamo aspettare, con fede, che si compia il grande disegno di cui quell'opera è solo un segmento. Ed ecco qui un altro segmento del medesimo disegno, al solito presentato, discusso, sostenuto e osteggiato come opera in sé, guardando al dito (pestato, ma sempre del dito si tratta) anziché alla luna. Le due cittadine sulle opposte sponde del fiume azzurro, e dentro l'omonimo parco regionale che il mondo ci invidia, sono solo pedine in un gioco assai più grande di loro, che forse la stampa progressista farebbe bene a raccontare come tale: il Grande Raccordo Anulare lombardo, presupposto all'urbanizzazione dispersa della regione milanese. Tutto portato avanti, nei decenni, senza dichiararlo, con ricatti miserabili come quelli dei due comuni citati qui, dotati di decentissima comunicazione stradale reciproca, nonché di ottime circonvallazioni, se solo quelle strade faticosamente realizzate, non fossero poi state, quasi subito, liberamente ed entusiasticamente sfruttate per il vero scopo, che naturalmente anche qui non ha nulla a che vedere col traffico e le comunicazioni: costruirci su un lato e sull'altro, costruendo in contemporanea la prossima emergenza strozzature, la necessità di una nuova opera, e via di questo passo. Certo non si può chiedere a comitati e forze locali di farsi carico di formulare alternative, o quantomeno opposizioni di ampio respiro, ma forse ai partiti progressisti si. C'è qualche speranza? Per adesso pare di no (f.b.)
Vedi anche F. Bottini, I capannoni della Zia T.O.M. (Mall 2008)
Roma. Solo venerdì è stato pubblicato il testo del cosiddetto decreto "Sblocca Italia". Ci sono voluti quasi 15 giorni prima che venisse alla luce essendo stato licenziato nel Consiglio dei Ministri del 29 Agosto scorso. Un lungo travaglio che, però, non è servito per migliorarne il contenuto. Anzi si tratta di un provvedimento che segnala un deciso cambio di fase nelle politiche governative costruendo un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, l'incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare le bonifiche.
Ma ciò che, come Forum dei Movimenti per l'Acqua, c'interessa maggiormente evidenziare è la gravità di quelle norme che, celandosi dietro la foglia di fico della mitigazione del dissesto idrogeologico (Capo III, art. 7), mirano di fatto alla privatizzazione del servizio idrico.
Infatti, con questo decreto si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione del bene acqua arrivando ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi.
Ciò si configura come un primo passaggio propedeutico alla piena realizzazione del piano di privatizzazione e finanziarizzazione dell'acqua e dei beni comuni che il Governo sembra voler definire compiutamente con la Legge di Stabilità. In questo provvedimento, probabilmente, verranno inserite quelle norme, in parte già presenti nelle prime versioni del decreto circolate all'indomani del Consiglio dei Ministri di fine agosto, volte a imporre agli Enti Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e accorpamento secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending review”. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.
Con il decreto “Sblocca Italia” si svelano, dunque, le reali intenzioni del Governo, ovvero la diretta consegna dell'acqua e degli altri servizi pubblici locali agli interessi dei grandi capitali finanziari. Infatti, la strategia governativa, pur ammantandosi della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della politica mediante lo slogan “riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”, non garantirà certamente l'interesse collettivo ma solo quello economico e di massimizzazione dei profitti delle grandi aziende multiutilities che già gestiscono acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale.
Come Forum dei Movimenti per l'Acqua intendiamo denunciare con forza la gravità di questo provvedimento che si pone esplicitamente in contrasto con la volontà popolare espressa con il referendum del 2011 e dichiariamo sin da subito che ci mobiliteremo per contrastare il tentativo di privatizzazione dell'acqua e dei beni comuni, anche rilanciando un nuovo modello di pubblico che guardi alla partecipazione diretta della cittadinanza alla gestione come elemento qualificante e realmente innovativo.
«Il secondo comma dell'articolo 4 del decreto, pubblicato venerdì in Gazzetta Ufficiale, permette al progetto autostradale tra Lazio e Veneto di accedere ai benefici della "defiscalizzazione". Un contributo pubblico indiretto pari a quasi 2 miliardi di euro, su un totale di dieci, cui -secondo la legge in vigore fino all'altra settimana- l'opera non avrebbe avuto diritto». Altraeconomia.it, 15 settembre 2014
Lo “Sblocca Italia” libera la Orte-Mestre. Il gioco è tutto in un comma, il secondo dell'articolo 4, che modifica il “decreto del Fare” del 2013 aprendo le porte della “defiscalizzazione” per l'autostrada tra Lazio e Veneto, e garantendo così all'opera benefici per quasi 2 miliardi di euro.
Avevano ragione Maurizio Lupi e il ministero delle Infrastrutture, nelle settimana scorse, ad inserire l’autostrada Orte-Mestre tra le opere avviate grazie al decreto “Sblocca Italia”. Anche se il nome non figurava nell’elenco dello “Sblocca Cantieri”, c'era un comma nascosto capace di “riabilitare” il più grande progetto autostradale d’Italia, quasi 400 chilometri per oltre 10 miliardi di euro d’investimento.
La bocciatura dei magistrati contabili, che avevano bocciato il progetto preliminare della Orte-Mestre, lo stesso che era stato invece approvato dal CIPE nel novembre 2013, era dovuta al fatto che senza i benefici della “defiscalizzazione”, che il piano economico e finanziario allegato alla delibera quantificava in circa 1,8 miliardi di euro, quasi il 20 per cento dell’investimento complessivo, il progetto non stava in piedi. Se la Orte-Mestre non avesse potuto accedere allo sconto IVA, IRES e IRAP, un meccanismo introdotto nell'ordinamento da una norma di fine 2012 dalgoverno Monti, e poi ripreso nel “decreto del fare” dell’estate 2013, i viadotti dell’autostrada traballavano, la sostenibilità dell’investimento veniva meno.
Per questo, la Corte dei Conti aveva imposto lo stop, superato -adesso- con il decreto “Sblocca Italia”, da un governo che ha una chiara trazione autostradale. Le “novità” dello “Sblocca Italia” saranno al centro delle azioni promosse dalla Rete Stop Orte-Mestre, che ha convocato per il 20 e 21 settembre due giornate di mobilitazione in contemporanea su tutti i territori attraversati dalla nuova autostrada, da Venezia all’Umbria. Chiedono una cosa sola: lo stralcio, definitivo, dell'opera.
Il manifesto, 14 settembre 2014, con postilla
«Siamo sempre pronti a discutere di tutto. Ho rispetto per il coraggio di chi dice no ma chi dice no non può dire stop. I cittadini hanno il diritto di vedere realizzate le opere che servono». Così il premier Matteo Renzi si è espresso ieri sul gasdotto Tap, che giovedì ha ottenuto dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, la firma sul decreto di compatibilità ambientale dell’opera.
Dopo aver terminato l’intervento nel giorno dell’inaugurazione della Fiera del Levante, il premier ha incontrato i sindaci di Melendugno e Vernole.
Un’idea di democrazia alquanto bizzarra quella di Renzi: si può dire di no, ma non ci si può metterin mezzo ed interferire con quanto decide un governo e le multinazionali del gas. E se poi sono gli abitanti stessi a non volere sul loro territorio determinate opere, non è dato sapere chi sono i cittadini citati da Renzi che hanno «diritto» a vedere realizzate opere definite strategiche per l’economia nazionale ed europea.
Sulla vicenda della Tap, ieri è intervenuto nuovamente il governatore della Puglia Nichi Vendola. Sottolineando che i due no alla realizzazione dell’opera pronunciati dal comitato tecnico di Via della Regione non hanno una matrice disfattista o aprioristica: ma si basano su delle rilevanze, anche di natura scientifica, sposate in pieno dal ministero dei Beni Culturali che sempre giovedì ha espresso il suo parere negativo sulla realizzazione del progetto in un territorio, come quello del Salento, di pregio ambientale, storico e turistico.
Inoltre, Vendola ha manifestato la contrarietà della Regione anche in merito a un altro argomento spinoso e molto sentito dalle popolazioni che affacciano sull’Adriatico: le trivellazioni in mare. «Abbiamo il diritto di ribellarci alle trivelle in questa nostra striscia di mare, pensiamo che l’Adriatico non possa subire l’impatto di una sua mutazione in piattaforma energetica. Diciamo sì alla generazione diffusa di rinnovabili, sì alla somatizzazione delle città, sì all’efficientamento energetico degli edifici. Diciamo no a ciò che ci toglie l’orgoglio di essere protagonisti del nostro sviluppo: la ricchezza non è nascosta sotto i fondali, la ricchezza è la costa, la pesca, il turismo, il colore del nostro mare».
Il tour pugliese del premier Renzi, nella giornata di ieri ha toccato altri due luoghi simbolo della Regione: Peschici e Taranto. Nel Gargano il presidente del consiglio ha ribadito l’impegno del governo per far sì che il territorio devastato dall’alluvione dello scorso 5 settembre, torni quanto prima ai suoi antichi splendori. Ribadendo che il Gargano non è morto ed è pronto a risorgere.
Certamente più complicata e spinosa la questione dell’Ilva di Taranto. L’arrivo del premier è stato annunciato da Palazzo Chigi soltanto nella tarda serata di venerdì. Un incontro in Prefettura completamente blindato, al quale hanno presto parte solo le istituzioni e i sindacati. Definiti «i rappresentanti dei lavoratori»: cosa alquanto bizzarra anche questa, visto che oltre il 60% dei lavoratori dell’Ilva di Taranto non ha tessera sindacale. E che all’incontro è stata vietata la partecipazione degli operai Ilva del comitato «Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti». Così come è stato negato l’accesso alla stampa e soprattutto ai rappresentanti delle tante associazioni locali che da anni si battono contro l’inquinamento prodotto dal più grande siderurgico d’Europa. Il centinaio scarso di cittadini presenti in sit-in all’esterno della Prefettura, ha contestato duramente il premier, arrivando anche al contatto con le forze dell’ordine: la tensione però è presto rientrata.
