Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2015 (m.p.r.)
Dovrebbero essere tutelati senza se e senza ma e soprattutto ringraziati i funzionari della Sovrintendenza di Siracusa per avere protetto dall’assalto del cemento l’intera area ricadente all’interno delle Mura Dionigiane, patrimonio archeologico della Magna Grecia riconosciuto dall’Unesco, e invece rischiano di essere condannati, assieme alla Regione siciliana, a pagare un risarcimento record di 240 milioni di euro se il Consiglio di Giustizia Amministrativa, nell’udienza fissata per il prossimo 16 dicembre, ribalterà la sentenza del Tribunale amministrativo regionale di Catania, dando così il via libera alla realizzazione di 71 villette a schiera in un’area, il pianoro dell'Epipoli, protetta (perché di inestimabile valore storico archeologico) da un vincolo assoluto di inedificabilità posto con un decreto ministeriale che risale addirittura al 1959: il Castello Eurialo, che domina l’intera area archeologica, è l’unica fortezza greca di quel periodo esistente al mondo.
Duecentoquaranta milioni di euro è la cifra del risarcimento fissata da una consulenza affidata non a un urbanista ma a un luminare dell’ingegneria aerospaziale, docente all’Università La Sapienza di Roma, depositata l’altro ieri nel procedimento avviato dall’impresa Am Group della famiglia Frontino, che ha chiesto i danni dopo il divieto opposto dalla Sovrintendenza in forza di quel vincolo sostenendo di avere pronti i compratori delle villette nel sultanato dell’Oman. E dopo avere avuto torto in primo grado, il paradosso è che a decidere in appello saranno anche due membri del Consiglio di giustizia amministrativa che il Tar, la cui sentenza dovranno esaminare, ha ritenuto illegittimamente nominati: sono Titti Bufardeci, deputato regionale indagato dalla procura per le spese pazze dei gruppi parlamentari, ed Elisa Nuara (entrambi rimessi in sella proprio dal Consiglio di Stato), fedelissima, come il figlio Gian Carlo Maria Costa, del presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, del quale è stata anche vice sindaco di Gela. Si, perché in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni, il Cga oltre che di togati, è composto anche da membri laici nominati dall’amministrazione regionale e dunque dalla politica.
Ad avallare quel piano con la propria firma, che per il consulente aerospaziale oggi giustifica il risarcimento, fu la funzionaria regionale Mariella Muti, pensionata baby a 55 anni con la legge 104 per curare la madre; qualche mese dopo trovò però il tempo per fare addirittura l’assessore nella giunta di centrodestra nella città aretusea: «Fare l’assessore - dichiarò in un’intervista al settimanale Panorama - non è poi così impegnativo». Un avallo che ignorava le parole del sovrintendente Bernabò Brea, che nel ‘47 si era battuto per apporre a quell’area il vincolo di inedificabilità assoluta sostenendo che «la cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono per Siracusa solo un lusso o l’adempimento di un dovere verso la cultura, ma un’intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico». Seguirono le convenzioni con la Am Group firmate dal capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Mauro Calafiore, cui la vicenda non portò fortuna.
Nel luglio scorso la procura guidata da Paolo Giordano gli ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per corruzione e sfruttamento della prostituzione: avrebbe consentito la stipula di un’altra convenzione urbanistica in cambio di prestazioni sessuali di prostitute romene. L’ultima parola tocca adesso ai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa riuniti il 16 dicembre, anche se il pool di avvocati di Legambiente sta programmando l’ultima contromossa: «Chiederemo la sostituzione del consulente - osserva l’avvocato Corrado Giuliano - nella perizia vi sono diversi svarioni di diritto, disattenzioni nell’esame dei documenti di Legambiente e si salta totalmente la provenienza dei documenti provenienti asseritamente dall’Oman». Il legale prosegue e aggiunge: «Si tratta di errori che non sorprendono alla luce delle competenze aerospaziali del perito».
Riferimenti
L’articolo di Franca Levorotti sulla salvaguardia delle Apuane richiede da parte mia alcune precisazioni.
Oltre a essere chiamata direttamente in causa dal testo, credo infatti di avere qualcosa da dire in merito ai contenuti del Piano paesaggistico della Toscana, approvato nella scorsa primavera dopo una concitata fase di emendamenti e controemendamenti, e oggetto di numerosi e opposti ricorsi con riferimento alla disciplina delle attività di escavazione nelle Apuane. Diverse imprese concessionarie di attività di cava hanno infatti presentato ricorsi al TAR contro i dispositivi previsti dal Piano per garantire la tutela paesaggistica delle aree interessate da attività estrattiva, mentre alcune associazioni ambientaliste prevalentemente locali hanno presentato un ricorso al Presidente della Repubblica per la supposta mancata tutela.
Nessun piano è perfetto, come noto, anche perché le garanzie previste a tutela dei diversi interessi nelle procedure di approvazione danno modo di apportare successive modifiche rispetto alle ipotesi iniziali, in questo caso le proposte approvate dalla giunta regionale. E io stessa, con grave scandalo dei più, non mi sono tirata indietro nell’esprimere le mie valutazioni in merito alle vicende che hanno interessato il Piano, intervenendo in Consiglio Regionale in sede di approvazione dello stesso (cfr., oltre a eddyburg che ringrazio per avere a suo tempo prontamente pubblicato il mio intervento, Anche A.Marson, "Il percorso di approvazione del Piano paesaggistico della Regione Toscana", Il Ponte, LXXI n.7, luglio 2015, pp.63-73). Nello specifico, con riferimento alle Apuane, sarei stata felice se si fosse riusciti a far approvare norme di maggior tutela, ma ritengo che il Piano approvato segni comunque un avanzamento rispetto alla precedente indeterminatezza.
Anche gli scempi paesaggistici richiamati, ad esempio quello già avvenuto al picco di Falcovaia, hanno infatti avuto luogo non soltanto a tutele di legge già vigenti, ma anche a Parco regionale delle Apuane già istituito (allora come ora privo di un piano del parco, e il cui Presidente, di cui Legambiente aveva chiesto pubblicamente le dimissioni, non ha esitato ad attaccarmi pubblicamente perché intendevo tutelare le Apuane).
E’ questa la ragione per cui, quando a suo tempo Franca Leverotti mi annunciò l’intenzione di promuovere un ricorso contro il Piano, le scrissi che non condividevo, poiché rischiava di passare il messaggio politico che è meglio non provare nemmeno a “sporcarsi le mani” per regolare interessi contrapposti con un piano. Meglio accontentarsi di: un Parco (cui spetta esercitare le tutele ambientali) che non pianifica; funzionari delle Soprintendenze che non sono in grado di conoscere approfonditamente, tanto meno di fare sopralluoghi alle cave oggetto di autorizzazione paesaggistica; autorizzazioni all’escavazione concesse da singoli dirigenti comunali.
Il Piano paesaggistico, in uno spirito riformista (giacché le rivoluzioni non si fanno con i piani, meno che meno con quelli approvati dalle assemblee elette con i metodi della democrazia rappresentativa) finalizzato a conciliare tutela del paesaggio e dei lavoratori, ha introdotto a questo riguardo un combinato disposto di requisiti più avanzati: l’obbligo di approvare in Consiglio comunale appositi piani attuativi di bacino per le attività di escavazione (ammettendo soltanto, in assenza di questi, limitate possibilità di ampliamento all’interno dei perimetri già autorizzati); un quadro conoscitivo di riferimento comune a tutti gli enti che intervengono nel procedimento; l’obbligo di valutazione paesaggistica per tutte le nuove attività; la chiusura di alcune cave e il divieto di aprirne di nuove sopra ai 1200 metri, per non citare che alcuni dei dispositivi introdotti ex novo.
Gran parte degli emendamenti passati in commissione, tendenti a scardinare le regole di tutela introdotte dal Piano a questo riguardo, sono stati oggetto di una revisione condivisa fra Regione e Ministero dei beni culturali poco prima del voto finale, per mantenerne la valenza originaria.
Si poteva fare di più? Nel momento dato, con le forze presenti in campo nei diversi schieramenti politici e istituzionali, dubito assai, dal momento che l’obiettivo politico dei numerosi oppositori era quello di far saltare non solo le norme per le Apuane, ma l’intero piano. I numerosi ricorsi presentati dalle imprese di cava dimostrano come il Piano contenga comunque, nel suo insieme, norme finalizzate a garantire anche per le Apuane una maggior tutela di quella finora garantita in assenza del Piano stesso.
Quanto alla presunta “latitanza” delle associazioni ambientaliste più importanti (Italia Nostra, Legambiente, WWF e Fai), pur non potendo rispondere in vece loro mi limito a ricordare che non di latitanza si tratta, ma della mancata condivisione dell’azione di ricorso contro il Piano. Mi risulta per di più che queste stesse associazioni abbiano di recente costituito un “Coordinamento apuano”, con l’obiettivo di seguire attentamente tutte le procedure di autorizzazione in corso, anche al fine di verificare se e come le nuove norme introdotte dal Piano vengano applicate da chi di dovere. Personalmente non posso che ringraziare il coordinamento delle associazioni per questo impegno quotidiano, assai più faticoso di un ricorso al Presidente della Repubblica, che mi dà il senso di non aver lavorato e sofferto invano.
E’ notizia delle scorse settimane che il PIT toscano, già oggetto di ricorsi al TAR da parte di alcuni concessionari di cave, è stato impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da alcune associazioni ambientaliste: Mountain Wilderness, Amici della Terra, SIGEA, VAS, LIPU, CAI regionale, Centro Cervati e La Pietra Vivente.
Stupisce innanzitutto che le associazioni “storiche” (Italia Nostra, Legambiente, WWF e anche il più giovane FAI) non abbiamo aderito: una latitanza che contraddice vistosamente lo Statuto fondativo di alcune e soprattutto non è in linea con l’intensa attività mediatica a supporto di Anna Marson intrapresa da alcune di loro nei mesi precedenti. Stupisce anche il silenzio stampa di alcune penne di punta del giornalismo italiano contattate personalmente: una libertà “limitata” di scrittura che vediamo come un segnale assai preoccupante.
L’impugnazione di questo piano trova le sue radici nel fatto che relativamente all’area del Parco le norme del PIT violano l’articolo 142 del Codice in tutti i suoi commi, le leggi di tutela dei Siti Rete Natura 2000, le leggi di tutela delle acque superficiali e sotterranee ed il principio di precauzione. Le deroghe infatti stabiliscono che si può continuare l’attività estrattiva e ampliare i bacini estrattivi; si possono riaprire le cave chiuse, senza limiti di tempo, ovvero anche quelle rinaturalizzate e abbandonate per la cattiva qualità del tempo, oggi superabile con la produzione del carbonato di calcio.
Ebbene NON era questo l’intento del PIT, basta leggere l’audizione di Anna Marson al Consiglio Superiore del Beni Culturali, il solo testo relativo all’accordo con il MIBACT rimasto disponibile in rete (dato anche questo assai preoccupante) laddove dichiarava che la Giunta Regionale aveva stabilito che le cave nel Parco, esaurita l’autorizzazione in corso, andassero riqualificate e poi definitivamente chiuse, mentre le cave fuori dal Parco non potessero andare sulle vette e sui crinali, auspicando in merito una presa di posizione solidale del Mibact.
Chi ha manomesso il PIT? La risposta ancora una volta è nella dichiarazione di Anna Marson a PIT approvato e presente nel sito di Eddyburg, laddove richiama dapprima il conflitto «tra interessi collettivi e interessi privati, poi la presenza di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico», denunciando anche la «partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del consiglio regionale ed esplicitando tra i motivi di depotenziamento del piano che «nelle Apuane (sono state) cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni».
Nessuno ha smentito l’Assessore; anzi le sue accuse hanno trovato conferma nella dichiarazione dei concessionari riportata nel giornale “Versilia produce” di aprile 2015, laddove specificano che hanno ottenuto “soltanto”:
a) l’eliminazione della carta delle vette e dei crinali (che trova appunto la sua ragion d’essere nell’audizione al Consiglio Superiore del MIBACT);
b) lo stralcio della limitazione temporale per la riattivazione delle cave chiuse in area Parco e sopra i 1.200 (aree protette dal Codice!);
c) la semplificazione delle linee guida per la valutazione della compatibilità paesaggistica;
d) il coordinamento tra autorizzazione paesaggistica e valutazione di compatibilità paesaggistica.
