Una lettera al direttore sul tema alimentare e ambientale, solleva indirettamente temi urbanistici assai aperti anche su questo sito: come arginare efficacemente e non velleitariamente il consumo di suolo con criteri validi? Corriere della Sera, 19 febbraio 2015, postilla (f.b.)
Caro direttore, nel suo videomessaggio ai partecipanti a «Le idee di Expo 2015» ( Corriere della Sera, 3 febbraio) papa Francesco ha detto che «ci sono pochi temi sui quali si sfoderano tanti sofismi come quello della fame; e pochi argomenti tanto suscettibili di essere manipolati dai dati, dalle statistiche…». Sono parole che denunciano una consuetudine che dura da tempo e che non riguarda solo la fame nel mondo ma anche altri temi legati al cibo, come la produttività agricola e la sostenibilità dei metodi di coltivazione.
Dobbiamo oggi produrre più cibo? Coloro che hanno interesse a che si consumino sempre più concimi e pesticidi di sintesi, o che si faccia ricorso a piante geneticamente modificate, dicono di sì perché ci sono ancora 800 milioni di persone che soffrono la fame. È un sofisma vero e proprio perché i dati della Fao (Food and agriculture organization) dicono che oggi si produce una quantità di cibo che sarebbe sufficiente a nutrire tutti gli abitanti di questo pianeta, se non ci fosse quel deprecabile 30 per cento di spreco e se i Paesi ricchi avessero comportamenti più solidali nei riguardi di quelli poveri.
Dobbiamo produrre di più in futuro per una popolazione che aumenta? Le previsioni sono che nel 2050 ci saranno da nutrire circa 9 miliardi di persone, cioè il 30 per cento in più della popolazione attuale. I dati elaborati recentemente da esperti ci dicono che, per quell’epoca, la domanda globale di cibo potrebbe raddoppiare ( Global food demand and the sustainable intensification of agriculture , Pnas 2011; www.pnas.org).
E allora si deve raddoppiare la produzione con tutti i problemi di sostenibilità che ne possono derivare? Assolutamente no: basterà aumentarla di poco, se si interviene fin da subito per evitare lo spreco di alimenti ed educare le persone a seguire un regime alimentare equilibrato e sostenibile, tendenzialmente vegetariano come quello della piramide alimentare. Inoltre, è inaccettabile dal punto di vista etico sottrarre al consumo umano una fetta consistente di prodotti alimentari dirottandola verso la produzione dei biocarburanti e dei biogas. La terra sicuramente ci ringrazierà.
Quanto poi alla sostenibilità della produzione agricola, è noto che l’incremento di produttività raggiunto dall’agricoltura moderna (cioè convenzionale) è stato ottenuto senza badare alla sostenibilità. Oggi si discute approfonditamente su come rendere l’agricoltura sostenibile senza ridurre la produttività, ma non si prende mai in considerazione l’opzione dell’agricoltura biologica, di cui la biodinamica è una forma peculiare (proprio domani a Milano apre i battenti il suo trentatreesimo Congresso, in collaborazione con la Bocconi).
Eppure la ricerca sta provando che si tratta di un metodo agricolo che è sostenibile, e risultati scientifici recenti provano che, se si fanno scelte agronomiche corrette, la produttività si avvicina a quella dell’agricoltura convenzionale. In caso di agricoltura di sussistenza, può anche essere superiore: lo dimostrano studi come Sustainability of organic food production: challenges and innovations (Proceedings of the nutrition society 2015) e Comparing the yields of organic and conventional agriculture ( Nature, 2012).
Papa Francesco ha chiuso il suo videomessaggio ricordando che gli uomini sono «custodi e non padroni della terra». Vale la pena di far presente che, per dominare la terra, l’agricoltura convenzionale usa armi come gli insetticidi fosforganici, che hanno la stessa matrice dei gas nervini, e concimi come i nitrati, che sono anche la materia prima per fabbricare esplosivi. ( Coltura della terra e qualità del cibo ; www.valorealimentare.it). Il dilagare di tante malattie degenerative è l’inevitabile conseguenza della sofferenza di questa terra resa schiava.
Matteo Giannattasio è Medico e agronomo, già ordinario di Fisiologia vegetale Università di Napoli
postilla
Da un lato la popolazione crescente del pianeta, dall'altro tecniche agricole attualmente insostenibili, che se così praticate per nutrire questa popolazione finirebbero per provocare una grave crisi ambientale, oltre a non risolvere alla lunga alcun problema. Sono, questi due aspetti, quello della popolazione e quello ambiental-territoriale, a ben vedere i medesimi temi su cui si sviluppa indirettamente la discussione indotta dall'intervento di Marco Ponti su ArcipelagoMilano, a cui ha prima replicato Sergio Brenna sul suo profilo Facebook, poi ripreso e commentato a sua volta da Edoardo Salzano su questo sito. Ponti, pur indulgendo forse un po' troppo – come sospetta Salzano – nella provocazione intellettuale, indignando Brenna che invece prende le sue provocazioni un po' troppo programmaticamente alla lettera, di fatto cita un dibattito ampiamente in corso a livello internazionale, sulla tutela delle superfici agricole dall'espansione o dispersione urbana. L'argomentazione di chi è favorevole a un (pur controllato e pianificato, va detto) allentamento dei vincoli di intangibilità del verde agricolo, è più o meno la stessa che usava Umberto Veronesi contro chi si opponeva al suo progetto di grande centro ricerche nella greenbelt milanese: quello non è verde, sono solo sterpaglie. Ponti, più precisamente, si riferisce (come del resto fa il professor Giannattasio nella sua lettera) alle forme di uso del territorio, più o meno reversibili, attuali, che di naturale hanno assai poco, e che forse a volte avrebbero proprio da guadagnare convertendo superfici a usi urbani. Ma si tratta, appunto, di stabilire criteri ambientalmente, socialmente, economicamente, stretti. Non certo di fissare principi generali del tutto teorici (come quello dei prezzi delle abitazioni, caro alla destra liberista) in un senso o nell'altro. Altrimenti si rischia l'inutile e rischiosa contrapposizione ideologica, che finisce regolarmente per favorire interessi particolari, non certo quelli della collettività (f.b.)
condividere è un errore. Più avviene su beni comuni ( il patrimonio culturale, la convivenza ecc.) più devastanti gli effetti. La Repubblica, 19 febbraio 2015
Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti: gli affreschi trecenteschi della Basilica di San Francesco ad Assisi, forse i testi più sacri della storia dell'arte italiana, sono in pericolo. A minacciarli non è un terremoto o una guerra, ma – come avviene sempre più spesso – un restauro troppo sicuro di sé.
La Direzione Generale per le Belle Arti del Ministero per i Beni Culturali – ora guidata dall'architetto Francesco Scoppola, già direttore proprio dell'Umbria – è «allarmatissima», ed ha disposto un sopralluogo i cui esiti non sono stati affatto rassicuranti. L'attenzione si è concentrata sulla manutenzione degli affreschi di Lorenzetti, attualmente in corso nel transetto sinistro della Basilica inferiore, e sulla pulitura del paramento di pietra del Subasio. Le parti di quest'ultimo già restituite alla vista sono scioccanti: un effetto 'pizzeria' che contrasta violentemente con le zone sulle quali non si è ancora intervenuti.
Ma a preoccupare è soprattutto ciò che si vede dall'altra parte del transetto, e nella cappella di San Nicola. Qui il restauro si è già concluso, ed è possibile valutarne gli effetti. Che – per chiunque conoscesse bene questi affreschi – sono impressionanti: non siamo più di fronte alle stesse opere. Qui è attiva la bottega di Giotto, intorno al 1315: e almeno nella Crocifissione è possibile ravvisare un suo stesso intervento. Ebbene, proprio il celebre gruppo della Madonna che sviene ai piedi della Croce ha ora una scalatura cromatica e un chiaroscuro completamente diversi da quelli noti. Accanto, le sublimi mezze figure di Santi affrescate poco dopo (1317-19) da Simone Martini sono ancor più cambiate: appiattite, e prive di alcuni dettagli della decorazione. E la Madonna al centro del trittico nella Cappella di San Nicola ha completamente (e irreversibilmente) perso il suo manto.
Cos'è dunque successo? Il restauratore – Sergio Fusetti, che tutti ricordano nelle drammatiche immagini del 1997, quando si salvò per miracolo dal crollo della vela di Cimabue nella Basilica superiore – è un professionista preparato e stimato. Tuttavia, questi restauri sono stati circondati da una singolare aura 'mediatica'. Nel luglio del 2012 fece scalpore l'invito a Patti Smith a 'restaurare' una minuscola porzione degli affreschi giotteschi: cosa che la cantante prontamente fece, a favore di fotocamere. E poco dopo si sostenne di aver trovato nientemeno che la 'firma' «GB»: cioè «Giotto Bondone», come fossero le iniziali su una camicia.
Bruno Zanardi – che ha restaurato, tra l'altro, gli affreschi della Basilica Superiore, e ora insegna Storia del restauro all'Università di Urbino – appare turbato: «Avevo visto il cantiere nel 2011, e l’impressione era stata d’un buon lavoro, eseguito da un restauratore che sapevo bravo e esperto. Invece quando sono tornato un paio di mesi fa in Basilica con i miei allievi ho avuto una sensazione molto diversa. Ho visto un diverso e innaturale emergere dei chiari di visi, manti, fasce decorative, unito a un forte compattamento dei cieli. Quasi l’intervento fosse stato un restauro, quindi una pulitura, un lavaggio, seguito da una reintegrazione con acquarelli. Non una semplice manutenzione, cioè una spolveratura con pennelli di martora. Ricordavo gli incarnati dei santi angioini affrescati da Simone Martini, come fusi nel vetro per la meravigliosa assenza di ogni sforzo tecnico nella loro esecuzione. Mentre oggi sono “solo rosa”».
I dubbi sugli esiti del restauro si sommano a quelli sul modo in cui esso è stato gestito. Si può dire che nella Basilica di Assisi sia stato tenuto a battesimo il moderno restauro italiano: qui iniziò ad operare, nel 1942, il neonato Istituto Centrale del Restauro, che vi ha poi lavorato fino al 2006. Negli ultimi anni, invece, il legame tra Basilica e Istituto si è spezzato, anche a causa del definanziamento col quale gli ultimi ministri per i Beni culturali hanno progressivamente ucciso questa istituzione cruciale per la sopravvivenza del nostro patrimonio artistico. Una delle conseguenze è che i Frati hanno deciso di 'fare da soli', passando da uno dei collegi di ricercatori e restauratori più affidabili al mondo, alla ditta privata di un singolo restauratore. La direzione è stata assunta direttamente dal soprintendente dell'Umbria (che per un periodo sosteneva anche un interim in Calabria!), senza creare un comitato scientifico 'terzo' rispetto a chi conduceva il restauro: un passo doveroso, nel caso di opere tanto importanti (recentemente lo ha fatto, per esempio, l'ambasciatore francese in Italia, prima di far toccare la Galleria di Annibale Carracci in Palazzo Farnese).
Perché questo è il punto: il restauratore può benissimo sostenere di aver eliminato ridipinture, o reintegrazioni più tarde. Ma questa discussione andava fatta prima, e non dopo. Quel che non doveva succedere è che il restauratore fosse solo a decidere se, e quanto, intervenire: perché indietro non si torna, e quegli affreschi sono un inestimabile bene comune. Se i filologi avessero il potere di cambiare per sempre il dettato di un verso di Dante in tutte le copie della Commedia, sarebbe pensabile che a farlo fosse solo uno di loro? Bisognerebbe prima parlarne a lungo, per poi magari decidere che è meglio rischiare di tenersi un'integrazione tarda, che perdere un pezzo di originale.
Ormai otto anni fa, proprio sulle pagine di «Repubblica», Salvatore Settis e Carlo Ginzburg proposero inutilmente che una pausa di riflessione fermasse i restauri che incessantemente reintervengono sui testi fondamentali della nostra tradizione: «Togliere una velatura da una tavola, un ritocco a secco da un affresco, un elemento che fa parte della stratificazione storica dell'opera, equivale a bruciare la pagina di un testo che ci è arrivato in un unico manoscritto ... È giusto che una generazione si arroghi il diritto di intervenire drasticamente, trasformandola in maniera irreversibile, su una parte così cospicua, qualitativamente e quantitativamente, della tradizione artistica italiana?».