Anche in questo caso però, Renzi è stato inamovibile: entro Natale tornerà a Taranto, perché entro dicembre l’Ilva avrà quasi certamente un’altra proprietà e altri azionisti. Renzi ha confermato l’esistenza di vari gruppi industriali stranieri interessati a rilevare l’Ilva, ribadendo un concetto noto: che qualsivoglia piano industriale dovrà recepire il piano ambientale, per consentire allo stabilimento tarantino la riconversione degli impianti inquinanti dell’area a caldo.
Un’impresa titanica, che abbisogna di svariati miliardi di euro. Ma spazio per altri confronti o per una riconversione dell’economia del territorio tarantino non ce ne sono: perché anche in questo caso l’Ilva è un’azienda strategica per una «potenza industriale» come l’Italia. Sia come sia, la situazione finanziaria dell’Ilva è tutt’altro che rosea: ottenendo in settimana la prima tranche del prestito ponte dalla banche ammontante a 155 milioni, il commissario straordinario Piero Gnudi ha dato il via al pagamento degli stipendi di agosto, che molti operai otterranno soltanto domani, in ritardo di alcuni giorni sulla data del 12 che è da sempre quella in cui vengono pagati gli stipendi.
Renzi ha concluso il suo tour pugliese, affermando che «la gente fa il tifo per me»: resta da chiarire a chi si riferisse.
Il nostro presidente del consiglio non conosce la lingua italiana. Come farebbe altrimenti ad affermare che «chi dice no non può dire stop»? Ma non è questo il peggio. Abbiamo già denunciato le scelte sbagliate e distruttive che sono alla base dall'accettazione italiana del gasdotto Tap. Ma le parole che ha pronunciato a proposito della distruzione di Peschici sono impressionanti. Non può non sapere che il suo Sblocca Italia, e tutto ciò che il governo Renzi-Lupi nella politica del territorio è la matrice di nuove catastrofi innaturali: se non si tratta di cinismo si tratta di incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni.
Quello dell'orsa inopinatamente abbattuta non è un problema da animalisti romantici e mollaccioni, o di caso specifico, ma pone una questione di metodo nel nostro approccio all'ambiente e al territorio, fondamentale nel millennio dell'urbanizzazione planetaria. Corriere della Sera, 12 settembre 2014, postilla (f.b.)
L’epilogo della storia di Daniza è stato definito il fallimento di una convivenza. Il fallimento, a mio parere, è nostro e la convivenza di fatto non è mai iniziata né mai si sono creati corretti presupposti perché comunque potesse durare nel tempo. Il presupposto fondamentale è culturale. La salvaguardia della fauna selvatica si fonda su conoscenze scientifiche di ecologia, biologia, fisiologia, comportamento delle diverse specie. La gestione della fauna selvatica è una disciplina inserita nei corsi di laurea e tema anche di prestigiosi master. È stata introdotta da decenni proprio per rispondere alla necessità di formare competenze specifiche in materia di valorizzazione del nostro patrimonio faunistico. Oggi abbiamo una generazione preparata ad affrontare temi di gestione ambientale che opera anche nelle amministrazioni locali. Ma evidentemente non basta. La presenza dell’orso in Trentino era stata accolta positivamente in quanto garanzia di buona qualità di quel territorio. Ma quando mamma Daniza ha reagito verso un uomo invadente solo per proteggere la prole è stata dichiarata «animale problematico». Il resto è cronaca nota. Si poteva forse non arrivare al triste epilogo con un maggiore e più capillare impegno di educazione.
Gli orsi se non disturbati non attaccano. Va reso noto il loro comportamento, le loro esigenze e cosa fare in caso di incontri ravvicinati. In altri Paesi questo è fatto tutto l’anno con operatori specializzati e cartellonistica sparsa ovunque. In caso di razzie di bestiame i rimborsi sono garantiti e veloci. Insomma si opera per attenuare tensioni e conflitti fra interessi opposti. Nel caso di Daniza, al contrario si è creata una pressione quasi ossessiva, una sorta di ridicola sfida antica fra uomo e fiera. Mamma orsa inspiegabilmente andava catturata, al di là di ogni ragione della scienza e dei sentimenti. La cattura, si sa, prevede un’anestesia, operazione di per sé complessa e delicata. Ho consultato un po’ dell’ampia letteratura scientifica e ho scoperto interessanti dettagli. Ad esempio ci sono aree del corpo più sensibili su cui indirizzare l’anestetico; periodi più favorevoli per farlo, ad esempio quando l’orso entra in stato di ipotermia; è ovviamente indispensabile una valutazione attenta del dosaggio. Infine vanno rilevati i parametri fisiologici di base per garantire l’eventuale trasporto. Per Daniza qualcosa non ha funzionato ed è morta. Aveva solo reagito per difendere i suoi cuccioli e ora, rimasti soli, anche su di loro grava un destino incerto.
postilla
Forse hanno a modo loro ragione, quelli che liquidano la faccenda con sorrisetto da compatimento, come romanticismo da orsacchiotti, ma senza sapere che proprio l'orsacchiotto di peluche segna un passaggio fondamentale nell'idea di gestione del territorio naturale in epoca urbana e industriale. Il pupazzetto “Teddy Bear” nasce come immagine popolare, infatti, quando il presidente americano Teddy Roosevelt manifestò un primo gesto di riflessione ufficiale sul nostro rapporto non meccanico con l'ambiente, proprio durante una battuta di caccia all'orso, rifiutandosi di abbatterne uno ferito. Il fatto è datato 1902, e pochi anni più tardi iniziavano ad esempio le riflessioni sulla “megalopoli verde” dell'Appalachian Trail, appendice naturale del grande sistema insediativo e socioeconomico delle metropoli atlantiche che un paio di generazioni più tardi la geografia avrebbe ribattezzato Bos-Wash. Un progetto di pianificazione regionale sviluppato da un tecnico del settore parchi federale molto sponsorizzato dal Presidente. In altre parole, col gesto originario di pietà di Roosevelt nasce la prima scintilla di una consapevolezza piuttosto dura da affermare: non solo siamo parte integrante dell'ambiente come esseri umani, ma anche le nostre attività di trasformazione dell'ambiente, l'industria, l'agricoltura, l'urbanizzazione, in esso si inseriscono e con esso si devono confrontare in un dialogo. Dialogo che deve farsi sempre più stretto, va quasi da sé, nel millennio dell'urbanizzazione del pianeta. Nel millennio in cui passa quasi inosservato quel particolare, dell'orsa abbattuta nel suo territorio, a pochi minuti da un centro abitato. Ne dobbiamo fare di strada, e non solo per inventarci migliori dosaggi di sedativo (f.b.)
«Il Festival della politica (inaugurato ieri a Mestre) assomiglia alla “costituente programmatica” del centrosinistra frammentato dal prossimo voto delle Comunali». Occasione, per il PMR di riprendere la politica del craxiano De Michelis sconfitta dal PCI (e dai Parlamenti italiano ed europeo) venticinque anni fa? Le alternative ci sono. Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla
Ca’ Farsetti è commissariata: Vittorio Zappalorto dal 3 luglio garantisce solo l’ordinaria amministrazione. Venezia non conta più al tavolo di palazzo Chigi, pronto a “cambiar verso” con nuovi devastanti cantieri. I dipendenti comunali sono in rivolta da settimane, mentre il bilancio ha impietosamente tagliato servizi e politiche sociali.
Il barometro in laguna è tutt’altro che incoraggiante. La Lega accarezza il sogno di replicare il clamoroso trionfo di Padova. Renato Boraso, ex berlusconiano, ha schierato fin da giugno la lista civica personalizzata. E si profila la candidatura di Luigi Brugnaro, presidente della Reyer Basket, paròn di Umana Holding, già al vertice di Confindustria, che con 513 mila euro voleva comprarsi l’isola di Poveglia. Intanto il M5S sta per scegliere la sua punta di diamante: in lizza Davide Scano, Antony Candiello e Elena La Rocca.
E il Pd? Paralizzato dalla Procura, gioca una tattica esasperata con il terrore di un flop alle Primarie. Così ci pensano la Fondazione Gianni Pellicani (e Massimo Cacciari, già tre volte sindaco…) ad accendere i riflettori sulla “piattaforma di idee”. Stamattina alle 11 nella tensostruttura di piazzale Candiani a Mestre è in programma l’inequivocabile dibattito sul tema «Laboratorio Città — Expo 2015 a Venezia: Acqua e Terra». Rinforzato nel pomeriggio dal convegno sull’innovazione a Nord Est che annovera anche Cesare De Michelis, presidente di Venezia Expo…
Fino a domenica si va avanti così. Ed è netta l’impressione che sia la premessa alla candidatura di Nicola Pellicani: figlio del leader migliorista del Pci-Pds-Ds, giornalista del Gruppo Repubblica, ha ricevuto il 28 agosto la visita privata del presidente Napolitano e viene caldeggiato dagli opinion makers.
L’alternativa naturale è Felice Casson: il magistrato dell’inchiesta sul Petrolkimico, senatore civatiano, in prima fila nel contrasto all’illegalità incistata nel “modello veneto” rappresenta le speranze di trasparenza e rinnovamento. Ma Casson è rimasto più che scottato dalla sconfitta del 2005, quando il ballottaggio premiò a sorpresa Cacciari. Comunque sarà decisivo se davvero si faranno le Primarie.
Ma il puzzle in casa Pd è osticoco. Tanto per cominciare bisogna fare i conti con Sandro Simionato: vice di Orsoni, contava di “reggere” la transizione alle urne da naturale erede. È uomo di Bersani che oggi garantisce lo zoccolo duro più e meglio di Davide Zoggia (bruciato dalle “consulenze” al Cvn). Non basta, perché è pronta la concorrenza di almeno altri due giovani aspiranti sindaci. Si tratta di Andrea Ferrazzi, assessore uscente, e del renziano della prima ora Jacopo Molina.
Senza dimenticare il jolly: Pier Paolo Baretta, 65 anni, attuale sottosegretario all’Economia. È acquattato nelle larghe intese, pronto a scendere in campo se salteranno in aria le ambizioni altrui e soprattutto quando il “vecchio” centrosinistra non sarà in grado di reggere. Cattolico, sindacalista metalmeccanico e segretario generale aggiunto della Cisl di Bonanni, nel 2008 diventa parlamentare fino a trovare un ruolo nel governo Letta che gli è stato confermato da Renzi.
E la partita delle Comunali di Venezia si intreccia con la rincorsa alle Regionali e la seconda sfida al leghista Luca Zaia.