Quale seria valutazione paesaggistica ci possiamo aspettare, dopo le manomissioni dei tecnici dei concessionari di cava ai punti c) e d) ? Non illudiamoci che le “nuove linee” fermeranno il disastro; sono note le autorizzazioni rilasciate dal Parco in conferenza dei servizi: i dinieghi diventano prescrizioni e gli abusi vengono differenziati in abusi permissibili o non permissibili.
Questi sono i fatti ricostruiti su base documentaria, ma un professionista competente, ignaro degli eventi, non può non rimanere sconcertato dalla lettura dei contenuti del PIT non solo e non tanto per il sistema delle deroghe che inficiano tutte le tutele che coprirebbero le Apuane, ma a partire dal fatto che questo PIT non è stato sottoposto a Valutazione di Impatto Ambientale, valutazione inderogabile per un Parco, ricoperto da una ZPS cui si sovrappongono 10 SIC , e dove si prevede l’ incremento esponenziale delle attività estrattive.
Sorprende anche che nel testo del PIT si precisi genericamente che le Apuane «sono interessate da numerosi geositi, quando i geositi sono almeno 253 puntuali e lineari (9 campi carreggiati, 5 campi di doline; 14 cordoni morenici; 37 cavità carsiche; 24 doline; 3 marmitte; 17 circhi glaciali; 25 picchi; 20 creste ecc.). Altrettanto anomalo è trovare scritto in un piano che dovrebbe garantire la tutela del paesaggio che sino all’approvazione dei piani di bacino ed entro tre anni sono consentiti, previa valutazione paesaggistica regionale, ampliamenti delle aree estrattive all’interno del perimetro autorizzato non superiori al 30% del volume consentito dall’autorizzazione vigente, se l’autorizzazione è in scadenza e se è stato esaurito il quantitativo concesso. E’ consentita altresì la riattivazione di cave e rinnovi per volumi non superiori al 30% di quanto consentito nell’ultima autorizzazione. Questo sarà concesso una sola volta». Siamo in un contesto di Piano paesaggistico o di Piano estrattivo?
Nel caso del comune di Minucciano «in considerazione del valore economico e sociale che le attività estrattive anche sopra i 1.200 m rivestono per Minucciano si consente di proseguire lo scavo anche sopra i 1.200 metri, garantendo il minor impatto paesaggistico, a TUTTE le cave del Comune comprese nei Bacini 2, 3, 5. Le cave attive del Comune di Minucciano sono 19 (10 di queste sono sopra i 1.200 m), quelle inattive (che al momento non hanno trovato acquirenti) sono 7; non conosciamo il numero delle cave inattive censite nel piano regolatore del Comune. Da un’intervista al Sindaco Poli, dopo la sua elezione, si ricava che nelle 10 cave dei bacini di Orto di Donna e Acquabianca sono OCCUPATI 20 operai. Deroghe sono concesse anche all’Henraux per il bacino dell’Altissimo quando sono in corso processi con la locale ASBUC che contesta alla ditta la proprietà di ben 378 ettari rispetto ai 540 rivendicata dalla società . Continuerà così l’attività estrattiva che ha ridotto ad un mozzicone il picco di Falcovaia alla cava delle Cervaiole, il cui ravaneto ha sepolto una sorgente e imbianca periodicamente il canale del Giardino (non compreso stranamente nell’area Parco, ma interno al SIC 18), dove vive una specie protetta: la Bombina pachypus ( valutata In Pericolo (EN) nella recente Lista Rossa redatta dal Comitato Italiano IUCN). Infatti il recupero dell’estesa discarica di cava e del reticolo idrico sottostante si intendono raggiunti con l’utilizzo di tecniche meno impattanti (forse lo scavo in galleria?) e con <<interventi di risistemazione ambientale e paesaggistica durante e al termine della coltivazione». Sarebbero i primi interventi di risistemazione attuati dal 1997, anno di creazione del Parco, ma risulta difficile pensare ad una loro realizzazione contemporanea all’escavazione.
Sempre nell’Altissimo, sono state riaperte a partire dal 2010, in area Parco, ben 3 cave: il ravaneto della cava Macchietta (cava in galleria a m. 1081 ) sta compromettendo la sorgente della Polla; la cava Mossa è stata ri-aperta nel 2013 nonostante il parere negativo della Provincia di Lucca; la cava Buca è stata ri-aperta nel 2013 nonostante la presenza, accertata tramite georadar, di numerose fratture. Ma già la strada che conduce alla cava Cervaiole era stata realizzata senza l’autorizzazione del Parco: pochi esempi per mostrare il comportamento anomalo del Parco.
Alla Cooperativa dei beni comuni di Levigliani che coltiva le cave nella logica della valorizzazione e del mantenimento delle risorse per le future generazioni, il PIT dei concessionari consente «L’ampliamento delle attività estrattive esistenti, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in deroga all’art. 10 della Disciplina dei beni paesaggistici, subordinato all’individuazione di specifiche modalità di coltivazione che riduca al minimo gli impatti sugli elementi della morfologia glaciale»: siamo al di sopra dell’Antro del Corchia. Si tratta del complesso carsico più lungo d’Italia (oltre 60 km esplorati ad oggi) e uno dei più importanti d’Europa: uno dei caposaldi del Geoparco (geosito n. 194) e al quale l’ISPRA ha dedicato il volume The Corchia cave (Alpi Apuane). Il Pit della Marson descrive questa stessa area caratterizzata dalla presenza di rilevanti valori naturalistici (elevata concentrazione di habitat e specie di interesse comunitario e/o regionale, presenza di Siti Natura 2000), geomorfologici (circhi glaciali e vasti complessi carsici ipogei ) e paesaggistici.
Non sono ammesse autorizzazioni all’escavazione nel Retrocorchia» recita il PIT, ma qui si scaverà ancora perché si prevede “la riqualificazione paesaggistica della cava e della discarica del Retrocorchia”, nonostante un progetto di ricerca sulla valorizzazione delle biocenosi esistenti, finanziata dall’ente Parco con Delibera Dirigenziale 50/2007 e 32/2009.
Questi pochi esempi rendono comprensibile – spero- il ricorso delle associazioni ambientaliste di nicchia contro il PIT, limitatamente all’area del Parco, e spiegano anche l’appello che le stesse hanno rivolto tramite il Gruppo di Intervento Giuridico onlus, al Presidente della Repubblica affinchè il PIT manipolato venga azzerato ed il Parco delle Alpi Apuane possa godere di un PIT conforme alle leggi dello Stato.L'autrice è stata Consigliere nazionale di Italia Nostra ed è referente del presidio Apuane del Gruppo di Intervento Giuridico onlus
La proprietà privata deve arrestarsi alla soglia dei beni pubblici che per la Storia, l’Arte e la Cultura hanno un valore non commerciabile. E’ dimostrato che abbattere il debito pubblico –nazionale e locale- con le privatizzazioni è illusorio, irrimediabilmente inutile.
Pertanto, va abbandonata tutta la filiera della cosiddetta ‘cartolarizzazione’ (già repellente nel nome) per i suddetti beni. I quali, essendo di tutti, perché pubblici, non possono essere alienati senza il diretto consenso dei legittimi proprietari che andrebbero perlomeno interpellati tramite referendum nazionali/locali. La vicenda della “Cavallerizza” dimostra proprio questo: la cittadinanza non intende delegare al Sindaco e alla sua Giunta la vendita di beni riconosciuti di alto pregio (la “Cavallerizza” è bene dell’umanità, secondo l’Unesco) se non per volontà del popolo (Paolo Maddalena). Il mandato agli amministratori tramite il voto, riguarda la gestione dei beni comuni nell’interesse dei cittadini, non la loro alienazione/svendita. Se i cittadini intendessero iquidare il proprio patrimonio, cercherebbero figure più professionali e specializzate in ambito immobiliare/commerciale, non certo politici.
La destinazione d’uso di un bene -che resta pubblico- può certamente comprendere, al suo interno, attività private, sponsorizzazioni private, concessioni a privati sulle quali, però, decide autonomamente il pubblico, mai estromesso dalla sua proprietà, mai condizionato né succube della speculazione da capitale privato.
Nel caso specifico, mi pare non eludibile la destinazione di generale struttura culturale e artistica (produzione, formazione, ricerca e manifestazione) e sede di ‘borgo’ universitario e degli artisti con le sue residenze studentesche, le comuni zone-studio, i laboratori e gli studi professionali, i magazzini per artisti, artigiani e ospiti esperti; le botteghe e i ristori per la vita (e la vivacità) della collettività resa omogenea dall’impegno per il sapere e il saper creare.
Sono certo che Sindaco e Giunta, se non fossero ossessionati e ricattati dal buco di bilancio, sarebbero d’accordo. Ma, intanto, dovrebbero convincersi che con la “Cavallerizza” quel buco non lo tapperanno mai e che non si usano i capolavori di un’intera civiltà per sanare i debiti. La risposta la conosciamo: “Chi paga?”. Intanto gli sponsor. Esempi sono il Colosseo e la scalinata di Trinità dei Monti che non sono diventati di proprietà di Della Valle e di Bulgari. Inoltre, occorrerebbe impegnarsi in una campagna locale per l’”Art Bonus” Sono anche convinto che se si lanciasse una tassa di scopo per la tutela e la rivitalizzazione della Cavallerizza (come per gli altri ‘gioielli’ della città), avrebbe successo così come la destinazione del ‘5 per mille’ espressamente finalizzata ad essi.
Tutto questo è possibile ma c’è un dovere per una nazione come l’Italia ed è quello del censimento e classificazione per la riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’eccellenza del patrimonio storico architettonico che va inesorabilmente in rovina. Per rispondere a tale dovere va organizzato un apposito ministero non mescolabile con turismo, eventi, fiere, musei, ecc. ma specifico e concentrato su un solo obiettivo.
L’Italia, dal punto di vista della conservazione di tale patrimonio è in una situazione analoga a quella post-bellica che aveva quale priorità quella della ricostruzione. La “Cavallerizza” non è bombardata (è come se lo fosse) ma ha bisogno di tornare allo splendore del suo progetto originario negli esterni e di essere ristrutturata negli interni per essere abitata in nuove funzioni, in sicurezza, con nuovi requisiti, impianti, servizi logistici, ecc. Sono interventi di un livello tale che hanno bisogno di un apposito Ministro e Ministero con portafoglio, di un apposito capitolo costantemente previsto e finanziato tutti gli anni nella legge di stabilità. La mappa degli interventi del ‘livello Cavallerizza’ avrebbe dovuto essere redatta dagli anni ’50. L’incuria ha accumulato un danno enorme. A tanta inadempienza non si risponde svendendo la propria inestimabile ricchezza all’asta. Si accantonano, anno dopo anno, le somme necessarie a portare a termine un programma (ventennale?) di riacquisizione dell’integrità di quel tesoro i cui frutti ripagheranno- anche economicamente- ampiamente della spesa e per sempre.
Intanto, con la “Cavallerizza” che si fa?
1) Il Comune delibera la sospensione, per un anno, di ogni trattativa commerciale relativa agli immobili e
2)la recessione dalla loro cartolarizzazione;
3) il sindaco di Torino, in qualità di presidente dei comuni italiani (ANCI) si fa promotore presso il governo per l’istituzione del nuovo ministero e
4) presso il ministro Padoan per l’inserimento nella legge di stabilità 2016-17 del programma pluriennale di finanziamento del suddetto ministero;
5) sempre Fassino, si attiva presso le istituzioni deputate all’ottenimento dei finanziamenti europei su programmi relativi alla tutela e riuso di opere di alto valore storico/culturale/urbano e
6) si impegna, in qualità di membro del consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti, affinchè siano ridefinite la sua natura e le sue finalità, queste ultime a vantaggio dell’uso del risparmio collettivo per finalità socio culturali e territoriali come quella del recupero di cui sopra. Infine, si utilizza l’anno di sospensione per il compimento di tutte le fasi necessarie al compimento di tutte le fasi di progettazione dell’ utilizzo di tutto il complesso perché dal 2017 sia possibile dare inizio ai lavori per il suo tanto atteso recupero.
Un momento cruciale per garantire alla collettività la tutela e la fruizione, aperta all'universo mondo, di un eccezionale bene, che oggi rischia di tessere trasformato in un ghetto per ricchi. In calce un dossier da non perdere, e un appello cui aderire.