Prima che i ponteggi passino alle Vele di Giotto, alla cappella di San Martino e poi magari alla Basilica Superiore e alle grandi storie di Francesco con le quali Giotto fondò l'arte italiana, è forse il caso che il lavoro si fermi, che il Mibact intervenga, che si apra una vera discussione.
«L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza». La Repubblica Milano, 16 febbraio 2015
In un contesto fra i più densamente popolati d’Europa, qual è l’area milanese, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno è la messa in campo di nuovo, massiccio consumo di suolo, oltretutto promosso direttamente dal soggetto pubblico. Tanto più in presenza di tante aree dismesse, che da anni attendono di essere recuperate, alcune delle quali già dotate di elevata accessibilità trasportistica e perfettamente integrabili con la città compatta. Ma questa è la scelta operata per Expo 2015 da un ceto politico che ama creare valori immobiliari anziché città. Ora c’è da fare i conti con un’isola metropolitana, estesa per 1,1 milioni di metri quadri e separata dal resto del territorio da autostrade e ferrovie.
Già, l’università. È questo il coniglio dal cappello che, a detta del presidente della Regione Roberto Maroni e di molti commentatori, può fare uscire dai guai Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Una società indebitata per 160 milioni di euro con le banche e che ha messo all’asta l’area a partire da una base di 315,4 milioni, registrando lo scorso novembre una prima risposta negativa del mercato.
L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza: i soldi dovranno saltare fuori (ci penserà Renzi, o chi per lui). Quanti? I 315,4 per l’area più i 400 milioni di euro per realizzare il nuovo campus, che ospiterebbe tutte le facoltà scientifiche della Università Statale ora a Città Studi (Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica).
Quanto a un campus universitario nell’area Expo, sarebbe la somma di due debolezze: quella di Milano città che perde una risorsa preziosa e quella di un’università che sul terreno delle relazioni territoriali si assimila a uno shopping center.
Un'intera generazione di imprenditori e politici ha rinunciato a innovare, per campare di rendita, e i risultati saltano decisamente all'occhio. Recensione a: La Via del Nord, di Giuseppe Berta (il Mulino, 2015). Corriere della Sera, 18 febbraio 2015 (f.b.)
Se Giuseppe Berta non fosse uno storico, ma un’agenzia di rating, potremmo dire che il suo La via del Nord (Il Mulino) suona come un clamoroso downgrading dell’economia e dell’imprenditoria settentrionali. Nella prefazione, con grande onestà intellettuale, Berta spiega come in un recente passato il suo giudizio fosse stato più cauto — nonostante che le traiettorie del declino fossero già delineate — forse perché «ero più contiguo a qualche spezzone dell’establishment» ed «è bastato questo a farmi abdicare, pur senza averne la consapevolezza, all’attitudine al distacco critico che uno studioso dovrebbe salvaguardare in ogni circostanza». Rientrato in quello che definisce «lo spazio del cittadino comune», Berta sferra un durissimo attacco alle classi dirigenti del Nord, a coloro che avrebbero dovuto guidare la transizione dal vecchio e glorioso triangolo industriale (per il quale traspare profonda nostalgia) alla nuova economia moderna e terziarizzata.
Partiamo da Milano, fulcro di questo cambiamento. Lo storico imputa alle élite della città di aver gestito il passaggio dall’identità manifatturiera a quella neoterziaria «senza una discussione né un confronto pubblico», liquidando sbrigativamente il passato «senza remore e indugi». Moda e design saranno anche i nuovi simboli, ma Berta ne parla come di «un piatto di lenticchie» e rintraccia invece nell’edilizia la vera «forza ambigua» che ha mosso la nuova Milano. E in continuità con questo giudizio è «Salvatore Ligresti il protagonista della città che si terziarizza attraverso un’ininterrotta colata di cemento». È andata davvero così? Chi scrive nutre molti dubbi su una così radicale reductio ad unum . La terziarizzazione di Milano non si può dire certo che sia stata una clamorosa storia di successo, ma le dinamiche sono assai più complesse. Berta sembra racchiuderle in un mero spazio nazionale e così per certi versi finisce per sottostimare peso e valore del made in Italy (l’export è cresciuto negli anni della Grande Crisi!) e dall’altro non sembra vedere come Milano abbia perso il suo match soprattutto nei servizi professionali.
Con la sua Torino, Berta è ancora più tranchant , tanto da definirla «città opaca». «È venuta meno l’impronta industriale che la rendeva immediatamente identificabile senza però che sia stata sostituita da un segno e da una missione altrettanto robusti». A fallire è stata l’idea-guida di una Torino policentrica che, partendo dalle Olimpiadi, avrebbe dovuto convogliare investimenti nelle aree industriali dismesse e recuperare il centro storico, avrebbe poi dovuto orientare le competenze della città in direzione dell’economia della conoscenza e, infine, crescere come centro di cultura e intrattenimento. Ma come si fa a nutrire queste ambizioni — si chiede l’autore — se la provincia di Torino è al terzultimo posto delle aree metropolitane in Italia per numero di laureati in rapporto al numero di imprese? Per Berta quindi il bruco non è mai diventato una farfalla ed è rimasto una crisalide, le classe dirigenti hanno coltivato una bulimia progettuale che le ha portate a trascurare la direttrice più promettente, una Torino politecnica in forte continuità con la sua tradizione.
Sistemate le due maggiori città del Nord, Berta si rivolge ad analizzare i territori che vanno verso Nordest («la megalopoli insicura») e il pessimismo cresce. Lo storico vede «un’atmosfera intrisa di un senso di minaccia e di insicurezza che non può che esprimere una domanda di protezione». E chi è in grado di fornirla? Non le classi dirigenti miopi, ma «la malavita organizzata di stampo mafioso che si è incardinata nei circuiti economici settentrionali proprio durante gli anni della crisi». La camorra è il soggetto che sembra dare una risposta o un momentaneo sollievo alle angustie della crisi, attraverso un’offerta illecita di credito alle imprese, e se la criminalità organizzata ha allargato il suo perimetro di influenza «è perché la società settentrionale non ha più i suoi assi portanti di un tempo».
Nel volume del Mulino c’è molto di più di questa sintesi, c’è la storia di un capitalismo fondato sul lavoro e di una politica che fa contraddittoriamente i conti con la questione settentrionale, ma ciò che farà discutere delle tesi di Berta è lo schiaffo. Del resto i libri migliori non solo quelli che si condividono dalla prima all’ultima pagina, ma quelli che ci svegliano. E ci spingono a trovare argomentazioni, magari di segno contrario, ma all’altezza del confronto.
Huffington Post, 17 febbraio 2015
Quattro gioielli architettonici del razionalismo italiano messi in vendita per completare la Nuvola, il nuovo centro congressi progettato da Massimiliano Fuksas. Eur Spa ha confermato che metterà sul mercato quattro strutture: l'Archivio di Stato, il Museo Pigorini, Il Museo delle Arti e tradizioni popolari, il Museo dell'Alto Medioevo. Alla gara potranno partecipare soggetti pubblici e privati, nazionali e internazionali. Salvo per il momento il "Colosseo Quadrato", affittato al gruppo Fendi.
Il concorso internazionale del Comune di Roma risale al giugno 1998. Il vincitore, Massimiliano Fuksas, fu proclamato a febbraio del 2000. Nel 2001 fu indetto il bando di gara per la progettazione, costruzione e gestione del centro congressi, gara vinta nel 2002 dalla Centro Congressi Italia Spa che firmò un concessione trentennale l'anno successivo. Il contratto tra la società concessionaria e l'Eur Spa fu risolto successivamente nel 2005, dopo che la concessionaria aveva previsto un aumento dei costi da 200 milioni di euro a 250 milioni. Il progetto esecutivo, redatto da Fuksas, fu quindi approvato nel marzo 2007. La posa della prima pietra avvenne l'11 dicembre 2007. I lavori iniziarono nel mese di febbraio 2008. Il costo inizialmente previsto era di 275 milioni di euro, ma nel corso degli anni ha superato i 413 milioni di euro. Nel dicembre 2013 il Governo è intervenuto con la Legge di Stabilità per evitare lo stop ai lavori, con un prestito trentennale di 100 milioni che andasse a soccorrere il Comune di Roma, in difficoltà di bilancio. L'obiettivo era inaugurare la Nuvola in tempo per Expo 2015, ma anche questo obiettivo non è stato rispettato.
Complessivamente, dalla vendita dei palazzi storici, Eur Spa confida di incassare "circa 300 milioni", spiega il presidente Pierluigi Borghini al Corriere della Sera. Questi soldi serviranno per "completare i lavori in corso della Nuvola (50 milioni), coprire i debiti bancari (180 milioni) e quelli della società (70 milioni)". In questo modo "la Nuvola potrà essere consegnata entro metà del 2016".
Breve storia del rapporto di amore-odio fra una città e i suoi canali, nati in un contesto che era diventato irriconoscibile con la crescita e le trasformazioni. Ma è impossibile davvero tornare indietro. Corriere della Sera Milano, 15 febbraio 2015, postilla (f.b.)
Amati (da Stendhal) e odiati (dal Manzoni). Chiusi per salute pubblica con la «tombinatura» ordinata da Mussolini che innescò reazioni di giubilo (ma anche di critica) in città. Quei Navigli «pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi», quei Navigli «pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare».
Far rivivere il Naviglio di Milano, ovvero scoperchiare quel lungo tratto di «fossa interna» che dal Ponte delle Gabelle e da via San Marco, attraverso via Fatebenefratelli, raggiunge piazza Cavour e via Senato, e poi lungo la circonvallazione interna, arriva in via De Amicis e fino alla Darsena, per ricongiungersi con i grandi canali. Sarebbe come dar corpo a un sogno, anche ai sogni della letteratura, che ha cantato i Navigli attraverso le pagine di Stendhal e di Bacchelli o anche li ha detestati, come il più milanese (e il più italiano) di tutti gli scrittori moderni, Alessandro Manzoni, che in un epigramma antologizzato in un volume a cura di Franco Brevini si era così lamentato di quelle «fogne a cielo aperto»: «Del sole il puro raggio / rotto dall’onda impura / sulle vetuste mura / gibigianando va». In epoca di espansione (e speculazione) edilizia quel romantico canale che soprattutto nei periodi di secca e di caldo portava olezzi e sporcizia non piaceva più alla parte più illuminata della città. Tanto che un altro grande spirito milanese, il riformista socialista Filippo Turati, cantava ironicamente sempre in versi il tombone, anzi il Tumbùn, di San Marco: «Sul gorgo viscido / chiazzato e putrido / sghignazza un cinico raggio di sol… carmami squallidi di vecchi, macabre / parvenze, ruderi / d’umanità». Turati alludeva ai troppi suicidi che la cronaca registrava proprio in quel cantone, all’angolo con il complesso industriale del Corriere della sera di via Solferino.
Fu così che i giornali del 1929 (certo all’epoca non c’era grande libertà di critica) accolsero con articoli di giubilo la decisione del Comune di chiudere la «fossa interna»: «Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione…». Per un paradosso la chiusura del Naviglio interno mise d’accordo un positivista come Turati, che fu costretto dal regime a fuggire in Francia, con l’irregimentato clinico Baldo Rossi che sul Popolo d’Italia , giornale di Benito Mussolini, plaudì in latino all’impresa: «Salus publica, suprema lex».