Il segretario renziano Roger De Menech ha già annunciato in autunno la consultazione delle urne preventive. Un altro bel rischio, visto che all’orizzonte mancano candidati diversi dall’autosufficienza Pd. Addirittura sarebbe una guerra all’ultima preferenza fra sole “primedonne”. Con Laura Puppato che avrebbe dovuto guidare il centrosinistra nel 2010, ma che fu vittima della “sussidiarietà” dei vecchi leader Ds e Margherita. Ma anche Alessandra Moretti, ex portavoce di Bersani, che alle Europee è diventata “rottamatrice” a furor di preferenze. E Simonetta Rubinato, deputata renziana, che sabato riunisce i suoi sostenitori nel monastero di Maranco a Caorle.
Peccato che da Vicenza torni a levarsi la voce (amplificata dal quotidiano locale) di chi pretende la candidatura del sindaco Achille Variati che l’anno scorso ha ottenuto la conferma al primo turno con il 53% dei voti. Classe 1953, bancario, a 37 anni diventa primo cittadino grazie alla Dc per poi passare in Regione dal 1995 fino al 2008, quando torna a guidare il Comune. Anche da “renziano civico”, è arduo spacciarlo come il nuovo che avanza
postilla
Venticinque anni sono molti: una generazione. Eppure sembra passato molto più tempo dalla battaglia che non solo il PCI di quegli anni, ma una parte consistente della popolazione veneziana sconfisse una strategia che sembrava devastante per la città. Allora Venezia fu aiutata anche dalle rappresentanze parlamentari italiane ed europee. . Per ricordare quel momento rinviamo all'editoriale dell'Unità che ne raccontava la conclusione.
«Il comitato attacca Zappalorto: "La sua astensione al Comitatone? Decisione pilatesca"». La Nuova Venezia, 11 settembre 2014 (m.p.r.)
«Zappalorto al Comitatone ha preso una decisione pilatesca decidendo di non votare. Doveva invece chiedere al governo il rispetto della legge, dal momento che si è deciso di scavare un canale che non è previsto dal Piano regolatore portuale». Non bastassero i comunali, le società sportive e le associazioni, contro il commissario che governa Ca’ Farsetti arrivano adesso gli strali del Comitato «No Grandi Navi». Il portavoce Silvio Testa rincara la dose sulla famosa riunione di agosto in cui – con l’astensione del Comune rappresentato da Zappalorto – il governo ha autorizzato l’esame della Valutazione di Impatto ambientale per il progetto dello scavo del nuovo canale, proposto dall’Autorità portuale. «In realtà ha preso una decisione pilatesca», scrive il rappresentante del comitato, «perché se da un lato ha consentito che la riunione del Comitatone si tenesse, dall’altro ha impedito che la città si esprimesse, lasciando così che altri decidessero per noi».
Corriere della Sera Lombardia, 11 settembre 2014, postilla (f.b.)
La mancanza di collegamenti. A sud, verso l’Autosole. E a nord, verso l’A4 Milano-Venezia. Il peccato originale di Brebemi, con i suoi sessanta chilometri di asfalto pochissimo percorso che corrono fra la bassa bresciana e la periferia orientale di Milano, sembra stare tutto lì. Nel fatto che è un asset viario che collega il nulla col nulla . Almeno per ora. Ed è per questo che ieri il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ha invitato tutti a portare un po’ di pazienza. «Prima di dare una valutazione — ha detto — aspetterei fino a che la Teem (la tangenziale esterna di Milano, ndr ) sia completata e la Brebemi sia così collegata con le altre due autostrade».
Questione più volte sollevata anche dallo stesso Francesco Bettoni, presidente di Unioncamere Lombardia e vero grande ispiratore dell’infrastruttura: secondo le proiezioni del suo staff, infatti, la bretella di connessione fra A35 e Autosole dovrebbe portare a un incremento del 15% di traffico sul tracciato inaugurato alla presenza del premier Matteo Renzi lo scorso 23 luglio. Fatti due calcoli, 3.500 automobili in più rispetto alle 22 mila giornaliere dichiarate dalla società controllata dal gruppo Gavio e da Intesa Sanpaolo. Che non sono spiccioli per un’operazione infrastrutturale — prima del genere in Italia — a totale trazione privata costata qualcosa come 2,4 miliardi di euro. La Teem, che metterà in comunicazione diretta Agrate a Melegnano con un doppio raccordo con l’A4 e l’A1 per un totale di 32 chilometri, è stata ideata per alleggerire il carico di traffico che grava sulla vecchia Tangenziale Est, ma sono in molti a sostenere possa dirottare verso Brebemi parte dei flussi pesanti diretti da e verso i centri logistici dell’hinterland meridionale oggi di stanza sulla Milano-Venezia.
Ne sembra convinto anche il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che martedì sera a Brescia, in occasione dell’inaugurazione della Fiera dell’aeronautica, ha sostanzialmente anticipato il pensiero di Maroni: «Il problema del poco traffico sulla Brebemi — ha detto — sta a valle. La realizzazione della Teem completerà l’opera e integrerà il sistema infrastrutturale lombardo creando un’alternativa all’A4». Questione di tempo, dunque. Forse solo di mesi. A oggi di Teem è stato inaugurato solamente un tratto di sette chilometri fra Pozzuolo Martesana e Liscate, ma Maroni giura che l’opera «sarà completata prima di Expo».
Il governatùr, in effetti, sta facendo del capitolo strade un elemento fondamentale nella sua strategia di sviluppo regionale. «Ribadisco il fatto — ha proseguito — che, per garantire la sufficiente mobilità alle imprese e ai cittadini lombardi, servono almeno altri 200 chilometri di strade veloci e di autostrade. Per questo il nostro obiettivo è quello di completare la Pedemontana, mentre ieri (martedì, ndr ) in Consiglio abbiamo assunto l’impegno di sospendere il pagamento del pedaggio per tutto il 2015 sulle tangenziali di Como e di Varese». Ricordava ieri un attento lettore che, nel 1976, quando venne aperto il primo tratto del corridoio M25 che circonda Londra, il Times bollò l’opera come «inutile» perché «troppo periferica». Oggi è uno dei raccordi anulari più trafficati del mondo. Che sia davvero questione di tempo?
postilla
Casca proprio a fagiolo l'osservazione del lettore sulla London Orbital, e per un motivo che a quanto pare continua a sfuggire ai nostri commentatori (favorevoli o contrari all'opera pare conti poco): ci vuole tempo, come ci dice Maroni, per completare i Grandi Disegni. Se nel caso di Londra si trattava però dell'anello autostradale schematizzato nel piano metropolitano di Patrick Abercrombie del 1944, a segnare in qualche modo il confine della greenbelt agricola, le grandi infrastrutture stradali milanesi e lombarde da mezzo secolo a questa parte seguono quel non-piano che si chiamava un tempo Sviluppo Lineare, al solo scopo di sabotare l'unica idea territoriale forte e intelligente prodotta nel '900 alla scala adeguata, ovvero la cosiddetta Turbina del Piano Intercomunale Milanese. Che fissando alcune invarianti nelle forme dell'urbanizzazione e delle aree aperte mirava – esattamente – a evitare il famoso “sviluppo del territorio” o sprawl o città infinita che dir si voglia, promosso invece sciaguratamente prima dalla Democrazia Cristiana e poi dagli altri interessi conservatori che ne hanno ereditata la cultura, in testa Cielle e Lega, per quel che conta. Ecco, è questo che ci dice Maroni: aspettate che si finisca il lavoro, ovvero di seppellire e ritagliare tutto il territorio in una immensa lottizzazione (come si può ancora leggere nelle immagini pubblicate su Urbanistica n. 50-51) con qualche grosso giardinetto per i bambini e i perdigiorno. La cosa triste è che nessuno, Pd in testa, pare avere idee alternative. Si spera ovviamente di sbagliarsi (f.b.)
Su Eddyburg Archivio abbondanza di materiali di riferimento per il Piano Intercomunale Milanese; su Millennio Urbano qualche considerazione in più sull'assenza di un Grande Disegno Alternativo
Altreconomia.it, 10 settembre 2014 (m.p.r.)
Forse -come suggerisce al lettore una foto pubblicata dal Corriere della Sera del 10 settembre- il “deserto d'asfalto” che unisce Brescia a Melzo è colpa dell'erba alta davanti ai cartelli, che non permette agli automobilisti di raggiungere la BREBEMI, la nuova autostrada A35 inaugurata a fine luglio alla presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
O, con maggiore cognizione di causa, l'assenza di automobilisti lungo l'infrastruttura può essere imputata alla “concorrenza” della vicina autostrada A4, che unisce il Veneto (e da Bergamo ha addirittura con 4 corsie) fino ad incontrare la Tangenziale Est, mentre la BREBEMI finisce nei campi.
A differenza di chi, oggi, dedica reportage “all'autostrada che nessuno percorre”, noi ciò che accade oggi l'avevamo detto, e scritto, nel corso degli anni. Quando ancora non erano stati spesi circa 2,4 miliardi di euro (al netto degli oneri finanziari); quando ancora il “deserto d'asfalto” non c'era; quando ancora le inchieste di un grande quotidiano avrebbero potuto smuovere l'opinione pubblica, portando magari il governo a frenare il progetto, prima di essere costretto a metter mano al portafogli, come farà a breve -vaticiniamo- il CIPE, per rispondere alle richieste di “sgravi fiscali” avanzate a più riprese dal presidente della società di gestione, Francesco Bettoni, e dal presidente di Regione Lombardia, Roberto Maroni. Lo Stato -qualora il governo accogliesse la richiesta- dovrebbe rinunciare ad incassare circa mezzo miliardo di euro nei prossimi anni, scrivono alcuni grandi quotidiani, senza “contestualizzare” il perché né il come.