I fatti sono questi. L’Associazione, si è data uno statuto fondato sulla sostenibilità e la partecipazione, radicalmente innovativo ed interessante, in brevissimo tempo l’Associazione ha ricevuto un notevole numero di iscrizioni (circa 5000 persone) e ha raccolto in un fondo di scopo una somma ragguardevole (circa 450.000 euro) vincolata agli interventi di riqualificazione e manutenzione delle aree verdi di Poveglia. Se entro il 2015 l’Associazione non avrà ragionevoli prospettive di poter intervenire su Poveglia il fondo di scopo sarà restituito ai soci. Con evidente danno per Poveglia e per la collettività tutta.
Al fine di poter intervenire nell’isola l’Associazione ha avanzato alla Agenzia regionale del demanio una domanda di concessione per un periodo di sei anni durante i quali realizzare un programma di sistemazione delle aree verdi, miglioramento degli approdi, pulizia e manutenzione delle aree scoperte e messa in sicurezza con divieto di accesso delle aree costruite a rischio di crolli. Si tratta di un programma serio, nel quale impegnare i fondi raccolti ma soprattutto il lavoro volontario dei moltissimi soci che hanno messo a disposizione le loro competenze, il loro tempo e la loro voglia di trovarsi insieme. Ad oggi la risposta dell’Agenzia è stata dilatoria e sostanzialmente negativa.
Dunque il momento è assolutamente cruciale: occorre convincere l’Agenzia a dare in concessione le parti verdi dell’isola entro il 2015. L’Associazione si è mobilitata su molti fronti: dalla campagna “Ocio che rivo” dove una giraffa (animale che nel 1828 effettivamente soggiornò in quarantena a Poveglia sulla strada verso l'imperatore d'Austria e che destò grande stupore ed entusiasmo nella Venezia dell'epoca) catalizza l’attenzione sui fatti di Poveglia, alla raccolta di firme, alla informazione capillare sui social network e sui mezzi di comunicazione, alla sollecitazione dell’Agenzia del demanio perché consideri tutti i lati positivi, anche nelle logiche dell’Agenzia, della concessione a Poveglia per tutti.
Abbiamo bisogno della simpatia e del sostegno di tutti. Il dossier aiuta a far conoscere la vicenda, racconta i momenti essenziali della formazione dell’Associazione e dei suoi difficili rapporti con il Demanio. Il caso di Poveglia è inquadrato nel più generale problema delle isole veneziane, strette nella morsa tra privatizzazione e abbandono. Un quadro fatto dalla storia delle isole della Laguna già passate in mano a privati, per lo più trasformate in alberghi di lusso e sottratte all’uso pubblico, e dalla storia delle moltissime altre isole demaniali abbandonate all’incuria e al degrado. Compresa Poveglia da decenni consegnata all’ammaloramento, al saccheggio e allo sviluppo incontrollato della vegetazione dei rovi e delle specie invasive.
Se tutti insieme riusciremo a fare in modo che l’Associazione abbia la titolarità di una concessione dell’isola sarà un vantaggio per Venezia e per l’Italia, dove si vanno moltiplicando le iniziative dei cittadini per il mantenimento dei beni demaniali all’uso pubblico, al quale sono strutturalmente destinati. Tutti i livelli di governo a parole dichiarano, oggi, di voler promuovere le iniziative a favore dell’interesse pubblico che partono dal basso, dai cittadini e dalla loro voglia di coesione sociale. Poveglia è una occasione straordinaria per passare dalle parole ai fatti.
Se potremo realizzare gli interventi, la solidarietà collettiva, le iniziative culturali di cui è fatto il progetto di Poveglia per tutti saremo riusciti a non disperdere un prezioso capitale sociale, a costruire un rapporto tra cittadini e istituzioni all’altezza dei tempi e a realizzare concretamente la sola autentica valorizzazione economica e sociale dei beni pubblici: quella messa in atto dai cittadini e dalle loro relazioni.
Riferimenti
Questo collegamento vi permette di scaricare il dossier riccamente illustrato, prodotto dall'Associazione. Vi invitiamo inoltre a votare il progetto "Poveglia per tutti” che è tra i 40 progetti selezionati tra 700 presentati in tutt’Italia dal bando “CheFare”. Qui trovate il progetto, qui potete votarlo, e vi invitiamo a farlo.
Potete anche firmare qui la petizione “Perché l'Isola di Poveglia rimanga pubblica e ritorni fruibile a tutti”
Su eddyburg abbiamo raccolto numerosi articoli sull'isola di Poveglia. Potete raggiungerli facilmente digitando la parola "Poveglia" nella cella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento.
Alcuni bilanci economici parziali sugli effetti dell'evento Expo, letti da una certa prospettiva confermano un positivo orientamento dei visitatori, e un errore di impostazione, a dir poco molto conservatrice. La Repubblica Milano, 23 ottobre 2015, postilla (f.b.)
Nove Expo-turisti su dieci promuovono Milano. Lo dice un’indagine della Camera di commercio e del Comune su un campione di mille visitatori, che hanno ammesso di essere venuti in città proprio per l’Esposizione universale. Ma se il turista appare soddisfatto, lo sono meno i commercianti e i ristoratori che a poco più di una settimana dalla chiusura dei padiglioni lamentano l’assenza di un impatto da grande evento sui loro incassi.
I turisti dell’Expo venuti a settembre apprezzano non solo il Duomo, Brera e i Navigli, ma anche l’aperitivo, i servizi della città e in qualche modo lo stile di Milano. Il 55 per cento è italiano, gli altri vengono da Europa, Cina, Giappone e America.
Ma i ristoratori tutti questi turisti sostengono di non averli “sentiti”. Già durante l’estate locali e ristoranti avevano denunciato che la movida dell’Expo, con il biglietto d’ingresso a 5 euro alla sera, “rubava” clienti alla città. Oggi, a Esposizione quasi conclusa, confermano. «Ormai è finita e accenderemo un cero — si spinge addirittura a dire Giuseppe Gissi, vicepresidente vicario di Epam, l’associazione che raccoglie i pubblici esercizi — . Se togliamo piazza Duomo e la Galleria, le altre zone non hanno risentito di alcun beneficio, anzi sono andate giù. Non ce l’abbiamo con l’Expo, chiariamolo, ma con la movida serale che ci ha uccisi».
Anche i negozianti non fanno i salti di gioia: «I dati delle transazioni delle carte di credito dimostrano che tra luglio e agosto c’è stato un più 30 per cento riferito solo agli stranieri e nelle zone del Quadrilatero — dice Renato Borghi, presidente di Federmoda — mentre nessun aumento da parte degli italiani. Quindi l’effetto Expo c’è stato solo in pieno centro, mentre il commerciante medio come in corso Vercelli non ha avuto benefici. Ma sono convinto comunque — dice Borghi — che sia cresciuta la reputazione di Milano: gli effetti si raccoglieranno più avanti». In corso Buenos Aires è Gabriele Meghnagi di Ascobaires a dire che «gli incassi sono meno delle aspettative ma comunque viva Expo, è un investimento per il futuro».
L’assessore al Commercio e turismo, Franco d’Alfonso, soddisfatto invece dei riscontri sulla città, insiste che per non disperdere il patrimonio conquistato si lavora con gli operatori su pacchetti weekend per i turisti. E assicura: «Basta guardarsi in giro e l’effetto si vede, gli alberghi sono pieni. Le periferie magari non hanno avuto benefici, ma non sono mai il primo posto dove si va quando si visita un luogo nuovo. In città girano 350mila persone in più al giorno di media: Milano ha svoltato, è una città ormai stabilmente entrata tra le prime dieci mete turistiche d’Europa ».
postilla
In realtà, leggendo queste (prevedibili, scontate) lamentele dei bottegai del centro e meno del centro sul mancato «indotto Expo», non possono non tornare in mente le arroganti battute dei conservatori culturalmente destrorsi a suo tempo, ben riassunte da quella definitiva del rappresentante BIE: «un orto di melanzane non interessa a nessuno». Battuta che, anche al netto dei toni, liquidando l'autentico progetto originario coerente col tema Nutrire il Pianeta, prefigurava una serie di tradizionalissime scelte, espositive e organizzative: il baraccone del sito sul modello parco tematico suburbano, aspirapolvere di folle e interessi, e più in generale l'impostazione antiquata, assai diversa dal genere di pubblico che un tema come quello alimentare ed ecologico avrebbe potuto attirare. Ecco, questa quasi finale «delusione degli operatori» per il mancato innesco di certe vetuste economie turistiche pare indirettamente bocciare proprio quel taglio da Expo ottocentesca, e da turismo consumistico acchiappatutto un po' da boom economico. Potrebbe, anche questo aspetto, diventare oggetto di riflessione non contingente, sia sul futuro funzionale e strategico delle aree, sia su quello più generale del turismo urbano negli anni a venire (f.b.)
«Oggi si apre una fase processuale importante. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano». La Nuova Venezia, 22 ottobre 2015 , con postilla
«Un sistema al capolinea». Così scrivevano i giornali all’indomani degli arresti per lo scandalo Mose, il 5 giugno 2014. Una «bomba» esplosa a inizio estate, che per la prima volta metteva in discussione quello che per quasi trent’anni è stato il «pensiero unico». L’inchiesta che ha cominciato a far luce su un mondo fino ad allora poco esplorato.
postilla
La corruzione é certamente un aspetto rilevante dell'affaire MoSE: dimostra l'infimo livello di moralità dei corrotti (scelti dagli elettori per rappresentare gli interessi dei più), e il trasferimento del potere reale dalla politica a un'economia, quella capitalistica, basata sullo sfruttamento. Ma colpisce molto che venga trascurato l'errore più grave della politica e della cultura: non aver compreso quando si decise e via via si confermò il MoSE, e ancor oggi non si comprende, che cosa la Laguna di Venezia sia e come il MoSE (e non solo lui) la stia distruggendo. Su eddyburg trovate numerosi documenti che vi spiegano perchè a come: basta che digitiate MOSE sulla finestrella sensibile che trovate in cima a ogni pagina.
A cominciare da chi è corso in procura a consegnare l’esposto per gli scontrini, intravedendo nella classica buccia di banana giudiziaria l’occasione ghiotta di un bel bottino elettorale, non essendo riusciti a scalzarlo con le armi proprie della politica. Proseguendo con il presidente-segretario che, per interposti assessori, gli ha ritirato una fiducia che non era nella sua disponibilità dargli, dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, di tenere in nessuna considerazione il voto dei cittadini. Fino ai monsignori che, seguendo l’imprimatur papale, lo avevano scomunicato bocciandone la sindacatura con dichiarazioni roboanti sulle macerie romane.
E senza dimenticare gli autori della forsennata campagna mediatica che pochi prima di lui avevano avuto l’onore di ricevere, un’offensiva all’insegna del vibrante slogan «vogliamo un sindaco che tappi le buche di Roma». Il ritorno del dimissionario in Campidoglio effettivamente sarebbe un vero colpo di scena in una trama che sembrava ormai destinata a seguire un copione coerente con il trionfo dei terrestri contro il marziano.
La possibilità di un ritiro delle dimissioni l’ha fatta intravedere lo stesso Marino nella conferenza stampa convocata all’indomani del dettagliato resoconto offerto ai giudici sulla storia degli scontrini («se ho scritto che volevo prendere tempo per valutare, significa che lo pensavo e lo penso ancora»). Nell’incontro con i giornalisti il marziano ha respinto al mittente le accuse di aver rubato soldi pubblici bollandole come una violenta speculazione delle opposizioni (Fratelli d’Italia e 5Stelle) a corto di altri argomenti. Poi ha confermato che le sue dimissioni sono state motivate dal rispetto verso la magistratura chiamata ad accertare i fatti.
E mentre la sua ex maggioranza (Pd e Sel) ora si ritrova tra le mani la patata bollente, alle finestre di palazzo Chigi potrebbe arrivare l’eco delle mobilitazioni che la rete di sostegno (“Marino ripensaci”) minaccia di replicare sotto il cavallo di Marco Aurelio.
In fondo Marino era pur sempre salito al Campidoglio con il 64 per cento dei consensi dopo aver vinto le primarie del Pd. Per quanto i romani siano abituati alle millenarie scorrerie del potere, toglierlo di mezzo con un colpetto di palazzo potrebbe averne risvegliato l’anima irriverente. I famosi venti giorni di tempo per ripensarci scadono il 2 di novembre. Sufficienti a scatenare una nuova commedia romana.