Non mancavano comunque voci di dissenso: la protesta del sovrintendente alle belle arti Ettore Modigliani, anche a nome degli «Amici del Naviglio» durò il tempo della breve udienza concessa dal podestà Giuseppe Capitani d’Arzago. Un diktat del ministero mise tutto a tacere. Così in lunghi articoli, per esempio sul Corriere del 19 agosto 1929, si potevano leggere elogi della «città che si rinnova»: «i vecchi milanesi possono testimoniare quanto opportuna sia stata l’opera del piccone»… «c’è una poesia dei ricordi ma ce n’è anche un’altra a saperla intendere, quella del lavoro che si afferma, del vecchio che non sempre scompare, perché spesso si tramuta migliorandosi. E sopra tutto c’è quella della nuova luce, della maggiore aria dell’accresciuta difesa igienica, che le esigenze di una grande città impongono a un certo momento della loro vita, inderogabilmente».
Per esprimere il proprio dissenso l’architetto Luca Beltrami, autore del restauro del Castello Sforzesco, nonché padre della sede del Corriere , dovette chiedere l’ospitalità del fiorentino «Marzocco». La copertura della «fossa interna» costò 27 milioni di lire, oltre ai 20 milioni necessari per realizzare un nuovo canale di scolo. La copertura del Naviglio non resse a lungo all’usura del tempo se già negli anni 60 cominciarono a comparire delle pericolose crepe. Così il Corriere sulle pagine milanesi del 16 settembre poteva annunciare: «La fossa dei navigli sarà riempita di terra con una spesa di 800 milioni». E in una foto pubblicata il 10 febbraio 1968 si vedevano il sindaco Aldo Aniasi e l’ingegnere capo del Comune Antonio Columbo in visita al cantiere sotterraneo. Intanto sempre per motivazioni igieniche e per incompatibilità con la nuova vita di Milano, nel 1963 era stato deciso di chiudere la Darsena («non fa respirare per 40 giorni»), considerata per tonnellaggio delle merci il «sesto porto d’Italia», scriveva l’edizione milanese dell’ Avanti! del 25 luglio.
Le esigenze del traffico erano diventate più urgenti di quelle igieniche, così il 16 ottobre 1970 il Corriere annunciò la scomparsa del Ponte delle Gabelle per collegare con una sopraelevata via Melchiorre Gioia. Addio alle chiuse progettate da Leonardo da Vinci, non restavano che i ricordi letterari come quello spiritoso di Giuseppe Marotta che in «A Milano non fa freddo» si chiedeva: «Batto col piede sull’asfalto di via Francesco Sforza e dico: vecchio Naviglio, ma ci sei davvero qui sotto?». O le rievocazioni di giornalisti cultori della memoria come Leonardo Vergani e Gaetano Afeltra, che in splendidi articoli (da antologia) ricordavano l’ultimo barcone che il 15 marzo 1929 scaricò i rotoli di carta per la stampa del Corriere al Tombone di San Marco e poi «svoltò definitivamente dalla cerchia verso la conca di Viarenna».
postilla
In una breve rassegna degli atteggiamenti cittadini nei confronti dei Navigli ovviamente non poteva starci tutto, ma forse oggi ha più senso citare l'avversione di un conservazionista come Luca Beltrami (l'inventore del Castello Sforzesco “falso antico filologico” che conosciamo oggi) per la tombatura dei canali, e tralasciare invece tutta la serie di progetti ingegneristici accumulata in era industriale, e che in buona sostanza anticipavano l'intervento di trasformazione degli anni '30. Per capire meglio quella copertura, forse per un urbanista sarebbe utile soffermarsi ad esempio sulle pagine di “Ciò Per Amor”, il piano vincitore del concorso 1926-27, firmato da Piero Portaluppi e Marco Semenza, che anticipa di fatto l'idea di città integrata dalle strade e dai veicoli privati dei decenni successivi. Non c'è spazio, in quello schema o nei successivi, per una barriera come quell'anello, scavalcato solo nelle strozzature dei ponti, e che cinge la zona storica dai valori immobiliari più elevati, quella su cui si concentrano gli appetiti anche dei progettisti, e basta farsi una passeggiata per contare gli interventi degli architetti famosi uno accanto all'altro, su una sponda o l'altra dell'ex Cerchia dei Navigli. E tutte queste trasformazioni trovano senso esattamente nel contesto a cui si riferisce quella tombatura, e che dipende dalle medesime evoluzioni recepite dai piani regolatori. Esattamente come nel XIX secolo si pensava di sostituire alle acque un tunnel o un percorso tranviario in trincea, proprio nell'epoca in cui la città si costruiva sulle linee di forza dei binari di mobilità locale o regionale. Insomma, se si volesse davvero scoperchiare la fossa dei Navigli tutto attorno al centro storico, forse invece di guardarsi indietro sospirando, e sognando sciocchi revival antistorici (che lasciamo volentieri alle cartoline o alle rubriche di qualche pubblicazione da anticamera) si dovrebbe prima riflettere sull'idea di città, mobilità, relazioni. Perché agire per comparti non avvantaggia nessuno, e infatti non è mai accaduto, un motivo ci sarà pure (f.b.)
Vuoi per la fretta di approvare una legge sostanzialmente improvvisata, vuoi per le pressioni delle lobbies, in Lombardia si è quantomeno combinato un pasticcio. La Repubblica Milano, 14 febbraio 2015
La nuova legge regionale sul consumo del suolo impedisce ai sindaci che lo desiderano di approvare delle varianti al Pgt che riducano l’impatto sul territorio. Ci hanno già provato Bergamo, Brescia e Cremona. È l’effetto paradossale delle nuove norme che prevedono che per tre anni i progetti in essere potranno essere confermati o meno da sindaci e operatori. Il Pd lombardo denuncia: «È un’assurdità. Lo avevamo detto che questa legge era un pasticcio. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». L’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio getta acqua sul fuoco: «Non è vero. La circolare interpretativa che arriverà nelle prossime settimane chiarirà tutto».
La legge contro il consumo del suolo, fortemente voluta dal governatore Roberto Maroni, impedisce di fatto ai comuni che lo desiderano di approvare varianti ai loro Pgt che prevedano una riduzione dell’impatto sul territorio. A fare l’amara scoperta finora sono state le amministrazioni di Crema, Brescia e Bergamo, tutte guidate dal centrosinistra, che hanno chiesto ai tecnici della Regione un’interpretazione della legge: vogliono sapere se era possibile approvare una variante al Pgt per ridurre i cosiddetti residui, ovvero le aree non ancora lottizzate. Un dettaglio tutt’altro che irrilevante, visto che l’ultimo rapporto sul consumo del suolo redatto dalla società di ricerca regionale Eupolis rivela che le previsioni di trasformazione del Pgt lombardi già approvati comporteranno un ulteriore consumo di suolo attualmente libero pari a 53mila ettari, più altri 22mila relativi ai residui.
La denuncia è del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella che attacca: «Lo avevamo detto che la legge era un pasticcio e adesso i fatti ci danno ragione. Se un comune non può approvare una variante al proprio Pgt per ridurre il consumo di suolo da subito perché la Regione permette di farlo solo tra quale anno significa che il provvedimento è sbagliato e inadeguato. È un’assurdità. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». Il dubbio nasce dall’interpretazione del quarto comma dell’articolo 3 della nuova legge regionale, che stabilisce che «i comuni possono approvare unicamente varianti al Pgt e ai piani attuativi al Pgt, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione delle previsioni di trasformazioni già vigenti». In altre parole, a pari previsioni. Un effetto paradossale, dato che le nuove norme dovevano avere lo scopo di combattere il consumo del suolo, non di impedirne la riduzione. La nuova legge prevede infatti che i documenti di piano dei Pgt, compresi quelli già scaduti prima dell’entrata in vigore della legge, devono considerarsi “cristallizzati”. Almeno per i prossimi 30 mesi, il periodo transitorio entro il quale comuni e operatori del settore dovranno confermare o meno i progetti in essere.
Alcuni comuni capoluogo hanno chiesto nei giorni scorsi un’interpretazione agli uffici dell’assessorato. Anche diversi comuni del bergamasco avrebbero chiesto spiegazioni al dirigente dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica durante la tappa del tour a Bergamo per illustrare i contenuti delle nuove norme. L’assessore regionale Viviana Beccalossi nega tutto: «Nelle prossime settimane emaneremo una circolare applicativa che chiarirà tutto. Si tratta di una legge molto complessa. Fino ad ora non è stata presa alcuna decisione». Il direttore generale dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica Paolo Boccolo ammette che il passaggio della legge è «controverso» e che la circolare applicativa servirà per «chiarire in modo inoppugnabile » se i comuni potranno o non potranno approvare varianti per ridurre i residui. Per chiarirlo, sarà decisivo stabilire nella circolare se tra le previsioni di trasformazioni già vigenti potranno essere aggiunte anche quelle che prevedano una riduzione dell’entità e non il rispetto del vincolo delle pari previsioni. Fino a quel momento, però, il dubbio e l’effetto paradossale rimarranno.
La presenza dell'Annunciazione di Leonardo all'Expo sta diventando un affare di Stato. Il sindaco di Milano ha polemizzato con gli Uffizi per averne negato il prestito, e ha chiesto un intervento del ministro Franceschini: il quale non si è fatto pregare, e ha pubblicamente chiesto spiegazioni alla direzione del museo. Obbligata e amara la resa del direttore, Antonio Natali: «Decide il Ministero».È la terza puntata dell'imbarazzante telenovela dei 'capolavori assoluti' invano pretesi dall'Expo: dopo i Bronzi di Riace e la Venere di Botticelli, ora tocca (ovviamente) a Leonardo. E poi sarà la volta di Giotto, Caravaggio e chissà chi altri.
È deprimente che ogni kermesse italiana si risolva nell'esposizione della top ten dei grandi maestri del passato. Nessun investimento permanente sul patrimonio diffuso, nessuna attenzione agli artisti viventi: solo la pigra e rituale esibizione dei gioielli di famiglia. E pazienza se col tema del cibo non c'entrano nulla. Una coazione così superficiale ed esteriore che il sito ufficiale dell'Expo ha annunciato che il simbolo del Padiglione Italia sarà il David di Michelangelo (l'avreste mai detto?), accompagnandone la fotografia con una didascalia che lo attribuiva a... Donatello!Pare davvero insensato togliere agli Uffizi (che si trovano a meno di due ore dall'Expo) l'unico Leonardo attualmente esposto: un'opera che figura tra quelle dichiarate inamovibili.
Ma il punto davvero importante è un altro. In tutti i paesi civili la sovranità del direttore di museo è sacra. E nessuna autorità politica ha il diritto di insidiarla o condizionarla. In Inghilterra o in Francia sarebbe semplicemente impensabile una conferenza stampa polemica di un sindaco, o un'ingerenza del governo. Qui invece si ventila addirittura un intervento del Presidente del Consiglio: speriamo che non sia vero, perché per trovare un precedente bisognerebbe risalire a Mussolini.
Il paradosso è che in questo momento un bando internazionale si propone di affidare venti grandi musei italiani (gli Uffizi inclusi) a direttori di grande levatura e prestigio: una mossa vanificata dalla reazione di Franceschini, che tratta il direttore degli Uffizi come un cameriere, esautorandolo dalle decisioni più cruciali per la vita del suo museo. E uno si chiede perché mai un direttore tedesco o americano dovrebbe correre a prendere ordini dalla sgangherata classe politica italiana.
Un bilancio preventivo del Grande Evento Expo che, senza strafare, molto probabilmente e saldamente ancorato a un approccio empirico, ci azzecca. La Repubblica Milano, 11 febbraio 2105
C’è stato il messaggio del Papa, quello di Lula, si elaborerà la Carta di Milano per il cibo sostenibile e per tutti, nutrire il pianeta: Viva Expo. Si sono cementificati ettari ed ettari agricoli per costruire nuove autostrade inutili. E per fare un enorme villaggio espositivo su terreni privati non urbanizzati mentre si poteva fare su terreni pubblici già urbanizzati: Abbasso Expo. Mai si è parlato e si parlerà così tanto di spreco di cibo e di come produrlo e distribuirlo in modo sostenibile: Viva Expo. Nulla è ancora cambiato nei cicli del cibo, neanche nell’area milanese nei mesi precedenti l’Esposizione: il tema dell’Expo è solo un pretesto. Non è vero, abbi fede, intanto Milano Ristorazione ha distribuito sacchetti salva-cibo nelle scuole milanesi, così i bambini portano a casa pane e frutta.