Crediamo sia necessario, pertanto, riassumere per punti tutto ciò che è necessario sapere sulla BREBEMI, per comprendere oggi un fallimento costruito nel corso degli anni, e di cui pagheremo i costi per molti anni a venire:
1 la defiscalizzazione, per legge, è un provvedimento che può essere richiesto per rendere sostenibile il piano economico e finanziario di interventi realizzati in project financing che si trovino in condizione di “squilibrio”, rappresentando -né più né meno- un clamoroso “fallimento del mercato”. Vale la pena sottolineare che la defiscalizazzione è stata introdotta nell'ordinamento italiano durante il governo Monti, quando ministro e viceministro delle Infrastrutture erano Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex dirigenti del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che è azionista della società che ha costruito e gestirà BREBEMI;
2 la insostenibilità del project financing era già “provata”, se possibile, dal mancato interesse dei grandi gruppi bancari privati a partecipare al reperimento dei fondi necessari a realizzare l'intervento: a fronte di una vulgata (che continua a ripetersi sui media mainstream, come se fosse una verità che si auto-avvera) che vorrebbe la BREBEMI come “la prima autostrada realizzata senza finanziamenti pubblici”, i soci -da Intesa Sanpaolo a Gavio, da Unieco a Pizzarotti fino ai piccoli Comuni della bassa bresciana bergamasca attraversati dal tracciato- sanno di aver contato sui finanziamenti della banca pubblica dell'Unione europea, Banca europea degli investimenti, e della “cassaforte degli italiani”, quella Cassa depositi e prestiti controllata dal ministero del Tesoro;
3 i dati di traffico relativi all'autostrada BREBEMI, che secondo quanto comunicato dalla società stanno intorno ai 20mila passaggi al mese, ben al di sotto del preventivato, evidenziano la “risposta del mercato” a un intervento pesante per tutto l'est milanese: senza il completamento della Tangenziale Est esterna di Milano -che la collegherebbe alla viabilità ordinaria, veicolando il traffico verso Milano- la BREBEMI non “esiste”. Questo esemplifica come "asfalto" chiami "asfalto", in un circolo vizioso dannoso per il Paese.
Spiace, oggi, verificare che l'opposizione in Regione Lombardia invece di criticare il “modello autostradale made in Formigoni”, mutuato nel “modello Maroni”, rivendichi l'esigenza di garantire al “progetto BREBEMI” maggiori risorse pubbliche onde evitare che alcuni Comuni dell'hinterland di Milano siano strozzati dal traffico;
4 se le mettiamo insieme, però, queste due infrastrutture hanno occupato o andranno ad occupare, nel caso di un completamento di TEEM, oltre 500 ettari di terreni agricoli, che saranno persi per sempre, comportando -come abbiamo spiegato su Ae 150, ad aprile 2014- un costo di gestione dei servizi ambientali per i territori coinvolti di 6.500 euro per ettaro all'anno.
Ecco ciò che sappiamo di BREBEMI. E lo sapevamo -e scrivevamo- mesi fa. Non c'era bisogno di attraversare l'autostrada semi vuota per descriverla. Era già scritto nelle parole di un dirigente di una grande banca milanese, che nel corso di un convegno di Assolombarda dedicato alle autostrade, un paio d'anni fa, aveva spiegato il motivo per cui alcuni interventi non erano considerati “bancabili”: «Come posso credere che sull'autostrada x passino 80mila veicoli al giorno, e che gli stessi veicoli passino anche su un'arteria che dovrebbe correre parallela, a pochi chilometri dall'altra?».
Riferimenti.
Numerosi articoli e documenti sulla follia della BREBEMI son su eddyburg Basta inserire le lettere nel lo spazio a sinistra della piccola lente in cima a qualsiasi pagina.
«Un giro sterminato di tangenti, con donazioni milionarie a funzionari che governano autorizzazioni paesaggistiche e concessioni edilizie nelle aree di maggior pregio». La Nuova Sardegna, 10 settembre 2014
Perquisizioni. Per adesso gli indagati sono tre: il potentissimo ingegnere cagliaritano Tonino Fadda, ex componente della commissione Urbanistica del Comune di Cagliari e poi collaboratore dell’urbanistica regionale, il fratello geometra Raimondo Fadda e l’ex responsabile dell’ufficio tecnico di Arzachena Antonello Matiz, per anni plenipotenziario e crocevia burocratico di ogni iniziativa che riguardasse il cemento d’alto bordo nella Gallura degli appetiti immobiliari. L’accusa contestata fino a questo momento dal procuratore capo di Tempio Domenico Fiordalisi è per tutti e tre di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ma il materiale acquisito ieri mattina dai carabinieri di Sassari nell’abitazione di Fadda in vico Merello 7 e negli studi professionali di Cagliari e di Roma lascia prevedere per le prossime settimane un’ondata di avvisi di garanzia, mentre si parla di perquisizioni già programmate per questa mattina in diverse località della Gallura.
Iniziative immobiliari. L’inchiesta è in pieno svolgimento, Fiordalisi si è mosso in periodo feriale per tagliare corto e bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di inquinamento delle prove: il decreto di perquisizione è stato controfirmato dal gip Marco Contu, che ha valutato in queste ore il materiale probatorio raccolto dai militari dell’Arma nel corso dell’estate. Al centro dell’indagine sono gli atti di concessione, i permessi di costruire, le autorizzazioni paesaggistiche che hanno reso possibili negli ultimi anni alcune iniziative immobiliari di grande impatto, le nuove suite degli hotel smeraldini ma anche le megaville di La Conia, la località di Arzachena in cui hanno realizzato i loro ritiri estivi numerosi dirigenti generali dello Stato e alti funzionari della tutela paesaggio.
Operazioni dubbie. È qui, tra Serra di Entu fino a La Conia passando per la proprietà Pasella che gli uomini di Fiordalisi hanno scoperto operazioni edilizie di dubbia legalità, sulle quali stanno indagando. Per scoprire le origini di quello che appare una sorta di sacco paesaggistico a base di tangenti il magistrato ha puntato decisamente su Tonino Fadda, per anni progettista di riferimento di Colony Capital e ancora sotto contratto fino a dicembre con la nuova proprietà che fa capo al Qatar, uomo vicinissimo al potente dirigente dell’urbanistica regionale Gabriele Asunis, indagato per corruzione e poi prosciolto nel procedimento romano per la P3 in cui è imputato Ugo Cappellacci.
Modifiche arbitrarie. Dalle carte dell’indagine sembra emergere un’asse solidissimo tra Fadda e Matiz, il primo come uomo delle proposte immobiliari a cinque stelle e il secondo nelle vesti di referente tecnico. In mezzo, fra progetti che sembrano aver passato agevolmente le verifiche urbanistiche e paesaggistiche, compaiono misteriose donazioni di cui i carabinieri hanno trovato traccia nei documenti sequestrati negli studi di Fadda: un appartamento al centro di Londra, acquistato e poi ceduto a un personaggio piuttosto conosciuto negli ambienti politici, passaggi di denaro molto consistenti, nell’ordine dei milioni di euro, che riporterebbero sempre a nomi noti. Filtrano indiscrezioni sulle perquisizioni compiute ieri, in presenza dell’avvocato Rita Dedola che difende i fratelli Fadda: Fiordalisi ha chiesto ai militari di cercare documenti riferiti al piano regolatore di Arzachena, che per ragioni da verificare sarebbero usciti dagli uffici del municipio gallurese per finire nello studio dell’ingegnere cagliaritano. Si parla di modifiche arbitrarie che lo strumento di pianificazione avrebbe subito nel tempo per garantire i permessi di costruire in aree coperte da vincoli, soprattutto quelle di La Conia. Ma sembra emergere un fitto reticolo di interessi legati a proprietà immobiliari private, con intermediari immancabilmente vicinissimi a personaggi della politica protagonisti nella legislatura Cappellacci.
Contratto principesco. Fadda, che dell’assessorato all’urbanistica era una sorta di fiduciario, avrebbe svolto il ruolo di tramite fra la Regione e gli interessi immobiliari che gravitano attorno alla Gallura rivierasca. Assunto con un contratto principesco dall’imprenditore statunitense Tom Barrack, l’ingegnere cagliaritano ha lavorato alla progettazione delle suite negli hotel smeraldini – la sola concessione rilasciata riguarda però il Romazzino – e in contemporanea avrebbe dato supporto tecnico a una serie di personaggi legati alla politica nazionale e sarda interessati a costruire in Gallura. Chiunque desiderasse un buen retiro dalle parti di Porto Cervo e dintorni si rivolgeva a lui, che secondo indiscrezioni avrebbe maturato parcelle per una cifra vicina ai 40 milioni di euro, guadagnati nella piena legittimità.
Carte e computer. I militari hanno bussato di buon mattino prima all’abitazione dell’ingegnere, che secondo l’avvocato Dedola ha fornito piena collaborazione e disponibilità. Sempre in un clima sereno gli investigatori inviati da Fiordalisi si sono trasferiti allo studio professionale di Fadda, dove hanno fotocopiato documenti e esaminato il contenuto dei computer. Nelle stesse ore i commilitoni di Roma perquisivano lo studio che Fadda ha aperto nella capitale. Ora il materiale raccolto sarà esaminato e trasmesso all’ufficio di Fiordalisi per una prima valutazione.
Altri nomi. Stando sempre a indiscrezioni da confermare, i documenti acquisiti dovrebbero consentire alla Procura di Tempio nuovi passi d’indagine. Il numero degli indagati – nel decreto di perquisizione sono tre – sarebbe molto più elevato e altri nomi saranno aggiunti di qui a breve in un’inchiesta dagli sviluppi imprevedibili.
Il Fatto Quotidiano. 9 settembre 2014
MA E' ROMA O E'DISNEYLAND?
di Carlo Antonio Biscotto,
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri. è vero mecenatismo?
Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.
Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commerciali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?
Che fosse necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.
A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.
Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.
Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.
Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com ?
Frattanto il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.
Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.
Ammettiamo che sia possibile mantenere tutto il patrimonio culturale pubblico con le sponsorizzazioni: dovremmo farlo? Quando avessimo coperto tutti i nostri monumenti in restauro con pubblicità commerciali, e quando avessimo associato tutti i siti monumentali bisognosi di fondi a marchi, imprese e prodotti, quale risultato avremmo ottenuto? La commercializzazione totale, la letterale mercificazione del patrimonio culturale inciderebbe, o no, sul messaggio di quei monumenti? Ne modificherebbe o no la funzione civile?
La Repubblica Milano, 8 settembre 2014, postilla (f.b.)