Gli errori truffaldini compiuti da malgovernanti (in questo caso Berlusconi) ai danni del territorio e dei suoi abitanti qualcuno li paga: purtroppo mai cil maggiore colpevole. Il manifesto, 20 ottobre 2015
Esponenti della Protezione civile inquisiti per aver truffato la Protezione civile. Esponenti della Protezione civile che tornano e ritornano protagonisti di inchieste nell’Aquila del disastro. Stavolta è cominciata con un balcone crollato e, dopo poco più di un anno di accertamenti e consulenze, la Procura dell’Aquila ha chiuso l’inchiesta sul tracollo di quel balcone, in una palazzina del progetto Case (gli alloggi antisismici provvisori tirati su nel post terremoto) in località Cese di Preturo, sulle condizioni di centinaia di altri balconi e sulle modalità che hanno portato alla loro realizzazione.
Gli indagati sono 37, sospettati di aver imbrogliato e raggirato, per milioni di euro, Stato e Protezione civile. Le verifiche hanno portato al sequestro di 800 balconi in 494 appartamenti (su 4.500) delle 19 new town esistenti, che hanno ospitato oltre 16 mila sfollati e che ancora oggi danno ricovero a migliaia di cittadini. Le accuse, a vario titolo, sono di crollo colposo, truffa in pubbliche forniture e una serie di falsi. Nei guai progettisti, ingegneri, dirigenti del comune dell’Aquila, imprenditori di molte regioni d’Italia, collaudatori.
Secondo la magistratura il legno utilizzato e fornito per la costruzione dei balconi non risulta conforme alle prescrizioni normative, non presenta alcuna certificazione in merito all’idoneità e i pannelli multistrato non hanno alcun tipo di collante, il che ne riduce la resistenza nel tempo (una parte di essi sta marcendo). Gli indagati, a vario titolo, avrebbero indotto in errore la presidenza del consiglio dei ministri, Dipartimento della Protezione civile, che avrebbe erogato più di 18 milioni di euro. I pm, inoltre, contestano il danno procurato e di avere agito approfittando della situazione di necessità degli sfollati, del contesto emergenziale, e di aver commesso il fatto con abuso di potere. I residenti avrebbero più volte segnalato, agli uffici municipali, l’inconsistenza e la scarsa tenuta di quei balconi, ma nessuno li avrebbe mai presi in considerazione.
Tra gli inquisiti “celebri” Gian Michele Calvi, progettista e direttore dei lavori del progetto Case, e Mauro Dolce, direttore dell’Ufficio rischio sismico di Protezione civile e responsabile unico del progetto. I due sono imputati anche nel processo alla Commissione grandi rischi, riunita a L’Aquila il 31 marzo 2009, (in primo grado sono stati condannati a sei anni, in secondo assolti) per aver fornito alla popolazione, a una settimana dal devastante sisma, messaggi tranquillizzanti. Entrambi sono poi coinvolti nella vicenda degli isolatori sismici fallati, le ’molle’ installate sotto le palazzine del progetto Case, risultate inadatte allo scopo: Dolce è stato condannato a un anno, Calvi è ancora imputato.
Sarebbe ora che l'Unesco assumesse le sue responsabilità. Ma: 1) Mose e grandi navi hanno amici all'Unesco. 2) a Brugnaro non glie ne può fregà di meno. La Nuova Venezia, 18 ottobre 2015
Una buona notizia grazie un'iniziativa intelligente dei cittadini veneziani (e al Demanio statale). Forse salvato un importante bene pubblico nella Laguna di Venezia che correva il rischio di diventare un ghetto per ricchi come è successo per altre isole. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015, con postilla
Poveglia tornerà di nuovo all’asta, ma a condizioni diverse. Il nuovo bando potrebbe infatti essere redatto sulla base di quello appena lanciato per i fari, in modo cioè da favorire iniziative che partono dai cittadini, come la proposta dell’Associazione Poveglia. La notizia arriva proprio dal direttore nazionale del Demanio, Roberto Reggi, che giovedì ha incontrato nella sede romana una delegazione di quattro persone dell’associazione veneziana (Lorenzo Pesola, Giancarlo Ghigi, Sandro Capparelli e l’avvocato Francesco Mason).
postilla
Ci siamo occupati spesso dell'isola di Poveglia, una delle più interessanti della Laguna: per le sue dimensioni (con i suoi 7 ettari è una delle più vaste tra le "isole minori"), per la sua facile accessibilità (è a poche centinaia di metri dal Lido), per la presenza di molti edifici facilmente riutilizzabili (nell'antichità era un popoloso borgo), per l'ampio terreno utilizzabile per l'agricoltura, per gli antichi e ancora vivissimo legami con Venezia (è luogo di frequenti scampagnate). In questo sito trovate numerosi articoli sulle vicende recenti dell'isola: basta che scriviate "poveglia" sulla casella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento) e ottenete il collegamento a tutti gli articoli qui raccolti.
». Un’intervista cdi Ernesto Milanesi a Salvatore Settis. Il manifesto, 17 ottobre 2015
Una scomoda verità rimossa e la difesa costituzionale dei beni comuni. Salvatore Settis, 74 anni, archeologo e storico dell’arte, ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali (da cui si dimise nel 2009 in polemica con il ministro Bondi), offre il suo «segnavia» alla Fondazione Cariparo, che ha dedicato un appuntamento a «Beni culturali e mercato: missione (im)possibile?» al centro culturale San Gaetano di Padova.
«Le risorse per musei e siti, ricerca, scuola, università e cultura? È inutile nascondersi dietro un dito: l’Italia, in base ad una recente indagine dell’Unione europea, è seconda dietro all’Estonia nell’evasione fiscale fra gettito Iva previsto e quello incassato nel 2013 rispetto all’anno precedente. Si tratta, sempre secondo Bruxelles, di una somma pari a 47,5 miliardi di euro. Ecco dove i governi devono trovare i soldi!» sbotta fra gli applausi.
Per Settis fa fede sempre l’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»). Ma stride rispetto alla realtà: «Abbiamo 377 storici dell’arte nell’organico: 240 nei musei e 137 nelle Soprintendenze. Numeri che parlano da soli, soprattutto nel caso delle Soprintendenze che in un territorio capillarmente pieno di beni culturali si ritrovano con personale perfino minore di qualche museo americano e comunque con un’età media più vicina ai 60 che ai 50 anni, dunque vicina al pensionamento», evidenzia senza tanti complimenti.
Nel Nord Est il paesaggio è vittima dell’urbanistica senza scrupoli e dell’economia del cemento. Un’«emergenza» che stava a cuore ad Andrea Zanzotto e che continua ad impegnare comitati, associazioni, singoli. Che ne pensa?
«Il Veneto è una delle regioni più belle non solo d’Italia ma del mondo: possiede una civiltà, una tradizione culturale, architettonica e paesaggistica di prim’ordine. Ho l’impressione che una parte dei veneti la stiano dimenticando, in particolare quelli che poi finiscono a governare la regione e comuni molto importanti come Venezia. Negli ultimi decenni c’è stata una scandalosa «invasione» delle campagne: lo spargersi delle città come una marmellata che sta invadendo la campagna a dispetto del paesaggio. È molto doloroso dover constatare una scarsa reazione civica, anche perché si tratta di un gesto autolesionistico. Il Veneto ha una pianura fra le più fertili del pianeta, ma ha il primato dei capannoni costruiti anche se vuoti perché non c’è più industria. Una sciagurata scelta che ha finito per logorare l’attenzione, la sensibilità, il gusto e il senso civico».
Lei è stato in prima fila nella difesa degli affreschi di Giotto minacciati dal progetto di auditorium (ora definitivamente archiviato) dell’allora sindaco Flavio Zanonato. Qual è la distonia fra «cultori della materia» e pubblici amministratori?
«Solo chi non si fa troppi scrupoli né riflette abbastanza può immaginare qualcosa che metta a rischio la Cappella degli Scrovegni, un gioiello senza paragoni e patrimonio dell’umanità. Noto con grande preoccupazione che a tutti gli appelli in difesa di Giotto si reagisce sempre in modo tranquillizzante. La cripta della Cappella invasa dall’acqua? Il Comune di Padova dice di non preoccuparsi. Un fulmine colpisce l’edificio? Di nuovo: va tutto bene. Dobbiamo restare tranquilli finché non casca tutto? Credo che sia necessario, invece, tornare a uno straordinario rigore nella salvaguardia dei beni artistici e culturali: bisogna esagerare nella loro tutela proprio per essere sicuri di preservarli».
Il suo ultimo saggio è dedicato a Venezia: il «caso Mose» ha dimostrato la reale traduzione della salvaguardia?
«È un grande episodio di corruzione, davvero paradigmatico, che va ben al di là di disattenzione o errori. Nella vicenda Mose è rimasto coinvolto anche l’allora sindaco Orsoni, mentre Galan (ex ministro dei beni culturali) è ancora presidente della commissione cultura della Camera nonostante con il patteggiamento abbia ammesso le sue responsabilità. Ecco: Mose, Expo 2015 o Roma Capitale, dimostrano come, in un paese in cui l’attenzione civile è ridotta al lumicino attraverso «leggi speciali», la corruzione si installa in modo fisso e puntuale. Ciò spinge ad una riflessione ulteriore: con il moltiplicarsi dei comitati che si preoccupano del territorio, mi auguro che la coscienza della cittadinanza attiva riesca ad imporre più rigore a chi fa politica per mestiere».
Gestione dei beni culturali: una sfida sempre più ostica?
«ono un vero e proprio problema nazionale. Soltanto oggi si comprendono fino in fondo gli effetti della criminosa e irresponsabile decisione del governo Berlusconi nel 2008. Il dimezzamento dei fondi al ministero l’ho denunciato all’epoca per primo dalle colonne del Sole24Ore. Adesso chiunque si rende conto delle conseguenze. Senza dimenticare l’atteggiamento degli amministratori locali: il sindaco di Verona vuol mettere il tetto all’Arena come se fosse un circo equestre di plastica. E non è la prima volta che manifesta questa strampalata idea. All’inizio, tutti ci hanno riso sopra. Ma il sindaco ci riprova. E può essere che a furia di insistere, magari, alla fine ce la faccia.
Può valutare la strategia del ministro Franceschini? Qual è, secondo lei, la via migliore da perseguire nel «governo» dei beni culturali?
«Non so qual è il disegno che ha in mente il ministro. Tuttavia, proviamo ad essere ottimisti. La sua prima mossa è stata nei confronti dei musei. Lasciamo stare se i venti direttori siano le persone veramente adatte. Come pure i criteri per le nomine. Ma il governo, non solo Franceschini, deve far seguire immediatamente una seconda mossa: rafforzare davvero le Soprintendenze. Cioè dotarle di personale, farle funzionare e dimostrarne il ruolo cruciale. È il vero banco di prova. La più urgente necessità è far funzionare le istituzioni culturali mediante le persone. Comunque non basta: servono più risorse, ma anche uno stretto collegamento fra musei e soprintendenze. La peculiarità maggiore dell’Italia sono proprio le collezioni museali, espressione dei nostri territori.
«La Galleria dell’Accademia di Venezia non è un museo d’arte universale come il Louvre, ma riflette fondamentalmente la storia di quella città che non mi pare certo secondaria. Ed è lo stesso ovunque, da Parma a Lecce. Mi sento di aggiungere un’altra considerazione: non è che il «modello museale» italiano sia arretrato rispetto a quello degli Stati Uniti che rappresenterebbe la punta più avanzata. Se uno va in giro per New York vede tante belle cose, ma non troverà mai la Cappella degli Scrovegni. E c’è una ragione perché non la trova. A Padova, invece, ci sono i Musei Civici e Giotto. Il punto è mettere insieme il patrimonio di proprietà pubblica (statale o comunale) e privata in un disegno generale di tutela, valorizzazione e fruizione pubblica. Altrimenti, non solo mancheremmo alla nostra tradizione e missione, ma anche a ciò che dice la legge. E per la nostra Costituzione, Giotto appartiene a un siciliano tanto quanto ad un cittadino di Padova».