Expo è un traino. Sì, ma le multinazionali che lo sponsorizzano sono quelle degli Ogm o della privatizzazione dell’acqua e dei semi. Era ed è molto meglio Terra Madre. E qua i contadini dove sono (chiede Petrini)? Abbasso l’Expo, fiera alimentare, scatola vuota. E delle aree comprate a caro prezzo che ne faremo? Finiranno abbandonate con padiglioni cadenti come a Siviglia. No, ci potrebbe andare l’Università, un meraviglioso campus, ci faranno anche gli orti. E così via, potremmo continuare col botta e risposta.
Le ragioni dei No Expo, se sommiamo quelle critiche a priori nei confronti di questo tipo di grandi eventi internazionali con le ragioni contrarie alla impostazione impressa soprattutto dal Formigonismo al concreto svolgersi di Expo 2015, sembrano robuste. Se poi consideriamo i cosiddetti scandali, tangenti e turbative d’asta, e l’assurda opera fine a se stessa del canale Vie d’acqua potremmo addirittura vedere l’impopolarità circondare Expo. Eppure, eppure... Il richiamo commerciale turistico su cui ha sempre fatto conto il progetto Expo sta crescendo grazie alla pubblicità e alla copertura mediatica. E forse anche a qualcosa di più, al bisogno che ogni tanto emerge di avere qualcosa di unificante e facile a cui aggrapparsi per risollevarsi dalla crisi. Vorrei fare una previsione, poi se sbaglio pazienza.
«ll disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un'area vasta quanto 35 campi da calcio. Il sindaco anti-cemento Isabella Conti: “Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente"». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2015
Addio alla nuova cittadella di San Lazzaro, al centro del caso delle presunte minacce al sindaco Pd anti-cemento Isabella Conti. Giovedì 12 febbraio il consiglio comunale ha votato all’unanimità a favore della decadenza del Piano operativo comunale, così come già deliberato dalla giunta. Quindi niente ruspe, per ora, nel cuore verde della città emiliana, 30mila abitanti alle porte di Bologna. La mossa comporta infatti l’annullamento dei diritti edificatori sull’area della frazione agricola di Idice, individuata per la costruzione di 582 alloggi. E costringe le cooperative a rinunciare al progetto come era stato pensato negli anni scorsi, e insieme a un affare d’oro.
«Abbiamo il dovere morale di farlo pensando al futuro e a ciò che lasceremo dietro di noi», ha detto il sindaco nel discorso prima del voto. «Non stiamo facendo nulla di diverso da quello promesso incampagna elettorale. Sempre nella tutela dell’interesse pubblico e tenendo la legalità come stella polare». A dicembre, Conti aveva deciso di raccontare ai carabinieri le pressioni, ricevute dopo aver bloccato i lavori della new town per la mancanza delle fidejussioni: politici (anche del suo partito), imprenditori e tecnici avevano tentato di indurla al dietrofront. Una denuncia che aveva mandato nel caos il Pd, e spinto la Procura di Bologna a indagare non solo sulle presunte minacce, ma anche sulla maxi operazione immobiliare.
Giovedì, dopo il via libera dell’aula, Conti ha ribadito l’intenzione di tirare dritto. Anche di fronte al rischio di azioni legali da parte di alcuni colossi del mattone (coinvolta c’è anche Coop Costruzioni, una delle più grandi coop rosse emiliane), che con il voto hanno visto andare in fumo un possibile giro d’affari stimato tra i 120 e 150 milioni di euro. Il disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un’area vasta quanto 35 campi da calcio. «Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente, seguendo un iter rigoroso e preciso», ha spiegato il sindaco. «Una causa sarebbe totalmente infondata. Ora voltiamo pagina e cominciamo a riprogettare la città, pensando ad altre zone che hanno davvero bisogno di essere riqualificate».
Lo stop è stato accolto con festeggiamenti e brindisi dalle decine di cittadini, che hanno riempito la sala del consiglio come poche volte nella storia di San Lazzaro. A esultare anche diversiconsiglieri comunali, da sempre contrari al maxi insediamento. Come Massimo Bertuzzi, della lista civica Noi Cittadini. Già nel 2013 aveva presentato un esposto in Procura, denunciando le anomalie nella vendita dei terreni. E proprio Bertuzzi, nella seduta del consiglio comunale, ha letto alcune delle osservazioni che le cooperative hanno fatto arrivare in comune nelle settimane scorse. Compreso un testo, in cui si parla senza mezzi termini dei danni e delle responsabilità legali dei singoli consiglieri. «Se qualcuno si permette di scrivere queste cose, mentre stai facendo solo il tuo lavoro, vuol dire che il sistema è malato», ha commentato il consigliere.
Non è un caso che al voto in aula, un passaggio decisivo, si sia arrivati dopo tre commissioni infuocate e tesissime, condotte a porte chiuse «per non alimentare preoccupazioni nei consiglieri chiamati a decidere». E prima di esprimersi sul blocco dei lavori, gli eletti avevano voluto consultare le carte e ascoltare avvocati per scacciare lo spettro di possibili ripercussioni legali. Alla fine però la votazione è andata secondo previsioni: 21 sì e 4 non votanti. Standing ovation e tutti in piedi al momento del verdetto. Esclusi i 3 consiglieri di Forza Italia, maggioranza e opposizioni hanno votato insieme. Compatto anche il Pd, che dopo giorni di incontri, discussioni e difficili mediazioni, ha deciso di fare quadrato e sposare la linea del sindaco.
Si chiude così il primo capitolo, quello politico, di una vicenda che per la prima volta ha acceso i riflettori sui rapporti tra coop emiliane e istituzioni e sulle influenze che le imprese possono esercitare sulle amministrazioni. Un terreno poco esplorato, in una regione dove Pd e mondo delle cooperative hanno sempre lavorato in sintonia, scambiandosi spesso uomini e dirigenti. Resta aperta e ancora tutta da scrivere la pagina giudiziaria.
«Nelle stesse ore delle celebrazioni ufficiali si è svolto a Milano un altro incontro: “Nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali?” Perché produciamo alimenti in grado di nutrire 2 miliardi di persone più di quante abitano il pianeta e abbiamo un miliardo di affamati». Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015
L’Expo di Milano incombe ed è utile dare conto di quanto sta succedendo. Dalla grande stampa emerge un problema: il dissenso dell’orchestra della Scala a suonare il primo maggio, giorno dell’Expo ma anche dei lavoratori, manda a gambe all’aria la Turandot dell’Inaugurazione. Matteo Renzi vuole riconquistare il palco per essere lui a cantare “Stasera vincerò”. Tutto questo rischia di fare del famoso Teatro l’unico punto di resistenza contro l’Expo dei ricchi.
Milano è una città ben strana. Lo era già ai miei tempi, e si è mantenuta così ancora oggi in pieno XXI secolo. Proprio di fronte al Teatro della Scala c’è ancora – in effetti c’era da prima, dal sedicesimo secolo – Palazzo Marino, la casa dei cittadini. Qui nelle stesse ore dei discorsi ufficiali si è svolta un’altra riunione Expo: “Nutrire il pianeta o nutrire le multinazionali?” Era l’occasione per leggere, insieme, la lettera inviata, da un piccolo gruppo di persone, a Renzi e agli altri potenti per ricordare loro l’impegno “nutrire il pianeta”, di ridare “energia per la vita”, un impegno disatteso dal Protocollo mondiale per il cibo, affidato alla Fondazione Barilla. Erano presenti a Palazzo Marino molte centinaia di persone; moltissime ragazze dai 18 agli 80 anni, tutte sicure che, tutto considerato, dovunque nel mondo sono le donne a coltivare e a mettere in tavola. (nell’altro campo, tra i renziani dell’Hangar, se ne è ricordata Marta Dassù). L’impegno di tutte e di tutti era quello di ottenere, anche attraverso l’Expo, molto criticata, ma anche l’unica Expo che abbiamo a disposizione, che il cibo fosse considerato come un diritto universale e non una merce.
Le relazioni sono state di Piero Basso dell’Associazione Costituzione Beni Comuni che ha tracciato l’accorata storia dell’Expo 2015, tra costruttori, cooperative, giochi d’acqua, fiumi artificiali, sprechi, affari loschi. Un decennio di storia milanese e lombarda che abbiamo l’obbligo di non dimenticare. L’altra introduzione è stata di Curzio Maltese, parlamentare europeo eletto con la lista Tsipras che si è ripromesso di orientare in modo fattivo le future iniziative del Gue (Gruppo della sinistra europea). Sono seguiti quattro piatti o portate principali, e possiamo ben scriverlo, visto che di cibi si tratta. Susan George del Transnational Institute ha mostrato la presa del potere finanziario sulla produzione alimentare, tanto quella organizzata in modo capitalistico e industriale che sull’altra quella dei poveri, costretti ad abbandonare le terre ormai insufficienti per campare. Emilio Molinari del Contratto mondiale dell’acqua ha trattato, come si conviene, il tema dell’acqua imprigionata dalle multinazionali nonostante il nostro referendum vinto nel 2011; ha poi ripetuto il paradosso: produciamo alimenti in grado di nutrire 2 miliardi di persone più di quante abitano il pianeta e abbiamo un miliardo di affamati. Flavio Valente segretario generale del Fian Internazionale è tornato sul tema della sovranità alimentare e sul diritto a un cibo sano, i temi che aveva già svolto in sede Fao in autunno. Infine Vittorio Agnoletto anch’egli della Ong Costituzione Beni Comuni ha spiegato, anzi ha fatto vedere, la forza e gli intrecci delle multinazionali alimentari, delle connessioni con le banche, i collegamenti e le linee di forza che compromettono il nostro futuro se non ci daremo da fare per informare le popolazioni, per impedire che la rete si stringa ancora di più.
Hanno infine concluso Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale di Milano e Moni Ovadi,aattore scrittore drammaturgo. Rizzo ha toccato, tra gli altri, il tema del che fare dopo. A Expo digerito, si deve demolire tutto, riaffidando le aree ormai fabbricabili alla speculazione privata, oppure si può, si deve, applicare le tecniche del riuso, chiedere ai paesi partecipanti di non andarsene, ma di fare dell’Expo milanese un bene comune durevole? Moni Ovadia ha parlato del papa, destando qualche mormorio, al primo momento. Poi la sua capacità di attore e di narratore ha conquistato l’attenzione. Parlava con il suo copricapo, segno di un’altra religione e al tempo stesso di grande tolleranza.
Inizia a ricomporsi in uno schema più articolato la discussione attorno alla proposta di nuovo stadio per l'area di riqualificazione del Portello, con certo altrettanto discutibili progetti. Corriere della Sera Milano, 10 febbraio 2015 (f.b.)
Il Magnete, pieno di tecnologia e musica. Il Village, grande «oratorio laico» dove incontrarsi e praticare sport d’ogni sorta. Oppure il chilometro verde della «Milano alta», con l’annessa offerta di benessere e ristoranti. Altro che stadio. Ci sono buone probabilità che nel futuro del Portello ci sia una di queste proposte. Perché sebbene il progetto presentato dal Milan e Arup abbia innescato suggestioni urbanistiche, sogni di grandeur rossonera e apprensioni dei residenti, chi ha più dimestichezza con planimetrie, cantieri, business plan , regolamenti comunali e compatibilità ambientali è pronto a scommettere che, alla fine, il bando per la riqualificazione degli ex padiglioni 1 e 2 della Fiera se lo aggiudicherà uno degli «altri» tre progetti. Perché uno stadio è comunque una presenza ingombrante, in una zona dove già gli abitanti delle nuove case devono fare i conti, per esempio, con l’assenza quasi totale di negozi, e anche perché l’operazione pensata dal Milan comporterebbe l’abbattimento totale delle strutture esistenti, con costi e disagi notevoli. In quegli spazi, quindi, è più facile che trovi casa uno degli altri progetti in gara, diversi tra loro, ma che hanno in comune hotel, ristoranti e spazi per la salute o il benessere. Il verdetto del Comitato esecutivo di Fondazione Fiera è atteso per la fine di marzo.