Qualche giorno fa, nel corso di una mesta cerimonia dominata dalla faccia da funerale del presidente uscente della Provincia Guido Podestà, la Regione ha ricevuto in dote da Palazzo Isimbardi la holding Asam, ovvero la scatola societaria che contiene le partecipazioni nel settore delle infrastrutture delle Province di Milano e Monza. Sono per gran parte quote di società autostradali, fra le quali la celebre Serravalle, fonte di infiniti guai politico giudiziari per gli ex presidenti provinciali Colli e Penati nonché di colossali grane per gli ultimi tre sindaci di Milano Albertini, Moratti e Pisapia. La Regione gestirà l’Asam - gravata da 130 milioni di debiti - fino a dicembre 2016 e poi dovrà riconsegnarla alla, nel frattempo, neonata città metropolitana di Milano.
A dispetto dell’imponente debito, l’arrivo del pacco Asam in Regione è stato accolto con sorprendente buonumore dal presidente leghista Maroni, che si è immediatamente lanciato nell’annuncio che in Lombardia si dovranno realizzare, al più presto s’intende, altri 200 chilometri di nuove autostrade o strade a scorrimento veloce. Quasi in contemporanea, sono stati resi pubblici i dati sul primo mese di esercizio della Brebemi, ovvero l’ultimo gioiello autostradale lombardo inaugurato il 22 luglio. Una media giornaliera di soli 18mila transiti, contro i 120mila nel tratto Milano Brescia della A4, l’arteria della quale la Brebemi rappresenterebbe l’alternativa più comoda e veloce.
Un flop indiscutibile, in parte spiegabile con la segnaletica insufficiente, forse con la mancanza di informazioni chiare all’utenza, o forse ancora per il fatto che usciti, in direzione Milano, ci si trova imbottigliati nella terribile Cassanese o nella tortuosissima e quasi impercorribile Rivoltana. Un flop che tuttavia trova la sua spiegazione più semplice nel costo: 10,50 euro per 62 chilometri. L’autostrada più cara d’Italia, quasi il doppio del ticket per lo stesso tratto percorso sulla A4. Dunque al governatore leghista che promette asfalto per altri 200 chilometri di highway in Lombardia risponde sinistramente il primo rendiconto di un’opera annunciata diciotto anni fa, cantierizzata nel 2009 e per cui si prevedeva una spesa — in project financing — di 800 milioni lievitati, nel frattempo, a 2,4 miliardi. Una «grande opera » in teoria interamente finanziata da privati ma che oggi, per reggersi, chiede al governo defiscalizzazioni e contributi per circa 500 milioni e il prolungamento della concessione da 20 a 30 anni. E poi impone tariffe che consegnano la nuova autostrada alla marginalità, se non alla totale inutilità nel sistema della mobilità lombarda.
Maroni non dice dove vorrebbe stendere i nuovi 200 chilometri di autostrade in Lombardia. Non lo dice perché, da consumato attore della politica, sa perfettamente che qualsiasi annuncio darebbe un vantaggio agli oppositori. Però chiama alla collaborazione i privati, riproponendo quel project financing di cui stiamo ammirando gli effetti sulla Brebemi. Probabilmente verranno ripescati gli assurdi progetti autostradali per la bassa, come la Broni-Mortara e la Cremona — Mantova. Sbucheranno bretelle e rami di collegamento con la Pedemontana, la Tem e con la stessa Brebemi. Tornerà dall’oblio la Rho-Monza e chissà quanto ancora saprà partorire la creatività asfaltatrice del governatore. Il tutto in una regione che sta attraversando la crisi profonda di un sistema produttivo che andrebbe ripensato insieme a una nuova mobilità. A infrastrutture e servizi che agevolino e incoraggino il passaggio a un modello rispettoso dell’ambiente, dei territori e persino della logica economica. Costruire autostrade verso il nulla non può essere il futuro della Lombardia.
postilla
Pare che finalmente, davanti a fatti incontestabili, si stia facendo strada anche nell'informazione l'idea di uno “sviluppo del territorio” dove le opere siano funzionali a qualche genere di idea, e non viceversa. Mentre invece la politica, Maroni in testa ma ne siamo certi anche la maggioranza dei suoi formali oppositori, resta saldamente legata al modello classico secondo cui prima si decidono le trasformazioni, sulla base di alcuni interessi economico-speculativi, e poi a colpi di studi parziali, convegni, disinformazione, cooptazione, se ne stabilisce una utilità qualsivoglia. Speriamo che la coscienza del disastro, attraverso una stampa che pare vagamente emersa dalle nebbie padane dello sviluppismo coatto, inizi a sfiorare anche i nostri decisori (f.b.)
p.s. Le citate surreali Autostrada della Lomellina, e Cremona-Mantova fanno parte della medesima storia, ovviamente
Nell’alluvione di parole ognuno ci mette le sue. Qualcuno anche qualche ricordo virtuoso, da cui però oggi pochi propongono di riprendere la lezione, aggiornandone i termini. Ieri si chiamavano “New Deal” negli USA e “Piano del lavoro" in Italia. Oggi hanno un nome? La Repubblica, 7 settembre 2014
TRA le riforme “a ogni costo” che ora il premier annuncia per salvare l’Italia dalla crisi economica e sociale, ce n’è una che merita la priorità perché riguarda una questione di sopravvivenza: quella del territorio e dell’assetto idrogeologico. Piove sul Gargano alla fine di un’assurda estate meteorologica e va in emergenza la Puglia, la regione più “trendy” per il nostro malandato turismo, l’unica fra quelle meridionali a registrare il “tutto esaurito” in questa stagione delle vacanze. E insieme alle vittime, siamo costretti ancora una volta a contare anche i danni, materiali e d’immagine, che la violenza della natura e l’incuria degli uomini infliggono in solido a questa terra, alla sua popolazione e indirettamente a tutto il Paese.
Basta, però, con l’alluvione delle parole. Con le denunce, gli allarmi, le lamentazioni, le promesse. La rovina della Penisola è sotto gli occhi di tutti ormai da troppo tempo. Finora s’è fatto troppo poco per prevenire, contenere, contrastare questo disastro annunciato. Ne conosciamo fin troppo bene anche le cause: dal riscaldamento del pianeta provocato dall’inquinamento atmosferico e dall’effetto serra all’abbandono e al degrado dell’agricoltura; dalla manomissione continuata dei corsi d’acqua e delle coste alla cementificazione selvaggia e all’abusivismo. Ora bisogna finalmente intervenire. Dalle Alpi al Salento e alle Isole, lo Stivale è a rischio.
Occorrono senz’altro fondi, risorse economiche e finanziarie. Ma è necessario anche organizzare un “esercito del lavoro”, come auspicava già l’economista Ernesto Rossi nel suo saggio intitolato “Abolire la miseria”, composto magari da giovani incaricati di questo servizio pubblico a supporto della Protezione civile; ovvero un “Corpo giovanile per la difesa del territorio”, di cui parla una recente proposta di legge presentata dai deputati di Sel. Non a caso fu proprio questo – come ama ricordare Giorgio Nebbia, un docente universitario e ambientalista particolarmente legato alla Puglia – il primo obiettivo del presidente Roosevelt quando assunse nel 1933 la guida di un’America afflitta dalla disoccupazione dopo la Grande crisi del ‘29.
Per il Sud e per l’Italia intera, la difesa del suolo non è soltanto un impegno morale, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Né esclusivamente una spesa, seppure necessaria e irrinunciabile. È un investimento sulla sicurezza, sul futuro, sulla vita collettiva, sul turismo e infine sull’occupazione. E sappiamo tutti che, anche in campo ambientale, prevenire è meglio e assai meno costoso che curare.
È da qui, dunque, che può iniziare la ripresa nazionale. Contro la rassegnazione che giustamente il presidente Renzi esorcizza. Contro i mali endemici del pessimismo e del disfattismo. L’Italia, distrutta dalla speculazione e dal degrado, va ricostruita a partire dalla sua Bellezza; dal suo patrimonio naturale; dal territorio e dal paesaggio.
Si vedano, su eddyburg, gli articoli di Giorgio Nebbia e di Eddyburg. E magari si leggano anche le proposte politiche della lista "L'altra Europa con Tsipras" e i numerosi articoli, anche su questo sito, di Luciano Gallino, Guido Viale, Piero Bevilacqua... Basta nel cerca, in alto a sinistra della piccola lente, digitare le parole new deal
Un emendamento M5S propone di introdurre nel disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 (AC 2093) una nuova sanzione economica contro l’abusivismo edilizio. Dum spiro spero, sebbene sperare in questo parlamento sia davvero difficile.
Il testo, semplice quanto innovativo, dispone che qualora l’abusivo non demolisca il proprio manufatto entro 90 giorni dall’ordine di demolizione, esso debba pagare una sanzione da 2.000 a 20.000 euro e, qualora l’abuso sia realizzato in zona vincolata, soprattutto a livello idrogeologico, che questa sanzione sia comminata nella misura massima.
La sanzione, inoltre, potrà essere reiterabile (ad esempio ogni anno) qualora persista la mancata demolizione e, ovviamente, la sua corresponsione non sana l’abuso.
Gli abusivi, quindi, si dovranno fare due conti. Se ad oggi, tutto sommato, delinquere gli conveniva poiché le demolizioni si contano sulle dita di una mano e loro abitano in immobili per i quali non si paga nulla allo Stato e ai comuni (né oneri concessori, né IRPEF, né TARSU), la nuova sanzione potrebbe spingerli concretamente all’autodemolizione. E questo non perché abbiano a cuore la legalità, il paesaggio e le generazioni future, ma solo perché non farlo fa male al loro portafoglio.
I comuni, intanto, cominciano a sfregarsi le mani rispetto a questa nuova forma di entrate totalmente destinata a loro (anche se da dedicare esclusivamente al controllo del territorio e alla realizzazione di parchi pubblici). D’altronde chi non ha un abuso sul proprio territorio? Secondo il Dossier “Terra rubata” del FAI e del WWF dal 1948 al 2013 sono stati realizzati 4 milioni e seicentomila abusi edilizi e per il Dossier “L’Italia frana” di Legambiente sono state depositate, fra il 1983 e il 2004, 2.040.544 domande di condono di cui il 41,3% ad oggi ancora inevase ( e in buona parte da dichiarare inammissibili o rinunciate). Le somme sono presto fatte: ci sono ancora due milioni di abusi edilizi non sanati in piedi, di cui poco meno di un milione con una improbabile domanda di condono e poco più di un milione senza neanche uno straccio di carta a giustificarne l’esistenza. Le cifre sono confermate dal risultato del censimento delle case “fantasma” (perché in gran parte abusive) effettuato nel 2010. Si tratta di un milione e duecentomila case, come ha dichiarato il Governo Monti a marzo 2012.
