Breve storia del rapporto di amore-odio fra una città e i suoi canali, nati in un contesto che era diventato irriconoscibile con la crescita e le trasformazioni. Ma è impossibile davvero tornare indietro. Corriere della Sera Milano, 15 febbraio 2015, postilla (f.b.)
Amati (da Stendhal) e odiati (dal Manzoni). Chiusi per salute pubblica con la «tombinatura» ordinata da Mussolini che innescò reazioni di giubilo (ma anche di critica) in città. Quei Navigli «pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi», quei Navigli «pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare».
Far rivivere il Naviglio di Milano, ovvero scoperchiare quel lungo tratto di «fossa interna» che dal Ponte delle Gabelle e da via San Marco, attraverso via Fatebenefratelli, raggiunge piazza Cavour e via Senato, e poi lungo la circonvallazione interna, arriva in via De Amicis e fino alla Darsena, per ricongiungersi con i grandi canali. Sarebbe come dar corpo a un sogno, anche ai sogni della letteratura, che ha cantato i Navigli attraverso le pagine di Stendhal e di Bacchelli o anche li ha detestati, come il più milanese (e il più italiano) di tutti gli scrittori moderni, Alessandro Manzoni, che in un epigramma antologizzato in un volume a cura di Franco Brevini si era così lamentato di quelle «fogne a cielo aperto»: «Del sole il puro raggio / rotto dall’onda impura / sulle vetuste mura / gibigianando va». In epoca di espansione (e speculazione) edilizia quel romantico canale che soprattutto nei periodi di secca e di caldo portava olezzi e sporcizia non piaceva più alla parte più illuminata della città. Tanto che un altro grande spirito milanese, il riformista socialista Filippo Turati, cantava ironicamente sempre in versi il tombone, anzi il Tumbùn, di San Marco: «Sul gorgo viscido / chiazzato e putrido / sghignazza un cinico raggio di sol… carmami squallidi di vecchi, macabre / parvenze, ruderi / d’umanità». Turati alludeva ai troppi suicidi che la cronaca registrava proprio in quel cantone, all’angolo con il complesso industriale del Corriere della sera di via Solferino.
Fu così che i giornali del 1929 (certo all’epoca non c’era grande libertà di critica) accolsero con articoli di giubilo la decisione del Comune di chiudere la «fossa interna»: «Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione…». Per un paradosso la chiusura del Naviglio interno mise d’accordo un positivista come Turati, che fu costretto dal regime a fuggire in Francia, con l’irregimentato clinico Baldo Rossi che sul Popolo d’Italia , giornale di Benito Mussolini, plaudì in latino all’impresa: «Salus publica, suprema lex».
Non mancavano comunque voci di dissenso: la protesta del sovrintendente alle belle arti Ettore Modigliani, anche a nome degli «Amici del Naviglio» durò il tempo della breve udienza concessa dal podestà Giuseppe Capitani d’Arzago. Un diktat del ministero mise tutto a tacere. Così in lunghi articoli, per esempio sul Corriere del 19 agosto 1929, si potevano leggere elogi della «città che si rinnova»: «i vecchi milanesi possono testimoniare quanto opportuna sia stata l’opera del piccone»… «c’è una poesia dei ricordi ma ce n’è anche un’altra a saperla intendere, quella del lavoro che si afferma, del vecchio che non sempre scompare, perché spesso si tramuta migliorandosi. E sopra tutto c’è quella della nuova luce, della maggiore aria dell’accresciuta difesa igienica, che le esigenze di una grande città impongono a un certo momento della loro vita, inderogabilmente».