La proposta presentata dal Gruppo Prelios si chiama Magnete, ed è (faticosamente) riassumibile nell’immagine di un parco tecnologico e musicale, con una sorta di museo digitale, negozi con articoli ad alta tecnologia (dalla robotica ai droni): «L’idea è quella di creare in quello spazio un luogo per fare attività — spiega Luca Turco, che si occupa dei nuovi progetti di Prelios —. Non sarà un’offerta non profit ma neanche una specie di Mirabilandia della tecnologia». Cioè, per intendersi, si paga ma non per una semplice passeggiata tra effetti speciali. Il
progetto prevede anche un hotel da 250 camere (pensato in sinergia con il vicino centro congressi Mico), una struttura medica per prestazioni ambulatoriali e in day hospital, un negozio di alto livello dedicato alla bicicletta che vorrebbe proporsi come «polo della cultura delle due ruote» e, anche, una serie di spazi per la musica, con il coinvolgimento delle scuole musicali di tutta Milano». Il tutto alimentato e illuminato dal sole.
C’è un albergo (140 camere low cost) anche nel progetto del consorzio creato appositamente da Cile, Arcotecnica e Pkf. Secondo la dittatura anglofona, si chiamerebbe Community hub, «ma a me piace pensare a una specie di grande oratorio laico — dice Paolo Viola di Arcotecnica —, cioè a uno snodo di incontro di interessi diversi, soprattutto dei giovani tra 15 e 30 anni, in un’area ben collegata alla città ma anche ben accessibile per chi arriva da fuori». Un biglietto d’ingresso consente di accedere a una vasta area riservata allo sport indoor: free climbing, skateboard, vasche con onde artificiali per il surf e altri sport d’acqua, simulatore di Formula Uno curato direttamente alla Ferrari. Lungo le balconate, negozi dedicati alle stesse attività sportive, bar e ristoranti. Al piano superiore, invece, un’area dedicata «per il benessere del corpo e dello spirito», con area termale, Spa, fitness center, un centro di medicina sportiva, spazi per lo studio, il gioco, la musica e corsi.
Il tratto che caratterizza il progetto depositato da Vitali Spa è una linea verde che scorre longitudinalmente accanto alla struttura del Portello. Per ora si chiama Green street, ma è destinata a essere ribattezzata «Milano alta», e rappresenta un chilometro di percorso ciclopedonale sopraelevato
(a 7 metri di altezza) lungo viale Scarampo, che scavalcando viale Teodorico e via Colleoni collega l’area di CityLife e del MiCo con il Portello, cioè piazza Gino Valle. All’interno, anche in questo caso, il progetto prevede un albergo (da 350 camere), ristorazione, attività per il tempo libero e uno spazio per l’insediamento di start up ad alto contenuto di innovazione. «Per realizzare tutto questo ci sono pronti 100 milioni di euro — spiega l’amministratore delegato Cristian Vitali — noi e il nostro partner Stam, cioè un grande investitore internazionale, ci crediamo molto. Il business plan è dettagliato e considerando che manteniamo quasi intatte le strutture architettoniche esistenti, contiamo di riuscire a realizzare tutto in meno di due anni».
Non sono solo i residenti a non volere lo stravolgimento del piano urbanistico: anche la decenza e la legalità Possibile chr gli interessi dell'immobiliarista Ente Fiera prevalgano su tutti gli altri?. La Repubblica, ed. Milano, 5 febbraio 2018
La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di expo 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.
Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.
La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind.
Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche.
Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe "un elemento di centralizzazione in senso moderno con una
parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata".
I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).
«La commissione VIA non ha potuto bocciare lo scavo, ma si è salvata con una procedura che, pur mettendo in evidenza criticità, debolezze, sciatterie di un progetto devastante, lo promuoverà». La Nuova Venezia, 8 febbraio 2015
«Nella città commissariata, il bilancio comunale ha tagliato -nel 2014- spese e servizi per 47 milioni di euro. Alcuni dipendenti dell'ente, riuniti in un coordinamento autorganizzato, chiedono l'avvio una Commisione d'indagine sul debito». AE Altreconomia, 3 febbraio 2015
Per spiegare come s’è declinata, questa peste, serve alzarsi sulla città, osservare la forma di pesce del centro storico di Venezia, spostare lo sguardo alle isole minori (Murano, Burano, Sant’Erasmo), e correndo al limite della Laguna osservare il cantiere infinito delle paratie del Mo.S.E. in costruzione. Il “Modulo sperimentale elettromeccanico” dovrebbe difendere Venezia e Piazza San Marco dall’acqua alta, ma per il momento sta prosciugando la città, rendendola inabitabile. Prima lo ha fatto economicamente, visto che i trasferimenti destinati alla manutenzione della città e della laguna, quelli delle Leggi speciali per Venezia del 1973 (la prima, che all’articolo 1 sanciva che “la salvaguardia di Venezia e della sua laguna è dichiarata problema di preminente interesse nazionale”) e del 1984, da una decina di anni sono assorbiti dalla grande opera. Dall’estate 2014, il Mo.S.E. ha finito per prosciugare anche democraticamente Venezia, dopo l’inchiesta per corruzione che ha coinvolto il gotha politico ed imprenditoriale veneto degli ultimi vent’anni, e anche il sindaco della città, Giorgio Orsoni, che si è dimesso. Al suo posto, giovedì 3 luglio è arrivato a Ca’ Farsetti -sede del municipio- un commissario governativo, il prefetto Vittorio Zappalorto. È lui, con tre sub-commissari, a svolgere le funzioni della Giunta e del consiglio comunale, che non c’è più. Così, in un aula vuota, a fine settembre, ha approvato il bilancio di previsione 2014 del Comune, che prevede tagli (“una manovra”, nel comunicato ufficiale) per 47 milioni di euro. Vittorio Zappalorto non parla con i giornalisti, ma gli effetti dei suoi “conti” sono stati calcolati da un gruppo di dipendenti comunali, che si è denominato Comitato autorganizzati del Comune di Venezia. Nel corso di un’assemblea pubblica, a fine ottobre, questi numeri sono stati presentati alla città. Il commissario ha tagliato le attività culturali, per 1,9 milioni di euro (dalle biblioteche, con 0,3 milioni, alla Fenice, con un meno 0,5), ai servizi sociali, dove il segno meno tocca i 3 milioni di euro (e colpirà gli anziani, l’assistenza domiciliare, i disabili e la salute mentale), ma anche il monitoraggio ambientale (-50%); l’educazione ambientale, (un meno 70%) e canili e gattili pubblici (budget ridotto della metà). Le rette degli asili nido aumentano del 10 per cento, il finanziamento allo sport non c’è più, mentre la soglia per l’esenzione IRPEF passa da 17 a 10mila euro. Anche il fondo per il sostegno agli affitti, 500mila euro, viene azzerato, mentre quello per l’abbattimento delle barriere architettoniche (EBA), nella città dei ponti, finisce dimezzato. Perdono il quindici per cento anche le municipalità (le circoscrizioni). Mancano “politiche attive per la residenza”: oltre al fondo per l’affitto, non ci sono soldi nemmeno per manutenere il patrimonio immobiliare pubblico. Alcuni appartamenti in ristrutturazione sono lasciati a metà, e sono (spesso) le case occupate dall’Assemblea sociale per la casa, che con queste azioni -l’ultima a inizio novembre- vuole accendere un faro sul problema.
La domanda che si pongono i cittadini presenti all’assemblea promossa dal Comitato autorganizzati del Comune di Venezia è una: “Che tipo di città vuole imporre il commissario?”. Nei loro interventi, alcuni operatori delle cooperative sociali che gestiscono servizi per conto del Comune sono stati laconici: “Per noi quest’anno è durato 11 mesi, abbiamo lavorato un mese in meno”. La manovra impone anche un blocco degli stipendi dei dipendenti comunali, ma quelli del Comitato spiegano la propria azione con chiarezza: “La mobilitazione non ci serve per rivendicazioni legate al nostro stipendio. Sappiamo però che ai tagli corrisponde il venire meno di servizi alla città”. Un esempio lo porta Ilenia, educatrice presso un asilo nido: “In due, tra le 7.30 e le 9, siamo da sole con 26 bambini”. In un contesto del genere, spiegano le sue colleghe, anche l’inserimento di nuovi bambini è “diluito” nell’arco di mesi, e l’attività educativa è al minimo. “Questo di chiama babysitteraggio, più che educazione”.Claudio, che gestisce la libreria Marco Polo (rivenditore dei libri di Altreconomia edizioni a Venezia), mostra una lettera ricevuta da Veritas, l’azienda che gestisce il ciclo dei rifiuti: c’è scritto che l’agevolazione del 20 per cento cui aveva diritto, in virtù di un provvedimento che privilegiava le “botteghe” indipendenti, è stata cancellata il 18 luglio, retroattivamente: “Adesso pagherò quanto Prada, o Disney”.
Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore, ha fatto parte della giunta Orsoni (era assessore all’Ambiente), dopo essere stato prosindaco di Mestre durante una delle giunte di Massimo Cacciari, a cavallo tra gli anni Novanta e il Duemila. A suo avviso, la “vicenda Zappalorto” può essere letta come la volontà di “normalizzare l’anomalia veneziana, facendoci credere di aver vissuto troppo a lungo al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, una città ‘straordinaria’ come Venezia per riprodurre se stessa sopporta dei costi senz’altro superiori rispetto a quelli di ogni altra città”. Bettin cita un esempio: “Sul totale dei rifiuti solidi urbani prodotti nel centro storico -spiega-, il 70 per cento è legato alla presenza dei turisti”, 8 milioni di persone all’anno, per trentaquattro milioni di presenze, “e questo comporta un costo aggiuntivo di circa 15-20 milioni di euro, che si mangia quasi in toto la tassa di soggiorno che pagano i turisti che pernottano a Venezia”, che per altro è stata aumentata da Zappalorto per gli alberghi a 3 e 4 stelle.
Il processo per il “sistema Mose”, l’inchiesta che a giugno ha portato all’arresto di 35 persone, sarà un flop: la maggior parte degli indagati ha patteggiato. Tra loro anche Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e ministro della Cultura, che a metà ottobre ha pettaggiato la pena di due anni e 10 mesi e 2,6 milioni di euro.
Centocinquanta milioni di euro, un finanziamento pubblico tre volte superiore alla “manovra” imposta dal prefetto Zappalorto al Comune. Risorse che potrebbe essere spese in altro modo, ad esempio per pulire i rii di Venezia, un’altra delle opere di manutenzione necessarie per far sì che la città non collassi su se stessa. Uno scenario preconizzato nel libro “Lo stato di Venezia”, scritto dal professor Angelo Marzollo (Corte del Fontego, 2014), già funzionario Unesco, che negli anni Novanta coordinò un progetto scientifico dell’organismo delle Nazioni Unite, cui fecero seguito interventi di pulizia in tutta la città: “La melma si accumula, e le ‘isole’ vengono scavate dall’acqua. Oggi i buchi vengono chiusi con il cemento”. L’effetto è lo stesso che si ha per le strade delle città italiane, che si allagano alla prima pioggia. Solo che non si vede. Un po’ perché a Venezia vivono in pochi, un po’ perché i danni accadono sott’acqua, legati anche al moto ondoso. Per migliorare i conti, e poter tornare a spendere, una soluzione c’è, e Gianfranco Bettin l’ha descritta in una lettera che firma anche l’ex consigliere comunale Beppe Caccia (con lui nella lista “In Comune”) e indirizzata in agosto a Matteo Renzi e al commissario. Secondo i calcoli di Bettin e Caccia, poiché il 12% di quanto stanziato per il Mo.S.E. viene destinato alle “spese generali di gestione” del Consorzio Venezia Nuova, portando questa percentuale al 6% verrebbero recuperati 75 milioni di euro. “In questo modo -spiega Caccia-, oltre a ripianare il bilancio 2014 il Comune avrebbe a disposizione un avanzo attivo per il 2015”. Risorse che potrebbe essere utilizzare anche per la manutenzione del (mitico) ponte progettato dall’archistar catalana Santiago Calatrava: inaugurato nel 2008, collega la stazione a piazzale Roma, e oggi è coperto di lastre d’acciaio. Gli scalini in vetro, scivolosissimi, si rompono, ma non vengono sostituiti.