Grande feeling con Brugnaro, un’ora di faccia a faccia a porte chiuse. Il sindaco: "Ho grande fiducia, non ha fatto promesse ma ci aiuterà"». Dio prima li fa e poi li accoppia: in comune anche la cultura. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015
VENEZIA Il governo salverà Venezia. E il rilancio dell’Italia ripartirà dalla cultura [sic]. Il premier Matteo Renzi sbarca in laguna e offre l’assist al sindaco Luigi Brugnaro. «Non ci fa velo il risultato elettorale», dice, «il nostro ruolo istituzionale è di essere pronti e disponibili. Il governo farà la sua parte». Prima volta a Venezia dopo la campagna elettorale di primavera, in cui il Pd aveva sostenuto Felice Casson. Ma è andata diversamente da quello che il centrosinistra si augurava. E a Ca’ Farsetti adesso governa l’imprenditore Luigi Brugnaro. Che è riuscito dove non erano riusciti i suoi predecessori. E ha portato a Ca’ Farsetti, sede del municipio veneziano, il presidente del Consiglio per spiegargli l’emergenza Venezia. Oltre un’ora di incontro a porte chiuse. Poi Renzi affronta i giornalisti.
«Una critica radicale al produttivismo e al consumismo che va alla radice del problema ambientale, un problema cche non si risolve nell'opposizione tra sopravvivenza della Natura e declino della civiltà». Ciò che ci sembra si stia comprendendo oggi, ieri era già stato scritto.
Leggere Ecologia e libertà (di Andrè Gorz può stupire. Sì, perché è difficile sospettare che un libro scritto da un utopista francese, comunista eterodosso, quarant'anni fa, sia in grado di regalarci delle riflessioni così profonde sul nostro futuro.
Certo, nell'introduzione a firma del curatore – Emanuele Leonardi, ricercatore dell'Università di Coimbra – viene sottolineato come il libro appaia datato su certe “previsioni” e prospettive. Gorz scrisse il libro nel 1977, nell'Europa divisa dalla cortina di ferro, ed il mondo era profondamente diverso da quello in cui viviamo oggi. È scontato che il testo in alcuni passaggi risenta profondamente dell'epoca in cui fu scritto.
Meno scontato è che il libro nei suoi cardini fondamentali sia ancora in grado di affrontare il nostro futuro, di suggerire risposte e avvertirci di rischi che sono d'attualità. Le città dove “l'intasamento dei trasporti [...] fa di 'tutti' quella pura quantità di umanità anonima che si oppone, per la sua stessa densità, all'avanzamento e al comfort di ciascuno” (p. 74), sono le stesse che viviamo oggi, caratterizzate da quell'isolamento rancoroso che porta ai ghetti e alle gated communities.
Del resto l'attualità del ragionamento di Gorz si può misurare anche nella capacità di cogliere la questione ambientale come nucleo centrale di una politica autenticamente di sinistra, come di nuovo suggerisce Leonardi.
L'ecologia, in sé e per sé, non è in grado di dare risposte definitive. La soluzione ai problemi di sostenibilità ambientale non è per forza emancipativa: il rischio è quello di un ecofascismo, di una soluzione autoritaria ai problemi ambientali – centralizzata e in sostanza incapace di superare il problema che si propone di affrontare. L'ecologia politica di Gorz non ha nulla dei tecnicismi apparentemente neutri della green economy e dello sviluppo sostenibile. Al contrario, è un anticapitalismo che contesta il produttivismo alla radice, travolgendo nella critica anche la razionalità industriale real-socialista dei capitalismi di Stato sovietici. Nemmeno il welfare state keyenesiano viene risparmiato, laddove “servizi mercificati [...] svolgono funzioni un tempo appannaggio della zia, dei nonni o dei vicini” (p. 74).
Sono considerazioni importanti, soprattutto dal punto di vista odierno, dove il tempo del lavoro e quello del consumo comprimono le nostre vite fino a reificare anche le relazioni di prossimità, i legami famigliari. E Gorz non è certo un conservatore nostalgico, non fa un peana della civiltà rurale tradizionale, ben conscio che anche questa lode è funzionale al mantenimento dello status quo.
Ecologia e libertà stupisce proprio perché propone una critica radicale al produttivismo e al consumismo e va alla radice del problema ambientale, un problema complesso che non si risolve nell'opposizione tra sopravvivenza della Natura e declino della civiltà. Al contrario, Gorz pone il tema ambientale nella trama dei conflitti sociali, come contraddizione centrale nel nostro mondo. E cerca coraggiosamente la risposta nel domani e non nel passato.
Una boccata d'aria fresca rispetto ad un dibattito politico incentrato sulle sfumature della governance, dove al cittadino si sostituisce un cliente che ha diritto di scegliere l'offerta politica che più gradisce, quasi un tifoso a cui è concesso di gridare il proprio sdegno o la propria gioia, ma che non può in alcun modo discutere le regole.
Gorz è estraneo a questa nuova visione della politica e della società e nel suo libro si pone esplicitamente il problema dell'alternativa al capitalismo consumista. E le risposte non sono i comodi modelli storici del movimento operaio, ma sono strade nuove e a tutt'oggi non battute. Produrre meno cose, di migliore qualità, con materiali rinnovabili e azzerando gli sprechi, in una prospettiva di controllo produttivo decentralizzato per permettere un controllo diretto delle piccole comunità. Insomma elementi di dibattito attuale sulla crisi ecologica che comincia a manifestarsi con coloriture sempre più drammatiche.
Il libro è chiaro, conciso, parla un linguaggio lineare, vuole far arrivare il messaggio non solo agli specialisti della materia, ma anche a quei cittadini che dovranno ben guardarsi dallo spettro del tecnofascismo, ossia la decrescita produttiva e di consumi senza che sia messa in discussione la struttura industriale e gestita da una élite di tecnocrati e burocrati che impongono scelte e decisioni, spesso gravide di conseguenze, ad una popolazione passiva. Un percorso che Gorz vedeva già intrapreso per metà mentre scriveva Ecologia e libertà. Quanta strada abbiamo percorso in questa direzione negli ultimi quarant'anni?
Le soluzioni proposte nel libro hanno un retrogusto ingenuo; forse, ancor più di fronte al cinismo rassegnato che imperversa oggi, fanno quasi sorridere. Eppure fanno riflettere sull'utopia speculare – (neo)liberale – che il libro contrasta fieramente, l'idea cioè di poter continuare a produrre, crescere, e “svilupparsi” all'infinito, senza porsi alcun problema e considerando normale e inevitabile la distruzione della vita in nome del profitto. Anzi, arrivando a considerare la natura, la vita, come un ostacolo.
E allora il monito di Gorz perde l'aura naive e diventa una chiamata alle armi: Convivialità o Tecnofascismo.
La premessa perché lo spazio aperto urbano possa configurarsi (non solo su una teorica mappa) come una rete e una infrastruttura, è la conoscenza. La Repubblica Milano, 17 ottobre 2015, postilla (f.b.)
Dare suggerimenti pratici. Ma anche fare rete e agevolare la vita di chi vuole il suo pezzo di terra da coltivare ma non sa bene se può farlo e come farlo. Nasce in Comune l’ufficio Orti, con esperti del settore Verde pronti a rispondere al milanese che vuole dedicarsi alla zappa urbana. Il responsabile della nuova iniziativa è un funzionario dal pollice molto verde che si chiama, nomen omen, BortoloFurloni.
I contadini urbani sono un fenomeno in forte crescita in città. In particolare in questo momento c’è una forte domanda da parte di privati che vogliono trasformare parte del proprio terreno agricolo, appunto, in un fazzoletto da zappare e irrigare. Il punto è che la maggior parte di questi terreni si trova nel Parco agricolo Sud, dal Forlanini al parco delle Risaie e serve comunque un via libera da parte dell’ente parco per poter avviare la pratica. L’ufficio ad hoc creato dal Comune nasce anche per agevolare i cittadini in questa pratica. «Noi facciamo da facilitatori con gli aspiranti contadini — spiega Furloni — e puntiamo anche a far emergere tutti gli appezzamenti coltivati che sono sommersi». In città sono 2.500 gli orti che Palazzo Marino ha mappato. E sono di vario genere.
Ci sono le coltivazioni delle zone assegnate in base al reddito, che crescono ogni anno e per i quali l’amministrazione sta pensando a nuovi criteri per aprire di più ai giovani e ai disoccupati. Ci sono poi quelli nelle scuole, con i nonni di quartiere che se ne prendono cura d’estate: l’anno scorso nella sola zona 5 ne sono nati 20 grazie all’idea del signor Menasce, un pensionato anche consigliere di Zona che ha messo insieme tutor di istituti di agraria, sponsor privati come Brico e Danone, Fondazione Cariplo e il Comune per creare un modello che funziona. Sono in crescita anche gli orti condivisi, strumento di coesione sociale ma anche di lavoro, come nel caso dell’Orto comunitario Niguarda, dove lavora da tre mesi un ragazzo del Mali da poco arrivato in Italia. Ci sono poi gli orti nelle cascine, come a Cascina Sant’Ambrogio, ravvivato dai ragazzi dell’associazione Cascinet con mercatini e feste. E poi ci sono gli orti spontanei, dove cittadini coltivano da anni pezzi di terra abbandonati che l’amministrazione ora punta a far emergere. E l’ufficio (oggi solo telefonico 02/88454127 ma presto con un sito e una mail) servirà anche a questo.
Essendo l’orto riconosciuto nel Piano di governo del territorio come un servizio stanno per essere approvati i criteri con i quali un privato può convenzionare i propri orti con l’amministrazione, prevedendone una quota a tariffe sociali. L’assessore al Verde, Chiara Bisconti: «Così riconosciamo la forte domanda di ritorno alla coltivazione della terra che sentiamo nella nostra città, soprattutto da chi prova piacere a ritrovare rapporto diretto con la terra e il cibo che consuma, anche alla luce della Food Policy appena promossa dal Comune. L’ufficio promuoverà azioni dirette per nuovi orti, ma sarà anche a disposizione per risolvere i problemi. Coltivare un orto — aggiunge — serve a riscoprire la città e i concittadini».
postilla
Forse non si coglie sul serio la potenzialità di questa anagrafe degli orti, se non si torna un istante sull'idea di rete urbana degli spazi aperti, coltivati o non coltivati che siano, e del ruolo che può svolgere in quelle per ora benintenzionate ma abbastanza fumose strategie di sostenibilità e riduzione degli impatti. Hanno un peso non trascurabile, e se si quanto pesano, quantitativamente e qualitativamente, queste superfici sull'insieme della produzione alimentare locale a chilometro zero? La rete che formano è solo virtuale, di rapporti potenziali fra soggetti, oppure si configura chiaramente un sistema fisico tangibile, il cui ruolo può diventare complementarmente chiave in un futuro di maggiore sfruttamento a scopi infrastrutturali degli spazi aperti? Sono solo due delle tantissime domande a cui questo tutto sommato piccolo progetto può rispondere, se riuscirà a decollare dall'attuale fase di «telefono amico del pensionato coltivatore», a quella urbano sociale di infrastruttura verde propriamente detta (f.b.)
Difficile tener conto delle prodezze di Luigi Brugnaro, sindaco pro-tempore di Venezia. L'ultima, la riprendiamo dal sito di Italia Nostra, 14 ottobre 2015, con postilla
Ispettori Unesco: le associazioni ammesse all’ultimo momento
Gli ispettori inviati dal dipartimento dell’Unesco dedicato ai siti Patrimonio dell’Umanità devono valutare se “Venezia e la sua laguna” (questo è il nome corretto del sito) siano gestiti in modo consono ai requisiti necessari per essere inseriti nella lista e mantenuti in essa, ossia se non vi siano “pericoli o minacce, imminenti o potenziali, che potrebbero avere effetti negativi sull’area dichiarata Patrimonio dell’Umanità” (citiamo dalle pagine Unesco World Heritage in Danger). In quel caso un’apposita commissione può “proporre e adottare un programma d’interventi protettivi e in seguito monitorare la situazione del sito”. Era stata la sezione di Venezia di Italia Nostra, preoccupata per i progetti di scavare la laguna per le grandi navi e per l’effetto sulla città di un turismo non regolato, a scrivere all’Unesco che il sito poteva considerarsi in pericolo per la sua integrità sia fisica sia culturale. L’Unesco aeva accolto la richiesta e deciso di inviare un’ispezione.