Per esprimere il proprio dissenso l’architetto Luca Beltrami, autore del restauro del Castello Sforzesco, nonché padre della sede del Corriere , dovette chiedere l’ospitalità del fiorentino «Marzocco». La copertura della «fossa interna» costò 27 milioni di lire, oltre ai 20 milioni necessari per realizzare un nuovo canale di scolo. La copertura del Naviglio non resse a lungo all’usura del tempo se già negli anni 60 cominciarono a comparire delle pericolose crepe. Così il Corriere sulle pagine milanesi del 16 settembre poteva annunciare: «La fossa dei navigli sarà riempita di terra con una spesa di 800 milioni». E in una foto pubblicata il 10 febbraio 1968 si vedevano il sindaco Aldo Aniasi e l’ingegnere capo del Comune Antonio Columbo in visita al cantiere sotterraneo. Intanto sempre per motivazioni igieniche e per incompatibilità con la nuova vita di Milano, nel 1963 era stato deciso di chiudere la Darsena («non fa respirare per 40 giorni»), considerata per tonnellaggio delle merci il «sesto porto d’Italia», scriveva l’edizione milanese dell’ Avanti! del 25 luglio.
Le esigenze del traffico erano diventate più urgenti di quelle igieniche, così il 16 ottobre 1970 il Corriere annunciò la scomparsa del Ponte delle Gabelle per collegare con una sopraelevata via Melchiorre Gioia. Addio alle chiuse progettate da Leonardo da Vinci, non restavano che i ricordi letterari come quello spiritoso di Giuseppe Marotta che in «A Milano non fa freddo» si chiedeva: «Batto col piede sull’asfalto di via Francesco Sforza e dico: vecchio Naviglio, ma ci sei davvero qui sotto?». O le rievocazioni di giornalisti cultori della memoria come Leonardo Vergani e Gaetano Afeltra, che in splendidi articoli (da antologia) ricordavano l’ultimo barcone che il 15 marzo 1929 scaricò i rotoli di carta per la stampa del Corriere al Tombone di San Marco e poi «svoltò definitivamente dalla cerchia verso la conca di Viarenna».
postilla
In una breve rassegna degli atteggiamenti cittadini nei confronti dei Navigli ovviamente non poteva starci tutto, ma forse oggi ha più senso citare l'avversione di un conservazionista come Luca Beltrami (l'inventore del Castello Sforzesco “falso antico filologico” che conosciamo oggi) per la tombatura dei canali, e tralasciare invece tutta la serie di progetti ingegneristici accumulata in era industriale, e che in buona sostanza anticipavano l'intervento di trasformazione degli anni '30. Per capire meglio quella copertura, forse per un urbanista sarebbe utile soffermarsi ad esempio sulle pagine di “Ciò Per Amor”, il piano vincitore del concorso 1926-27, firmato da Piero Portaluppi e Marco Semenza, che anticipa di fatto l'idea di città integrata dalle strade e dai veicoli privati dei decenni successivi. Non c'è spazio, in quello schema o nei successivi, per una barriera come quell'anello, scavalcato solo nelle strozzature dei ponti, e che cinge la zona storica dai valori immobiliari più elevati, quella su cui si concentrano gli appetiti anche dei progettisti, e basta farsi una passeggiata per contare gli interventi degli architetti famosi uno accanto all'altro, su una sponda o l'altra dell'ex Cerchia dei Navigli. E tutte queste trasformazioni trovano senso esattamente nel contesto a cui si riferisce quella tombatura, e che dipende dalle medesime evoluzioni recepite dai piani regolatori. Esattamente come nel XIX secolo si pensava di sostituire alle acque un tunnel o un percorso tranviario in trincea, proprio nell'epoca in cui la città si costruiva sulle linee di forza dei binari di mobilità locale o regionale. Insomma, se si volesse davvero scoperchiare la fossa dei Navigli tutto attorno al centro storico, forse invece di guardarsi indietro sospirando, e sognando sciocchi revival antistorici (che lasciamo volentieri alle cartoline o alle rubriche di qualche pubblicazione da anticamera) si dovrebbe prima riflettere sull'idea di città, mobilità, relazioni. Perché agire per comparti non avvantaggia nessuno, e infatti non è mai accaduto, un motivo ci sarà pure (f.b.)