Tenendosi prudenzialmente sul milione di immobili moltiplicato per la sanzione minima di 2000 euro, abbiamo la cifra record di 2 miliardi da destinare (potenzialmente ogni anno) ai comuni, in particolare a quelli delle 5 regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia) dove risiedono i due terzi degli abusi edilizi d’Italia.
Ovviamente è importante che ognuno faccia la sua parte, anche i dipendenti comunali,che dovranno infliggere le sanzioni economiche da mancata demolizione, senza dimenticarsene, come è avvenuto, in gran parte, nel Lazio dove nel 2008 è stata introdotta questa sanzione. Pertanto, nella disposizione sono state previste apposite ripercussioni, anche economiche, per i dirigenti “distratti”.
La strada è ancora lunga. Ora il provvedimento approderà all’assemblea della Camera e poi al Senato dove si spera che i parlamentari e il Governo siano d’accordoche a pagare siano, una volta tanto, quelli che violano le regole e non quelli che le rispettano.
Chissà se c’è - almeno in Italia, almeno tra Fuorigrotta e Bagnoli - un nesso tra il disprezzo della legalità che c’è in alto e quello che c’è in basso. La Repubblica, 6 settembre 2014
Un inseguimento che finisce in tragedia. Non esistono più né guardie, né ladri. Né bene né male. Tutto è assai complesso, difficile non solo da comprendere ma anche e soprattutto da raccontare. Quando accadono tragedie come questa, si tende a focalizzarsi sulla dinamica. Anche il sindaco De Magistris, nel primo messaggio di cordoglio per la morte di Davide Bifolco, ha assicurato che in breve tempo si sarebbe fatta chiarezza. Ecco, questa è Napoli (e questa è l’Italia), un luogo in cui l’etichetta è rispettata, in cui tutto verrà fatto (almeno così assicurano) secondo le procedure, ma poi nulla viene realmente chiarito.
Tre persone su uno scooter, (a Napoli è la prassi) di cui una latitante e una con precedenti (questo ovviamente è stato appurato poi), che non si fermano all’alt della pattuglia dei carabinieri. C’è chi giurerà che non potevano le forze dell’ordine lasciar correre quell’infrazione. Che bisogno c’era però di sparare? Nessuno, e infatti il carabiniere ha dichiarato che il colpo gli è partito per sbaglio. Per sbaglio? È dagli anni ‘70 che si usa l’espressione “colpo accidentale”, comunicazione che non fa altro che generare diffidenza verso chi la pronuncia. Non bisogna aver maneggiato la Beretta Mod 92 semiautomatica e conoscerne il peso di quasi un chilo con proiettili 9 millimetri, per capire che un colpo accidentale può partire (cosa che accade raramente) se l’arma cade o se impugnandola senza sicura e con il colpo in canna il dito nello sforzo della corsa fa scattare il grilletto: ma in quel caso è difficile che il proiettile vada a segno. Nulla di tutto questo, a quanto sembra. E quindi bisognerebbe smettere di usare l’espressione accidentale e iniziare a chiedere solo silenzio e attesa delle indagini.
Ma questi discorsi, che occupano pagine e pagine di carta e del web e che coinvolgeranno molti italiani indignati per l’ennesimo morto bambino, questi discorsi “belli, tondi e ragionevoli”, non restituiscono affatto la realtà di Napoli. Questi discorsi restano in superficie. E nascondono un tema molto più importante, un tema che non è più possibile ignorare eppure viene costantemente, quotidianamente ignorato: Napoli è una città in guerra. Ad agosto del 2013 il conducente di una Smart inseguì e investì, uccidendoli, due presunti rapinatori (presunti perché non c’è alcuna evidenza che la rapina sia realmente avvenuta), oggi è una pattuglia dei carabinieri a ingaggiare un inseguimento per bloccare uno scooter “sospetto”, come è stato definito il motorino che guidava Davide.
Potremo scoprire (forse) le dinamiche di questa ennesima tragedia annunciata, ma i cittadini continueranno ad avere paura, le forze dell’ordine a essere tesissime e il territorio a essere attraversato da un’assenza totale di regole. Qualcuno dovrebbe domandarsi: cosa significa essere un cittadino al Rione Traiano? Cosa significa essere un carabiniere al Rione Traiano? Chiedetelo pure a loro. Rione Traiano, anello fondamentale per il traffico di coca. Rione dove manca quasi completamente ogni genere di servizi, dove la fermata della Cumana fa paura anche a mezzogiorno.
Era il regno di Nunzio Perrella, capo di una delle famiglie di narcotrafficanti più note, il clan Puccinelli. Ora è entrato in crisi, lasciando però a comandare sul territorio i propri eredi, ma il territorio è un budello conteso tra le famiglie di Soccavo, i Grimaldi, e quelle di Miano ossia i mille rivoli dei Lo Russo e i dissidenti dei Zaza di Fuorigrotta e tutti i gruppi che sanno che basta una partita di coca da appena 1 chilo (guadagno circa 210milaeuro) per assicurarsi decine e decine di stipendi di disperati e ambiziosi ragazzini da affiliare. Un coacervo incredibile di interessi che ha reso questo quartiere sempre difficilissimo da vivere. Rione Traiano è terra di faide da sempre: nel 2012 fu gambizzata Maria Ivone, figlia di un boss e fu ferita anche una donna incensurata. Nel luglio scorso, in pieno pomeriggio, due ragazzini di 17 e 18 anni sono stati feriti alla mano e alla spalla. Stiamo parlando di un luogo che aveva
creato un polo criminale rivale all’Alleanza di Secondigliano, la cosiddetta “Nuova Mafia Flegrea” che si è dissolta in faide interne e arresti, generando guerre su guerre: ce n’è stata persino una tra i Rioni Traiano “di sopra” e “di sotto”.
Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un’amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all’alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c’è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide.
Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. “Je so’ nato e so’ cresciuto ind’a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera” (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni ‘90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c’è guerra. Quando viene esploso un proiettile, che sia esecuzione, che sia errore o che sia necessità militare (e in questo caso non ve n’era alcuna), è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere.
Adesso anche l’Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c’era
stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla ‘ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. Ma di quale rinascita parliamo se l’economia più significativa nel nostro Paese è quella criminale e gli imprenditori che non si piegano sono abbandonati?
Sta affondando l’Italia, a stento respira. E affonda come sempre da Sud. Il pianto della famiglia di Davide ci parla di un male antico, di un male terribile. Non solo il dolore, quello reale, per la perdita di un figlio, di un fratello, di un amico, ma la necessità di doverlo mettere in scena come unico strumento rimasto per attirare attenzione e quindi per chiedere giustizia. Le sedie in strada, tutta la famiglia che fa dichiarazioni: il dolore nella mia terra non è mai privato. È pubblico e rumoroso, vuole invadere, celebrarsi, teme di essere sottovalutato, ignorato, isolato. È un dolore costretto alla teatralità per provare ad essere accolto.
E senta il governo intero, il peso delle parole di una ragazzina: «La camorra non avrebbe mai ucciso un ragazzo di 16 anni lo Stato sì». Frase ingenua, falsa, ma difficile da sopportare. Questo dice la cugina stravolta di Davide. Lei non sa che la camorra ha ucciso e uccide non solo sedicenni, ma ragazzi e bambini ancora più piccoli. Questa sua ingenuità mostra la necessità di parlare della camorra e che anzi è proprio il silenzio che porta a fraintendimenti di questo genere. I clan ne sono felici. «La camorra ci protegge lo Stato no» ripetono a Rione Traiano. «Le mafie fanno il loro lavoro, mentre voi istituzioni, voi pubbliche persone mentite, rubate, oltraggiate. Voi, i veri criminali, camorra, mafia, ‘ndrangheta, infondo, sono palesi nel loro essere fuori legge, sono oneste in questo». Ecco cosa drammaticamente leggo in decine di blog, in migliaia di commenti. La tragedia è accorgersene solo quando muore un ragazzino ucciso da un carabiniere. È sempre stato così: c’è bisogno di sangue per ricordare che dall’inferno a Napoli non si è mai usciti.
Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2014
Ma cosa stabilisce il decreto? L'articolo 1 prevede che l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, nominato commissario per la realizzazione degli assi ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, possa condividere con le altre amministrazioni coinvolte non una bozza, ma un progetto finale. Nel caso che esse non siano favorevoli, egli potrà decidere se i pareri avversi siano “regolari”, e quindi se tenerne conto o meno. Un potere privo di qualsiasi freno e controllo: se occorrerà bucare una montagna piena di amianto o spianare una città antica, ebbene si potrà fare. E il principio è letale: una soprintendenza non potrà più respingere un progetto perché incompatibile con la tutela del territorio, e dovrà invece comunque accettarlo. L'articolo 5 stabilisce che si possano posare pali per reti a banda ultra larga senza autorizzazione preventiva: anche in aree vincolate paesaggisticamente. L'articolo 10 dimezza i tempi con cui valutare la pericolosità degli inceneritori. L'articolo 12 sancisce la fine della cosiddetta archeologia preventiva: d'ora in poi in caso di ritrovamenti (anche importantissimi) le soprintendenze non potranno più indicare come tutelare e valorizzare le scoperte, ma saranno costrette ad accettare le soluzioni proposte dalle ditte. Che è come chiedere alla volpe come desideri proteggere il pollaio.
L'articolo 13 stabilisce che se in due mesi una soprintendenza non riesce a esaminare una autorizzazione paesaggistica, il silenzio viene interpretato come un assenso: e si procede d'ufficio. Un provvedimento criminale: perché pretende efficienza da un corpo dello Stato che si è dolosamente depotenziato inibendo il turn over e azzerando i fondi; e perché l'inefficienza dell'amministrazione viene fatta scontare ai cittadini, che si vedono distrutto l'ambiente in cui vivono.
L'articolo 14 liberalizza in modo selvaggio gli impianti fotovoltaici e a biomasse, e le torri eoliche: per i quali non sarà necessaria più nessuna autorizzazione paesaggistica. Il che ribalta la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, e una recente pronuncia del Consiglio di Stato per cui “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. Insomma, un enorme regalo a imprese in alcuni casi perfino legate alla criminalità organizzata: nonché la fine di quel che resta del paesaggio italiano.