All’arrivo dei tre ispettori cominciò a circolare una lista delle visite e degl’incontri che avrebbero effettuato. Ma, sorprendentemente, né Italia Nostra (origine prima dell’ispezione) né alcuna associazione di cittadini erano nella lista. Si apprese che l’Unesco aveva come interlocutore ufficiale il Comune e che ad esso si era rivolto per stabilire i dettagli dell’ispezione. E il Comune aveva inserito tra gli impegni soltanto incontri con enti, istituzioni e categorie economiche interessati a mostrare che tutto andava benissimo (se ne trova un elenco in un nostro post precedente).
E’ stata necessaria una giornata di ricerche e di telefonate affannose, culminate con l’ intervento di un ministero da Roma, perché un minimo di equilibrio venisse ristabilito. Martedì 13 ottobre, alle 16.58, una lettera del Mibact informava quattro associazioni veneziane (Italia Nostra, WWF, Fai, Lipu) che un’audizione era stata organizzata, e che doveva tenersi il giorno dopo, alle 17, nel palazzo Unesco di Ruga Giuffa, in coda alle altre audizioni concesse alle”categorie” di operatori economici. Per ognuna delle quattro associazioni era previsto un incontro di cinque minuti!
La nostra sezione ha così messo a punto rapidamente il materiale che già aveva disposto, corredandolo di altri brevi documenti ad hoc, e si è presentata. Le audizioni si sono svolte in un ufficio separato dagli altri, in forma che si potrebbe definire segreta (ci è stato comunicato che non vi erano stanze più grandi disponibili).
Italia Nostra è entrata per prima, seguita dal WWf. Poi le altre associazioni sono state ricevute tutte assieme, anche perché si stava facendo tardi (i cinque minuti assegnati a noi erano diventati più di trenta, un tempo comunque insufficiente per presentare le nostre osservazioni e proposte). Alla fine delle riunioni i tre ispettori hanno suggerito che le associazioni producano un documento unico, sintetico, con dati affidabili e citazioni di studi scientifici che riassumano le comuni preoccupazioni per il Sito Patrimonio dell’Umanità e contengano anche delle proposte concrete.
Sarà ora nostro compito redigere quel documento, che posteremo subito su questo sito. Intanto e fino a domenica 18 ottobre continua il lavaggio del cervello degl’ispettori a opera di Sindaco, Autorità portuale, Consorzio Venezia Nuova, Corila, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Aepe. Mai come ora ci rendiamo conto di quanto potenti siano gli operatori economici in questa città, anche se rappresentano solo una minoranza dei residenti.
«Prima che le sue dimissioni diventino effettive, il 2 novembre prossimo, Ignazio Marino vuole completare il progetto che fu di Petroselli e Cederna. Il sindaco dimissionario lavora alla pedonalizzazione totale della via. Arresti per tangenti a un funzionario comunale». Il manifesto, 15 ottobre 2015, con postilla
«Il progetto del Comune sulla pedonalizzazione di via dei Fori è un compromesso, ed è molto lontano dall’idea del grande parco archeologico di Luigi Petroselli e Antonio Cederna». A dirlo non è Ignazio Marino che pure prima che le sue dimissioni diventino definitive ha deciso di coronare il sogno che fu innanzitutto dei comunisti e degli ambientalisti più illuminati della storia recente della capitale. La frase virgolettata fu pronunciata nel marzo 1999 dall’urbanista Vezio De Lucia che allora chiedeva più coraggio alla giunta Rutelli che aveva messo in progetto — mai realizzato — il divieto parziale di transito automobilistico su via dei Fori Imperiali.
Marino ieri ha accelerato i lavori per realizzare, con una delibera di giunta che non dovrà essere sottoposta al voto dell’Assemblea capitolina, uno degli obiettivi promessi fin dalla campagna elettorale: la preclusione totale dei veicoli, taxi e autobus compresi, dalla strada che attraversa l’area archeologica centrale di Roma, concentrandosi sull’ostacolo più grande da superare: la riorganizzazione del trasporto pubblico. E lo fa nel giorno in cui scoppia il caso di corruzione di un funzionario del comune addetto agli appalti della manutenzione stradale della Grande Viabilità romana.
La procura accende così un piccolo raggio di luce sul grande mistero delle buche perenni sulle strade della capitale: ieri ha disposto gli arresti domiciliari per due imprenditori, Luigi Martella e Alessio Ferrari, e un dipendente del dipartimento Sviluppo infrastrutture e manutenzione urbana, Ercole Lalli, accusati di corruzione e turbata libertà degli incanti. I due impresari, infatti, secondo i carabinieri che hanno effettuato le indagini, avrebbero pagato il 27 settembre scorso una tangente di due mila euro al dipendente comunale per ottenere in cambio informazioni riservate sulle imprese concorrenti. Martella e Ferrari, secondo il gip, «desideravano conoscere anzitempo in quale o quali lotti erano state invitate» alcune imprese particolarmente temute, «in modo da presentare offerte più aggressive».
Secondo le ordinanze, i due imprenditori commentavano così, in una telefonata intercettata, i dettali ottenuti da Lalli: «Se noi c’avemo quelli stavolta so’ morti tutti!». Particolari che avrebbero potuto aiutare le imprese ad aggiudicarsi le gare per otto lotti di manutenzione stradale dal valore di circa un milione di euro ciascuna. E già martedì l’Autorità anticorruzione presieduta da Cantone aveva bloccato una gara riguardante, questa volta, alcuni interventi di restauro dei percorsi giubilari alla quale avevano partecipato due società riconducibili a Ferrari e Martella, gli imprenditori arrestati ieri.
«Li avevo denunciati tutti ad aprile. E per oggi li avevamo convocati per escluderli dalla gara del Giubileo», ha rivelato ieri, subito dopo gli arresti, l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella. Infatti, malgrado i due imprenditori arrestati ieri avessero, secondo l’accusa, creato una sorta di “cartello” occulto per aggiudicarsi gli appalti, l’escamotage non sarebbe sfuggito al Sistema informatico per le procedure negoziate (Siproneg) messo a punto da Sabella e dall’assessore ai Lavori Pubblici, Maurizio Pucci, proprio per garantire la trasparenza e la leale concorrenza. «La vicenda odierna è la prova inequivocabile che i nuovi sistemi di controllo interno di cui si è dotata Roma Capitale, per iniziativa innanzitutto del sindaco, e la stretta collaborazione con Anac e con l’autorità giudiziaria, funzionano — dichiarano in una nota congiunta i due assessori — Avevamo immediatamente riscontrato anomalie nelle offerte della gara degli otto lotti, che è stata sospesa. A Roma non c’è più spazio per le vecchie logiche spartitorie e per illecite distorsioni delle pubbliche procedure in favore di interessi privati».
Gli interessi però non sono solo privati: a volte ad ostacolare lo sviluppo della città concorrono anche quelli politici. E così, il progetto di pedonalizzazione totale dei Fori imperiali che Marino vuole portare a termine entro il 2 novembre trova freni ancora una volta proprio nel Pd. Il capogruppo capitolino dem, Fabrizio Panecaldo, pur appoggiando l’idea del sindaco dimissionario gli suggerisce di «coinvolgere anche le forze economiche che gravitano intorno alla via», per tenere buoni i commercianti che si sono lamentati fin dalla prima limitazione al traffico, imposta da Marino due mesi dopo la sua elezione. Ma è l’assessore ai Trasporti voluto da Renzi, Stefano Esposito, a tentare lo stop: «Sarebbe straordinario, ma serve un quadro preciso di come riorganizzare la percorribilità collaterale». Perciò suggerisce al sindaco uscente di far scattare l’operazione Fori dal 1 dicembre prossimo, «in modo da dare tempo al commissario di pensare alla questione viabilità».
postilla
Il "progetto Fori" promosso da Adriano La Regina, tenacemente sostenuto da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco (rara avis) Luigi Petroselli era ben altro della pedonalizzazione di una strada. Prevedeva, tra l'altro la completa ablazione di quel manufatto mussoliniano. Ma questa è un'altra storia. Per conoscerla sono utili molti articoli raccolti in eddyburg. Per cominciare l'articolo di Vittorio Gregotti del l'ottobre 2013, "Un progetto unitario per i Fori Imperiali", il testo della relazione tenuta da Vezio De Lucia nel giugno 2007, "Cederna e il progetto Fori", l'articolo di De Lucia nell'agosto 2013, all'inizia della sindacatura Marino, "Una prima riflessione sul progetto Fori". Altri articoli li trovate digitando il lemma "progetto fori" nella casella sensibile in cima a ogni pagina del sito.
Sarebbe bello se qualcuno dei decisori e degli operatori pagasse per i danni compiuti stupidndo e arricchendosi. Ma siamo in quest'Italia del neoliberismo straccione. Il Fatto quotidiano, 14 ottobre 2015
Ci sono nuovi problemi per la Variante di Valico, la grande opera autostradale che dovrà unire Bologna e Firenze affiancando la vecchia Autostrada del sole e che ancora non è conclusa a 11 anni dall’inizio dei cantieri. A Rioveggio sul lato emiliano dell’Appennino, un muro di contenimento posto all’inizio delViadotto Casino in direzione nord (non ancora aperto al traffico) ha iniziato a muoversi alcuni mesi fa e a “ribaltarsi” verso l’esterno. Parliamo di movimenti di pochi centimetri, ma che avrebbero preoccupato Autostrade per l’Italia, la società posseduta al 30 per cento dalla famiglia Benetton, concessionaria per i lavori. Sulla pavimentazione stradale infatti si è aperta una lunga fessura longitudinale oggi transennata e coperta con un telo. Stando a quanto ha potuto fotografare ilfattoquotidiano.it dall’esterno dei cantieri, a causa dei movimenti sull’asfalto si è formato anche un gradino trasversale di diversi centimetri. La società Autostrade, interpellata non ha commentato.
Il pezzo di strada era stato consegnato, con tanto di certificato di ultimazione lavori, nel 2013. A portarlo a termine un’associazione temporanea di imprese di cui faceva parte anche un’azienda del Gruppo Maltauro (l’ex amministratore delegato Enrico Maltauro finì coinvolto nel 2014 nella maxi inchiesta su Expo). Ora, da qualche settimana, sul lato a valle del viadotto si sta quindi costruendo un nuovo enorme muro in cemento armato, ancorato con delle fondazioni profonde, al fine di bloccare il movimento. Il compito sarebbe stato affidato alla cooperativa Cmb di Carpi (che non aveva partecipato alla costruzione di quel tratto di strada).
Nei cantieri sono già arrivati i Carabinieri della Compagnia di Vergato per fare dei rilievi che della questione di quel muro che si è mosso avrebbe informato, come di prassi in questi casi, la stessa Procura della Repubblica di Bologna. I pm bolognesi avevano aperto in passato delle inchieste sulla Variante di valico (quella sulla frana di Ripoli è ancora in corso). Che cosa abbia causato il problema a Rioveggio non è chiaro. Il Viadotto Casino è posizionato a pochi metri del fiume Setta, ai piedi del versante di una montagna: è possibile, ma è solo un’ipotesi, che a farlo muovere sia stato proprio un movimento franoso proveniente da quel versante.
Non è il primo problema della grande opera. A marzo 2015 davanti alla commissione trasporti in SenatoGiovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, aveva rivelato che la grande opera era costata il doppio rispetto al previsto: 7 miliardi di euro invece di 3,5. “I soldi li mettiamo noi”, aveva rassicurato il numero uno di Autostrade, azienda che raccoglie l’85 per cento dei suoi ricavi dai pedaggi che pagano gli automobilisti. “Molti problemi – aveva detto Castellucci riferendosi alla Variante – sono dovuti alla scelta del tracciato, che aveva un livello di rischio geologico, misurato successivamente, superiore a quello ipotizzato dai progettisti”. Il manager aveva però allontanato da sé, e dalla sua lunga gestione, ogni colpa: “La Variante è stata progettata negli anni Novanta, io non c’ero, sicuramente, col senno di poi, oggi la progetteremmo in maniera differente, più in galleria e più profonda”.
Il riferimento del numero uno di Autostrade è ai due casi più eclatanti che hanno rallentato i cantieri della Variante di valico. Sul lato emiliano ci sono stati infatti i guai con due gallerie. La Val di Sambro ha risvegliato una frana sotto il paesino di Ripoli, che ancora continua a muoversi insieme alla vecchia A1, che passa a monte. Pochi chilometri più in là un’altra galleria, la Sparvo, ha dovuto essere letteralmente blindata internamente con degli anelli in acciaio perché un’altra frana aveva iniziato a spaccare la copertura in cemento. Sul lato toscano, una inchiesta giudiziaria per presunti reati ambientali, sfociata poi in un processo, ha bloccato per lungo tempo i lavori. Ma nonostante i problemi c’è chi è fiducioso: “Lavoriamo pancia a terra per aprire al traffico entro metà dicembre”, ha assicurato il sottosegretario ai trasportiRiccardo Nencini in un’intervista al Resto del Carlino.
Una sintesi chiara e convincente del "caso Marino": «Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica». Micromega, 9 ottobre 2015, con postilla
Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica: ecco il “caso Marino”. Sarà da scrivere, con calma e sulla base di informazioni certe, la vicenda a suo modo esemplare di questo chirurgo tentato dalla politica, paracadutato nella capitale, prima come senatore della Repubblica (imposto, chissà perché, in Piemonte), quindi, a mandato in corso, come primo cittadino della capitale. Una parte del PD lo sostenne, contro l’altra parte, quella che stava prendendo però il potere guidato dal disinvolto Matteo, ormai in fase di irresistibile ascesa.
E ben presto costui scopre che Marino è ingovernabile: innanzi tutto non è un renziano, e in secondo luogo perché è una sorta di Forrest Gump, che vive in una condizione di separatezza dalla realtà. Ha un mondo suo, Ignazio Marino, e, pur essendo uomo, a mia conoscenza, e impressione, di specchiata onestà, in quanto primo cittadino della prima città italiana, della ex capitale dell’Impero Romano, della capitale del cattolicesimo, della capitale mondiale delle opere d’arte, e così via, il buon Ignazio perde la testa, o detto altrimenti comincia a montarsela, preso da una specie di delirio di onnipotenza. Cambia assessori, perde via via collaboratori e amici, e si trova un po’ per volta solo in un fortino assediato da sodali divenuti avversari, mentre il “capo supremo” gli mette alle calcagna un suo uomo forte, l’Orfini, che diventa un sindaco-ombra, e poi come se non bastasse, in absentia, affida al prefetto (Gabrielli, noto per la sua imperturbabilità davanti alle catastrofi “naturali”) il ruolo di Lord protettore, battezzato a furor di popolo “badante”.
L’assenza del sindaco in quei giorni, dovuta alle sue peraltro legittime vacanze negli Stati Uniti, divenne un capo d’accusa: erano i giorni del funerale più mediatizzato della storia recente (quello dei Casamonica), uno spettacolare diversivo dai problemi della capitale, una manna per i Brunovespa e per i rotocalchi scandalistici. Un ridicolo caso montato che finiva per far obliterare il vero “scandalo” quello di “Mafia capitale”. Si trattava di una vicenda che aveva mostrato come l’intero ceto politico “storico” di Roma fosse un sistema integrato di affarismo e corruzione, che attraversava tutte le giunte succedutesi nel corso degli ultimi decenni, tra centrosinistra e centrodestra: il centro, appunto, era il nodo corruttivo a unire in una solidale colleganza postfascisti, postcomunisti, immarcescibili liberali ed eterni democristiani. E intorno a questo ceto politico turbe di clienti, a loro volta vassalli e valvassori in tanti piccoli e grandi feudi, dalle municipalizzate ai taxi, dai palazzinari ai preti, dai bancarellai ai “pizzardoni”, alias vigili urbani. Piccola e infima borghesia famelica, i cui insaziabili appetiti favorivano in fondo un sistema economico parallelo, tra il sommerso e il criminale, appunto: mafioso.
Marino fu posto sotto accusa, sia da coloro che lo avevano preceduto, specialmente l’ultimo (il “sistema Alemanno”, e, ricordiamolo, in combinato disposto con gli scempi della signora Polverini alla Regione, è stato il punto più basso toccato nella plurimillenaria vicenda della “caput mundi”), sia dall’opposizione degli homines novi, il movimento 5 Stelle, con una notevole superficialità, che è proseguita, in una paradossale “alleanza di fatto” con le truppe renziane, ormai scatenate contro il fortilizio in cui un sempre più smarrito e inconsapevole Marino aveva scelto la strada della resistenza ad oltranza, sentendosi in qualche modo protetto dalle buone cose che aveva comunque saputo fare, sin dall’esordio della sua azione amministrativa. Non rendendosi conto, invece, che erano precisamente quelle buone cose ad averlo messo in difficoltà: come si può pensare di scalzare un sistema di potere perdurante da decenni, per non dire da sempre, combattendo praticamente da solo, essendo ormai stato vistosamente abbandonato dal suo partito? L’inserimento in Giunta di un magistrato – di grande energia e competenza come Alfonso Sabella – per il controllo della legalità appariva un altro paradosso: consci della intrinseca disonestà del ceto politico si esplicitava il bisogno di un’auctoritas che ricordasse che “certe cose”, tipo corrompere i pubblici funzionari o farsi da essi corrompere) non si possono fare. Mentre risultava grottesco (a dir poco) la cooptazione (decisa da chi?) di un figuro come il senatore Esposito, volgarissimo pasdaran del TAV in Val di Susa, come assessore ai Trasporti.
Ma quali sono le colpe di Marino, posto che le cene e i pranzi per i quali è stato crocifisso (a cominciare dal papa, che nei confronti del sindaco della città di cui egli, il pontefice, risulta essere “vescovo”) sono al più peccati venialissimi? Qualche pranzo, qualche bugia, qualche goffaggine. Roba di cui manco occorrerebbe parlare, in un Paese serio. E invece sono diventati strumenti della campagna, pesantissima e concentrica, contro il sindaco, dalla Repubblica (ormai organo renziano: soltanto appare più allineata, al punto di risultare stucchevolissima e illeggibile) al Corriere, da Libero al Giornale. Aggiungi la varia stampa cittadina, praticamente tutta in mano alla destra, e la cosiddetta “satira” televisiva: ne uccide più Crozza che la spada, com’è noto. Anche questo è il segno di una società che brancola in un indistinto mucillaginoso.
Dicevo, le “colpe” vere del sindaco di Roma: eccole (secondo Huffington Post, e io personalmente sottoscrivo): 1) Aver pedonalizzato i Fori imperiali; 2) aver bloccato la cementificazione del litorale di Ostia; 3) aver rotto il turpe monopolio dei venditori ambulanti al Colosseo o a Piazza Navona; 4) Aver gettato l’occhio là dove nessun sindaco aveva guardato, gli affitti risibili della casta locale; 5) aver spezzato il sistema occulto degli appalti della raccolta rifiuti, e indetto, per la prima volta, una regolare gara di appalto; 6) aver sfidato le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano sui diritti dei non sposati e sulla fecondazione assistita eterologa; 7) aver partecipato al Gay Pride ultimo, nella città; 8) aver introdotto la scheda elettronica (badge) per i lavoratori della Metropolitana (afflitta da assenteismo cronico); 9) aver cominciato a fare pulizia nella dirigenza dell’ATAC (un motto che circola a Roma che dopo la “cura Alemanno” all’Azienda Trasporti v’erano più dirigenti che autisti; come nell’azienda rifiuti scarseggiavano gli spazzini ma sovrabbondavano i dirigenti!); 10) aver chiuso l’infernale discarica di Malagrotta.
Sono tutti titoli di merito. Marino forse non ha saputo valorizzarli. E ora per meno di 20.000 euro di spese di rappresentanza (una cifra ridicola per il sindaco di una capitale, e che capitale! Ne spende venti volte di più il rettore di un medio ateneo italiano!) diventa lo zimbello universale. Filippo Ceccarelli ha il coraggio di paragonare le tangenti agli scontrini. E il M5S finisce per aderire alla campagna della destra estrema, trovandosi, come accennavo, in buona compagnia con l’odiato Renzi. Il quale è, ancora una volta, il vero regista dell’operazione: uccidete il soldato Marino, è stato l’ordine di scuderia. E come un sol uomo tutti hanno obbedito. Ha alzato di giorno in giorno l’asticella, come in passato aveva fatto con D’Alema, poi con Bersani, quindi con Letta. E ora con Marino. Alza fino a stancare l’avversario: lo fa sentire isolato, non “protetto”, fin tanto che egli, stremato, non getta la spugna.
Ora Marino lo ha fatto. Renzi può segnare un’altra tacca al suo fucile, ma non è che un antipasto. Ora dopo la caduta comincerà la resa dei conti con la minoranza interna. Il premier intende “asfaltarli” come ripete volentieri con il suo lessico da bulletto di provincia. E lo farà. E costoro, tutti costoro, che faranno? Aspetteranno che il carroarmato renziano li schiacci? Forse sarà il caso di ricordare loro che Renzi non fa prigionieri né feriti. Ha imparato la prima lezione del suo grande concittadino Machiavelli: “i nemici bisogna spegnerli”.
Ieri sera, qui a Roma, davanti al Campidoglio, che pena vedere i militanti “grillini” accanto ai neofascisti di Casa Pound e ai diversamente fascisti della signora Meloni: che, prontamente, l’inclito Matteo Salvini candida al Campidoglio. Ha assolutamente ragione il sindaco uscente quando nel suo messaggio di dimissioni (ancora revocabili) afferma: “…non nascondo di nutrire un serio timore che immediatamente tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo-mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd e che senza di me avrebbe travolto non solo l’intero Partito democratico ma tutto il Campidoglio”.
All’indomani delle dimissioni, un quotidiano ha sparato sull’intera prima pagina questo titolo: “Roma liberata”. Si tratta del Giornale, ossia dell’organo di stampa e propaganda che aveva sostenuto in modo sistematico e rumoroso la candidatura di Gianni Alemanno, il peggior sindaco che la lunga storia della capitale ricordi. Fosse anche solo per questa ragione, occorrerebbe sostenere ancora Ignazio Marino.
Una critica saggia a un libro (Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi) ricco di spunti acuti ma scritto per scandalizzare il lettore. Felicità futura, blog, 9 ottobre 2015, con postilla
Franco La Cecla è un viaggiatore instancabile, un osservatore attento e ricco di una “sapere nomade”, che forte di una sua “ideologia”, lui lo negherà, passa a setaccio gli argomenti che di volta in volta affronta, oggi tocca all'urbanistica, o per meglio dire a quella che egli crede sia l’urbanistica (nell'argomentazione, ed è un aspetto apprezzabile, la sua tentazione è scandalizzare). Questo insieme di virtù e di difetti fa si che i suoi testi sono interessanti anche se irritanti, e che spesso la sua vis polemica lo porta a sbandare.
Per quello che conta, sono d’accordo con lui che la città è le persone che ci vivono (i “corpi” cari all'autore), infatti gli urbanisti insegnano che fare urbanistica significa occuparsi delle uomini e donne che in una città o in un territorio vivono.
Sono ancora d’accordo che spesso i “cittadini”, soprattutto se giovani, riescono a mutare il segno e il senso di alcuni spazi codificati. E se il concetto di “non luogo” all'autore non piace, e sono anch'io della partita, e quindi gli pare importante il caso del “non luogo” paradigmatico, come un grande parcheggio, che viene nella notte quando deserto da automobili, densificato di musica, di relazioni, di amori, di bevute. Una appropriazione che modifica il senso di quel luogo. Come anche l’occupazione politica di spazi che produco reazione.
Ma se fosse così perché allora non guardare con lo stesso spirito i “centri commerciali”, che occupati da uomini e donne diventano luoghi di socialità, dove i bambini corrono, spesso in monopattino, lungo le “vie”, dove gruppi di famiglie si riuniscono, dove gruppi di giovani si danno appuntamento provenendo da parti tra di loro molto lontani del territorio o della città?
So l’obiezione: per i primi si tratta di una manifestazione di libertà, di una scelta non condizionata, mentre nei secondi il condizionamento è forte. Se i comportamenti di uomini e donne danno senso allo spazio questo deve valere sempre e in ogni caso non possiamo distinguere libertà e condizionamento, anche perché forme diverse di condizionamento sono presenti sempre. Non penseremo che i giovani che danno senso ad un parcheggio nella notte, con la loro presenza e musica, non siano condizionati a sentire una certa musica, a bere una certa bevanda, a fumare una certa erba, a tatuarsi non come rito di appartenenza ma per moda, perché è bello, in una processo di massificazione in cui ogni deviazione (i calzoni stracciati, gli scarponi, ecc.) diventano “comuni” e banali.
I comportamenti non possono essere solo osservati, classificati, descritti, ma anche interpretati. Ora mi pare che il modello interpretativo di La Cecla sia un pensiero anarchico che definirei ingenuo. La strada è la vita.
Del resto se fermiamo l’attenzione sulla questione delle periferie questo è molto evidente. Cito testualmente: “Le periferie sono il pensiero sbagliato di un’urbanistica che ha mitizzato la condizione operai e le ha negato però il centro della città. Queste roccaforti del sonno operaio sono diventate da subito l’incubo delle classi «subalterne» e oggi degli immigrati. Il loro carattere sbagliato non è formale, non c’entra nulla la dimensione del disegno la qualità degli edifici. C’entra l’errore concettuale del pensare che esistere una cosa come le periferie”.
Mi pare che l’autore rifiuti di considerare i processi, che gli sono ben noti, che hanno investito le città e della meccanica proprio della realizzazione della città. Affermare che sia stata l’urbanistica a negare ai ceti subalterni il centro della città, non può che essere considerata la tentazione dello scandalizzare. Sono sicuro che l’autore ha sentito parlare della rendita e del mercato. Non avere nel nostro paese voluta eliminare la rendita (un ministro che in parte ci ha tentato, Fiorentino Sullo, ci ha rimesso carriera politica e non solo), l’avere affidato il problema della casa e dell’abitare al mercato ha come conseguenza che quest’ultimo ha messo ciascuno la “posto giusto”, al posto che gli toccava in relazione alla propria capacità di pagare. Ma forse c’è anche altro.
La Cecla irride ad ogni interpretazione economica del processo urbano (il marxismo, vecchio e neo è inviso all’autore), eppure se non si va alla radice dei fenomeni economici e sociali della nostra società non solo non si comprende l’evoluzione della condizione urbana ma si rischia, come direbbe mia nonna, di pestare l’acqua nel mortaio.
Non c’è da meravigliarsi che negli slums si faccia società, che si costituisca una regolamentazione locale, che si faccia anche “economia” (informale e marginale, che questa possa essere il modello, non credo, per la verità non lo crede neanche La Cecla): fa parte dell’animus degli uomini e donne di fare società, ma non possiamo tralasciare quali siano state le cause della creazione degli slum, come delle periferie, e accontentarci del fatto che li si fa società dimenticando (La Cecla non lo fa) le condizioni in cui si fa società.
La città è un organismo sociale (questo insegnano la maggior parte degli urbanisti) ed esso va governato (termine che credo l’autore abborrisce), ma tale governo è una funzione politica che fa bene o male i conti con gli interessi esistenti, con le esigenze di corpi separati (vedi per esempio la funzione di polizia), con i desideri degli abitanti, con i loro comportamenti, con i conflitti (salutari) che possono manifestarsi. Il meccanismo economico-sociale, con le sue diseguaglianze, con le sue discriminazioni, con le sue violenze esercita una forte influenza sia sui processi che sul governo. Gli urbanisti, almeno quelli che conosco, non usando lo stesso linguaggio (ma la sostanza è la stessa) spiegano che l’urbanistica non può cambiare il meccanismo economico-sociale (non esiste una via urbanistica al socialismo, anche libertario), ma esiste un lavoro che cerchi di favorire la vita egli abitanti di un luogo, con particolare attenzione a chi è risultato più svantaggiato.
L’urbanistica ha che fare con donne e uomini, non solo con cifre e statistiche. Perché contrapporre la strada, l’andare per strada, alle statistiche, le quali se interrogati nel modo giusto dicono tante cose (i numeri parlano). Ma come non posso accontentarmi di come i “corpi” reagiscono ai cambiamenti, non posso essere indifferente a come il meccanismo economico-sociale marginalizza e segrega, anche se lì si fa società, anche se è il cibo di strada da l’impressione di condivisione e di apertura. Non sempre ci si riesce, l’urbanistica è spesso “sconfitta”, più che fallire, ma governare le trasformazione, nell'ambito dell’organizzazione della città, resta un compito gravoso e urgente.
Nonostante i precedenti appunti il libro di Franco La Cecla è interessante, e non solo nella parte in cui descrive singole città o condizioni urbane (ogni capitolo è dedicato ad un aspetto della contestata urbanistica ed è completato, per fare capire meglio al lettore l’assunto e la realtà, da una descrizione di una città o di un luogo visitato) ma anche nella parte più critica. Da ogni critica si apprende.
La lettura può essere irritante, ma i testi dei singoli capitoli sono ricchi di osservazioni spesso acute. Basta riferirsi ad alcuni titoli dei singoli capitoli per aver chiaro l’intenzione dell’autore: Che cosa c’è di sbagliato nell'urbanistica; Perché l’urbanistica non serve a capire la città; Perché l’urbanistica è in ritardo; ecc.
E’ un libro che mi sento di raccomandare ai colleghi urbanistica, la provocazione non può che essere salutare, spero solo che il lettore non specialista non si facci una idea sbagliata dell’urbanista.
postilla
A differenza di Indovina credo che moltissimi condividano l'idea dell'autore del libro che l'urbanista (e la sua disciplina) sia il protagonista della costruzione della città. A molti, troppi, sfugge che, come diceva Benevolo, "l'urbanistica è una parte della politica" e che, come ha detto Indovina, il piano urbanistico è "una scelta politica tecnicamente assistita. Si potranno dare mille colpe all'urbanista: di non aver potuto o saputo guidare correttamente il decisore, di non essersi adoperato abbastanza per far entrare nel novero dei decisori gli abitanti della città, di essersi messo troppe volte (soprattutto negli ultimi decenni) al servizio di chi stava costruendo la "città della rendita" e non quella dei cittadini. Ma parlare della città dimenticando che essa è il risultato di processi molto complessi, e non del sogno di un demiurgo mi sembra un errore grave per un intellettuale, e soprattutto per un antropologo.
Dove invece concordo più con La Cecla che col suo recensore è nel giudizio negativo sui "non luoghi". Uno spazio nel quale l'accesso sia limitato solo a chi sta viaggiando, o a chi può spendere, o a chi non indossa magliette criticabili dal senso comune mi sembra contraddire il principio che "la città è bella se è equa": e ciò vale a maggior ragione per lo spazio pubblico.
La Nuova Venezia, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Venezia. Per Philippe Daverio è «una pura balla» e un progetto irrealizzabile, a meno di non svendere i capolavori di Klimt e di Chagall a un decimo del loro valore reale. Per Vittorio Sgarbi, invece, quella di Brugnaro è «un’idea sconcertante, ma a suo modo geniale perché è meglio vendere opere di Klimt e Chagall che non hanno un rapporto diretto con Venezia, che quelle conservate nei depositi dei Musei Civici, che sono invece di artisti che hanno un legame con il territorio e la sua storia».
I due famosi critici d’arte, i più “mediatici” d’Italia, commentano così l’idea del sindaco di mettere in vendita alcune delle opere d’arte dei Musei Civici, tra cui appunto quelle di Klimt e Chagall, per azzerare il deficit del bilancio del Comune.
«L’idea del sindaco è una pura balla», insiste Daverio, «perché non riuscirà mai a ottenere dal ministero dei Beni Culturali l’autorizzazione a vendere quelle opere sul mercato estero. La “Giuditta II” di Klimt, ad esempio, venduta a Londra o a New York da Christie’s o Sotheby’s, può valere anche molto di più dei 70 milioni di euro stimati dal Comune. Ma siccome non potrà mai lasciare il territorio italiano, sul mercato interno nessuno la pagherebbe più di un decimo del suo valore reale, a meno che non scenda in campo qualche fondazione bancaria. Mi sembra inoltre assurdo pensare di sanare i buchi di bilancio vendendo le opere dei musei, ma anche un grave errore contabile. Il sindaco - e anche Renzi, se davvero gli ha dato una sorta di placet preventivo all’operazione - saprebbero con corso di diritto amministrativo, perché non è possibile utilizzare una voce del conto capitale, come le opere d’arte possedute dai Musei Civici, per “sanare” i buchi di spesa corrente. Al massimo, con quei soldi, Brugnaro potrebbe costruire una scuola, o un ospedale».
Diversa e, come sempre, controcorrente, la valutazione di Vittorio Sgarbi. «Il primo impulso è dire che l’idea del sindaco è un’idiozia», commenta Sgarbi, «ma invece, ripensandoci, è, a suo modo, geniale. Personalmente ho sempre pensato che sia una sciocchezza cedere le opere dei depositi dei musei, non solo per il loro valore limitato, ma perché sono generalmente espressione di artisti del territorio, con una preciso legame con la loro città. Dipinti come la “Giuditta II” di Klimt o il “Rabbino di Vitebsk” di Chagall - artista peraltro sopravvalutato - non hanno alcun legame diretto con Venezia, al di là delle circostanze per i quali sono stati acquisiti da Ca’ Pesaro e dell’influenza che possono aver esercitato su artisti anche veneziani e potrebbero essere pertanto esposti in qualsiasi museo del mondo.
Un grande progetto urbano, epitome di una stagione felice travolta dal renzusconismo, vive ancora nelle speranze, e nelle battaglie, di oggi. Corriere del Mezzogiorno, 9 ottobre 2015
Insomma, Nastasi sta a De Lucia come Renzi sta a «x». Ecco l’equazione. E De Lucia non vede che due soli nomi con cui risolvere il problema dell’incognita: o quello di de Magistris o quello di Bassolino, il sindaco uscente e lo sfidante più probabile. È a loro, dunque, che si rivolge. A Bassolino per sapere se è ancora del parere che sia quello del 1998 il progetto del futuro. A de Magistris per verificare se i nuovi indirizzi urbanistici proposti dalla giunta arancione, e già approvati dal Consiglio comunale, sono coerenti con l’utopia bagnolese oppure no.
Di Bassolino, De Lucia non si fida più come una volta. Fu lui, mentre tutta la stampa nazionale indicava come esemplare il progetto del grande parco a Bagnoli, a comprometterne la realizzazione con l’accordo di programma che permise la realizzazione di Città della Scienza e la conseguente interruzione della linea di costa. Di de Magistris si fida forse di più, ma anche lui ha ridisegnato l’area e si tratta ora di verificare quanto e come. Inoltre, de Magistris, come De Lucia, è convinto dell’incostituzionalità del commissariamento, che «scippa» al Comune le competenze urbanistiche. Bassolino, invece, pur avendo espresso perplessità sulla decisione di Renzi non ha ancora detto nulla sul cosa convenga ora fare.
Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)
«Sta venendo giù Venezia». Il sindaco Luigi Brugnaro si aspetta eventi alluvionali. No, il meteo non c'entra. A Venezia piovono debiti così torrenziali che il neosindaco, con un annuncio choc, ha deciso di mettere all'asta le opere d'arte esposte nei suoi musei più prestigiosi, tra le quali un quadro di Klimt, il celeberrimo Judith II Salomè, e un'altra opera di Chagall. Brugnaro ne parlava con accenti gravi già durante la campagna elettorale: sforato ripetutamente il patto di stabilità (64 milioni nel 2015), la legge speciale a secco da almeno una decina d'anni e il «dramma incombente di non poter più finanziare neppure gli asili» aggiunge adesso con voce afflitta.
Se la metafora climatica ha un senso, si può proseguire con il Casinò municipale di Ca' Vendramin, che dieci anni fa sommergeva il Comune di liquidità (oltre 100 milioni di euro) e ora, a malapena, alimenta un rigagnolo di una decina di milioni. Il mondo è cambiato anche per la città più amata dai turisti del globo terracqueo. Completata la cessione dei palazzi nobiliari, i cosiddetti gioielli di famiglia della gestione Orsoni (l'ex Pilsen, Ca' Corner della Regina a Prada e il cambio di destinazione d'uso del Fontego dei tedeschi finito ai Benetton), il neosindaco ha deciso di affrontare il rosso strutturale dei conti con misure eccezionali.
Nel dossier che lunedì scorso il sindaco ha consegnato ai parlamentari veneziani ci sono altre misure sempre ventilate ma mai attuate. Una tra tutte: il biglietto d'ingresso per i turisti che si accingono a varcare l'area marciana o la zona di Rialto, un provvedimento che avrebbe bisogno di una legge nazionale ad hoc. Spiega Brugnaro: «Io non voglio cavarmela tassando i turisti, non fa parte della mia cultura. Ma una città irripetibile come la nostra non può fronteggiare da sola problemi di tale portata». Di questo e di altro il sindaco parlerà nei prossimi giorni con il sottosegretario del premier Claudio De Vincenti.