Corriere fiorentino, 8 febbraio 2015
«Approvare il Piano Paesaggistico in tempi brevi». È il messaggio che Ilaria Borletti Buitoni (ex Scelta Civica, oggi Pd), sottosegretario del ministero dei Beni culturali e del turismo, con delega al paesaggio, lancia al Consiglio regionale chiamato, nelle prossime settimane, a licenziare il Pit. E avverte: «Nel caso vi sia una terza riscrittura il ministero potrebbe rispedirlo indietro senza approvazione».
Onorevole Borletti Buitoni, la giunta regionale ha inviato alle commissioni competenti un piano paesaggistico con meno vincoli. Che ne pensa? «Il Piano Paesaggistico della Toscana — che deve essere approvato con sollecitudine perché rappresenta uno strumento fondamentale per la gestione del territorio — è il frutto di compromessi che, comunque, garantiscono un certo principio di tutela al quale noi eravamo attaccati. La versione precedente ci era piaciuta di più, ma trattandosi di interessi conflittuali bisognava trovare un punto di sintesi. E, a nostro parere, l’attuale Pit lo ha trovato. Ma non sono compatibili le ulteriori richieste arrivate dalle categorie dei cavatori perché renderebbero la tutela di un’area importantissima, dal punto di vista paesaggistico, turistico e faunistico, assolutamente in pericolo».
Dunque, se il Consiglio regionale dovesse accogliere le nuove istanze dei cavatori il ministero potrebbe respingere l’approvazione del Piano?
«Sì, il rischio c’è. Il percorso fatto fino ad ora con la Regione Toscana è stato eccellente, di confronto, anche secco ma costruttivo, però in riferimento alle Apuane non siamo disposti a concedere altro: il Mibact non tollererà ulteriori allentamenti a un principio di tutela».
Qual è il giusto equilibrio tra tutela e sviluppo?
«L’equilibrio è difficile, ma posso sintetizzarlo con una partola: regole. Non si può lasciare campo libero all’iniziativa selvaggia. Quando parlo di regole, non mi riferisco a vincoli assurdi o a un appesantimento burocratico, ma a norme che definiscono con chiarezza i limiti, secondo principi di tutela che il nostro ministero deve far rispettare. Tutelare il paesaggio non è un interesse di parte ma collettivo».
Il Pit «atto secondo» raccomanda, per la Val d’Orcia, la tutela dei borghi, e definisce una «criticità» l’intensa diffusione dei vigneti. È d’accordo?
«Ci sono delle aree, mi riferisco alla Val d’Orcia, patrimonio dell’umanità come lo è il Colosseo. Quindi il danno che si può arrecare con una pianificazione non corretta rappresenta un danno di immagine per tutto il Paese. Sui vigneti, invece, credo si sia trovato un accordo accettabile sia dal punto di vista paesaggistico che per i produttori di vino».
Il governatore Enrico Rossi ha garantito che entro la fine della sua legislatura il Pit sarà approvato. Quale messaggio vuole lanciare?
«La Toscana è stata capace, più di altre regioni, di valorizzare il suo patrimonio artistico, storico e ora paesaggistico, cerchiamo di fare in fretta, non perdiamo ulteriore tempo. E sarete un esempio per tutti, come lo siete stati per la tutela dei beni culturali».
A proposito di beni culturali, a breve il ministero procederà alla nomina dei nuovi soprintendenti e dei manager che dovranno gestire i 20 «musei autonomi» italiani. Quali sono le novità?
«Le nomine dei dirigenti di prima e seconda fascia le stiamo affrontando in questo momento, e non sarebbe corretto anticipare notizia. La riforma del ministero completerà tutto il suo ciclo entro l’estate. Credo che nei prossimi 15 giorni arriveranno le nomine che riguardano le soprintendenze e le segreterie regionali. Per i 20 siti importanti, il quadro sarà completo per la fine di maggio».
«Chiunque potrà sapere cosa è pubblico e cosa non lo è, valutare come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (quanto vale) il patrimonio di Stato, Regione, Comune e altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale». Carteinregola, 5 febbraio 2015
E’ on line la “Carta della città pubblica”, le tavole in cui sono inserite tutte le aree e gli edifici pubblici sul territorio di Roma Capitale. Un obiettivo inserito dal Sindaco Marino nelle linee programmatiche per il mandato 2013-2018 «…avvieremo un censimento insieme ai Municipi di tutti gli immobili pubblici che possono contribuire alla rigenerazione urbana e su cui impegnare gli uffici nelle verifiche di fattibilità» più volte rilanciato dall’Assessore alla rigenerazione urbana Caudo. Adesso i risultati, presentati ufficialmente nel luglio scorso, vengono messi a disposizione di tutta la cittadinanza, segnando una pietra miliare non solo per la trasparenza, ma anche per la conoscenza dei cittadini del proprio territorio e delle scelte delle amministrazioni. Perchè la prima positiva conseguenza è che chiunque potrà sapere* cosa è pubblico e cosa non lo è, e fare una valutazione di come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (e anche quanto vale) il patrimonio dello Stato, della Regione, del Comune e di altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale. Una rivoluzione che Carteinregola intende valorizzare al massimo, per moltiplicarne le potenziali ricadute positive, invitando tutte le realtà territoriali ad accedere e a utilizzare i dati delle tavole. Dati che nessuno finora aveva avuto il coraggio di raccogliere e divulgare, per il solito “non disturbare il manovratore”, i cui deleteri effetti leggiamo quotidianamente sui giornali. Perchè lo diciamo ancora una volta: la trasparenza e l’informazione sono i primi anticorpi contro la corruzione e la mala amministrazione.
Per la prima volta Roma Capitale dispone di un censimento completo degli immobili e delle aree pubbliche, individuati e visualizzati su una mappa che comprende tutte le proprietà del Demanio, di Roma Capitale, della Regione Lazio, della Provincia e di tutti gli altri enti e soggetti pubblici titolari di immobili, che siano terreni o edifici.
La prima cosa che colpisce della Carta della Città Pubblica, è che tale patrimonio, calcolandolo sul totale del territorio comunale, corrisponde al 23,9% , di cui il 10,9% è proprietà di Roma Capitale: 14.090 ettari, a cui si sommano i 16 mila ettari degli altri soggetti pubblici, quasi un quarto del territorio comunale. La seconda è che i beni demaniali del Ministero della Difesa sono 110, con 1.800 ettari pari al 1,4% dell’intero territorio capitolino e una corrispondenza volumetrica di mc. 11mil.
Nel testo di presentazione della Carta, si legge che su questo patrimonio «sarà possibile programmare interventi di rigenerazione della città senza espropri o acquisti» e che «uno degli obiettivi del censimento, è utilizzare parte delle aree pubbliche dismesse o sottoutilizzate per creare occasioni di lavoro nel settore dell’agricoltura e per sviluppare nuove forme di gestione delle aree verdi». Noi finalmente avremo le informazioni che ci servono per completare alcuni progetti a cui da tempo lavoriamo: una mappa di “Villa Ada pubblica” (II Municipio) e il progetto di Zero Waste “Eco-parco a Roma”, per la realizzazione di 100 Centri di Raccolta di Quartiere con Centri di Riuso e decine di attività produttive. Ma il potenziale di utilizzo di uno strumento come questo è ampissimo: ad esempio potrebbe essere il punto di partenza per individuare in ogni quartiere spazi per realizzare le “Case dei Municipi”, anch’esse promesse dal programma del Sindaco, e a oggi non ancora messe in cantiere. Oltre, naturalmente, a individuare strutture per far fronte all’emergenza abitativa e per la creazione di start up.
* In attesa dell’aumento dei server necessari per la gestione dell’enorme mole di informazioni, la consultazione interattiva, con l’approfondimento dei dati dei singoli immobili/terreni, è possibile solo al terminale della Casa della Città, in via della Moletta 85 e – presso le sedi di alcuni ordini professionali.
Nel suo messaggio di insediamento, il presidente Mattarella ha solennemente abbracciato i principi su cui la Costituzione ha fondato la Repubblica. Il passaggio in cui questo abbraccio è stato più originale, direi personale, è stato proprio quello riservato all'articolo 9. Perché, arrivato a quel punto, Mattarella ha detto che «garantire la Costituzione significa» anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali».
L'uso della parola «tesoro» potrebbe far pensare che anche il nuovo Capo dello Stato si allinei alla sciagurata dottrina del petrolio d'Italia, abbracciata dal suo immediato predecessore, che il 25 marzo del 2012 disse che «bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».
Ora Mattarella torna a Ciampi, e con quell'«amare» scardina il discorso pubblico sul patrimonio culturale, inchiodato ad un registro puramente economicistico. Che presiedeva l'unico riferimento alla cultura di un altro recente discorso di insediamento, quello pronunciato al Senato della Repubblica il 24 febbraio 2014 dal presidente del Consiglio Matteo Renzi: «Quando dico che si mangia con la cultura dico che, allora, bisogna anche avere il coraggio di aprirsi agli investimenti privati nella cultura».
Ecco, Mattarella parla un'altra lingua, perché il sottotesto del suo «amare i nostri tesori artistici e ambientali» non è il basso continuo del denaro, ma è nientemeno che il Vangelo: «Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Matteo, 6, 21). È la stessa altezza della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione» non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Amare, conoscere, difendere: non sfruttare, mettere a reddito, noleggiare. Non si amano le cose morte: e l'ambiente e l'arte italiani sono vivissimi. Finché non siamo noi ad ucciderli.
C'è da sperare che, quando gli porteranno il prossimo Sblocca Italia da firmare, il presidente Mattarella sia fedele a questo altissimo passaggio del suo primo messaggio al Paese.
Soprattutto nella capitale britannica, sono i super ricchi globali gli acquirenti delle iniziative di riconversione di aree dismesse – una per tutte la celebre ex centrale elettrica di Battersea - in appartamenti di lusso da milioni di sterline, mentre chi non ha un’ampia disponibilità economica fa fatica a accedere ad una abitazione dignitosa. Così, dopo decenni di svendita del patrimonio residenziale pubblico e di cieca fede nella capacità del mercato di fare ciò che un tempo faceva lo stato, la crisi degli alloggi è diventata un’emergenza nazionale.
A Londra interi comparti si stanno tramutando in luoghi disabitati perché coloro che acquistano i nuovi alloggi, spesso realizzati al posto di complessi popolari degradati da anni di mancata manutenzione, non sono nemmeno persone in carne ed ossa ma bond immobiliari gestiti da fondi d’investimento basati a molte migliaia di chilometri di distanza. La condizione che fino ad ora ha reso possibile queste trasformazioni erano gli oneri finanziari a carico delle società immobiliari che avrebbero dovuto servire ad integrare una certa quota di housing sociale nei nuovi complessi residenziali.
Ora il governo britannico – su iniziativa del ministro delle politiche abitative - ha deciso di esonerare gli immobiliaristi dal versamento di queste somme. Il solo The Abu Dhabi Investment Council, ad esempio, che sta costruendo appartamenti di lusso con home cinema e sale da biliardo nel distretto di Westminster, ha evitato il pagamento di nove milioni di sterline per la costruzioni di alloggi a prezzi accessibili. La famiglia reale del Qatar sembra che risparmierà un bel po’ dei settantotto milioni di sterline dovuti per la riqualificazione delle ex caserme di Chelsea. Nel frattempo le famiglie che vengono sfrattate dalle case popolari sono costrette a lasciare la capitale e a trasferirsi lontano dai posti di lavoro, dalle scuole e dalle relazioni sociali.
Il consiglio del distretto di Westminster stima che perderà un miliardo di sterline di fondi per alloggi a prezzi accessibili a causa del cambiamento introdotto dal ministro. Si tratta di denaro che non può essere trovato altrove e che aveva il senso di chiedere, a chi interviene su immobili di proprietà pubblica, di restituire qualcosa alla comunità locale. La soluzione dell’esponente del governo conservatore è stata invece un nuovo favore fatto alla mano invisibile del mercato nell’illusione che esso risolva la crisi degli alloggi, mentre è noto che la speculazione immobiliare è una delle sue principali cause.