L'articolo 28 bis prevede che chi vuole costruire possa autocertificare che ha fatto tutto secondo le regole, pagare una tassa e aspettare il disco verde: quella che è un’attività di controllo a tutela del territorio, diviene così una compravendita. E, si sa, il cliente ha sempre ragione. Ci si chiede con quale faccia chi approverà una simile porcheria andrà poi ai funerali delle prossime vittime delle frane e delle alluvioni causate dallo stupro edilizio del territorio.
Ma non è finita. L'articolo 45 prevede di usare lo strumento del project financing per eliminare ciò che resta del demanio: i privati potranno presentare progetti di valorizzazione di un bene demaniale, che in parte sarà dato loro in concessione per attività for profit, in parte sarà ceduto agli enti locali. E, per finire in bellezza, si dà carta bianca alle costruzioni nei campeggi, dicendo che “non rappresentano nuovi volumi o nuove superfici”. Il che consente di realizzare, senza titolo edilizio, edifici per finalità residenziali, produttive e di deposito, ma destinati alla sosta e al soggiorno dei turisti. Ma che “turisti” sono quelli che abitano e lavorano, o hanno depositi, in aree qualificate come “campeggi”?
Se ci avesse provato Silvio Berlusconi, il Pd avrebbe portato in piazza mezza Italia: e invece ora lo fa un berlusconiano doc come Maurizio Lupi, dentro un governo guidato dal segretario del Pd. “Padroni in casa propria” è il motto delle Larghe Intese al tempo di Matteo Renzi: solo che la casa, e cioè il territorio del popolo italiano, questa volta rischia di uscirne distrutta. Per sempre.
La farsa di Bagnoli e della Città della Scienza a Napoli sottolinea spietatamente la nullità della classe politica nazionale e locale. E' ora di cominciare a compilare la lista dei "dormienti" in tutte le città d'Italia, :non li vorremmo rivedere nelle liste. La Repubblica, ed. Napoli, 5 settembre 2014
Per discolparsi di pasticci compiuti i bambini dicono: Io non c’ero, se c’ero dormivo e se dormivo sognavo di non esserci… . Il detto ormai caratterizza il modo di partecipare alle decisioni più nefaste di una classe dirigente che si dice “di sinistra”.
L’Accordo per Città della scienza. Renzi firma il testo così come scritto in prima battuta, mai emendato di una virgola dai componenti il tavolo interistituzionale. Tra loro (forse dormiva…) il vice sindaco Sodano, mandato dal sindaco (che non c’era e pure lui dormiva sognando di non esserci…). Entrambi noncuranti che nemmeno tanto prima –ottobre 2011- la (prima) giunta de Magistris aveva votato e fatto votare al Consiglio comunale un netto “no” a stravolgimenti dell’urbanistica, e poi ancora nel 2012, sollecitata da 14 mila firme, per la spiaggia a Bagnoli libera, di tutti, senza intasamenti né occupazioni privilegiate a favore di una pseudocultura prevaricante sulle istanze del paesaggio e della gente.
Non c’era, dormiva e sogna ancora di non esserci, pure l’assessore all’Urbanistica, partecipazione e beni comuni (siamo in tanti ormai a sognarli…) che agli incontri delle associazioni arriva a sostenere, con fanciullesco candore, che Città della scienza si sposta dalla spiaggia. E Renzi infine lascerà dormire sindaco, vice e assessore affidando al Commissario Bagnoli tutta e facendo risvegliare invece quelli che, in buona pace, Bassolino e De Lucia avevano messo a dormire.
Non c’era, dormiva e certamente sognava di non esserci anche la sinistra del Consiglio regionale. Ha finto di opporsi al Collegato alla finanziaria della Campania che riapre i condoni edilizi e per l’occupazione abusiva degli immobili pubblici, cassa vincoli di tutela e le salvaguardie impresse dai piani paesaggistici anticipandone la soppressione in vista dell’approvazione del fantomatico “Piano Paesaggistico Regionale” che con i promessi condoni e gli ostacoli frapposti con legge alle demolizioni, promuoveranno altri aspiranti a scranni politici nazionali, regionali e metropolitani. Quella sinistra dormiva pure ai tavoli delle commissioni che hanno predisposto il testo anticostituzionale della norma, accorgendosi dei “pasticci” del centrodestra solo al voto.
Certamente non c’era al tavolo per l’Accordo di Città della scienza nè a quello per l’approvazione del Collegato regionale, il Ministero per i beni culturali, che però c’era (dormiva?) al Consiglio dei ministri d’agosto. Ci si augura che non finga di non esserci davanti ai contenuti dell’Accordo Idis contra leges (decreto di vincolo dello stesso Ministero, legge per la bonifica, piano regolatore), a quelli della pianificazione urbanistica, ai poteri del Commissario e davanti a una legge regionale in contrasto col Codice per i beni culturali, ricordando invece che il Codice ha esautorato la Regione, inadempiente ormai da cinque anni, dai suoi compiti sulla pianificazione dei siti tutelati.
Non ci conforta che nemmeno il Ministero adempia a sostituire l’inerzia della Regione, e piuttosto, oltre che compartecipare alla distruzione del paesaggio per decreto legge, continui inerte a guardare il proliferare di iniziative legislative di un’istituzione che imperterrita calpesta il dettato costituzionale dell’art. 9 che sancisce il primato del paesaggio, sovraordinato a qualsiasi interesse di parte, sistematicamente soddisfatto invece da chi c’era.
E pure da chi sognava di non esserci… .
Gli appartamenti costruiti dal governo Berlusconi dopo il sisma non sono affatto sicuri. Dopo il crollo di tre giorni fa il Sindaco ha emanato un'ordinanza di divieto. Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014
A Preturo, a soli undici chilometri da L’Aquila, una delle frazioni devastate dal sisma del 2009, di finanziamenti pubblici ne sono arrivati molti per l’aeroporto, dove sono sbarcati i Grandi della Terra, ma oggi di aerei che decollano e atterrano neppure l’ombra. Mentre, anche per mancanza di manutenzione, crollano, come fossero di carta pesta, i balconi delle C.a.s.e. costruite per dare un tetto agli sfollati. “Abbiamo sentito un boato e la prima cosa a cui abbiamo pensato è stato il terremoto e siamo usciti in strada” raccontano i condomini di via Volonté, una delle 19 new town volute dall’allora premier Silvio Berlusconi, che ospitano oltre 16 mila famiglie.
Roma, Via Giulia. Riemerge una proposta che minaccia di «vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo» E la giunta Marino l'approva. Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2014
Nel cuore di Roma, prove tecniche di Sblocca Italia: ovvero come vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo. Firmato: giunta Marino e ministero per i Beni culturali. È questa, in estrema sintesi, la prospettiva che si sta concretizzando per un pezzo di una delle vie più famose, belle e importanti del mondo. Qui l'aborto di uno sventramento fascista (1931) aveva lasciato in eredità un vuoto, che la fantasia degli amministratori romani non ha saputo riempire se non progettando di murarci un gran cubo porta-macchine.
I saggi di archeologia preventiva della soprintendenza statale hanno portato, però, a scoperte (di edifici di età augustea: un quartiere termale e soprattutto una rarissima stalla dei cavalli che correvano al circo) che “consentono un sostanziale avanzamento della conoscenza della topografia antica del Campo Marzio e potranno costituire d’ora in avanti un sicuro riferimento per la storia dello sviluppo urbano antico” (così la relazione finale degli scavi).
In un paese normale che si farebbe? Si accoglierebbe finalmente la richiesta dei residenti, che vorrebbero un giardino, e si troverebbe il modo di tenere insieme il verde e l'archeologia. Invece a Roma no: nonostante le severe prescrizioni dell'altra soprintendenza (quella comunale) e del Dipartimento urbanistica del Comune stesso, il 3 luglio scorso la Giunta approva la variante del parcheggio interrato (che poi interrato non sarà). Con la conseguenza che la rampa di accesso dal lungotevere costituirà una profonda trincea, invalicabile dai pedoni, e verrà compromessa la continuità dell’asse tra i rioni Trastevere eRegola. Né sarà più possibile vedere i reperti, che in parte sarannoriseppelliti, in parte trasferiti altrove (!). Non c'è da stupirsi se il 9agosto scorso due associazioni (Coordinamento Residenti Città Storica eCittadinanzattiva Lazio) hanno formalmente diffidato il sindaco “a nonrilasciare il permesso a costruire del parcheggio interrato”. Anche il buonsenso lo diffiderebbe.
Riferimenti
Vedi, su eddyburg, l'articolo di Paolo Grassi del 27 dicembre 2004, quello di Anna Rita Cillis del 17 febbraio 2013 e quello di Tomaso Montanari del 9 marzo 2013, ripresi dalla stampa nazionale nonchè, su carteinregola, la documentata nota di Paolo Gelsomino, del 18 agosto 2014
Come cittadino, mi sento sempre più disadattato. La comunicazione politica mi irrita a causa del suo tenore mistificato e farlocco e nessuno si ribella. Guardate questa. «Bologna. Il 13 settembre si inaugura la Tangenziale della bicicletta .
Sorta di autostrada ancora cinquant’anni fa; oggi collo di bottiglia, specialmente in certe ore e all’altezza di certe porte. Sotto il marciapiede vivono, vivacchiano, sopravvivono o addirittura muoiono le radici di alti ippocastani che spuntano dalle aiuole e svettano verso un cielo raramente limpido. Farebbero un bel vedere in generale e anche ombra durante l’estate se non fossero ridotti alle condizioni di malati al Lazzaretto. Quando erano più in salute, lungo questo marciapiede capitava di passeggiare e di fermarsi a bere qualcosa o mangiare angurie e gelati presso uno dei tanti chioschi aperti nella bella stagione. Vi ricorda qualcosa il nome di Oliviero? Uno di quei chioschi ebbe un momento di notorietà nazionale quando negli anni ’80 Michele Serra dirigeva Cuore. Nella rubrica "Botteghe oscure", dedicata ad esercizi commerciali stravaganti anche solo nel nome, fu segnalata la Cocomerhouse, dove talvolta anche chi scrive, in una torrida e afosa notte felsinea, andò a rinfrescarsi materia e spirito.
Già molto ma molto tempo prima che l’aggettivo «verde» si applicasse alle teorie e alle pratiche ecologiche, quei viali erano percorsi da filobus elettrici frequenti, silenziosi e confortevoli; gioia per noi che non avevamo tante macchine e per gli ippocastani che si avvelenavano molto meno di oggi, ricambiando la loro gratitudine sul piano estetico.
Quel che successe in città dopo gli anni ’70 sul piano politico, amministrativo e sociale voglio soltanto accennarlo. Sarà stata la fine dell’«Età dell’oro del capitalismo», come la chiama J.Hobsbawm, sarà stato il ’77, saranno state la massoneria, le banche, le coop e la curia, sta di fatto che Bologna, da allegra e attraente che era, si è sempre più avvicinata alla definizione che ne diede anni fa il suo vescovo, quella di città «sazia e disperata». Dal sindaco Zangheri al sindaco Vitali l’aderenza delle amministrazioni ai movimenti sociali innovativi, nonché la loro credibilità politica, hanno raggiunto un livello disperante di credibilità. E se ciò che era stato promesso e impostato negli anni ’70 – Cervellati sull’urbanistica, Loperfido, Rebecchi e Ancona sul piano sociosanitario, ecc – non fu poi realizzato se non in parte, ciò fu dovuto alla sconfitta più generale della strategia delle riforme in Italia. Al contrario, quel che avvenne a partire dagli anni ’80 furono annunci roboanti, sul proscenio della politica parlata, e trattative e accordi dietro le quinte fra i poteri forti. Proviamo ad evocare.
1. Referendum nel 1984 sulla pedonalizzazione del centro storico. Favorevoli: 70%; applicazione: non pervenuta.
2. Annuncio della costruzione della metropolitana nel 1987. Oggi si fa ancora fatica a mandare avanti il progetto di sistema ferroviario metropolitano, con tutti i binari che corrono sul territorio comunale.
3. Alla fine del 1987 il rettore di Unibo Fabio Roversi Monaco annuncia la celebrazione del nono centenario dell’ateneo che si articolerà durante tutto l’anno successivo. Fu l’occasione che sancì la fine del centro storico come quartiere residenziale e il suo avvio a divenire «cittadella» degli studi, del divertimento, ecc. E oggi persino gli uffici comunali sono stati spostati in sede periferica.
E i nostri viali di circonvallazione? Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, dinanzi alla previsione dell’ovvio, ossia l’aumento esponenziale del traffico automobilistico, mai seriamente contrastato da una politica incentivatrice del mezzo pubblico, nessuno abbia mai fatto nulla, salvo tagliare ogni tanto qualche albero ammalato. Non so cosa abbiano fatto gli studiosi, ma certo i politici non se ne sono dati pena. Nella nuova situazione di intasamento e inquinamento, chi ha potuto (chioschi e prostitute) si è spostato altrove; chi non ha potuto (gli alberi) attende sconsolatamente la sua fine.
La così proclamata «Tangenziale della bicicletta» corre proprio sul letto di morte di questi alberi. Il che è triste di per sé. Ma ancor più triste è rendersi conto della follia che deve aver colto qualche nostro amministratore. Al quale vorrei ricordare quanto avveniva nelle vecchie miniere di carbone. Si teneva un animale, cane o uccellino in gabbia. E quando lo si vedeva stramazzare, questo era il segno che ci si doveva rapidamente togliere da lì. Mancava l’ossigeno. Ora, non ci dice niente la sofferenza degli ippocastani? E che altro dovrebbe dirci se non il fatto che lungo i nostri viali di circonvallazione manca l’ossigeno? Ebbene, proprio lungo un percorso caratterizzato da deficit di ossigeno e dalla sovrabbondanza di gas derivati dalla combustione dei motori, lungo un percorso così si chiede a degli esseri umani di produrre lo sforzo supplementare del pedalare respirando quell’aria.
Magari fra dieci anni, a fronte di un aumento delle affezioni polmonari, benigne e persino maligne, qualcuno produrrà risultati statistici e qualcun altro farà la scena di tirarsi una secchiata d’acqua facendo finta di essere molto sensibile ai temi della ricerca. A questo qualcun altro la secchiata dovremmo tirarla noi e subito. Ma non di acqua...
P.S. – Mi dite perché chiamare tangenziale una cosa che tangenziale non è? Non sarà per via delle tangenti? Ma no, cosa vai a pensare!
Ma i politici (gli eletti) avrebbero dovuto avere due requisiti, che oggi sono del tutto assenti: la capacità di una visione di lungo periodo, centrata sull’obiettivo del benessere degli abitanti, a partire dai più deboli, e quella di scegliere gli strumenti adatti. Due di questi, particolarmente utili, sono oggi addirittura in via di liquidazione: una buona “burocrazia “, cioè un apparato tecnico-amministrativo motivato, capace, autorevole, e il ricorso sistematico al metodo della pianificazione, cioè dell’unico metodo di rispondere in modo efficace e trasparente a un insieme di problemi le cui soluzioni sono interconnesse.
La Repubblica, 31 agosto 2014. Postilla
«I privati nella gestione dei musei? Non certo in quelli grandi, ma laddove lo Stato non riesce a garantire l’apertura, la possibilità di visita e la custodia». Quindi nessuno dei venti siti d’arte, come gli Uffizi, Brera o Capodimonte, che avranno una spiccata autonomia e direttori scelti con concorso? «Nessuno di quelli. Fra i modelli possibili ci sono anche le fondazioni, come l’Egizio di Torino, dove pubblico e privato collaborano. Ma anche il Porto di Traiano, vicino a Fiumicino». Dario Franceschini prova ad attenuare la portata dell’ingresso di privati nella conduzione dei musei. E alla richiesta esplicita di fare un esempio di un luogo da affidare a un soggetto non pubblico si tira indietro.
Gestione di musei non più affidata alle soprintendenze. Abolizione delle soprintendenze storico-artistiche. Porte aperte ai privati (ma tutto da vedere dove e come). Sono i punti cardine della riforma. E anche quelli sui quali si concentrano le critiche. Le sintetizza Vezio De Lucia, presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli: «Il ministro doveva potenziare le strutture periferiche che fanno la tutela sul campo e alleggerire la burocrazia centrale. È successo l’opposto: nascono nuove direzioni generali. Siamo poi contrari a sopprimere le soprintendenze storico-artistiche: è un appiattimento di competenze grave. Come grave è la rottura del legame fra soprintendenze e musei, un punto di forza del nostro patrimonio, che rimanda al rapporto fra storia e paesaggio. In fondo si rende la struttura del ministero sempre meno rispondente alle sue finalità scientifiche e più influenzabile dal potere politico».
Alla riforma del ministero De Lucia affianca alcuni aspetti del decreto Sblocca Italia. Anche in questo caso non c’è un testo definitivo, ma alcuni passaggi preoccupano: «Per le Grandi Opere sono nettamente abbassati i poteri di controllo e di tutela paesaggistica: si stabilisce che un soprintendente ha tempo 30 giorni, in un caso addirittura 15, per dare il suo parere. Se non ce la fa, vale l’assenso. Con le soprintendenze ridotte come sono ridotte, questo è mostruoso: il ministro Lupi realizza la filosofia berlusconiana».
«Venezia ora è in mano al ministero di Lupi, alleato col "Padrone" del Porto Paolo Costa: a breve parte lo scavo del canale per le "Grandi Navi"». Gli imbroglioni hanno in mano le carte che contano e le leve piccole e grandi del potere. Lavorano in fretta per distruggere ciò che è rimasto di un millennio di storia. Il mondo sta a guardare . Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2014
Poche righe, quattro non di più, e un paio di minuti di dibattito parlamentare: tanto basta a riorganizzare una filiera di potere. La storia riguarda la Venezia del dopo scandalo Mo-se, la sua politica sputtanata (e quindi debole), la sua laguna, le grandi navi che l’attraversano e gli uomini che nel bene o nel male la governano in loco e, ovviamente, da Roma. L’inchiesta che ha falcidiato Comune, Magistratura delle Acque, le imprese del consorzio Venezia Nuova e pezzi di vecchio potere regionale ha imposto una rapida messa a punto dei meccanismi di gestione della città. In campo ora – dopo le dimissioni di Giorgio Orsoni da sindaco causa scandalo – sono rimasti in due: l’ex sindaco (ed ex ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi) Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale, e il ministero delle Infrastrutture, guidato da Maurizio Lupi, con la sua tecnostruttura e le sue articolazioni territoriali. Il decreto, l’emendamento e le tracce di Ncd È successo così.
Il 24 giugno il governo partorisce il decreto Pubblica amministrazione: un fritto misto, che il Parlamento è riuscito a peggiorare assai. All’articolo 18 del testo firmato da Marianna Madia si trovava – tra le altre cose – la soppressione del “Magistrato delle acque per le province venete e Mantova”, che controlla tutto ciò che riguarda la laguna, appalti compresi: i relativi poteri passavano al Provveditorato per le opere pubbliche. Gli ultimi eventi, d’altronde, non testimoniavano a favore della permanenza dell’antico istituto: nell’inchiesta Mose hanno arrestato ben due ex “Magistrati”. Messa così, niente da segnalare. Alla Camera, però, accade una cosa strana. Due deputati del partito del ministro Maurizio Lupi, Nuovo Centrodestra (Dorina Bianchi e Filippo Piccone, non veneti, né esperti di appalti pubblici) presentano un emendamento proprio sui poteri del Magistrato delle acque: vi si stabilisce che i poteri passino al Provveditorato interregionale per il Veneto e il Friuli (un organismo del ministero delle Infrastrutture). Non solo: il potere del Provveditore viene esteso anche a quei progetti il cui “importo ecceda i 25 milioni di euro”. In genere, infatti, sopra quella cifra la palla passa al Consiglio superiore dei lavori pubblici. A Venezia non più perché quell’emendamento – impercettibilmente riformulato dal relatore Emanuele Fiano (Pd) e fatto proprio dal governo - è stato approvato in commissione il 25 luglio ed è diventato legge l’11 agosto, quando il Senato ha dato il via libera definitivo al decreto. Il 18 agosto il testo è in GazzettaUfficiale e il nuovo sistema è operativo.