Le richieste formulate dai soggetti che hanno dato vita alla Marcia per la Casa sono le stesse che da anni vengono avanzate per affrontare le insostenibili condizioni di disuguaglianza nell’accesso al mercato immobiliare del paese: più case popolari e più controllo degli affitti, locazioni sicure, e una battuta d'arresto per gli sfratti. Provvedimenti che potrebbero facilmente essere presi da un governo che volesse affrontare la vergogna dei senza casa e preoccuparsi di mantenere un adeguato mix sociale in una città come Londra che si sta convertendo in un paradiso per ricchi con la residenza altrove.
Sembra quindi paradossale che a preoccuparsi delle ricadute sociali della decisione del ministro siano le maggiori società immobiliari della Gran Bretagna, in disaccordo sulla nuova politica del governo che consente loro di evitare potenzialmente centinaia di milioni di sterline in contributi per alloggi a prezzi accessibili. Secondo le intenzioni governative la nuova norma favorisce la riconversione in alloggi di molti uffici vuoti senza costi aggiuntivi per i proponenti, ma Daniel Van Gelder, presidente della Westminster Property Association, ha sostenuto su The Guardian che incoraggiare la riconversione di uffici in appartamenti può favorire la chiusura intenzionale di attività terziarie e l’indebolimento dell’economia del centro di Londra. «Quando grandi multinazionali scelgono un nuovo quartier generale globale vogliono che sia un posto centrale con ottimi collegamenti e dove poter reclutare talenti», ha aggiunto.
La perdita del patrimonio residenziale pubblico viene solo parzialmente rimpiazzata dalla costruzione di alloggi a prezzi accessibili - una formula per indicare abitazioni il cui affitto è del 20 per cento inferiore a quello di mercato – che svolgono un ruolo diverso, nelle politiche abitative, da quello svolto dagli alloggi a canone sociale. Anche su questi ultimi si dovrebbe basare una politica abitativa che faccia del diritto alla casa un principio non negoziabile, soprattutto in tempi di precarietà economica di grandi disparità sociali. E tuttavia il tasso di riduzione dello stock di alloggi popolari è raddoppiato negli ultimi due anni.
L’idea che la rigenerazione urbana debba tradursi in maggiori profitti per gli immobiliaristi, i quali saranno così invogliati ad investire in nuovi progetti di riconversione residenziale di aree dismesse, rischia quindi di tramutarsi nell’innesco di una nuova bolla immobiliare sostenuta dalla speculazione finanziaria. Solo un ribilanciamento nella disponibilità di alloggi accessibili anche a coloro che hanno contratti a termine e basse retribuzioni può evitarla.
Riferimenti
Le recenti "opinioni" di Vezio De Lucia e di Maria Cristina Gibelli, che abbiamo pubblicato pochi giorni fa, e il punto cui è giunta la discussione sulle norme volte a limitare il consumo di suolo, ci inducono a riesporre il nostro punto di vista. con molti link nel testo
Nel settembre 2005, nell’ambito di una sessione della Scuola di eddyburg dedicata al consumo di suolo ci si rese conto che in Italia nessuno, sia sul versante della cultura urbanistica ufficiale, sia su quello della politica e dell’amministrazione, si era reso conto della drammaticità del fenomeno, lo aveva denunciato e aveva proposto soluzioni al riguardo. Nei mesi successivi un gruppo di amici di eddyburg elaborò una proposta di legge che voleva costituire un’alternativa alla malfamata proposta Lupi di quegli anni. Essa concerneva i “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” (quindi lo stesso tema della legge Lupi) ma aveva il suo focus sul contenimento del consumo di suolo.
La “legge di eddyburg” fu pubblicizzata con un libro, numerosi articoli sulla stampa nazionale, e con una serie di incontri, tra i quali una presentazione ai parlamentari nella Sala delle colonne della Camera dei deputati. Tra il novembre e il dicembre 2007 gruppi di parlamentari delle varie articolazioni parlamentari della sinistra presentarono la proposta di eddyburg come un loro progetto di legge, cosa di cui ovviamente fummo felici.
La XV legislatura si concluse nell’aprile 2009, senza che fosse giunto a compimento l’iter della proposta Lupi né che fosse avviata la discussione delle altre proposte legislative.
Ma il tema era diventato di generale interesse. Ha contribuito notevolmente, nel novembre 2008, la costituzione del forum “Stop al consumo di suolo”, (promosso e organizzato dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra) di cui eddyburg fu tra i fondatori.
Gli anni passarono. Nel 2012 il ministro per l’agricoltura Mario Catania definì e fece approvare dal Consiglio dei ministri un ddl «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo», di cui furono ampiamente apprezzate le buone intenzioni ma criticato, spesso severamente, il dispositivo. (vedi qui numerosi scritti in proposito). Ulteriori proposte legislative seguirono. Nessuna giunse all’approvazione, mentre si susseguirono provvedimenti nazionali e regionali che accrescevano, “facilitavano” e “snellivano” l’ulteriore consumo di suolo.
Il blocco immediato dell’irragionevole consumo di suolo (di cui ormai si cominciavano a valutare la quantità e le conseguenze) apparve sempre più urgente. Ma nessuna delle proposte presentate in sede di legislazione nazionale apparve idonea a quella che si rivelava un’emergenza sempre più drammatica, Alcuni degli stessi amici di eddyburg che avevano formulato la proposta del 2006 si convinsero che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni e ai loro poteri.
Nella sintetica relazione allo snello articolato si afferma che la nuova normativa proposta non attiene, come la precedente e quasi tutte quelle sul tappeto, «alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione», (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali): un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli. Altrettanto incerti – si prosegue - sarebbero stati i risultati facendo riferimento, per salvaguardare il territorio non urbanizzato, a una apposita categoria da aggiungere a quelle ex lege Galasso, il che avrebbe comportato l’assoggettamento ai tempi e alle determinazioni della pianificazione paesaggistica, che lo Stato e quasi tutte le Regioni hanno di fatto accantonato»
Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di affermare all’art. 1 della proposta «che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Pertanto la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione". Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.
Il testo della proposta e la relazione sono pubblicati in eddyburg del giugno 2013 nel testo dell’articolo di Vezio De Lucia “Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato”.
«L’egemonia occidentale non persuade più: nemmeno gli occidentali. C’è voluto più di un secolo per capire che il mondo costruito non era né il migliore, né il solo possibile». Comune.info, newsletter 3 febbraio 2015
Gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. Così, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori agli altri e che tutti, prima o poi, sarebbero diventati come noi. Un’idea insolente, che ha giustificato la spoliazione e il sistematico sterminio delle “culture altre”, extraoccidentali o interne ai nostri confini che fossero: dagli indigeni alle streghe, dai pogrom contro i migranti agli ebrei dell’Europa nazista, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine. Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. C’è voluto più di un secolo per capire che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né il solo possibile. L’ultima grande stagione mondiale di lotte ha detto che se ne può fare un altro. Dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo: gli umani sono capaci di costruirne un numero infinito e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica. Dobbiamo tornare all’idea di inventare “qualcosa di meglio per tutti”, a una rivoluzione tutta da ripensare
UNO Che odore ha l’aria di un mondo in cui le piante danno insegnamenti agli umani? Quali spigoli e inciampi trova sulla sua strada chi voglia diventare guaritore, là dove le malattie sono causate da cattive intenzioni? Come ci si sente ad appartenere alla stessa categoria ontologica del tucano? Quali paure e quali estasi s’incontrano nelle iniziazioni? A cavallo del millennio, l’ultima grande stagione mondiale di lotte ha dichiarato con forza che un altro mondo è possibile. Contro tutti i richiami all’ordine e a un sedicente principio di realtà (i vari “fa schifo, ma è così”), quel grido era al contempo constatazione di un dato di fatto e manifestazione di un’esigenza: dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo. Attorno a quella possibilità molti hanno ritrovato un senso, dopo la tragedia politica e antropologica del ventennio precedente. Oggi – dopo che tantissima acqua avvelenata è di nuovo passata sotto i ponti: l’11/09, Abu Ghraib, l’estensione incontrastata del neoliberismo, la crisi finanziaria e ora anche i fatti parigini – per mantenersi fedeli a quel grido è necessario fare un giro lungo.
DUE Vediamo, per cominciare, come siamo arrivati fin qui. Nel periodo della modernità gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. In base a ciò, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori a qualsiasi altro e che tutti, alla lunga, sarebbero diventati come noi. E poiché, oltre all’arroganza, non ci mancavano neppure le buone intenzioni, eravamo anche convinti di dover portare a tutti i nostri lumi, quel progresso di cui andavamo tanto fieri e che avrebbe portato a tutti ricchezza e benessere. Pensavamo dunque, nella modernità, che ci fossero un unico Essere, un unico Bene, un unico Vero: i nostri. Idea insolente, non c’è che dire: eppure, è quella che ha giustificato la spoliazione eil sistematico sterminio di tutte le “culture altre”, che fossero extraoccidentali o interne ai nostri confini: dagli indios d’America alle streghe, dai pogrom contro i migranti durante la “conquista del West” agli ebrei d’Europa durante il nazismo, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine.
TRE Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. Ci è voluto più di un secolo per convincerci che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né l’unico possibile: un secolo fatto di totalitarismi, di guerre che ammazzano i civili a decine di milioni, di campi di sterminio, di confini militarizzati, di profughi, di disastri ecologici, di crisi economiche, di polverizzazione esterna e interna dei soggetti, di sacralizzazione della competizione. Ma fattoanche – è bene ricordarlo – di sperimentazioni politiche e conoscitive fra le più belle di ogni tempo: dalle evoluzioni fantasmagoriche della fisica e della matematica alle riflessioni sul potere, dall’ecologia come scienza delle connessioni fra ciò che vive ai femminismi, dalla liberazione sessuale ai subaltern studies. È questo secondo versante del secolo che abbiamo alle spalle che dobbiamo ostinarci ad abitare: col suo richiamo alla complessità e alla molteplicità e con la sua esigenza di rivoluzione – ovvero, di “qualcosa di meglio per tutti”.
QUATTRO. In questi anni qualcosa di nuovo sta crescendo nelle pieghe dell’antropologia, nella zona che confina a nord con la filosofia e a sud con la politica. Sciolte le ambiguità di una disciplina nata nel periodo coloniale come “scienza che fornisce ai civilizzati dati oggettivi sui non civilizzati”, alcuni antropologi hanno deciso di saltare infine oltre la grande partizione e prendere gli altri sul serio. Questo significa partire dall’idea che ogni cultura umana ha la stessa dignità di tutte le altre perché tutte si trovano di fronte un medesimo problema: quello di dare forma a un mondo abitabile e a un’umanità che lo sappia abitare. Poco importa, allora, se il linguaggio che si parla è l’italiano o il dogon; se l’alimento più consumato è la pasta o il miglio; se si crede nel Dio unico creatore dei cieli e della terra o in una fantasmagoria di anime potenzialmente presenti in ogni cosa: il denominatore comune a ogni cultura è la necessità di immettere i soggetti in una storia sempre particolare e in divenire, entro un mondo umano specifico che, come i linguaggi che si parlano sulla terra, è sempre estremamente complesso e sapiente.
CINQUE «Prender gli altri sul serio» è qualcosa che suona bene sulla carta perché politicamente corretto, ma che, se fatto davvero, ha i suoi pericoli: si tratta, nientemeno, di uscire dalla nostra presunzione di superiorità, abbandonando lo sguardo sempre un po’ paternalista che gettiamo sulle culture altrui. Il che può causare straniamento, una specie di “mal di mare” etico e conoscitivo. Quando si dà credito a ciò che gli altri (i “primitivi”, i “selvaggi”, i “sottosviluppati”: i non occidentali) ci dicono, quando si ammettono le loro cosmovisioni come tanto valide quanto la nostra, si spalanca un panorama sorprendente e vertiginoso, composto di una molteplicità di mondi umani organizzati secondo linee assai diverse da quelle che percorrono il nostro. Ci sono contesti nei quali è possibile imbattersi nelle divinità o negli spiriti degli antenati; dove il contatto con l’immateriale, la trasformazione in spirito e la conversazione coi rappresentanti di specie vegetali e animali sono attivamente cercati; dove la trance, la possessione o il colloquio onirico con un dio non sono anomalie a cui porre rimedio, ma piste di conoscenza; dove molti enti non-umani del mondo hanno lo statuto di persona; dove il soggetto non è pensato come un’anima individuale dentro un corpo, ma come un insieme di relazioni. È una fantasmagoria che può stordire ma che, se ben praticata, apre squarci irresistibili che, letteralmente, aprono gli occhi. Un solo esempio: nell’Africa subsahariana coloro che si muovono nel mondo secondo i criteri che per noi occidentali sono i più elementari e scontati (badando al proprio vantaggio, accumulando ricchezza e in un’ottica competitiva) sono reputati stregoni. Stregone è dunque chi mette al lavoro gli altri prelevandone i frutti – ovvero, chiunque agisca il meccanismo-base della creazione capitalista di plusvalore. Più chiaro di così…
SEI Non solo, dunque, un altro mondo è possibile: gli umani sono capaci di innumerevoli mondi e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica, il trucco con cui uno stregone malevolo ci ammalia. Torniamo così all’idea di “qualcosa di meglio per tutti”: a una rivoluzione tutta da ripensare, ma tutt’altro che impossibile. I mondi umani non ammettono gerarchie: ciascuno di essi è valutabile solo dal suo interno e secondo i suoi propri principi. Inoltre, se il nostro Bene non è più l’unico bene, allora che cosa sia meglio per gli altri non è cosa che possiamo decidere noi (non più di quanto io possa decidere come il mio vicino di casa debba arredare il suo salotto). Bisognerà dunque sedersi e parlare, inventare gli istituti di una democrazia finalmente radicale in cui ciascun gruppo umano possa decidere come far convivere i propri bisogni, le proprie esigenze e le proprie piste con quelle di tutti gli altri. Luoghi dove rendere fra loro compatibili i diversi mondi, e dove pensarne di ancora inediti. Bisognerà imparare l’umiltà e tornare a praticare la diplomazia: perché è chiaro che il mondo fra tutti meno compatibile, quello che continuamente torna a imporre il proprio dio geloso come unico dio possibile per tutti, è proprio il nostro.
Note
- Le implicazioni dell’insolenza di cui si parla, e i rischi della buona educazione, sono analizzati in un brillante articolo di Bruno Latour intitolato “Guerre di mondi – offerte di pace”. Lo trovate qui: www.ec-aiss.it.
– Per un’introduzione generale, v. Mondi multipli vol. 1: Oltre la Grande partizione e Mondi multipli vol. 2: Lo splendore dei mondi, a cura di S. Consigliere, Kaiak editore. Più informazioni, tanto sulle pubblicazioni quanto sul gruppo di ricerca, si trovano all’indirizzo www.mondimultipli.sdf.unige.it
(email: mondimultipli@gmail.com).
«L’autrice di «No Logo» parla del fallimento del movimento: ma non siamo morti "Alle persone non piace l’ingiustizia, la diseguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell’alternativa, se non è elaborata con cura”». Corriere della Sera, 1 Febbraio, 2015
Si versa un bicchiere di succo d’arancia, chiedendo scusa per la frazione di secondo rubata all’intervista. Borsa nera zeppa di appunti, maglietta bianca, maglione scuro, Naomi Klein racconta del suo nuovo lavoro - Una rivoluzione ci salverà: perché il capitalismo non è sostenibile - con un tono che contrasta con l’immagine dell’attivista sempre a caccia di nemici: sottovoce. Sono passati 16 anni da No Logo , il libro che la trasformò, a 29 anni, nella voce del movimento anti-globalizzazione: e dopo aver scritto sull’economia (e la cattiva politica) che deriva dalle emergenze (sociali, economiche, ambientali), ora affronta il tema del riscaldamento globale. Perché, spiega, il global warming è l’altra faccia del capitalismo; e solo cambiando alla radice quel modello, si potrà evitare la catastrofe.
Il libro è dedicato a suo figlio: ma crede che lui accetterebbe le sue teorie a favore della decrescita — cioè di una vita, per lui, meno ricca?
«Gli auguro una vita migliore della nostra: forse con meno cose, ma libera dall’illusione che siano loro a rispondere alle nostre domande di felicità. Su questo punto occorre essere onesti: ogni soluzione al riscaldamento globale implica un cambiamento radicale. O ci arrendiamo al fatto che avremo choc, ecologici ed economici, sempre più spesso, o rivoluzioniamo il nostro modello economico. Non possiamo far finta che le cose non cambieranno: stanno già cambiando».
Il capitalismo però non sembra destinato a svanire domani. Che si può fare, intanto?
«Quando Al Gore divenne la voce dell’ambientalismo, disse esattamente questo: “Ecco quello che tu, consumatore, puoi fare. Vai in bici. Sostituisci le vecchie lampadine”. Gore aveva reso l’ambientalismo una moda: ma le mode passano. E quel modello, che continuava a considerarci come consumatori, non come membri di comunità, ha fallito. Per quanto importanti, i cambiamenti individuali da soli non bastano: sono le comunità che possono fare pressioni e ottenere risultati».
Ne vede, di risultati?
«Molti: progetti di fracking bloccati in Polonia, Scozia, in vari Stati americani; lo sfruttamento di sabbie bituminose fermato nello stato di Alberta, in Canada; la decisione di Syriza di bloccare da subito una miniera nel Nord della Grecia».
La sensazione però è di dejà vu : dai social forum a Occupy, i movimenti avevano avuto occasioni importanti. «È un momento decisivo: solo noi possiamo perdere», aveva detto nel 2008.
«E abbiamo perso. Ma i movimenti non sono lineari, e non sono morti: si reincarnano, e imparano dai loro errori».
Quali?
«Il primo è stato quello di fidarsi di figure messianiche, affidare a loro il cambiamento e tornarsene a casa. È successo con Obama, ad esempio. Ma il più importante è stato quello di avere detto molti “no” senza avere dei “sì” altrettanto convincenti. Alle persone non piace l’ingiustizia, la diseguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell’alternativa, se non è elaborata con cura. Podemos, in Spagna, è un partito nato da movimenti sociali; le 900 cooperative energetiche in Germania mostrano che le fonti alternative non sono favole. Questi sono dei sì - degli esempi tangibili».
Eppure moltissimi movimenti si caratterizzano esattamente così: No-qualcosa.
«La fase del no serve: mette limiti, detta una linea. Ma non eravamo bravi con i sì. Stiamo migliorando: non si può rimanere per sempre in una posizione di opposizione. E poi, attenzione: i nuovi movimenti per l’ambiente riguardano persone che si innamorano del luogo dove vivono. È un errore considerarli solo movimenti “contro” qualcosa».
La violenza, nei movimenti, è stata un errore?
«L’esercito zapatista del Chiapas combatteva perché era attaccato. Credo che quella violenza fosse giustificata. Il che non vuol dire che fosse giusta, o una buona tattica».
Anche il Papa prepara un’enciclica sull’ambiente. Che contributo si aspetta?
«Fondamentale. L’ambientalismo è stato corroso dal pensiero economico. Quando si ragiona in termini di costi-benefici sulla riduzione immediata, o tra 20 anni, delle emissioni di CO2, sapendo che l’attesa causerà disastri in alcuni Paesi, si fanno discorsi al limite del genocidio. Le scelte ambientali sono anche morali».
L’ambientalismo e il cambiamento radicale delle strutture economiche non sembrano molto popolari tra i partiti socialdemocratici.
«E bisogna fare attenzione. Se la sinistra tradisce i suoi valori, se non dà vere alternative, è moralmente colpevole, e permette alla rabbia dei cittadini di trovare sfogo in una destra molto pericolosa».
Ma ci sono alternative realistiche, oggi?
«Dal punto di vista dell’ambiente, siamo di fronte a un’enorme possibilità. Il problema vero è quello di mantenere viva la speranza nei movimenti, anche dopo le sconfitte. Bisogna eliminare dalla politica il potere corrompente del denaro; e lavorare sull’elaborazione di alternative, non solo teoriche, ma mostrando esempi di quello che già sta avvenendo. Passare dall’“è possibile” allo “sta già accadendo, e proprio nel tuo territorio”. Lo vede? Ho imparato dagli errori. Questa volta andrà bene».
Componente essenziale di una buona politica del territorio è chiudere la stagione dell'abusivismo. Il Sindaco di Roma e il suo assessore hanno assunto come obiettivo «chiudere la la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio». La Repubblica, edizione Roma, 30 gennaio 2015
L'ufficio condono ha negato la concessione della sanatoria a 7626 casi di abusivismo. Solo dal 2011 al 2014 i “no” sono stati 5941, più di tre volte quanto era stato fatto prima. L’assessore all’Urbanistica Caudo sta lavorando per sveltire lo smaltimento delle 209 mila pratiche ancora da definire dei tre condoni del 1985, 1994 e 2003. «Useremo sempre di più internet» afferma «e aumenteremo il personale». E intanto la giunta Marino varerà oggi un nuovo piano triennale anti-corruzione che prevede le denunce dei colleghi e il principio della rotazione degli incarichi.
I numeri, prima di tutto i numeri. Che sono al cardiopalma.
All’Ufficio Condono, dal 2011 gestito da Risorse per Roma dopo il lungo impero della società Gemma Spa, sono ancora da lavorare, al 19 gennaio 2015, 209.246 richieste di sanatoria di abusi edilizi, che riguardano le tre leggi di condono del 1985, 1994 e 2003. Un numero talmente grande che, se si proseguisse al ritmo sostenuto di circa 11 mila pratiche definite nel 2014, si finirebbe solo nel 2036.
Ma a far capire l’accelerata che si è fatta, basta dire che dal 1996 al 2009 le domande respinte sono state 1658. Mentre dal 2011 al 2014 le costruzioni dichiarate fuorilegge sono state 5941. Tutte, dopo l’istruttoria, potrebbero essere demolite o acquisite al patrimonio pubblico.
La trafila è lunga. Dopo il sollecito la pratica può dover essere sottoposta alla prova della scheda urbanistica, per verificare se in quel luogo sono stati posti dei vincoli. Oppure alle soprintendenze, che hanno 60 giorni di tempo per rispondere o far scattare il silenzio-assenso. Ma ci può essere la necessità di chiedere un’integrazione dei documenti. «Si spendevano 140 mila euro all’anno di raccomandate » spiega l’assessore «adesso invece facciamo le richieste attraverso la Pec».
Ma il tentativo di digitalizzazione non si ferma qui. «Abbiamo un sistema online» aggiunge Caudo, che si chiama Sicer, raggiungibile con un codice di accesso, dove si può capire il livello di lavorazione. E c’è già programmata una “cornice” che potrà contenere via via i documenti digitalizzati. Perché oggi purtroppo quasi tutta la documentazione è cartacea».
«Già adesso» afferma Apostolo «dal momento del sollecito alla concessione, se non ci sono ostacoli passano solo pochi mesi ». «E abbiamo intenzione» afferma Caudo «di aggiungere ai 45 istruttori al lavoro altri 80».
Nel 2014 il Comune ha incassato dai condoni quasi 19 milioni di euro, ma delle circa 11 mila pratiche lavorate, 2354 non sono state ritirate, con le 1105 non ritirate nel 2013 si arriva a circa 23 milioni. Dal 2007 al 2012 se ne contano altre 5730 per un valore di 7 milioni. In tutto 30milioni di euro.
«Manderemo una lettera» conclude il responsabile dell’Urbanistica «in cui li avvisiamo che potranno rateizzare fino a 4 anni. Se continuano a non ritirarla spiegheremo a quali conseguenze si espongono, di certo c'è, come ha chiesto il sindaco, che noi vogliamo dichiarare chiusa la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio».