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Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2015 (m.p.r.)

Dovrebbero essere tutelati senza se e senza ma e soprattutto ringraziati i funzionari della Sovrintendenza di Siracusa per avere protetto dall’assalto del cemento l’intera area ricadente all’interno delle Mura Dionigiane, patrimonio archeologico della Magna Grecia riconosciuto dall’Unesco, e invece rischiano di essere condannati, assieme alla Regione siciliana, a pagare un risarcimento record di 240 milioni di euro se il Consiglio di Giustizia Amministrativa, nell’udienza fissata per il prossimo 16 dicembre, ribalterà la sentenza del Tribunale amministrativo regionale di Catania, dando così il via libera alla realizzazione di 71 villette a schiera in un’area, il pianoro dell'Epipoli, protetta (perché di inestimabile valore storico archeologico) da un vincolo assoluto di inedificabilità posto con un decreto ministeriale che risale addirittura al 1959: il Castello Eurialo, che domina l’intera area archeologica, è l’unica fortezza greca di quel periodo esistente al mondo.

Duecentoquaranta milioni di euro è la cifra del risarcimento fissata da una consulenza affidata non a un urbanista ma a un luminare dell’ingegneria aerospaziale, docente all’Università La Sapienza di Roma, depositata l’altro ieri nel procedimento avviato dall’impresa Am Group della famiglia Frontino, che ha chiesto i danni dopo il divieto opposto dalla Sovrintendenza in forza di quel vincolo sostenendo di avere pronti i compratori delle villette nel sultanato dell’Oman. E dopo avere avuto torto in primo grado, il paradosso è che a decidere in appello saranno anche due membri del Consiglio di giustizia amministrativa che il Tar, la cui sentenza dovranno esaminare, ha ritenuto illegittimamente nominati: sono Titti Bufardeci, deputato regionale indagato dalla procura per le spese pazze dei gruppi parlamentari, ed Elisa Nuara (entrambi rimessi in sella proprio dal Consiglio di Stato), fedelissima, come il figlio Gian Carlo Maria Costa, del presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, del quale è stata anche vice sindaco di Gela. Si, perché in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni, il Cga oltre che di togati, è composto anche da membri laici nominati dall’amministrazione regionale e dunque dalla politica.

È insomma un pasticcio in salsa tutta siciliana con molte ombre nei passaggi burocratici quello che si sta per concludere a Siracusa, dove una pattuglia di avvocati vicini all’associazione ambientalista Legambiente difende con i denti la forza di quel vincolo, ritenuto superiore al parere positivo, offerto incautamente dalla Sovrintendenza, al piano regolatore del 2007 che prevedeva in quell'area l’arrivo del cemento.

Ad avallare quel piano con la propria firma, che per il consulente aerospaziale oggi giustifica il risarcimento, fu la funzionaria regionale Mariella Muti, pensionata baby a 55 anni con la legge 104 per curare la madre; qualche mese dopo trovò però il tempo per fare addirittura l’assessore nella giunta di centrodestra nella città aretusea: «Fare l’assessore - dichiarò in un’intervista al settimanale Panorama - non è poi così impegnativo». Un avallo che ignorava le parole del sovrintendente Bernabò Brea, che nel ‘47 si era battuto per apporre a quell’area il vincolo di inedificabilità assoluta sostenendo che «la cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono per Siracusa solo un lusso o l’adempimento di un dovere verso la cultura, ma un’intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico». Seguirono le convenzioni con la Am Group firmate dal capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Mauro Calafiore, cui la vicenda non portò fortuna.

Nel luglio scorso la procura guidata da Paolo Giordano gli ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per corruzione e sfruttamento della prostituzione: avrebbe consentito la stipula di un’altra convenzione urbanistica in cambio di prestazioni sessuali di prostitute romene. L’ultima parola tocca adesso ai giudici del Consiglio di giustizia amministrativa riuniti il 16 dicembre, anche se il pool di avvocati di Legambiente sta programmando l’ultima contromossa: «Chiederemo la sostituzione del consulente - osserva l’avvocato Corrado Giuliano - nella perizia vi sono diversi svarioni di diritto, disattenzioni nell’esame dei documenti di Legambiente e si salta totalmente la provenienza dei documenti provenienti asseritamente dall’Oman». Il legale prosegue e aggiunge: «Si tratta di errori che non sorprendono alla luce delle competenze aerospaziali del perito».

Riferimenti

Si veda su eddyburg «la ricostruzione analitica dei vincoli e dei vari passaggi urbanistici della vicenda - la nullità radicale, piuttosto che la possibile risoluzione, delle convenzioni urbanistiche da cui i privati derivano oggi le loro pretese» di Salvo Salerno Dello straordinario caso dell’interversione risarcitoria di un vincolo paesaggistico non indennizzabile.
Sul Piano di Siracusa, si veda di Vincenzo Cabianca Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa.
Sulle “pressioni” subite dai sovraintendenti si veda di Gian Antonio Stella Via da Siracusa i sovrintendenti che non volevano il mega porto, Quel «no» alla speculazione che costa 200 milioni

L’articolo di Franca Levorotti sulla salvaguardia delle Apuane richiede da parte mia alcune precisazioni.

Oltre a essere chiamata direttamente in causa dal testo, credo infatti di avere qualcosa da dire in merito ai contenuti del Piano paesaggistico della Toscana, approvato nella scorsa primavera dopo una concitata fase di emendamenti e controemendamenti, e oggetto di numerosi e opposti ricorsi con riferimento alla disciplina delle attività di escavazione nelle Apuane. Diverse imprese concessionarie di attività di cava hanno infatti presentato ricorsi al TAR contro i dispositivi previsti dal Piano per garantire la tutela paesaggistica delle aree interessate da attività estrattiva, mentre alcune associazioni ambientaliste prevalentemente locali hanno presentato un ricorso al Presidente della Repubblica per la supposta mancata tutela.

Nessun piano è perfetto, come noto, anche perché le garanzie previste a tutela dei diversi interessi nelle procedure di approvazione danno modo di apportare successive modifiche rispetto alle ipotesi iniziali, in questo caso le proposte approvate dalla giunta regionale. E io stessa, con grave scandalo dei più, non mi sono tirata indietro nell’esprimere le mie valutazioni in merito alle vicende che hanno interessato il Piano, intervenendo in Consiglio Regionale in sede di approvazione dello stesso (cfr., oltre a eddyburg che ringrazio per avere a suo tempo prontamente pubblicato il mio intervento, Anche A.Marson, "Il percorso di approvazione del Piano paesaggistico della Regione Toscana", Il Ponte, LXXI n.7, luglio 2015, pp.63-73). Nello specifico, con riferimento alle Apuane, sarei stata felice se si fosse riusciti a far approvare norme di maggior tutela, ma ritengo che il Piano approvato segni comunque un avanzamento rispetto alla precedente indeterminatezza.

Anche gli scempi paesaggistici richiamati, ad esempio quello già avvenuto al picco di Falcovaia, hanno infatti avuto luogo non soltanto a tutele di legge già vigenti, ma anche a Parco regionale delle Apuane già istituito (allora come ora privo di un piano del parco, e il cui Presidente, di cui Legambiente aveva chiesto pubblicamente le dimissioni, non ha esitato ad attaccarmi pubblicamente perché intendevo tutelare le Apuane).

E’ questa la ragione per cui, quando a suo tempo Franca Leverotti mi annunciò l’intenzione di promuovere un ricorso contro il Piano, le scrissi che non condividevo, poiché rischiava di passare il messaggio politico che è meglio non provare nemmeno a “sporcarsi le mani” per regolare interessi contrapposti con un piano. Meglio accontentarsi di: un Parco (cui spetta esercitare le tutele ambientali) che non pianifica; funzionari delle Soprintendenze che non sono in grado di conoscere approfonditamente, tanto meno di fare sopralluoghi alle cave oggetto di autorizzazione paesaggistica; autorizzazioni all’escavazione concesse da singoli dirigenti comunali.

Il Piano paesaggistico, in uno spirito riformista (giacché le rivoluzioni non si fanno con i piani, meno che meno con quelli approvati dalle assemblee elette con i metodi della democrazia rappresentativa) finalizzato a conciliare tutela del paesaggio e dei lavoratori, ha introdotto a questo riguardo un combinato disposto di requisiti più avanzati: l’obbligo di approvare in Consiglio comunale appositi piani attuativi di bacino per le attività di escavazione (ammettendo soltanto, in assenza di questi, limitate possibilità di ampliamento all’interno dei perimetri già autorizzati); un quadro conoscitivo di riferimento comune a tutti gli enti che intervengono nel procedimento; l’obbligo di valutazione paesaggistica per tutte le nuove attività; la chiusura di alcune cave e il divieto di aprirne di nuove sopra ai 1200 metri, per non citare che alcuni dei dispositivi introdotti ex novo.

Gran parte degli emendamenti passati in commissione, tendenti a scardinare le regole di tutela introdotte dal Piano a questo riguardo, sono stati oggetto di una revisione condivisa fra Regione e Ministero dei beni culturali poco prima del voto finale, per mantenerne la valenza originaria.

Si poteva fare di più? Nel momento dato, con le forze presenti in campo nei diversi schieramenti politici e istituzionali, dubito assai, dal momento che l’obiettivo politico dei numerosi oppositori era quello di far saltare non solo le norme per le Apuane, ma l’intero piano. I numerosi ricorsi presentati dalle imprese di cava dimostrano come il Piano contenga comunque, nel suo insieme, norme finalizzate a garantire anche per le Apuane una maggior tutela di quella finora garantita in assenza del Piano stesso.

Quanto alla presunta “latitanza” delle associazioni ambientaliste più importanti (Italia Nostra, Legambiente, WWF e Fai), pur non potendo rispondere in vece loro mi limito a ricordare che non di latitanza si tratta, ma della mancata condivisione dell’azione di ricorso contro il Piano. Mi risulta per di più che queste stesse associazioni abbiano di recente costituito un “Coordinamento apuano”, con l’obiettivo di seguire attentamente tutte le procedure di autorizzazione in corso, anche al fine di verificare se e come le nuove norme introdotte dal Piano vengano applicate da chi di dovere. Personalmente non posso che ringraziare il coordinamento delle associazioni per questo impegno quotidiano, assai più faticoso di un ricorso al Presidente della Repubblica, che mi dà il senso di non aver lavorato e sofferto invano.

E’ notizia delle scorse settimane che il PIT toscano, già oggetto di ricorsi al TAR da parte di alcuni concessionari di cave, è stato impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da alcune associazioni ambientaliste: Mountain Wilderness, Amici della Terra, SIGEA, VAS, LIPU, CAI regionale, Centro Cervati e La Pietra Vivente.

Stupisce innanzitutto che le associazioni “storiche” (Italia Nostra, Legambiente, WWF e anche il più giovane FAI) non abbiamo aderito: una latitanza che contraddice vistosamente lo Statuto fondativo di alcune e soprattutto non è in linea con l’intensa attività mediatica a supporto di Anna Marson intrapresa da alcune di loro nei mesi precedenti. Stupisce anche il silenzio stampa di alcune penne di punta del giornalismo italiano contattate personalmente: una libertà “limitata” di scrittura che vediamo come un segnale assai preoccupante.

L’impugnazione di questo piano trova le sue radici nel fatto che relativamente all’area del Parco le norme del PIT violano l’articolo 142 del Codice in tutti i suoi commi, le leggi di tutela dei Siti Rete Natura 2000, le leggi di tutela delle acque superficiali e sotterranee ed il principio di precauzione. Le deroghe infatti stabiliscono che si può continuare l’attività estrattiva e ampliare i bacini estrattivi; si possono riaprire le cave chiuse, senza limiti di tempo, ovvero anche quelle rinaturalizzate e abbandonate per la cattiva qualità del tempo, oggi superabile con la produzione del carbonato di calcio.

Ebbene NON era questo l’intento del PIT, basta leggere l’audizione di Anna Marson al Consiglio Superiore del Beni Culturali, il solo testo relativo all’accordo con il MIBACT rimasto disponibile in rete (dato anche questo assai preoccupante) laddove dichiarava che la Giunta Regionale aveva stabilito che le cave nel Parco, esaurita l’autorizzazione in corso, andassero riqualificate e poi definitivamente chiuse, mentre le cave fuori dal Parco non potessero andare sulle vette e sui crinali, auspicando in merito una presa di posizione solidale del Mibact.

Chi ha manomesso il PIT? La risposta ancora una volta è nella dichiarazione di Anna Marson a PIT approvato e presente nel sito di Eddyburg, laddove richiama dapprima il conflitto «tra interessi collettivi e interessi privati, poi la presenza di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico», denunciando anche la «partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del consiglio regionale ed esplicitando tra i motivi di depotenziamento del piano che «nelle Apuane (sono state) cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni».

Nessuno ha smentito l’Assessore; anzi le sue accuse hanno trovato conferma nella dichiarazione dei concessionari riportata nel giornale “Versilia produce” di aprile 2015, laddove specificano che hanno ottenuto “soltanto”:
a) l’eliminazione della carta delle vette e dei crinali (che trova appunto la sua ragion d’essere nell’audizione al Consiglio Superiore del MIBACT);
b) lo stralcio della limitazione temporale per la riattivazione delle cave chiuse in area Parco e sopra i 1.200 (aree protette dal Codice!);
c) la semplificazione delle linee guida per la valutazione della compatibilità paesaggistica;
d) il coordinamento tra autorizzazione paesaggistica e valutazione di compatibilità paesaggistica.

Quale seria valutazione paesaggistica ci possiamo aspettare, dopo le manomissioni dei tecnici dei concessionari di cava ai punti c) e d) ? Non illudiamoci che le “nuove linee” fermeranno il disastro; sono note le autorizzazioni rilasciate dal Parco in conferenza dei servizi: i dinieghi diventano prescrizioni e gli abusi vengono differenziati in abusi permissibili o non permissibili.

Questi sono i fatti ricostruiti su base documentaria, ma un professionista competente, ignaro degli eventi, non può non rimanere sconcertato dalla lettura dei contenuti del PIT non solo e non tanto per il sistema delle deroghe che inficiano tutte le tutele che coprirebbero le Apuane, ma a partire dal fatto che questo PIT non è stato sottoposto a Valutazione di Impatto Ambientale, valutazione inderogabile per un Parco, ricoperto da una ZPS cui si sovrappongono 10 SIC , e dove si prevede l’ incremento esponenziale delle attività estrattive.

Sorprende anche che nel testo del PIT si precisi genericamente che le Apuane «sono interessate da numerosi geositi, quando i geositi sono almeno 253 puntuali e lineari (9 campi carreggiati, 5 campi di doline; 14 cordoni morenici; 37 cavità carsiche; 24 doline; 3 marmitte; 17 circhi glaciali; 25 picchi; 20 creste ecc.). Altrettanto anomalo è trovare scritto in un piano che dovrebbe garantire la tutela del paesaggio che sino all’approvazione dei piani di bacino ed entro tre anni sono consentiti, previa valutazione paesaggistica regionale, ampliamenti delle aree estrattive all’interno del perimetro autorizzato non superiori al 30% del volume consentito dall’autorizzazione vigente, se l’autorizzazione è in scadenza e se è stato esaurito il quantitativo concesso. E’ consentita altresì la riattivazione di cave e rinnovi per volumi non superiori al 30% di quanto consentito nell’ultima autorizzazione. Questo sarà concesso una sola volta». Siamo in un contesto di Piano paesaggistico o di Piano estrattivo?

Nel caso del comune di Minucciano «in considerazione del valore economico e sociale che le attività estrattive anche sopra i 1.200 m rivestono per Minucciano si consente di proseguire lo scavo anche sopra i 1.200 metri, garantendo il minor impatto paesaggistico, a TUTTE le cave del Comune comprese nei Bacini 2, 3, 5. Le cave attive del Comune di Minucciano sono 19 (10 di queste sono sopra i 1.200 m), quelle inattive (che al momento non hanno trovato acquirenti) sono 7; non conosciamo il numero delle cave inattive censite nel piano regolatore del Comune. Da un’intervista al Sindaco Poli, dopo la sua elezione, si ricava che nelle 10 cave dei bacini di Orto di Donna e Acquabianca sono OCCUPATI 20 operai. Deroghe sono concesse anche all’Henraux per il bacino dell’Altissimo quando sono in corso processi con la locale ASBUC che contesta alla ditta la proprietà di ben 378 ettari rispetto ai 540 rivendicata dalla società . Continuerà così l’attività estrattiva che ha ridotto ad un mozzicone il picco di Falcovaia alla cava delle Cervaiole, il cui ravaneto ha sepolto una sorgente e imbianca periodicamente il canale del Giardino (non compreso stranamente nell’area Parco, ma interno al SIC 18), dove vive una specie protetta: la Bombina pachypus ( valutata In Pericolo (EN) nella recente Lista Rossa redatta dal Comitato Italiano IUCN). Infatti il recupero dell’estesa discarica di cava e del reticolo idrico sottostante si intendono raggiunti con l’utilizzo di tecniche meno impattanti (forse lo scavo in galleria?) e con <<interventi di risistemazione ambientale e paesaggistica durante e al termine della coltivazione». Sarebbero i primi interventi di risistemazione attuati dal 1997, anno di creazione del Parco, ma risulta difficile pensare ad una loro realizzazione contemporanea all’escavazione.

Sempre nell’Altissimo, sono state riaperte a partire dal 2010, in area Parco, ben 3 cave: il ravaneto della cava Macchietta (cava in galleria a m. 1081 ) sta compromettendo la sorgente della Polla; la cava Mossa è stata ri-aperta nel 2013 nonostante il parere negativo della Provincia di Lucca; la cava Buca è stata ri-aperta nel 2013 nonostante la presenza, accertata tramite georadar, di numerose fratture. Ma già la strada che conduce alla cava Cervaiole era stata realizzata senza l’autorizzazione del Parco: pochi esempi per mostrare il comportamento anomalo del Parco.

Alla Cooperativa dei beni comuni di Levigliani che coltiva le cave nella logica della valorizzazione e del mantenimento delle risorse per le future generazioni, il PIT dei concessionari consente «L’ampliamento delle attività estrattive esistenti, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in deroga all’art. 10 della Disciplina dei beni paesaggistici, subordinato all’individuazione di specifiche modalità di coltivazione che riduca al minimo gli impatti sugli elementi della morfologia glaciale»: siamo al di sopra dell’Antro del Corchia. Si tratta del complesso carsico più lungo d’Italia (oltre 60 km esplorati ad oggi) e uno dei più importanti d’Europa: uno dei caposaldi del Geoparco (geosito n. 194) e al quale l’ISPRA ha dedicato il volume The Corchia cave (Alpi Apuane). Il Pit della Marson descrive questa stessa area caratterizzata dalla presenza di rilevanti valori naturalistici (elevata concentrazione di habitat e specie di interesse comunitario e/o regionale, presenza di Siti Natura 2000), geomorfologici (circhi glaciali e vasti complessi carsici ipogei ) e paesaggistici.

Non sono ammesse autorizzazioni all’escavazione nel Retrocorchia» recita il PIT, ma qui si scaverà ancora perché si prevede “la riqualificazione paesaggistica della cava e della discarica del Retrocorchia”, nonostante un progetto di ricerca sulla valorizzazione delle biocenosi esistenti, finanziata dall’ente Parco con Delibera Dirigenziale 50/2007 e 32/2009.

Questi pochi esempi rendono comprensibile – spero- il ricorso delle associazioni ambientaliste di nicchia contro il PIT, limitatamente all’area del Parco, e spiegano anche l’appello che le stesse hanno rivolto tramite il Gruppo di Intervento Giuridico onlus, al Presidente della Repubblica affinchè il PIT manipolato venga azzerato ed il Parco delle Alpi Apuane possa godere di un PIT conforme alle leggi dello Stato.L'autrice è stata Consigliere nazionale di Italia Nostra ed è referente del presidio Apuane del Gruppo di Intervento Giuridico onlus

La mobilitazione, ininterrotta da oltre un anno, in difesa di un patrimonio di grande valore storico, monumentale ed urbano come quello della “Cavallerizza” -facente parte della Reale Zona di Comando in pieno centro storico a Torino- sta ad indicare, credo, che alla (s)vendita dei propri beni da parte dell’ente pubblico va posto un limite. Qui non si tratta dell’alienazione di uffici postali in disuso, di torri dell’acquedotto o di una caserma vuota, ma di un complesso testimone della grandezza di un regno e della cultura della nostra arte, del genio visionario, insopprimibile, di architetti settecenteschi. Sono state fatte assemblee, riunioni, incontri con ‘la politica’, appelli, come l’ultimo firmato da S. Settis, T. Montanari, G. Zagrebelsky. Forse è il momento della sintesi.

La proprietà privata deve arrestarsi alla soglia dei beni pubblici che per la Storia, l’Arte e la Cultura hanno un valore non commerciabile. E’ dimostrato che abbattere il debito pubblico –nazionale e locale- con le privatizzazioni è illusorio, irrimediabilmente inutile.

Pertanto, va abbandonata tutta la filiera della cosiddetta ‘cartolarizzazione’ (già repellente nel nome) per i suddetti beni. I quali, essendo di tutti, perché pubblici, non possono essere alienati senza il diretto consenso dei legittimi proprietari che andrebbero perlomeno interpellati tramite referendum nazionali/locali. La vicenda della “Cavallerizza” dimostra proprio questo: la cittadinanza non intende delegare al Sindaco e alla sua Giunta la vendita di beni riconosciuti di alto pregio (la “Cavallerizza” è bene dell’umanità, secondo l’Unesco) se non per volontà del popolo (Paolo Maddalena). Il mandato agli amministratori tramite il voto, riguarda la gestione dei beni comuni nell’interesse dei cittadini, non la loro alienazione/svendita. Se i cittadini intendessero iquidare il proprio patrimonio, cercherebbero figure più professionali e specializzate in ambito immobiliare/commerciale, non certo politici.

La destinazione d’uso di un bene -che resta pubblico- può certamente comprendere, al suo interno, attività private, sponsorizzazioni private, concessioni a privati sulle quali, però, decide autonomamente il pubblico, mai estromesso dalla sua proprietà, mai condizionato né succube della speculazione da capitale privato.

Nel caso specifico, mi pare non eludibile la destinazione di generale struttura culturale e artistica (produzione, formazione, ricerca e manifestazione) e sede di ‘borgo’ universitario e degli artisti con le sue residenze studentesche, le comuni zone-studio, i laboratori e gli studi professionali, i magazzini per artisti, artigiani e ospiti esperti; le botteghe e i ristori per la vita (e la vivacità) della collettività resa omogenea dall’impegno per il sapere e il saper creare.

Sono certo che Sindaco e Giunta, se non fossero ossessionati e ricattati dal buco di bilancio, sarebbero d’accordo. Ma, intanto, dovrebbero convincersi che con la “Cavallerizza” quel buco non lo tapperanno mai e che non si usano i capolavori di un’intera civiltà per sanare i debiti. La risposta la conosciamo: “Chi paga?”. Intanto gli sponsor. Esempi sono il Colosseo e la scalinata di Trinità dei Monti che non sono diventati di proprietà di Della Valle e di Bulgari. Inoltre, occorrerebbe impegnarsi in una campagna locale per l’”Art Bonus” Sono anche convinto che se si lanciasse una tassa di scopo per la tutela e la rivitalizzazione della Cavallerizza (come per gli altri ‘gioielli’ della città), avrebbe successo così come la destinazione del ‘5 per mille’ espressamente finalizzata ad essi.

Tutto questo è possibile ma c’è un dovere per una nazione come l’Italia ed è quello del censimento e classificazione per la riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’eccellenza del patrimonio storico architettonico che va inesorabilmente in rovina. Per rispondere a tale dovere va organizzato un apposito ministero non mescolabile con turismo, eventi, fiere, musei, ecc. ma specifico e concentrato su un solo obiettivo.

L’Italia, dal punto di vista della conservazione di tale patrimonio è in una situazione analoga a quella post-bellica che aveva quale priorità quella della ricostruzione. La “Cavallerizza” non è bombardata (è come se lo fosse) ma ha bisogno di tornare allo splendore del suo progetto originario negli esterni e di essere ristrutturata negli interni per essere abitata in nuove funzioni, in sicurezza, con nuovi requisiti, impianti, servizi logistici, ecc. Sono interventi di un livello tale che hanno bisogno di un apposito Ministro e Ministero con portafoglio, di un apposito capitolo costantemente previsto e finanziato tutti gli anni nella legge di stabilità. La mappa degli interventi del ‘livello Cavallerizza’ avrebbe dovuto essere redatta dagli anni ’50. L’incuria ha accumulato un danno enorme. A tanta inadempienza non si risponde svendendo la propria inestimabile ricchezza all’asta. Si accantonano, anno dopo anno, le somme necessarie a portare a termine un programma (ventennale?) di riacquisizione dell’integrità di quel tesoro i cui frutti ripagheranno- anche economicamente- ampiamente della spesa e per sempre.

Intanto, con la “Cavallerizza” che si fa?
1) Il Comune delibera la sospensione, per un anno, di ogni trattativa commerciale relativa agli immobili e
2)la recessione dalla loro cartolarizzazione;
3) il sindaco di Torino, in qualità di presidente dei comuni italiani (ANCI) si fa promotore presso il governo per l’istituzione del nuovo ministero e
4) presso il ministro Padoan per l’inserimento nella legge di stabilità 2016-17 del programma pluriennale di finanziamento del suddetto ministero;
5) sempre Fassino, si attiva presso le istituzioni deputate all’ottenimento dei finanziamenti europei su programmi relativi alla tutela e riuso di opere di alto valore storico/culturale/urbano e
6) si impegna, in qualità di membro del consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti, affinchè siano ridefinite la sua natura e le sue finalità, queste ultime a vantaggio dell’uso del risparmio collettivo per finalità socio culturali e territoriali come quella del recupero di cui sopra. Infine, si utilizza l’anno di sospensione per il compimento di tutte le fasi necessarie al compimento di tutte le fasi di progettazione dell’ utilizzo di tutto il complesso perché dal 2017 sia possibile dare inizio ai lavori per il suo tanto atteso recupero.

Un momento cruciale per garantire alla collettività la tutela e la fruizione, aperta all'universo mondo, di un eccezionale bene, che oggi rischia di tessere trasformato in un ghetto per ricchi. In calce un dossier da non perdere, e un appello cui aderire.

Il dossier introdotto da queste note vuole far conoscere le vicende attuali dell’isola veneziana di Poveglia, che l’Agenzia del Demanio ha inserito tra i beni dello Stato da dismettere per essere dati in concessione o venduti a privati. Al fine di impedire tale privatizzazione e nel contempo riscattare l’isola dall’abbandono e dall’incuria in cui l’hanno lasciata gli enti che avrebbero dovuto amministrarla, si è costituita l’Associazione Poveglia per tutti: un coraggioso tentativo di cittadini interessati alla difesa dei beni comuni che ha avuto grande risonanza in Italia e all’estero.

Già il nome definisce completamente gli obiettivi della Associazione: mantenere l’isola aperta e disponibile alla fruizione di tutti, ovvero dei cittadini che già oggi la frequentano e anche di coloro che amano Venezia e possono conoscere, attraverso Poveglia, le straordinarie risorse della sua Laguna. Dunque né privatizzazione né gestione “pubblica”, entrambe fallimentari perché finalizzate unicamente a far cassa. Si tratta di perseguire davvero una via diversa: quella della comunità che si riappropria del territorio e torna a viverlo come bene collettivo, uno straordinario terreno di rafforzamento del potere dei cittadini.

I fatti sono questi. L’Associazione, si è data uno statuto fondato sulla sostenibilità e la partecipazione, radicalmente innovativo ed interessante, in brevissimo tempo l’Associazione ha ricevuto un notevole numero di iscrizioni (circa 5000 persone) e ha raccolto in un fondo di scopo una somma ragguardevole (circa 450.000 euro) vincolata agli interventi di riqualificazione e manutenzione delle aree verdi di Poveglia. Se entro il 2015 l’Associazione non avrà ragionevoli prospettive di poter intervenire su Poveglia il fondo di scopo sarà restituito ai soci. Con evidente danno per Poveglia e per la collettività tutta.

Al fine di poter intervenire nell’isola l’Associazione ha avanzato alla Agenzia regionale del demanio una domanda di concessione per un periodo di sei anni durante i quali realizzare un programma di sistemazione delle aree verdi, miglioramento degli approdi, pulizia e manutenzione delle aree scoperte e messa in sicurezza con divieto di accesso delle aree costruite a rischio di crolli. Si tratta di un programma serio, nel quale impegnare i fondi raccolti ma soprattutto il lavoro volontario dei moltissimi soci che hanno messo a disposizione le loro competenze, il loro tempo e la loro voglia di trovarsi insieme. Ad oggi la risposta dell’Agenzia è stata dilatoria e sostanzialmente negativa.

Dunque il momento è assolutamente cruciale: occorre convincere l’Agenzia a dare in concessione le parti verdi dell’isola entro il 2015. L’Associazione si è mobilitata su molti fronti: dalla campagna “Ocio che rivo” dove una giraffa (animale che nel 1828 effettivamente soggiornò in quarantena a Poveglia sulla strada verso l'imperatore d'Austria e che destò grande stupore ed entusiasmo nella Venezia dell'epoca) catalizza l’attenzione sui fatti di Poveglia, alla raccolta di firme, alla informazione capillare sui social network e sui mezzi di comunicazione, alla sollecitazione dell’Agenzia del demanio perché consideri tutti i lati positivi, anche nelle logiche dell’Agenzia, della concessione a Poveglia per tutti.

Abbiamo bisogno della simpatia e del sostegno di tutti. Il dossier aiuta a far conoscere la vicenda, racconta i momenti essenziali della formazione dell’Associazione e dei suoi difficili rapporti con il Demanio. Il caso di Poveglia è inquadrato nel più generale problema delle isole veneziane, strette nella morsa tra privatizzazione e abbandono. Un quadro fatto dalla storia delle isole della Laguna già passate in mano a privati, per lo più trasformate in alberghi di lusso e sottratte all’uso pubblico, e dalla storia delle moltissime altre isole demaniali abbandonate all’incuria e al degrado. Compresa Poveglia da decenni consegnata all’ammaloramento, al saccheggio e allo sviluppo incontrollato della vegetazione dei rovi e delle specie invasive.

Se tutti insieme riusciremo a fare in modo che l’Associazione abbia la titolarità di una concessione dell’isola sarà un vantaggio per Venezia e per l’Italia, dove si vanno moltiplicando le iniziative dei cittadini per il mantenimento dei beni demaniali all’uso pubblico, al quale sono strutturalmente destinati. Tutti i livelli di governo a parole dichiarano, oggi, di voler promuovere le iniziative a favore dell’interesse pubblico che partono dal basso, dai cittadini e dalla loro voglia di coesione sociale. Poveglia è una occasione straordinaria per passare dalle parole ai fatti.

Se potremo realizzare gli interventi, la solidarietà collettiva, le iniziative culturali di cui è fatto il progetto di Poveglia per tutti saremo riusciti a non disperdere un prezioso capitale sociale, a costruire un rapporto tra cittadini e istituzioni all’altezza dei tempi e a realizzare concretamente la sola autentica valorizzazione economica e sociale dei beni pubblici: quella messa in atto dai cittadini e dalle loro relazioni.

Riferimenti

Questo collegamento vi permette di scaricare il dossier riccamente illustrato, prodotto dall'Associazione. Vi invitiamo inoltre a votare il progetto "Poveglia per tutti” che è tra i 40 progetti selezionati tra 700 presentati in tutt’Italia dal bando “CheFare”. Qui trovate il progetto, qui potete votarlo, e vi invitiamo a farlo.
Potete anche firmare qui la petizione “Perché l'Isola di Poveglia rimanga pubblica e ritorni fruibile a tutti”
Su eddyburg abbiamo raccolto numerosi articoli sull'isola di Poveglia. Potete raggiungerli facilmente digitando la parola "Poveglia" nella cella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento.

Alcuni bilanci economici parziali sugli effetti dell'evento Expo, letti da una certa prospettiva confermano un positivo orientamento dei visitatori, e un errore di impostazione, a dir poco molto conservatrice. La Repubblica Milano, 23 ottobre 2015, postilla (f.b.)

Nove Expo-turisti su dieci promuovono Milano. Lo dice un’indagine della Camera di commercio e del Comune su un campione di mille visitatori, che hanno ammesso di essere venuti in città proprio per l’Esposizione universale. Ma se il turista appare soddisfatto, lo sono meno i commercianti e i ristoratori che a poco più di una settimana dalla chiusura dei padiglioni lamentano l’assenza di un impatto da grande evento sui loro incassi.

I turisti dell’Expo venuti a settembre apprezzano non solo il Duomo, Brera e i Navigli, ma anche l’aperitivo, i servizi della città e in qualche modo lo stile di Milano. Il 55 per cento è italiano, gli altri vengono da Europa, Cina, Giappone e America.

Ma i ristoratori tutti questi turisti sostengono di non averli “sentiti”. Già durante l’estate locali e ristoranti avevano denunciato che la movida dell’Expo, con il biglietto d’ingresso a 5 euro alla sera, “rubava” clienti alla città. Oggi, a Esposizione quasi conclusa, confermano. «Ormai è finita e accenderemo un cero — si spinge addirittura a dire Giuseppe Gissi, vicepresidente vicario di Epam, l’associazione che raccoglie i pubblici esercizi — . Se togliamo piazza Duomo e la Galleria, le altre zone non hanno risentito di alcun beneficio, anzi sono andate giù. Non ce l’abbiamo con l’Expo, chiariamolo, ma con la movida serale che ci ha uccisi».

Anche i negozianti non fanno i salti di gioia: «I dati delle transazioni delle carte di credito dimostrano che tra luglio e agosto c’è stato un più 30 per cento riferito solo agli stranieri e nelle zone del Quadrilatero — dice Renato Borghi, presidente di Federmoda — mentre nessun aumento da parte degli italiani. Quindi l’effetto Expo c’è stato solo in pieno centro, mentre il commerciante medio come in corso Vercelli non ha avuto benefici. Ma sono convinto comunque — dice Borghi — che sia cresciuta la reputazione di Milano: gli effetti si raccoglieranno più avanti». In corso Buenos Aires è Gabriele Meghnagi di Ascobaires a dire che «gli incassi sono meno delle aspettative ma comunque viva Expo, è un investimento per il futuro».

L’assessore al Commercio e turismo, Franco d’Alfonso, soddisfatto invece dei riscontri sulla città, insiste che per non disperdere il patrimonio conquistato si lavora con gli operatori su pacchetti weekend per i turisti. E assicura: «Basta guardarsi in giro e l’effetto si vede, gli alberghi sono pieni. Le periferie magari non hanno avuto benefici, ma non sono mai il primo posto dove si va quando si visita un luogo nuovo. In città girano 350mila persone in più al giorno di media: Milano ha svoltato, è una città ormai stabilmente entrata tra le prime dieci mete turistiche d’Europa ».

postilla
In realtà, leggendo queste (prevedibili, scontate) lamentele dei bottegai del centro e meno del centro sul mancato «indotto Expo», non possono non tornare in mente le arroganti battute dei conservatori culturalmente destrorsi a suo tempo, ben riassunte da quella definitiva del rappresentante BIE: «un orto di melanzane non interessa a nessuno». Battuta che, anche al netto dei toni, liquidando l'autentico progetto originario coerente col tema Nutrire il Pianeta, prefigurava una serie di tradizionalissime scelte, espositive e organizzative: il baraccone del sito sul modello parco tematico suburbano, aspirapolvere di folle e interessi, e più in generale l'impostazione antiquata, assai diversa dal genere di pubblico che un tema come quello alimentare ed ecologico avrebbe potuto attirare. Ecco, questa quasi finale «delusione degli operatori» per il mancato innesco di certe vetuste economie turistiche pare indirettamente bocciare proprio quel taglio da Expo ottocentesca, e da turismo consumistico acchiappatutto un po' da boom economico. Potrebbe, anche questo aspetto, diventare oggetto di riflessione non contingente, sia sul futuro funzionale e strategico delle aree, sia su quello più generale del turismo urbano negli anni a venire (f.b.)

«Oggi si apre una fase processuale importante. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano». La Nuova Venezia, 22 ottobre 2015 , con postilla

«Un sistema al capolinea». Così scrivevano i giornali all’indomani degli arresti per lo scandalo Mose, il 5 giugno 2014. Una «bomba» esplosa a inizio estate, che per la prima volta metteva in discussione quello che per quasi trent’anni è stato il «pensiero unico». L’inchiesta che ha cominciato a far luce su un mondo fino ad allora poco esplorato.

Nei periodi d’oro il monopolista della salvaguardia, il Consorzio Venezia Nuova, aveva voce in capitolo su tutte o quasi le cose importanti che succedevano in laguna. Finanziamenti, lavori sempre alle stesse imprese, nomine di consulenti e addirittura di ministri e sottosegretari. Funzionari dello Stato da promuovere, o da bocciare perché «non graditi», dirigenti della Regione ben disposti, anche se non necessariamente corrotti. Una grande rete di consenso per la megaopera finanziata con i soldi pubblici che ha sempre annullato ogni critica.
Lo scandalo Mose dunque non sta soltanto negli episodi di corruzione o di finanziamento illecito, in parte già accertati e oggi in attesa delle decisioni di un giudice. Ma nella ideazione di un sistema di potere che sembrava eterno ed invincibile. Che aveva come obiettivo la realizzazione delle dighe mobili, ma forse ancora di più la circolazione del denaro e i «benefici» sotto varie forme per i fedelissimi. Santi in Paradiso in Regione, dove Giancarlo Galan ha governato indisturbato per 15 anni; a Roma, in Parlamento, negli uffici tecnici. Continuità assoluta tra i governi Prodi-D’Alema e Berlusconi. Ma soprattutto pareri blindati. Positivi, quasi sempre, al più con qualche «prescrizione» facilmente superabile. L’elenco è lungo, e basta scorrere i giornali dell’epoca per accorgersi che le voci critiche non erano poi molte.
Chi si opponeva (Italia Nostra e i comitati, qualche ingegnere e un paio di geometri, pochi giornalisti) veniva citato per danni. Era passata la parola d’ordine «Salvare Venezia». Le dighe unico sistema, opera «salvifica» che aveva succhiato tutti i finanziamenti della legge Speciale, lasciando la città... all’asciutto. Ignorando secoli di cultura e di storia della laguna, principi di precauzione e la stessa Legge Speciale che voleva la grande opera «sperimentale, graduale e reversibile». Riducendo il Magistrato alle Acque a un ruolo di passacarte, poco controllore e spesso «collaboratore del controllato».
Ai presidenti dell’Ufficio dei Lavori pubblici - in testa gli indagati Cuccioletta e Piva - ma anche a molti dirigenti della prestigiosa istituzione erano garantiti collaudi milionari. Nella lista dei collaudi era finito anche Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici poi arrestato per lo scandalo del G8. Il Consorzio organizzava anche «sopralluoghi» in laguna, con barche ed elicotteri, per giornalisti stranieri, tv e dirigenti dello Stato. Molti consulenti del Consorzio erano chiamati a far parte del «Comitato Tecnico di Magistratura». Organismo dipendente dal Magistrato alle Acque che dava i pareri a tutti i progetti.
Il Comune era escluso dalla partecipazione. Così la commissione di Salvaguardia, le commissioni tecniche. I cinque «esperti internazionali» nominati dal governo Prodi (ministro Baratta) nel 1995. Anche loro avevano promosso il Mose pur con qualche prescrizione. A fermare la grande opera, definita «inutile e dannosa» da comitati ed esperti, non era bastata la Valutazione di Impatto ambientale negativa (1997), poi impugnata al Tar e superata dal Consiglio dei ministri in sede politica. E nemmeno i rilievi della Corte dei Conti. Un dossier-sentenza del giudice Antonio Mezzera che denunciava le tante stranezze del sistema di Salvaguardia negli ultimi vent’anni – costi aumentati e mancanza di confronto fra le alternative, commistione controllori-controllati – era stato tenuto in un cassetto per mesi. Poi pubblicato, ma senza alcun effetto. Così le procedure di infrazione europee.
Il Consorzio monopolista continuava a dettar legge. Forte delle normative che gli garantivano i lavori senza gare d'appalto (concessione unica), dei finanziamenti, del 12 per cento di oneri (su sei miliardi fanno circa 700 milioni), dei fondi neri utili per creare il consenso. E, spesso, i controlli fatti in casa. Zone oscure dove adesso si accendono i riflettori dei tre commissari mandati dal presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che hanno ridotto le spese e scoperto molte «stranezze» nel sistema Mose. Ma la strada è in salita. Oggi si apre una fase processuale importante, pur in assenza dei protagonisti principali della corruzione, a cominciare dal «grande accusatore» Giovanni Mazzacurati. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano.

postilla
La corruzione é certamente un aspetto rilevante dell'affaire MoSE: dimostra l'infimo livello di moralità dei corrotti (scelti dagli elettori per rappresentare gli interessi dei più), e il trasferimento del potere reale dalla politica a un'economia, quella capitalistica, basata sullo sfruttamento. Ma colpisce molto che venga trascurato l'errore più grave della politica e della cultura: non aver compreso quando si decise e via via si confermò il MoSE, e ancor oggi non si comprende, che cosa la Laguna di Venezia sia e come il MoSE (e non solo lui) la stia distruggendo. Su eddyburg trovate numerosi documenti che vi spiegano perchè a come: basta che digitiate MOSE sulla finestrella sensibile che trovate in cima a ogni pagina.

Chissà se una parte consistente di quel 64 per cento che ha votato per lui ha compreso dove sta la causa s della rottamazione di Roma? Sarebbe già un buon risultato. Il manifesto, 21 ottobre 2015
Altro che il dream-team imma­gi­nato dal pre­si­dente del con­si­glio. Se Marino riu­scirà a evi­tare l’avviso di garan­zia, e dopo il lungo col­lo­quio con i magi­strati la pro­cura non avesse motivo di inda­garlo, il sin­daco potrebbe riti­rare le dimis­sioni e rive­larsi un mici­diale boo­me­rang per tutti quelli che gli ave­vano già fatto il funerale.

A comin­ciare da chi è corso in pro­cura a con­se­gnare l’esposto per gli scon­trini, intra­ve­dendo nella clas­sica buc­cia di banana giu­di­zia­ria l’occasione ghiotta di un bel bot­tino elet­to­rale, non essendo riu­sciti a scal­zarlo con le armi pro­prie della poli­tica. Pro­se­guendo con il presidente-segretario che, per inter­po­sti asses­sori, gli ha riti­rato una fidu­cia che non era nella sua dispo­ni­bi­lità dar­gli, dimo­strando, se ancora ce ne fosse biso­gno, di tenere in nes­suna con­si­de­ra­zione il voto dei cit­ta­dini. Fino ai mon­si­gnori che, seguendo l’impri­ma­tur papale, lo ave­vano sco­mu­ni­cato boc­cian­done la sin­da­ca­tura con dichia­ra­zioni roboanti sulle mace­rie romane.

E senza dimen­ti­care gli autori della for­sen­nata cam­pa­gna media­tica che pochi prima di lui ave­vano avuto l’onore di rice­vere, un’offensiva all’insegna del vibrante slo­gan «vogliamo un sin­daco che tappi le buche di Roma». Il ritorno del dimis­sio­na­rio in Cam­pi­do­glio effet­ti­va­mente sarebbe un vero colpo di scena in una trama che sem­brava ormai desti­nata a seguire un copione coe­rente con il trionfo dei ter­re­stri con­tro il marziano.

La pos­si­bi­lità di un ritiro delle dimis­sioni l’ha fatta intra­ve­dere lo stesso Marino nella con­fe­renza stampa con­vo­cata all’indomani del det­ta­gliato reso­conto offerto ai giu­dici sulla sto­ria degli scon­trini («se ho scritto che volevo pren­dere tempo per valu­tare, signi­fica che lo pen­savo e lo penso ancora»). Nell’incontro con i gior­na­li­sti il mar­ziano ha respinto al mit­tente le accuse di aver rubato soldi pub­blici bol­lan­dole come una vio­lenta spe­cu­la­zione delle oppo­si­zioni (Fra­telli d’Italia e 5Stelle) a corto di altri argo­menti. Poi ha con­fer­mato che le sue dimis­sioni sono state moti­vate dal rispetto verso la magi­stra­tura chia­mata ad accer­tare i fatti.

E men­tre la sua ex mag­gio­ranza (Pd e Sel) ora si ritrova tra le mani la patata bol­lente, alle fine­stre di palazzo Chigi potrebbe arri­vare l’eco delle mobi­li­ta­zioni che la rete di soste­gno (“Marino ripen­saci”) minac­cia di repli­care sotto il cavallo di Marco Aurelio.

In fondo Marino era pur sem­pre salito al Cam­pi­do­glio con il 64 per cento dei con­sensi dopo aver vinto le pri­ma­rie del Pd. Per quanto i romani siano abi­tuati alle mil­le­na­rie scor­re­rie del potere, toglierlo di mezzo con un col­petto di palazzo potrebbe averne risve­gliato l’anima irri­ve­rente. I famosi venti giorni di tempo per ripen­sarci sca­dono il 2 di novem­bre. Suf­fi­cienti a sca­te­nare una nuova com­me­dia romana.

Gli errori truffaldini compiuti da malgovernanti (in questo caso Berlusconi) ai danni del territorio e dei suoi abitanti qualcuno li paga: purtroppo mai cil maggiore colpevole. Il manifesto, 20 ottobre 2015

Espo­nenti della Pro­te­zione civile inqui­siti per aver truf­fato la Pro­te­zione civile. Espo­nenti della Pro­te­zione civile che tor­nano e ritor­nano pro­ta­go­ni­sti di inchie­ste nell’Aquila del disa­stro. Sta­volta è comin­ciata con un bal­cone crol­lato e, dopo poco più di un anno di accer­ta­menti e con­su­lenze, la Pro­cura dell’Aquila ha chiuso l’inchiesta sul tra­collo di quel bal­cone, in una palaz­zina del pro­getto Case (gli alloggi anti­si­smici prov­vi­sori tirati su nel post ter­re­moto) in loca­lità Cese di Pre­turo, sulle con­di­zioni di cen­ti­naia di altri bal­coni e sulle moda­lità che hanno por­tato alla loro realizzazione.

Gli inda­gati sono 37, sospet­tati di aver imbro­gliato e rag­gi­rato, per milioni di euro, Stato e Pro­te­zione civile. Le veri­fi­che hanno por­tato al seque­stro di 800 bal­coni in 494 appar­ta­menti (su 4.500) delle 19 new town esi­stenti, che hanno ospi­tato oltre 16 mila sfol­lati e che ancora oggi danno rico­vero a migliaia di cit­ta­dini. Le accuse, a vario titolo, sono di crollo col­poso, truffa in pub­bli­che for­ni­ture e una serie di falsi. Nei guai pro­get­ti­sti, inge­gneri, diri­genti del comune dell’Aquila, impren­di­tori di molte regioni d’Italia, collaudatori.

Secondo la magi­stra­tura il legno uti­liz­zato e for­nito per la costru­zione dei bal­coni non risulta con­forme alle pre­scri­zioni nor­ma­tive, non pre­senta alcuna cer­ti­fi­ca­zione in merito all’idoneità e i pan­nelli mul­ti­strato non hanno alcun tipo di col­lante, il che ne riduce la resi­stenza nel tempo (una parte di essi sta mar­cendo). Gli inda­gati, a vario titolo, avreb­bero indotto in errore la pre­si­denza del con­si­glio dei mini­stri, Dipar­ti­mento della Pro­te­zione civile, che avrebbe ero­gato più di 18 milioni di euro. I pm, inol­tre, con­te­stano il danno pro­cu­rato e di avere agito appro­fit­tando della situa­zione di neces­sità degli sfol­lati, del con­te­sto emer­gen­ziale, e di aver com­messo il fatto con abuso di potere. I resi­denti avreb­bero più volte segna­lato, agli uffici muni­ci­pali, l’inconsistenza e la scarsa tenuta di quei bal­coni, ma nes­suno li avrebbe mai presi in considerazione.

Tra gli inqui­siti “cele­bri” Gian Michele Calvi, pro­get­ti­sta e diret­tore dei lavori del pro­getto Case, e Mauro Dolce, diret­tore dell’Ufficio rischio sismico di Pro­te­zione civile e respon­sa­bile unico del pro­getto. I due sono impu­tati anche nel pro­cesso alla Com­mis­sione grandi rischi, riu­nita a L’Aquila il 31 marzo 2009, (in primo grado sono stati con­dan­nati a sei anni, in secondo assolti) per aver for­nito alla popo­la­zione, a una set­ti­mana dal deva­stante sisma, mes­saggi tran­quil­liz­zanti. Entrambi sono poi coin­volti nella vicenda degli iso­la­tori sismici fal­lati, le ’molle’ instal­late sotto le palaz­zine del pro­getto Case, risul­tate ina­datte allo scopo: Dolce è stato con­dan­nato a un anno, Calvi è ancora imputato.

Sarebbe ora che l'Unesco assumesse le sue responsabilità. Ma: 1) Mose e grandi navi hanno amici all'Unesco. 2) a Brugnaro non glie ne può fregà di meno. La Nuova Venezia, 18 ottobre 2015

Lascia oggi Venezia la delegazione dei commissari dell’Unesco con esperti del Centro del patrimonio mondiale, dell’Icomos e della Convenzione Ramsar, che per cinque giorni è stata impegnata in un intenso programma di sopralluoghi e incontri, per valutare lo stato di salute della città dal punto di vista ambientale e monumentale, ai fini del suo mantenimento tra i siti Patrimonio mondiale dell’umanità. La missione terminerà nella redazione di un report che contribuirà alle successive valutazioni degli organismi Unesco.

Il prossimo appuntamento in cui, presumibilmente, si discuterà del caso, sarà infatti l’annuale riunione del Comitato del patrimonio mondiale che si svolgerà in Turchia nell’estate 2016. Sarà in quella sede - dopo il preoccupato documento dello scorso anno, sui problemi ambientali, turistici e legati alle grande navi - che l’Unesco prenderà le sue decisioni sul caso Venezia, e c’è da temere.
L’area Unesco di Firenze ad esempio è stata appena messa “sotto osservazione”, per la mancata piena applicazione del piano di gestione del sito. Una decisione che è già stata presa per Venezia. La messa sotto osservazione è il primo dei tre livelli di “attenzione” previsti dall’Unesco». Il secondo step è la messa in mora, il terzo, l’espulsione dai luoghi sotto tutela. Uno degli ultimi incontri della delegazione Unesco è stato quello all’Archivio di Stato di Venezia su “Pressione turistica, conservazione e tutela”. promosso dal segretariato generale dei Beni culturali.

Una buona notizia grazie un'iniziativa intelligente dei cittadini veneziani (e al Demanio statale). Forse salvato un importante bene pubblico nella Laguna di Venezia che correva il rischio di diventare un ghetto per ricchi come è successo per altre isole. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015, con postilla

Poveglia tornerà di nuovo all’asta, ma a condizioni diverse. Il nuovo bando potrebbe infatti essere redatto sulla base di quello appena lanciato per i fari, in modo cioè da favorire iniziative che partono dai cittadini, come la proposta dell’Associazione Poveglia. La notizia arriva proprio dal direttore nazionale del Demanio, Roberto Reggi, che giovedì ha incontrato nella sede romana una delegazione di quattro persone dell’associazione veneziana (Lorenzo Pesola, Giancarlo Ghigi, Sandro Capparelli e l’avvocato Francesco Mason).

Reggi si è dimostrato molto interessato alla proposta dei cittadini di avere in concessione l’isola e ha gradito il dossier preparato dallo staff dove vengono spiegati i primi interventi, con tanto di dettagli economici. È da ricordare che di recente il Demanio di Venezia non aveva accettato la richiesta dell’Associazione Poveglia, rispondendo in modo sbrigativo e tirando in ballo senza spiegazioni il parere dell’amministrazione comunale, nonostante si tratti di un bene statale. Proprio per questo l’Associazione ha pronta una bozza per fare ricorso, in quanto la risposta è stata evasiva e mancante rispetto a come era stata presentata.
I due percorsi, il ricorso e la richiesta di riprendere in considerazione la proposta, non si escludono. «Reggi – ha detto Pesola – ci ha riferito che è interessato a proposte di sussidiarietà orizzontale e che ne riparleremo dopo un incontro che avverrà a breve tra Demanio centrale, Regione e amministrazione comunale in cui si parlerà anche del destino altri beni demaniali». Il nuovo bando, se fosse come quello sui fari, darebbe per il 60% importanza al progetto e per il 40% all’aspetto economico e potrebbe rappresentare l’ultima possibilità per l’Associazione Poveglia di avere in concessione l’isola per adibirla a spazio pubblico agibile.

postilla

Ci siamo occupati spesso dell'isola di Poveglia, una delle più interessanti della Laguna: per le sue dimensioni (con i suoi 7 ettari è una delle più vaste tra le "isole minori"), per la sua facile accessibilità (è a poche centinaia di metri dal Lido), per la presenza di molti edifici facilmente riutilizzabili (nell'antichità era un popoloso borgo), per l'ampio terreno utilizzabile per l'agricoltura, per gli antichi e ancora vivissimo legami con Venezia (è luogo di frequenti scampagnate). In questo sito trovate numerosi articoli sulle vicende recenti dell'isola: basta che scriviate "poveglia" sulla casella sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente d'ingrandimento) e ottenete il collegamento a tutti gli articoli qui raccolti.

». Un’intervista cdi Ernesto Milanesi a Salvatore Settis. Il manifesto, 17 ottobre 2015
Una sco­moda verità rimossa e la difesa costi­tu­zio­nale dei beni comuni. Sal­va­tore Set­tis, 74 anni, archeo­logo e sto­rico dell’arte, ex pre­si­dente del Con­si­glio supe­riore dei beni cul­tu­rali (da cui si dimise nel 2009 in pole­mica con il mini­stro Bondi), offre il suo «segna­via» alla Fon­da­zione Cari­paro, che ha dedi­cato un appun­ta­mento a «Beni cul­tu­rali e mer­cato: mis­sione (im)possibile?» al cen­tro cul­tu­rale San Gae­tano di Padova.

«Le risorse per musei e siti, ricerca, scuola, uni­ver­sità e cul­tura? È inu­tile nascon­dersi die­tro un dito: l’Italia, in base ad una recente inda­gine dell’Unione euro­pea, è seconda die­tro all’Estonia nell’evasione fiscale fra get­tito Iva pre­vi­sto e quello incas­sato nel 2013 rispetto all’anno pre­ce­dente. Si tratta, sem­pre secondo Bru­xel­les, di una somma pari a 47,5 miliardi di euro. Ecco dove i governi devono tro­vare i soldi!» sbotta fra gli applausi.

Per Set­tis fa fede sem­pre l’articolo 9 della Costi­tu­zione («La Repub­blica pro­muove lo svi­luppo della cul­tura e la ricerca scien­ti­fica e tec­nica, tutela il pae­sag­gio e il patri­mo­nio sto­rico e arti­stico della nazione»). Ma stride rispetto alla realtà: «Abbiamo 377 sto­rici dell’arte nell’organico: 240 nei musei e 137 nelle Soprin­ten­denze. Numeri che par­lano da soli, soprat­tutto nel caso delle Soprin­ten­denze che in un ter­ri­to­rio capil­lar­mente pieno di beni cul­tu­rali si ritro­vano con per­so­nale per­fino minore di qual­che museo ame­ri­cano e comun­que con un’età media più vicina ai 60 che ai 50 anni, dun­que vicina al pen­sio­na­mento», evi­den­zia senza tanti complimenti.

Nel Nord Est il pae­sag­gio è vit­tima dell’urbanistica senza scru­poli e dell’economia del cemento. Un’«emergenza» che stava a cuore ad Andrea Zan­zotto e che con­ti­nua ad impe­gnare comi­tati, asso­cia­zioni, sin­goli. Che ne pensa?
«Il Veneto è una delle regioni più belle non solo d’Italia ma del mondo: pos­siede una civiltà, una tra­di­zione cul­tu­rale, archi­tet­to­nica e pae­sag­gi­stica di prim’ordine. Ho l’impressione che una parte dei veneti la stiano dimen­ti­cando, in par­ti­co­lare quelli che poi fini­scono a gover­nare la regione e comuni molto impor­tanti come Vene­zia. Negli ultimi decenni c’è stata una scan­da­losa «inva­sione» delle cam­pa­gne: lo spar­gersi delle città come una mar­mel­lata che sta inva­dendo la cam­pa­gna a dispetto del pae­sag­gio. È molto dolo­roso dover con­sta­tare una scarsa rea­zione civica, anche per­ché si tratta di un gesto auto­le­sio­ni­stico. Il Veneto ha una pia­nura fra le più fer­tili del pia­neta, ma ha il pri­mato dei capan­noni costruiti anche se vuoti per­ché non c’è più indu­stria. Una scia­gu­rata scelta che ha finito per logo­rare l’attenzione, la sen­si­bi­lità, il gusto e il senso civico».

Lei è stato in prima fila nella difesa degli affre­schi di Giotto minac­ciati dal pro­getto di audi­to­rium (ora defi­ni­ti­va­mente archi­viato) dell’allora sin­daco Fla­vio Zano­nato. Qual è la disto­nia fra «cul­tori della mate­ria» e pub­blici amministratori?
«Solo chi non si fa troppi scru­poli né riflette abba­stanza può imma­gi­nare qual­cosa che metta a rischio la Cap­pella degli Scro­ve­gni, un gio­iello senza para­goni e patri­mo­nio dell’umanità. Noto con grande pre­oc­cu­pa­zione che a tutti gli appelli in difesa di Giotto si rea­gi­sce sem­pre in modo tran­quil­liz­zante. La cripta della Cap­pella invasa dall’acqua? Il Comune di Padova dice di non pre­oc­cu­parsi. Un ful­mine col­pi­sce l’edificio? Di nuovo: va tutto bene. Dob­biamo restare tran­quilli fin­ché non casca tutto? Credo che sia neces­sa­rio, invece, tor­nare a uno straor­di­na­rio rigore nella sal­va­guar­dia dei beni arti­stici e cul­tu­rali: biso­gna esa­ge­rare nella loro tutela pro­prio per essere sicuri di preservarli».

Il suo ultimo sag­gio è dedi­cato a Vene­zia: il «caso Mose» ha dimo­strato la reale tra­du­zione della salvaguardia?
«È un grande epi­so­dio di cor­ru­zione, dav­vero para­dig­ma­tico, che va ben al di là di disat­ten­zione o errori. Nella vicenda Mose è rima­sto coin­volto anche l’allora sin­daco Orsoni, men­tre Galan (ex mini­stro dei beni cul­tu­rali) è ancora pre­si­dente della com­mis­sione cul­tura della Camera nono­stante con il pat­teg­gia­mento abbia ammesso le sue respon­sa­bi­lità. Ecco: Mose, Expo 2015 o Roma Capi­tale, dimo­strano come, in un paese in cui l’attenzione civile è ridotta al lumi­cino attra­verso «leggi spe­ciali», la cor­ru­zione si installa in modo fisso e pun­tuale. Ciò spinge ad una rifles­sione ulte­riore: con il mol­ti­pli­carsi dei comi­tati che si pre­oc­cu­pano del ter­ri­to­rio, mi auguro che la coscienza della cit­ta­di­nanza attiva rie­sca ad imporre più rigore a chi fa poli­tica per mestiere».

Gestione dei beni cul­tu­rali: una sfida sem­pre più ostica?
«ono un vero e pro­prio pro­blema nazio­nale. Sol­tanto oggi si com­pren­dono fino in fondo gli effetti della cri­mi­nosa e irre­spon­sa­bile deci­sione del governo Ber­lu­sconi nel 2008. Il dimez­za­mento dei fondi al mini­stero l’ho denun­ciato all’epoca per primo dalle colonne del Sole24Ore. Adesso chiun­que si rende conto delle con­se­guenze. Senza dimen­ti­care l’atteggiamento degli ammi­ni­stra­tori locali: il sin­daco di Verona vuol met­tere il tetto all’Arena come se fosse un circo eque­stre di pla­stica. E non è la prima volta che mani­fe­sta que­sta stram­pa­lata idea. All’inizio, tutti ci hanno riso sopra. Ma il sin­daco ci riprova. E può essere che a furia di insi­stere, magari, alla fine ce la faccia.

Può valu­tare la stra­te­gia del mini­stro Fran­ce­schini? Qual è, secondo lei, la via migliore da per­se­guire nel «governo» dei beni culturali?
«Non so qual è il dise­gno che ha in mente il mini­stro. Tut­ta­via, pro­viamo ad essere otti­mi­sti. La sua prima mossa è stata nei con­fronti dei musei. Lasciamo stare se i venti diret­tori siano le per­sone vera­mente adatte. Come pure i cri­teri per le nomine. Ma il governo, non solo Fran­ce­schini, deve far seguire imme­dia­ta­mente una seconda mossa: raf­for­zare dav­vero le Soprin­ten­denze. Cioè dotarle di per­so­nale, farle fun­zio­nare e dimo­strarne il ruolo cru­ciale. È il vero banco di prova. La più urgente neces­sità è far fun­zio­nare le isti­tu­zioni cul­tu­rali mediante le per­sone. Comun­que non basta: ser­vono più risorse, ma anche uno stretto col­le­ga­mento fra musei e soprin­ten­denze. La pecu­lia­rità mag­giore dell’Italia sono pro­prio le col­le­zioni museali, espres­sione dei nostri territori.
«La Gal­le­ria dell’Accademia di Vene­zia non è un museo d’arte uni­ver­sale come il Lou­vre, ma riflette fon­da­men­tal­mente la sto­ria di quella città che non mi pare certo secon­da­ria. Ed è lo stesso ovun­que, da Parma a Lecce. Mi sento di aggiun­gere un’altra con­si­de­ra­zione: non è che il «modello museale» ita­liano sia arre­trato rispetto a quello degli Stati Uniti che rap­pre­sen­te­rebbe la punta più avan­zata. Se uno va in giro per New York vede tante belle cose, ma non tro­verà mai la Cap­pella degli Scro­ve­gni. E c’è una ragione per­ché non la trova. A Padova, invece, ci sono i Musei Civici e Giotto. Il punto è met­tere insieme il patri­mo­nio di pro­prietà pub­blica (sta­tale o comu­nale) e pri­vata in un dise­gno gene­rale di tutela, valo­riz­za­zione e frui­zione pub­blica. Altri­menti, non solo man­che­remmo alla nostra tra­di­zione e mis­sione, ma anche a ciò che dice la legge. E per la nostra Costi­tu­zione, Giotto appar­tiene a un sici­liano tanto quanto ad un cit­ta­dino di Padova».

Grande feeling con Brugnaro, un’ora di faccia a faccia a porte chiuse. Il sindaco: "Ho grande fiducia, non ha fatto promesse ma ci aiuterà"». Dio prima li fa e poi li accoppia: in comune anche la cultura. La Nuova Venezia, 17 ottobre 2015

VENEZIA Il governo salverà Venezia. E il rilancio dell’Italia ripartirà dalla cultura [sic]. Il premier Matteo Renzi sbarca in laguna e offre l’assist al sindaco Luigi Brugnaro. «Non ci fa velo il risultato elettorale», dice, «il nostro ruolo istituzionale è di essere pronti e disponibili. Il governo farà la sua parte». Prima volta a Venezia dopo la campagna elettorale di primavera, in cui il Pd aveva sostenuto Felice Casson. Ma è andata diversamente da quello che il centrosinistra si augurava. E a Ca’ Farsetti adesso governa l’imprenditore Luigi Brugnaro. Che è riuscito dove non erano riusciti i suoi predecessori. E ha portato a Ca’ Farsetti, sede del municipio veneziano, il presidente del Consiglio per spiegargli l’emergenza Venezia. Oltre un’ora di incontro a porte chiuse. Poi Renzi affronta i giornalisti.

«Per risolvere il deficit del Comune lavoreremo insieme al sindaco. Non entro nel merito, per i dettagli c’è tempo». Brugnaro incassa e si apre in un grande sorriso: «Sono più fiducioso di ieri», dice, «il premier era molto preparato sulla nostra vicenda, ci ha ascoltato con attenzione. Non ha fatto promesse ma siamo molto soddisfatti». Il dossier consegnato dal sindaco di Venezia la settimana scorsa a palazzo Chigi nelle mani del sottosegretario Claudio De Vincenti prevedeva un pacchetto di richieste per affrontare la crisi del Comune e il rischio default.
Finanziamenti e modifiche del Patto di Stabilità ma provvedimenti strutturali come la possibilità di mettere tasse locali e di sbloccare crediti e burocrazia per il rilancio di Marghera. E i quadri che Brugnaro vuol vendere? «C’è una bella discussione tra Brugnaro e Franceschini, non mi voglio intromettere». «Cosa ci darà il governo? Non importa il colore del gatto, basta che prenda i topi», scherza Brugnaro visibilmente soddisfatto. Il saluto alla giunta schierata, poi oltre un’ora di colloquio nello studio rosso di Ca’ Farsetti con foto di rito sul balcone. Un fatto che non ha precedenti negli ultimi anni. L’ultimo premier a visitare Ca’ Farsetti era stato Romano Prodi ai tempi del sindaco Paolo Costa.
Renzi era arrivato a Tessera intorno alle 17 di ieri pomeriggio, mezz’ora di ritardo sulla tabella di marcia. In motoscafo a San Giobbe, accompagnato dal prefetto Cuttaia e dal sindaco, per visitare il nuovo «campus» universitario realizzato da Ca’ Foscari. Strutture industriali dismesse come l’ex Macello e il Molino Passuello che adesso vivono nuova vita. Il premier sbarca sulla riva e si offre per un selfie con gli studenti. «Ho incontrato un sangiobbino», racconta, «mi ha detto che qui c’era la sua casa. C’era in lui l’atteggiamento giusto: rimpianto, ma anche orgoglio per quello che questa zona è diventata».
«Ca’ Foscari è un esempio a livello mondiale», ha detto Renzi davanti ai professori schierati, in testa il rettore Michele Bugliesi, «l’Italia può diventare una superpotenza mondiale in fatto di cultura». Il sindaco parla del rilancio di una città in crisi. Cita il modello Boston, dove gli studenti vengono da tutta l’America e poi diventano i «nuovi abitanti» della città. «Così dovrà succedere per Venezia». «Che avrà sempre», gli fa eco il premier, «un valore straordinario ed evocativo. Non è soltanto lo scrigno del passato ma l’identità del nostro futuro». Renzi parla e scherza, riscuote consensi. Cita le riforme («Nessuno ci credeva e siamo all’ultimo miglio)», rassicura i docenti. «L’Università avrà risorse aggiuntive e non sostituive». Applausi. Poi a visitare il nuovo campus. Non soltanto aule ma verde, biblioteca e residenza universitaria. In prima fila anche i rettori che negli ultimi anni hanno contribuito a realizzare l’opera. Carlo Carraro, Pierfrancesco Ghetti, Paolo Costa, Giovanni Castellani.
Renzi si ferma ad ascoltare un professore che gli spiega come recuperare ore di insegnamento «a costo zero». Lo conosceva bene il premier? «No», risponde il professore, ma mi ha ascoltato con attenzione». È il Renzi style, che il presidente applica anche ai veneziani e agli studenti che incontra a San Giobbe. In serata il presidente si è spostato a palazzo Ducale per partecipare alla cena di gala nella Sala del Maggior Consiglio con i quaranta ambasciatori e ministri del’Onu. Tema, l’ambiente e l’innalzamento del livello dei mari.

«Una critica radicale al produttivismo e al consumismo che va alla radice del problema ambientale, un problema cche non si risolve nell'opposizione tra sopravvivenza della Natura e declino della civiltà». Ciò che ci sembra si stia comprendendo oggi, ieri era già stato scritto.

André Gorz, Ecologia e libertà, a cura di Emanuele Leonardi Orthotes Editrice,Napoli-Salerno 2015, 94 pp., 14 euro (collana: Dialectica)

Leggere Ecologia e libertà (di Andrè Gorz può stupire. Sì, perché è difficile sospettare che un libro scritto da un utopista francese, comunista eterodosso, quarant'anni fa, sia in grado di regalarci delle riflessioni così profonde sul nostro futuro.

Certo, nell'introduzione a firma del curatore – Emanuele Leonardi, ricercatore dell'Università di Coimbra – viene sottolineato come il libro appaia datato su certe “previsioni” e prospettive. Gorz scrisse il libro nel 1977, nell'Europa divisa dalla cortina di ferro, ed il mondo era profondamente diverso da quello in cui viviamo oggi. È scontato che il testo in alcuni passaggi risenta profondamente dell'epoca in cui fu scritto.

Meno scontato è che il libro nei suoi cardini fondamentali sia ancora in grado di affrontare il nostro futuro, di suggerire risposte e avvertirci di rischi che sono d'attualità. Le città dove “l'intasamento dei trasporti [...] fa di 'tutti' quella pura quantità di umanità anonima che si oppone, per la sua stessa densità, all'avanzamento e al comfort di ciascuno” (p. 74), sono le stesse che viviamo oggi, caratterizzate da quell'isolamento rancoroso che porta ai ghetti e alle gated communities.

Del resto l'attualità del ragionamento di Gorz si può misurare anche nella capacità di cogliere la questione ambientale come nucleo centrale di una politica autenticamente di sinistra, come di nuovo suggerisce Leonardi.

L'ecologia, in sé e per sé, non è in grado di dare risposte definitive. La soluzione ai problemi di sostenibilità ambientale non è per forza emancipativa: il rischio è quello di un ecofascismo, di una soluzione autoritaria ai problemi ambientali – centralizzata e in sostanza incapace di superare il problema che si propone di affrontare. L'ecologia politica di Gorz non ha nulla dei tecnicismi apparentemente neutri della green economy e dello sviluppo sostenibile. Al contrario, è un anticapitalismo che contesta il produttivismo alla radice, travolgendo nella critica anche la razionalità industriale real-socialista dei capitalismi di Stato sovietici. Nemmeno il welfare state keyenesiano viene risparmiato, laddove “servizi mercificati [...] svolgono funzioni un tempo appannaggio della zia, dei nonni o dei vicini” (p. 74).

Sono considerazioni importanti, soprattutto dal punto di vista odierno, dove il tempo del lavoro e quello del consumo comprimono le nostre vite fino a reificare anche le relazioni di prossimità, i legami famigliari. E Gorz non è certo un conservatore nostalgico, non fa un peana della civiltà rurale tradizionale, ben conscio che anche questa lode è funzionale al mantenimento dello status quo.

Ecologia e libertà stupisce proprio perché propone una critica radicale al produttivismo e al consumismo e va alla radice del problema ambientale, un problema complesso che non si risolve nell'opposizione tra sopravvivenza della Natura e declino della civiltà. Al contrario, Gorz pone il tema ambientale nella trama dei conflitti sociali, come contraddizione centrale nel nostro mondo. E cerca coraggiosamente la risposta nel domani e non nel passato.

Una boccata d'aria fresca rispetto ad un dibattito politico incentrato sulle sfumature della governance, dove al cittadino si sostituisce un cliente che ha diritto di scegliere l'offerta politica che più gradisce, quasi un tifoso a cui è concesso di gridare il proprio sdegno o la propria gioia, ma che non può in alcun modo discutere le regole.

Gorz è estraneo a questa nuova visione della politica e della società e nel suo libro si pone esplicitamente il problema dell'alternativa al capitalismo consumista. E le risposte non sono i comodi modelli storici del movimento operaio, ma sono strade nuove e a tutt'oggi non battute. Produrre meno cose, di migliore qualità, con materiali rinnovabili e azzerando gli sprechi, in una prospettiva di controllo produttivo decentralizzato per permettere un controllo diretto delle piccole comunità. Insomma elementi di dibattito attuale sulla crisi ecologica che comincia a manifestarsi con coloriture sempre più drammatiche.

Il libro è chiaro, conciso, parla un linguaggio lineare, vuole far arrivare il messaggio non solo agli specialisti della materia, ma anche a quei cittadini che dovranno ben guardarsi dallo spettro del tecnofascismo, ossia la decrescita produttiva e di consumi senza che sia messa in discussione la struttura industriale e gestita da una élite di tecnocrati e burocrati che impongono scelte e decisioni, spesso gravide di conseguenze, ad una popolazione passiva. Un percorso che Gorz vedeva già intrapreso per metà mentre scriveva Ecologia e libertà. Quanta strada abbiamo percorso in questa direzione negli ultimi quarant'anni?

Le soluzioni proposte nel libro hanno un retrogusto ingenuo; forse, ancor più di fronte al cinismo rassegnato che imperversa oggi, fanno quasi sorridere. Eppure fanno riflettere sull'utopia speculare – (neo)liberale – che il libro contrasta fieramente, l'idea cioè di poter continuare a produrre, crescere, e “svilupparsi” all'infinito, senza porsi alcun problema e considerando normale e inevitabile la distruzione della vita in nome del profitto. Anzi, arrivando a considerare la natura, la vita, come un ostacolo.

E allora il monito di Gorz perde l'aura naive e diventa una chiamata alle armi: Convivialità o Tecnofascismo.

La premessa perché lo spazio aperto urbano possa configurarsi (non solo su una teorica mappa) come una rete e una infrastruttura, è la conoscenza. La Repubblica Milano, 17 ottobre 2015, postilla (f.b.)

Dare suggerimenti pratici. Ma anche fare rete e agevolare la vita di chi vuole il suo pezzo di terra da coltivare ma non sa bene se può farlo e come farlo. Nasce in Comune l’ufficio Orti, con esperti del settore Verde pronti a rispondere al milanese che vuole dedicarsi alla zappa urbana. Il responsabile della nuova iniziativa è un funzionario dal pollice molto verde che si chiama, nomen omen, BortoloFurloni.

I contadini urbani sono un fenomeno in forte crescita in città. In particolare in questo momento c’è una forte domanda da parte di privati che vogliono trasformare parte del proprio terreno agricolo, appunto, in un fazzoletto da zappare e irrigare. Il punto è che la maggior parte di questi terreni si trova nel Parco agricolo Sud, dal Forlanini al parco delle Risaie e serve comunque un via libera da parte dell’ente parco per poter avviare la pratica. L’ufficio ad hoc creato dal Comune nasce anche per agevolare i cittadini in questa pratica. «Noi facciamo da facilitatori con gli aspiranti contadini — spiega Furloni — e puntiamo anche a far emergere tutti gli appezzamenti coltivati che sono sommersi». In città sono 2.500 gli orti che Palazzo Marino ha mappato. E sono di vario genere.

Ci sono le coltivazioni delle zone assegnate in base al reddito, che crescono ogni anno e per i quali l’amministrazione sta pensando a nuovi criteri per aprire di più ai giovani e ai disoccupati. Ci sono poi quelli nelle scuole, con i nonni di quartiere che se ne prendono cura d’estate: l’anno scorso nella sola zona 5 ne sono nati 20 grazie all’idea del signor Menasce, un pensionato anche consigliere di Zona che ha messo insieme tutor di istituti di agraria, sponsor privati come Brico e Danone, Fondazione Cariplo e il Comune per creare un modello che funziona. Sono in crescita anche gli orti condivisi, strumento di coesione sociale ma anche di lavoro, come nel caso dell’Orto comunitario Niguarda, dove lavora da tre mesi un ragazzo del Mali da poco arrivato in Italia. Ci sono poi gli orti nelle cascine, come a Cascina Sant’Ambrogio, ravvivato dai ragazzi dell’associazione Cascinet con mercatini e feste. E poi ci sono gli orti spontanei, dove cittadini coltivano da anni pezzi di terra abbandonati che l’amministrazione ora punta a far emergere. E l’ufficio (oggi solo telefonico 02/88454127 ma presto con un sito e una mail) servirà anche a questo.

Essendo l’orto riconosciuto nel Piano di governo del territorio come un servizio stanno per essere approvati i criteri con i quali un privato può convenzionare i propri orti con l’amministrazione, prevedendone una quota a tariffe sociali. L’assessore al Verde, Chiara Bisconti: «Così riconosciamo la forte domanda di ritorno alla coltivazione della terra che sentiamo nella nostra città, soprattutto da chi prova piacere a ritrovare rapporto diretto con la terra e il cibo che consuma, anche alla luce della Food Policy appena promossa dal Comune. L’ufficio promuoverà azioni dirette per nuovi orti, ma sarà anche a disposizione per risolvere i problemi. Coltivare un orto — aggiunge — serve a riscoprire la città e i concittadini».

postilla
Forse non si coglie sul serio la potenzialità di questa anagrafe degli orti, se non si torna un istante sull'idea di rete urbana degli spazi aperti, coltivati o non coltivati che siano, e del ruolo che può svolgere in quelle per ora benintenzionate ma abbastanza fumose strategie di sostenibilità e riduzione degli impatti. Hanno un peso non trascurabile, e se si quanto pesano, quantitativamente e qualitativamente, queste superfici sull'insieme della produzione alimentare locale a chilometro zero? La rete che formano è solo virtuale, di rapporti potenziali fra soggetti, oppure si configura chiaramente un sistema fisico tangibile, il cui ruolo può diventare complementarmente chiave in un futuro di maggiore sfruttamento a scopi infrastrutturali degli spazi aperti? Sono solo due delle tantissime domande a cui questo tutto sommato piccolo progetto può rispondere, se riuscirà a decollare dall'attuale fase di «telefono amico del pensionato coltivatore», a quella urbano sociale di infrastruttura verde propriamente detta (f.b.)

Difficile tener conto delle prodezze di Luigi Brugnaro, sindaco pro-tempore di Venezia. L'ultima, la riprendiamo dal sito di Italia Nostra, 14 ottobre 2015, con postilla

Ispettori Unesco: le associazioni ammesse all’ultimo momento

Gli ispettori inviati dal dipartimento dell’Unesco dedicato ai siti Patrimonio dell’Umanità devono valutare se “Venezia e la sua laguna” (questo è il nome corretto del sito) siano gestiti in modo consono ai requisiti necessari per essere inseriti nella lista e mantenuti in essa, ossia se non vi siano “pericoli o minacce, imminenti o potenziali, che potrebbero avere effetti negativi sull’area dichiarata Patrimonio dell’Umanità” (citiamo dalle pagine Unesco World Heritage in Danger). In quel caso un’apposita commissione può “proporre e adottare un programma d’interventi protettivi e in seguito monitorare la situazione del sito”. Era stata la sezione di Venezia di Italia Nostra, preoccupata per i progetti di scavare la laguna per le grandi navi e per l’effetto sulla città di un turismo non regolato, a scrivere all’Unesco che il sito poteva considerarsi in pericolo per la sua integrità sia fisica sia culturale. L’Unesco aeva accolto la richiesta e deciso di inviare un’ispezione.

All’arrivo dei tre ispettori cominciò a circolare una lista delle visite e degl’incontri che avrebbero effettuato. Ma, sorprendentemente, né Italia Nostra (origine prima dell’ispezione) né alcuna associazione di cittadini erano nella lista. Si apprese che l’Unesco aveva come interlocutore ufficiale il Comune e che ad esso si era rivolto per stabilire i dettagli dell’ispezione. E il Comune aveva inserito tra gli impegni soltanto incontri con enti, istituzioni e categorie economiche interessati a mostrare che tutto andava benissimo (se ne trova un elenco in un nostro post precedente).

E’ stata necessaria una giornata di ricerche e di telefonate affannose, culminate con l’ intervento di un ministero da Roma, perché un minimo di equilibrio venisse ristabilito. Martedì 13 ottobre, alle 16.58, una lettera del Mibact informava quattro associazioni veneziane (Italia Nostra, WWF, Fai, Lipu) che un’audizione era stata organizzata, e che doveva tenersi il giorno dopo, alle 17, nel palazzo Unesco di Ruga Giuffa, in coda alle altre audizioni concesse alle”categorie” di operatori economici. Per ognuna delle quattro associazioni era previsto un incontro di cinque minuti!

La nostra sezione ha così messo a punto rapidamente il materiale che già aveva disposto, corredandolo di altri brevi documenti ad hoc, e si è presentata. Le audizioni si sono svolte in un ufficio separato dagli altri, in forma che si potrebbe definire segreta (ci è stato comunicato che non vi erano stanze più grandi disponibili).

Sul luogo abbiamo incontrato anche rappresentanti di associazioni come il Comitato no Grandi Navi, sempre agguerrito e documentatissimo, e Ambiente Venezia, che aveva preparato un corposo dossier. Abbiamo visto professori universitari e gloriosi combattenti dell’ambientalismo veneziano. I commissari sono stati gentili e corretti e ci sono parsi in fondo molto interessati, ma i tempi erano strettissimi, la giornata era stata lunga anche per loro (trasportati come pacchi da un ambiente all’altro sin dal mattino) e la situazione era quanto meno anomala.

Italia Nostra è entrata per prima, seguita dal WWf. Poi le altre associazioni sono state ricevute tutte assieme, anche perché si stava facendo tardi (i cinque minuti assegnati a noi erano diventati più di trenta, un tempo comunque insufficiente per presentare le nostre osservazioni e proposte). Alla fine delle riunioni i tre ispettori hanno suggerito che le associazioni producano un documento unico, sintetico, con dati affidabili e citazioni di studi scientifici che riassumano le comuni preoccupazioni per il Sito Patrimonio dell’Umanità e contengano anche delle proposte concrete.

Sarà ora nostro compito redigere quel documento, che posteremo subito su questo sito. Intanto e fino a domenica 18 ottobre continua il lavaggio del cervello degl’ispettori a opera di Sindaco, Autorità portuale, Consorzio Venezia Nuova, Corila, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Aepe. Mai come ora ci rendiamo conto di quanto potenti siano gli operatori economici in questa città, anche se rappresentano solo una minoranza dei residenti.

Postilla

Gli "operatori economici" (rectius, i parassiti sfruttatori del patrimonio comune costituito dalla città e dalla sua laguna) rappresentano, è vero, una minoranza dei cittadini, ma sono riusciti a conquistare il rappresentante ufficiale della malaugurata città.

«Prima che le sue dimissioni diventino effettive, il 2 novembre prossimo, Ignazio Marino vuole completare il progetto che fu di Petroselli e Cederna. Il sindaco dimissionario lavora alla pedonalizzazione totale della via. Arresti per tangenti a un funzionario comunale». Il manifesto, 15 ottobre 2015, con postilla

«Il pro­getto del Comune sulla pedo­na­liz­za­zione di via dei Fori è un com­pro­messo, ed è molto lon­tano dall’idea del grande parco archeo­lo­gico di Luigi Petro­selli e Anto­nio Cederna». A dirlo non è Igna­zio Marino che pure prima che le sue dimis­sioni diven­tino defi­ni­tive ha deciso di coro­nare il sogno che fu innan­zi­tutto dei comu­ni­sti e degli ambien­ta­li­sti più illu­mi­nati della sto­ria recente della capi­tale. La frase vir­go­let­tata fu pro­nun­ciata nel marzo 1999 dall’urbanista Vezio De Lucia che allora chie­deva più corag­gio alla giunta Rutelli che aveva messo in pro­getto — mai rea­liz­zato — il divieto par­ziale di tran­sito auto­mo­bi­li­stico su via dei Fori Imperiali.

Marino ieri ha acce­le­rato i lavori per rea­liz­zare, con una deli­bera di giunta che non dovrà essere sot­to­po­sta al voto dell’Assemblea capi­to­lina, uno degli obiet­tivi pro­messi fin dalla cam­pa­gna elet­to­rale: la pre­clu­sione totale dei vei­coli, taxi e auto­bus com­presi, dalla strada che attra­versa l’area archeo­lo­gica cen­trale di Roma, con­cen­tran­dosi sull’ostacolo più grande da supe­rare: la rior­ga­niz­za­zione del tra­sporto pub­blico. E lo fa nel giorno in cui scop­pia il caso di cor­ru­zione di un fun­zio­na­rio del comune addetto agli appalti della manu­ten­zione stra­dale della Grande Via­bi­lità romana.

La pro­cura accende così un pic­colo rag­gio di luce sul grande mistero delle buche perenni sulle strade della capi­tale: ieri ha dispo­sto gli arre­sti domi­ci­liari per due impren­di­tori, Luigi Mar­tella e Ales­sio Fer­rari, e un dipen­dente del dipar­ti­mento Svi­luppo infra­strut­ture e manu­ten­zione urbana, Ercole Lalli, accu­sati di cor­ru­zione e tur­bata libertà degli incanti. I due impre­sari, infatti, secondo i cara­bi­nieri che hanno effet­tuato le inda­gini, avreb­bero pagato il 27 set­tem­bre scorso una tan­gente di due mila euro al dipen­dente comu­nale per otte­nere in cam­bio infor­ma­zioni riser­vate sulle imprese con­cor­renti. Mar­tella e Fer­rari, secondo il gip, «desi­de­ra­vano cono­scere anzi­tempo in quale o quali lotti erano state invi­tate» alcune imprese par­ti­co­lar­mente temute, «in modo da pre­sen­tare offerte più aggressive».

Secondo le ordi­nanze, i due impren­di­tori com­men­ta­vano così, in una tele­fo­nata inter­cet­tata, i det­tali otte­nuti da Lalli: «Se noi c’avemo quelli sta­volta so’ morti tutti!». Par­ti­co­lari che avreb­bero potuto aiu­tare le imprese ad aggiu­di­carsi le gare per otto lotti di manu­ten­zione stra­dale dal valore di circa un milione di euro cia­scuna. E già mar­tedì l’Autorità anti­cor­ru­zione pre­sie­duta da Can­tone aveva bloc­cato una gara riguar­dante, que­sta volta, alcuni inter­venti di restauro dei per­corsi giu­bi­lari alla quale ave­vano par­te­ci­pato due società ricon­du­ci­bili a Fer­rari e Mar­tella, gli impren­di­tori arre­stati ieri.

«Li avevo denun­ciati tutti ad aprile. E per oggi li ave­vamo con­vo­cati per esclu­derli dalla gara del Giu­bi­leo», ha rive­lato ieri, subito dopo gli arre­sti, l’assessore alla Lega­lità Alfonso Sabella. Infatti, mal­grado i due impren­di­tori arre­stati ieri aves­sero, secondo l’accusa, creato una sorta di “car­tello” occulto per aggiu­di­carsi gli appalti, l’escamotage non sarebbe sfug­gito al Sistema infor­ma­tico per le pro­ce­dure nego­ziate (Sipro­neg) messo a punto da Sabella e dall’assessore ai Lavori Pub­blici, Mau­ri­zio Pucci, pro­prio per garan­tire la tra­spa­renza e la leale con­cor­renza. «La vicenda odierna è la prova ine­qui­vo­ca­bile che i nuovi sistemi di con­trollo interno di cui si è dotata Roma Capi­tale, per ini­zia­tiva innan­zi­tutto del sin­daco, e la stretta col­la­bo­ra­zione con Anac e con l’autorità giu­di­zia­ria, fun­zio­nano — dichia­rano in una nota con­giunta i due asses­sori — Ave­vamo imme­dia­ta­mente riscon­trato ano­ma­lie nelle offerte della gara degli otto lotti, che è stata sospesa. A Roma non c’è più spa­zio per le vec­chie logi­che spar­ti­to­rie e per ille­cite distor­sioni delle pub­bli­che pro­ce­dure in favore di inte­ressi pri­vati».

Gli inte­ressi però non sono solo pri­vati: a volte ad osta­co­lare lo svi­luppo della città con­cor­rono anche quelli poli­tici. E così, il pro­getto di pedo­na­liz­za­zione totale dei Fori impe­riali che Marino vuole por­tare a ter­mine entro il 2 novem­bre trova freni ancora una volta pro­prio nel Pd. Il capo­gruppo capi­to­lino dem, Fabri­zio Pane­caldo, pur appog­giando l’idea del sin­daco dimis­sio­na­rio gli sug­ge­ri­sce di «coin­vol­gere anche le forze eco­no­mi­che che gra­vi­tano intorno alla via», per tenere buoni i com­mer­cianti che si sono lamen­tati fin dalla prima limi­ta­zione al traf­fico, impo­sta da Marino due mesi dopo la sua ele­zione. Ma è l’assessore ai Tra­sporti voluto da Renzi, Ste­fano Espo­sito, a ten­tare lo stop: «Sarebbe straor­di­na­rio, ma serve un qua­dro pre­ciso di come rior­ga­niz­zare la per­cor­ri­bi­lità col­la­te­rale». Per­ciò sug­ge­ri­sce al sin­daco uscente di far scat­tare l’operazione Fori dal 1 dicem­bre pros­simo, «in modo da dare tempo al com­mis­sa­rio di pen­sare alla que­stione viabilità».

postilla

Il "progetto Fori" promosso da Adriano La Regina, tenacemente sostenuto da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco (rara avis) Luigi Petroselli era ben altro della pedonalizzazione di una strada. Prevedeva, tra l'altro la completa ablazione di quel manufatto mussoliniano. Ma questa è un'altra storia. Per conoscerla sono utili molti articoli raccolti in eddyburg. Per cominciare l'articolo di Vittorio Gregotti del l'ottobre 2013, "Un progetto unitario per i Fori Imperiali", il testo della relazione tenuta da Vezio De Lucia nel giugno 2007, "Cederna e il progetto Fori", l'articolo di De Lucia nell'agosto 2013, all'inizia della sindacatura Marino, "Una prima riflessione sul progetto Fori". Altri articoli li trovate digitando il lemma "progetto fori" nella casella sensibile in cima a ogni pagina del sito.

Sarebbe bello se qualcuno dei decisori e degli operatori pagasse per i danni compiuti stupidndo e arricchendosi. Ma siamo in quest'Italia del neoliberismo straccione. Il Fatto quotidiano, 14 ottobre 2015

Ci sono nuovi problemi per la Variante di Valico, la grande opera autostradale che dovrà unire Bologna e Firenze affiancando la vecchia Autostrada del sole e che ancora non è conclusa a 11 anni dall’inizio dei cantieri. A Rioveggio sul lato emiliano dell’Appennino, un muro di contenimento posto all’inizio delViadotto Casino in direzione nord (non ancora aperto al traffico) ha iniziato a muoversi alcuni mesi fa e a “ribaltarsi” verso l’esterno. Parliamo di movimenti di pochi centimetri, ma che avrebbero preoccupato Autostrade per l’Italia, la società posseduta al 30 per cento dalla famiglia Benetton, concessionaria per i lavori. Sulla pavimentazione stradale infatti si è aperta una lunga fessura longitudinale oggi transennata e coperta con un telo. Stando a quanto ha potuto fotografare ilfattoquotidiano.it dall’esterno dei cantieri, a causa dei movimenti sull’asfalto si è formato anche un gradino trasversale di diversi centimetri. La società Autostrade, interpellata non ha commentato.

Il pezzo di strada era stato consegnato, con tanto di certificato di ultimazione lavori, nel 2013. A portarlo a termine un’associazione temporanea di imprese di cui faceva parte anche un’azienda del Gruppo Maltauro (l’ex amministratore delegato Enrico Maltauro finì coinvolto nel 2014 nella maxi inchiesta su Expo). Ora, da qualche settimana, sul lato a valle del viadotto si sta quindi costruendo un nuovo enorme muro in cemento armato, ancorato con delle fondazioni profonde, al fine di bloccare il movimento. Il compito sarebbe stato affidato alla cooperativa Cmb di Carpi (che non aveva partecipato alla costruzione di quel tratto di strada).

Nei cantieri sono già arrivati i Carabinieri della Compagnia di Vergato per fare dei rilievi che della questione di quel muro che si è mosso avrebbe informato, come di prassi in questi casi, la stessa Procura della Repubblica di Bologna. I pm bolognesi avevano aperto in passato delle inchieste sulla Variante di valico (quella sulla frana di Ripoli è ancora in corso). Che cosa abbia causato il problema a Rioveggio non è chiaro. Il Viadotto Casino è posizionato a pochi metri del fiume Setta, ai piedi del versante di una montagna: è possibile, ma è solo un’ipotesi, che a farlo muovere sia stato proprio un movimento franoso proveniente da quel versante.

Non è il primo problema della grande opera. A marzo 2015 davanti alla commissione trasporti in SenatoGiovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, aveva rivelato che la grande opera era costata il doppio rispetto al previsto: 7 miliardi di euro invece di 3,5. “I soldi li mettiamo noi”, aveva rassicurato il numero uno di Autostrade, azienda che raccoglie l’85 per cento dei suoi ricavi dai pedaggi che pagano gli automobilisti. “Molti problemi – aveva detto Castellucci riferendosi alla Variante – sono dovuti alla scelta del tracciato, che aveva un livello di rischio geologico, misurato successivamente, superiore a quello ipotizzato dai progettisti”. Il manager aveva però allontanato da sé, e dalla sua lunga gestione, ogni colpa: “La Variante è stata progettata negli anni Novanta, io non c’ero, sicuramente, col senno di poi, oggi la progetteremmo in maniera differente, più in galleria e più profonda”.

Il riferimento del numero uno di Autostrade è ai due casi più eclatanti che hanno rallentato i cantieri della Variante di valico. Sul lato emiliano ci sono stati infatti i guai con due gallerie. La Val di Sambro ha risvegliato una frana sotto il paesino di Ripoli, che ancora continua a muoversi insieme alla vecchia A1, che passa a monte. Pochi chilometri più in là un’altra galleria, la Sparvo, ha dovuto essere letteralmente blindata internamente con degli anelli in acciaio perché un’altra frana aveva iniziato a spaccare la copertura in cemento. Sul lato toscano, una inchiesta giudiziaria per presunti reati ambientali, sfociata poi in un processo, ha bloccato per lungo tempo i lavori. Ma nonostante i problemi c’è chi è fiducioso: “Lavoriamo pancia a terra per aprire al traffico entro metà dicembre”, ha assicurato il sottosegretario ai trasportiRiccardo Nencini in un’intervista al Resto del Carlino.

Qualcuno che si oppone alle bestialità del sindaco di Venezia c'è. La Nuova Venezia, 13 ottobre 2015
«Questo sindaco incapace e parolaio, che si è attribuito addirittura il referato della Cultura(sic!), cerca di coprire il suo fallimento e la sua inerzia attraverso una cortina fumogena di dichiarazioni estemporanee e provocatorie. Anziché metter mano nella selva di partecipate, razionalizzare un'elefantiaca macchina comunale, tagliare consulenze e quadri dirigenziali, ritrattare i contratti derivati capestro, smontare il carrozzone della Fondazione Musei Civici che divora ogni anno milioni di incassi provenienti da Palazzo Ducale, rivalorizzare uno dei patrimoni immobiliari più cospicui di Italia, cerca di accattivarsi la simpatia dei cittadini buttando l'idea, come se fossero suoi, di vendere i più preziosi beni pubblici (nostri, dei cittadini stessi) a favore, egli dice, del mantenimento degli asili o della ristrutturazione delle scuole».
Le frasi che riportiamo sono l'attacco diretto al sindaco di Venezia dal Movimento Cinque stelle di Venezia, all'opposizione in consiglio comunale che martedì mattina ha diffuso un durissimo comunicato stampa di risposta alla proposta di Brugnaro di vendere quadri di Klimt e Chagall per ripianare il debito del bilancio comunale.
I cinque stelle ricordano anche la vicenda dell'annuncio della vendita dei terreni del Quadrante vicino all'aeroporto, il cui valore, dichiarano, «una volta che vengano resi edificabili, risulta superiore a 100 milioni di euro (per "aiutare il Casinò" che, a nostra memoria, in realtà era stato costituito per “aiutare Venezia”), minimizzando sull’impatto ambientale e affossando definitivamente il progetto di un nuovo stadio».
I vincoli di legge impediscono la vendita di capolavori come i due quadri finiti sotto l'esame del primo cittadino ma l'uscita ha scatenato la polemica in città. E i cinque stelle attaccano frontalmente Brugnaro: "Questo sindaco non arriva nemmeno a capire che, togliendo le opere di maggiore attrazione dal museo di Ca' Pesaro, il museo stesso, già in progressivo calo di visitatori per il disinteresse strategico e uno sconcertante nuovo allestimento voluto dalla direttrice scientifica dott.ssa Belli, finirà ulteriormente per perdere quote di mercato e chiudere".
E il messaggio finale è chiaro. «Diffidiamo Brugnaro dal voler perseguire un pareggio di bilancio attraverso vendite indiscriminate. O vuole svuotare Ca’ Pesaro di senso fintantoché, a "furor di popolo", non venga venduto per essere trasformato nell'ennesimo albergo?».

Una sintesi chiara e convincente del "caso Marino": «Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica». Micromega, 9 ottobre 2015, con postilla

Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica: ecco il “caso Marino”. Sarà da scrivere, con calma e sulla base di informazioni certe, la vicenda a suo modo esemplare di questo chirurgo tentato dalla politica, paracadutato nella capitale, prima come senatore della Repubblica (imposto, chissà perché, in Piemonte), quindi, a mandato in corso, come primo cittadino della capitale. Una parte del PD lo sostenne, contro l’altra parte, quella che stava prendendo però il potere guidato dal disinvolto Matteo, ormai in fase di irresistibile ascesa.

E ben presto costui scopre che Marino è ingovernabile: innanzi tutto non è un renziano, e in secondo luogo perché è una sorta di Forrest Gump, che vive in una condizione di separatezza dalla realtà. Ha un mondo suo, Ignazio Marino, e, pur essendo uomo, a mia conoscenza, e impressione, di specchiata onestà, in quanto primo cittadino della prima città italiana, della ex capitale dell’Impero Romano, della capitale del cattolicesimo, della capitale mondiale delle opere d’arte, e così via, il buon Ignazio perde la testa, o detto altrimenti comincia a montarsela, preso da una specie di delirio di onnipotenza. Cambia assessori, perde via via collaboratori e amici, e si trova un po’ per volta solo in un fortino assediato da sodali divenuti avversari, mentre il “capo supremo” gli mette alle calcagna un suo uomo forte, l’Orfini, che diventa un sindaco-ombra, e poi come se non bastasse, in absentia, affida al prefetto (Gabrielli, noto per la sua imperturbabilità davanti alle catastrofi “naturali”) il ruolo di Lord protettore, battezzato a furor di popolo “badante”.

L’assenza del sindaco in quei giorni, dovuta alle sue peraltro legittime vacanze negli Stati Uniti, divenne un capo d’accusa: erano i giorni del funerale più mediatizzato della storia recente (quello dei Casamonica), uno spettacolare diversivo dai problemi della capitale, una manna per i Brunovespa e per i rotocalchi scandalistici. Un ridicolo caso montato che finiva per far obliterare il vero “scandalo” quello di “Mafia capitale”. Si trattava di una vicenda che aveva mostrato come l’intero ceto politico “storico” di Roma fosse un sistema integrato di affarismo e corruzione, che attraversava tutte le giunte succedutesi nel corso degli ultimi decenni, tra centrosinistra e centrodestra: il centro, appunto, era il nodo corruttivo a unire in una solidale colleganza postfascisti, postcomunisti, immarcescibili liberali ed eterni democristiani. E intorno a questo ceto politico turbe di clienti, a loro volta vassalli e valvassori in tanti piccoli e grandi feudi, dalle municipalizzate ai taxi, dai palazzinari ai preti, dai bancarellai ai “pizzardoni”, alias vigili urbani. Piccola e infima borghesia famelica, i cui insaziabili appetiti favorivano in fondo un sistema economico parallelo, tra il sommerso e il criminale, appunto: mafioso.

Marino fu posto sotto accusa, sia da coloro che lo avevano preceduto, specialmente l’ultimo (il “sistema Alemanno”, e, ricordiamolo, in combinato disposto con gli scempi della signora Polverini alla Regione, è stato il punto più basso toccato nella plurimillenaria vicenda della “caput mundi”), sia dall’opposizione degli homines novi, il movimento 5 Stelle, con una notevole superficialità, che è proseguita, in una paradossale “alleanza di fatto” con le truppe renziane, ormai scatenate contro il fortilizio in cui un sempre più smarrito e inconsapevole Marino aveva scelto la strada della resistenza ad oltranza, sentendosi in qualche modo protetto dalle buone cose che aveva comunque saputo fare, sin dall’esordio della sua azione amministrativa. Non rendendosi conto, invece, che erano precisamente quelle buone cose ad averlo messo in difficoltà: come si può pensare di scalzare un sistema di potere perdurante da decenni, per non dire da sempre, combattendo praticamente da solo, essendo ormai stato vistosamente abbandonato dal suo partito? L’inserimento in Giunta di un magistrato – di grande energia e competenza come Alfonso Sabella – per il controllo della legalità appariva un altro paradosso: consci della intrinseca disonestà del ceto politico si esplicitava il bisogno di un’auctoritas che ricordasse che “certe cose”, tipo corrompere i pubblici funzionari o farsi da essi corrompere) non si possono fare. Mentre risultava grottesco (a dir poco) la cooptazione (decisa da chi?) di un figuro come il senatore Esposito, volgarissimo pasdaran del TAV in Val di Susa, come assessore ai Trasporti.

Ma quali sono le colpe di Marino, posto che le cene e i pranzi per i quali è stato crocifisso (a cominciare dal papa, che nei confronti del sindaco della città di cui egli, il pontefice, risulta essere “vescovo”) sono al più peccati venialissimi? Qualche pranzo, qualche bugia, qualche goffaggine. Roba di cui manco occorrerebbe parlare, in un Paese serio. E invece sono diventati strumenti della campagna, pesantissima e concentrica, contro il sindaco, dalla Repubblica (ormai organo renziano: soltanto appare più allineata, al punto di risultare stucchevolissima e illeggibile) al Corriere, da Libero al Giornale. Aggiungi la varia stampa cittadina, praticamente tutta in mano alla destra, e la cosiddetta “satira” televisiva: ne uccide più Crozza che la spada, com’è noto. Anche questo è il segno di una società che brancola in un indistinto mucillaginoso.

Dicevo, le “colpe” vere del sindaco di Roma: eccole (secondo Huffington Post, e io personalmente sottoscrivo): 1) Aver pedonalizzato i Fori imperiali; 2) aver bloccato la cementificazione del litorale di Ostia; 3) aver rotto il turpe monopolio dei venditori ambulanti al Colosseo o a Piazza Navona; 4) Aver gettato l’occhio là dove nessun sindaco aveva guardato, gli affitti risibili della casta locale; 5) aver spezzato il sistema occulto degli appalti della raccolta rifiuti, e indetto, per la prima volta, una regolare gara di appalto; 6) aver sfidato le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano sui diritti dei non sposati e sulla fecondazione assistita eterologa; 7) aver partecipato al Gay Pride ultimo, nella città; 8) aver introdotto la scheda elettronica (badge) per i lavoratori della Metropolitana (afflitta da assenteismo cronico); 9) aver cominciato a fare pulizia nella dirigenza dell’ATAC (un motto che circola a Roma che dopo la “cura Alemanno” all’Azienda Trasporti v’erano più dirigenti che autisti; come nell’azienda rifiuti scarseggiavano gli spazzini ma sovrabbondavano i dirigenti!); 10) aver chiuso l’infernale discarica di Malagrotta.

Sono tutti titoli di merito. Marino forse non ha saputo valorizzarli. E ora per meno di 20.000 euro di spese di rappresentanza (una cifra ridicola per il sindaco di una capitale, e che capitale! Ne spende venti volte di più il rettore di un medio ateneo italiano!) diventa lo zimbello universale. Filippo Ceccarelli ha il coraggio di paragonare le tangenti agli scontrini. E il M5S finisce per aderire alla campagna della destra estrema, trovandosi, come accennavo, in buona compagnia con l’odiato Renzi. Il quale è, ancora una volta, il vero regista dell’operazione: uccidete il soldato Marino, è stato l’ordine di scuderia. E come un sol uomo tutti hanno obbedito. Ha alzato di giorno in giorno l’asticella, come in passato aveva fatto con D’Alema, poi con Bersani, quindi con Letta. E ora con Marino. Alza fino a stancare l’avversario: lo fa sentire isolato, non “protetto”, fin tanto che egli, stremato, non getta la spugna.

Ora Marino lo ha fatto. Renzi può segnare un’altra tacca al suo fucile, ma non è che un antipasto. Ora dopo la caduta comincerà la resa dei conti con la minoranza interna. Il premier intende “asfaltarli” come ripete volentieri con il suo lessico da bulletto di provincia. E lo farà. E costoro, tutti costoro, che faranno? Aspetteranno che il carroarmato renziano li schiacci? Forse sarà il caso di ricordare loro che Renzi non fa prigionieri né feriti. Ha imparato la prima lezione del suo grande concittadino Machiavelli: “i nemici bisogna spegnerli”.

Ieri sera, qui a Roma, davanti al Campidoglio, che pena vedere i militanti “grillini” accanto ai neofascisti di Casa Pound e ai diversamente fascisti della signora Meloni: che, prontamente, l’inclito Matteo Salvini candida al Campidoglio. Ha assolutamente ragione il sindaco uscente quando nel suo messaggio di dimissioni (ancora revocabili) afferma: “…non nascondo di nutrire un serio timore che immediatamente tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo-mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd e che senza di me avrebbe travolto non solo l’intero Partito democratico ma tutto il Campidoglio”.

All’indomani delle dimissioni, un quotidiano ha sparato sull’intera prima pagina questo titolo: “Roma liberata”. Si tratta del Giornale, ossia dell’organo di stampa e propaganda che aveva sostenuto in modo sistematico e rumoroso la candidatura di Gianni Alemanno, il peggior sindaco che la lunga storia della capitale ricordi. Fosse anche solo per questa ragione, occorrerebbe sostenere ancora Ignazio Marino.

postilla

Condividiamo, con qualche aggiunta: (1) tra i meriti della giunta Marino nessuno ricorda i 25 milioni di metri cubi prervisti dalle regole e dagli accordi delle giunte Veltroni e Alemanno, e neppure la cancellazione dell'accordo per la cessione della gestione dell'edilizia abitativa comunale al signor Romeo, stipulata da Veltroni.
(2) nessuno sottolinea che se a Roma i problemi erano tali da richiedere, come ha scritto per esempio Alberto Asor Rosa,«la tempra di un condottiero», i responsabili di quella situazione sono stati i sindaci che hanno preceduto Marino: Rutelli, Veltroni, Alemanno.
D'Orsi fa risaltare con chiarezza quale fosse la posta in gioco nella presenza o meno di Marino al Campidoglio: non erano né gli scontrini né l'inadeguatezza del personaggio. La sua colpa era la discontinuità che ha creato con il periodo che lo ha preceduto È tutto questo che va difeso dal gioco sporco del bulldozer Renzi, a prescindere dai difetti e dalle colpe del sindaco Marino: tanti, troppi, ma nessuno riconducibile al perverso intreccio di interessi che paralizza la capitale e il paese. Se è così, l'insipienza politica cui d'Orsi si riferisce nel suo articolo non è solo quella di Marino, ma anche di quelli che non l'anno compreso.

Una critica saggia a un libro (Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi) ricco di spunti acuti ma scritto per scandalizzare il lettore. Felicità futura, blog, 9 ottobre 2015, con postilla

Franco La Cecla è un viaggiatore instancabile, un osservatore attento e ricco di una “sapere nomade”, che forte di una sua “ideologia”, lui lo negherà, passa a setaccio gli argomenti che di volta in volta affronta, oggi tocca all'urbanistica, o per meglio dire a quella che egli crede sia l’urbanistica (nell'argomentazione, ed è un aspetto apprezzabile, la sua tentazione è scandalizzare). Questo insieme di virtù e di difetti fa si che i suoi testi sono interessanti anche se irritanti, e che spesso la sua vis polemica lo porta a sbandare.

Per quello che conta, sono d’accordo con lui che la città è le persone che ci vivono (i “corpi” cari all'autore), infatti gli urbanisti insegnano che fare urbanistica significa occuparsi delle uomini e donne che in una città o in un territorio vivono.

Sono ancora d’accordo che spesso i “cittadini”, soprattutto se giovani, riescono a mutare il segno e il senso di alcuni spazi codificati. E se il concetto di “non luogo” all'autore non piace, e sono anch'io della partita, e quindi gli pare importante il caso del “non luogo” paradigmatico, come un grande parcheggio, che viene nella notte quando deserto da automobili, densificato di musica, di relazioni, di amori, di bevute. Una appropriazione che modifica il senso di quel luogo. Come anche l’occupazione politica di spazi che produco reazione.

Ma se fosse così perché allora non guardare con lo stesso spirito i “centri commerciali”, che occupati da uomini e donne diventano luoghi di socialità, dove i bambini corrono, spesso in monopattino, lungo le “vie”, dove gruppi di famiglie si riuniscono, dove gruppi di giovani si danno appuntamento provenendo da parti tra di loro molto lontani del territorio o della città?

So l’obiezione: per i primi si tratta di una manifestazione di libertà, di una scelta non condizionata, mentre nei secondi il condizionamento è forte. Se i comportamenti di uomini e donne danno senso allo spazio questo deve valere sempre e in ogni caso non possiamo distinguere libertà e condizionamento, anche perché forme diverse di condizionamento sono presenti sempre. Non penseremo che i giovani che danno senso ad un parcheggio nella notte, con la loro presenza e musica, non siano condizionati a sentire una certa musica, a bere una certa bevanda, a fumare una certa erba, a tatuarsi non come rito di appartenenza ma per moda, perché è bello, in una processo di massificazione in cui ogni deviazione (i calzoni stracciati, gli scarponi, ecc.) diventano “comuni” e banali.

I comportamenti non possono essere solo osservati, classificati, descritti, ma anche interpretati. Ora mi pare che il modello interpretativo di La Cecla sia un pensiero anarchico che definirei ingenuo. La strada è la vita.

Del resto se fermiamo l’attenzione sulla questione delle periferie questo è molto evidente. Cito testualmente: “Le periferie sono il pensiero sbagliato di un’urbanistica che ha mitizzato la condizione operai e le ha negato però il centro della città. Queste roccaforti del sonno operaio sono diventate da subito l’incubo delle classi «subalterne» e oggi degli immigrati. Il loro carattere sbagliato non è formale, non c’entra nulla la dimensione del disegno la qualità degli edifici. C’entra l’errore concettuale del pensare che esistere una cosa come le periferie”.

Mi pare che l’autore rifiuti di considerare i processi, che gli sono ben noti, che hanno investito le città e della meccanica proprio della realizzazione della città. Affermare che sia stata l’urbanistica a negare ai ceti subalterni il centro della città, non può che essere considerata la tentazione dello scandalizzare. Sono sicuro che l’autore ha sentito parlare della rendita e del mercato. Non avere nel nostro paese voluta eliminare la rendita (un ministro che in parte ci ha tentato, Fiorentino Sullo, ci ha rimesso carriera politica e non solo), l’avere affidato il problema della casa e dell’abitare al mercato ha come conseguenza che quest’ultimo ha messo ciascuno la “posto giusto”, al posto che gli toccava in relazione alla propria capacità di pagare. Ma forse c’è anche altro.

Nelle parole dell’autore riecheggia una polemica verso l’urbanistica quantitativa (l’urbanistica che cioè si è occupata delle quantità e non delle qualità). A me pare che non considerare la richiesta improcrastinabile di “casa” da parte di centinaia di migliaia di persone che sono immigrati, in un lasso di tempo brevissimo, in molte città ha imposto la quantità. Ma attenzione i progetti, nella loro generalità, erano ricchi di servizi e di spazzi verdi, è l’assenza della realizzazione di questi, per incuria, per inconsapevolezza, per non adeguati finanziamenti, per cattiva gestione, che ne ha fatto dei luoghi spesso di marginalità. Prendiamo il caso dello Zen 2 di Palermo, che sia La Cecla che io conosciamo, non è colpa del progetto di Gregotti (piaccia o non piaccia), né della sua localizzazione urbana a determinare il disastro noto, ma è l’assenza della realizzazione dei servizi, la mancanza di ogni controllo, la presa del potere della microcriminalità e del vandalismo che ne hanno fatto un inferno abbandonato e spopolato.

La Cecla irride ad ogni interpretazione economica del processo urbano (il marxismo, vecchio e neo è inviso all’autore), eppure se non si va alla radice dei fenomeni economici e sociali della nostra società non solo non si comprende l’evoluzione della condizione urbana ma si rischia, come direbbe mia nonna, di pestare l’acqua nel mortaio.

Non c’è da meravigliarsi che negli slums si faccia società, che si costituisca una regolamentazione locale, che si faccia anche “economia” (informale e marginale, che questa possa essere il modello, non credo, per la verità non lo crede neanche La Cecla): fa parte dell’animus degli uomini e donne di fare società, ma non possiamo tralasciare quali siano state le cause della creazione degli slum, come delle periferie, e accontentarci del fatto che li si fa società dimenticando (La Cecla non lo fa) le condizioni in cui si fa società.

La città è un organismo sociale (questo insegnano la maggior parte degli urbanisti) ed esso va governato (termine che credo l’autore abborrisce), ma tale governo è una funzione politica che fa bene o male i conti con gli interessi esistenti, con le esigenze di corpi separati (vedi per esempio la funzione di polizia), con i desideri degli abitanti, con i loro comportamenti, con i conflitti (salutari) che possono manifestarsi. Il meccanismo economico-sociale, con le sue diseguaglianze, con le sue discriminazioni, con le sue violenze esercita una forte influenza sia sui processi che sul governo. Gli urbanisti, almeno quelli che conosco, non usando lo stesso linguaggio (ma la sostanza è la stessa) spiegano che l’urbanistica non può cambiare il meccanismo economico-sociale (non esiste una via urbanistica al socialismo, anche libertario), ma esiste un lavoro che cerchi di favorire la vita egli abitanti di un luogo, con particolare attenzione a chi è risultato più svantaggiato.

Nel mio specifico linguaggio si tratta di mitigare, attraverso le scelte urbanistiche, i servizi, l’organizzazione dello spazio, la dotazione di attrezzature, gli uomini e le donne che meno riescono ad ottenere dentro il meccanismo economico sociale. Non ci dispiace una città bella (qualsiasi cosa significhi) ma vogliamo prima di tutto una città buona, una città tesa all’eguaglianza, al rispetto, alla convivenza. Obiettivi difficili, che spesso gli stessi uomini e donne che abitano un luogo rifiutano o di essi negano validità. Ecco perché il governo. E son d’accordo che la partecipazione può essere un equivoco, anche un meccanismo di burocratizzazione e di giustificazione, l’unica vera forma di partecipazione è il conflitto, ma può essere e deve essere lo strumento dell’ascolto, e l’urbanistica ha molto da ascoltare.

L’urbanistica ha che fare con donne e uomini, non solo con cifre e statistiche. Perché contrapporre la strada, l’andare per strada, alle statistiche, le quali se interrogati nel modo giusto dicono tante cose (i numeri parlano). Ma come non posso accontentarmi di come i “corpi” reagiscono ai cambiamenti, non posso essere indifferente a come il meccanismo economico-sociale marginalizza e segrega, anche se lì si fa società, anche se è il cibo di strada da l’impressione di condivisione e di apertura. Non sempre ci si riesce, l’urbanistica è spesso “sconfitta”, più che fallire, ma governare le trasformazione, nell'ambito dell’organizzazione della città, resta un compito gravoso e urgente.

Nonostante i precedenti appunti il libro di Franco La Cecla è interessante, e non solo nella parte in cui descrive singole città o condizioni urbane (ogni capitolo è dedicato ad un aspetto della contestata urbanistica ed è completato, per fare capire meglio al lettore l’assunto e la realtà, da una descrizione di una città o di un luogo visitato) ma anche nella parte più critica. Da ogni critica si apprende.

La lettura può essere irritante, ma i testi dei singoli capitoli sono ricchi di osservazioni spesso acute. Basta riferirsi ad alcuni titoli dei singoli capitoli per aver chiaro l’intenzione dell’autore: Che cosa c’è di sbagliato nell'urbanistica; Perché l’urbanistica non serve a capire la città; Perché l’urbanistica è in ritardo; ecc.

E’ un libro che mi sento di raccomandare ai colleghi urbanistica, la provocazione non può che essere salutare, spero solo che il lettore non specialista non si facci una idea sbagliata dell’urbanista.

postilla
A differenza di Indovina credo che moltissimi condividano l'idea dell'autore del libro che l'urbanista (e la sua disciplina) sia il protagonista della costruzione della città. A molti, troppi, sfugge che, come diceva Benevolo, "l'urbanistica è una parte della politica" e che, come ha detto Indovina, il piano urbanistico è "una scelta politica tecnicamente assistita. Si potranno dare mille colpe all'urbanista: di non aver potuto o saputo guidare correttamente il decisore, di non essersi adoperato abbastanza per far entrare nel novero dei decisori gli abitanti della città, di essersi messo troppe volte (soprattutto negli ultimi decenni) al servizio di chi stava costruendo la "città della rendita" e non quella dei cittadini. Ma parlare della città dimenticando che essa è il risultato di processi molto complessi, e non del sogno di un demiurgo mi sembra un errore grave per un intellettuale, e soprattutto per un antropologo.
Dove invece concordo più con La Cecla che col suo recensore è nel giudizio negativo sui "non luoghi". Uno spazio nel quale l'accesso sia limitato solo a chi sta viaggiando, o a chi può spendere, o a chi non indossa magliette criticabili dal senso comune mi sembra contraddire il principio che "la città è bella se è equa": e ciò vale a maggior ragione per lo spazio pubblico.

La Nuova Venezia, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Venezia. Per Philippe Daverio è «una pura balla» e un progetto irrealizzabile, a meno di non svendere i capolavori di Klimt e di Chagall a un decimo del loro valore reale. Per Vittorio Sgarbi, invece, quella di Brugnaro è «un’idea sconcertante, ma a suo modo geniale perché è meglio vendere opere di Klimt e Chagall che non hanno un rapporto diretto con Venezia, che quelle conservate nei depositi dei Musei Civici, che sono invece di artisti che hanno un legame con il territorio e la sua storia».

I due famosi critici d’arte, i più “mediatici” d’Italia, commentano così l’idea del sindaco di mettere in vendita alcune delle opere d’arte dei Musei Civici, tra cui appunto quelle di Klimt e Chagall, per azzerare il deficit del bilancio del Comune.

«L’idea del sindaco è una pura balla», insiste Daverio, «perché non riuscirà mai a ottenere dal ministero dei Beni Culturali l’autorizzazione a vendere quelle opere sul mercato estero. La “Giuditta II” di Klimt, ad esempio, venduta a Londra o a New York da Christie’s o Sotheby’s, può valere anche molto di più dei 70 milioni di euro stimati dal Comune. Ma siccome non potrà mai lasciare il territorio italiano, sul mercato interno nessuno la pagherebbe più di un decimo del suo valore reale, a meno che non scenda in campo qualche fondazione bancaria. Mi sembra inoltre assurdo pensare di sanare i buchi di bilancio vendendo le opere dei musei, ma anche un grave errore contabile. Il sindaco - e anche Renzi, se davvero gli ha dato una sorta di placet preventivo all’operazione - saprebbero con corso di diritto amministrativo, perché non è possibile utilizzare una voce del conto capitale, come le opere d’arte possedute dai Musei Civici, per “sanare” i buchi di spesa corrente. Al massimo, con quei soldi, Brugnaro potrebbe costruire una scuola, o un ospedale».

Diversa e, come sempre, controcorrente, la valutazione di Vittorio Sgarbi. «Il primo impulso è dire che l’idea del sindaco è un’idiozia», commenta Sgarbi, «ma invece, ripensandoci, è, a suo modo, geniale. Personalmente ho sempre pensato che sia una sciocchezza cedere le opere dei depositi dei musei, non solo per il loro valore limitato, ma perché sono generalmente espressione di artisti del territorio, con una preciso legame con la loro città. Dipinti come la “Giuditta II” di Klimt o il “Rabbino di Vitebsk” di Chagall - artista peraltro sopravvalutato - non hanno alcun legame diretto con Venezia, al di là delle circostanze per i quali sono stati acquisiti da Ca’ Pesaro e dell’influenza che possono aver esercitato su artisti anche veneziani e potrebbero essere pertanto esposti in qualsiasi museo del mondo.

Venezia è una città cosmopolita che può ospitare opere di tutti i tipi e che è sede anche di una collezione americana come la Guggenheim. Perché allora non cedere le opere di Klimt e Chagall - che potranno, poi, essere sostituite da nuove acquisizioni - se questo serve a riportare in equilibrio il bilancio del Comune? Ho però dubbi che il ministero dei Beni Culturali consentirà l’esportazione all’estero, per essere vendute, di opere come queste, a meno che Brugnaro non sia così bravo da convincere Renzi, Franceschini e prima ancora il Soprintendente veneziano che dovrebbe autorizzare la vendita».

Un grande progetto urbano, epitome di una stagione felice travolta dal renzusconismo, vive ancora nelle speranze, e nelle battaglie, di oggi. Corriere del Mezzogiorno, 9 ottobre 2015

Il ritorno di Vezio De Lucia a Bagnoli non è meno significativo di quello assai probabile di Bassolino in politica. In fondo, è un altro cerchio che si chiude. De Lucia è infatti il padre della variante per la zona occidentale di Napoli approvata nel 1998, poi inclusa nel nuovo piano regolatore. È l’urbanista che per primo ha tratteggiato il profilo di una città senza più l’Italsider, «liberata — sono parole sue — dagli scheletri dell’industria pesante e dalle costruzioni, bonificata e restituita alla balneazione, con un parco di 120 ettari e una spiaggia lunga due chilometri e larga cento». Nessuno meglio di lui incarna l’idea di una Bagnoli, e quindi di una Napoli, completamente rottamata e rigenerata nel segno «del verde, del sapere e del loisir». Sul fronte opposto c’è invece l’idea di città sottesa al commissariamento voluto da Renzi; l’idea di una Bagnoli meno utopica e più organicamente inserita in un progetto di modernizzazione capitalistica.
Non a caso De Lucia torna a Bagnoli per partecipare alla cabina di regia ombra voluta dai «movimenti» per contrastare quella prevista da Renzi. E appena sceso in campo, cosa dice? Questo: «Sono qui per stanare sia de Magistris, sia Bassolino». Il senso di una simile uscita non può che essere uno solo: incoraggiare la radicalizzazione dello scontro politico e puntare a completare l’equazione da cui può dipendere il futuro di Napoli. Vuol dire che se Renzi ha scelto Salvo Nastasi come commissario per Bagnoli, De Lucia si offre come l’anticommissario; e che se Nastasi ha il governo che gli guarda le spalle, De Lucia vuol sapere chi guarderà le sue.

Insomma, Nastasi sta a De Lucia come Renzi sta a «x». Ecco l’equazione. E De Lucia non vede che due soli nomi con cui risolvere il problema dell’incognita: o quello di de Magistris o quello di Bassolino, il sindaco uscente e lo sfidante più probabile. È a loro, dunque, che si rivolge. A Bassolino per sapere se è ancora del parere che sia quello del 1998 il progetto del futuro. A de Magistris per verificare se i nuovi indirizzi urbanistici proposti dalla giunta arancione, e già approvati dal Consiglio comunale, sono coerenti con l’utopia bagnolese oppure no.

Di Bassolino, De Lucia non si fida più come una volta. Fu lui, mentre tutta la stampa nazionale indicava come esemplare il progetto del grande parco a Bagnoli, a comprometterne la realizzazione con l’accordo di programma che permise la realizzazione di Città della Scienza e la conseguente interruzione della linea di costa. Di de Magistris si fida forse di più, ma anche lui ha ridisegnato l’area e si tratta ora di verificare quanto e come. Inoltre, de Magistris, come De Lucia, è convinto dell’incostituzionalità del commissariamento, che «scippa» al Comune le competenze urbanistiche. Bassolino, invece, pur avendo espresso perplessità sulla decisione di Renzi non ha ancora detto nulla sul cosa convenga ora fare.

Anche grazie a De Lucia, Bagnoli comincia dunque a diventare il tema centrale della prossima campagna elettorale, che per definizione è divisiva e radicale. Sarebbe stato di certo meglio tenerla fuori dallo scontro. Ma così non è stato. Poteva essere accolta, ad esempio, la proposta dell’assessore Carmine Piscopo tesa a ridurre gli effetti dirompenti del commissariamento sottoponendone le decisioni ultime al voto del Consiglio comunale. Ma neanche questa idea è piaciuta a Renzi. Peccato.

Riferimenti

Vedi in proposito, su questo sito, Bagnoli negata, di Vezio de Lucia, La strada in salita della partecipazione, di Massimo Di Dato, Lo sblocca Italia contro Bagnoli, di Giovanni di Savio.

Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Sta venendo giù Venezia». Il sindaco Luigi Brugnaro si aspetta eventi alluvionali. No, il meteo non c'entra. A Venezia piovono debiti così torrenziali che il neosindaco, con un annuncio choc, ha deciso di mettere all'asta le opere d'arte esposte nei suoi musei più prestigiosi, tra le quali un quadro di Klimt, il celeberrimo Judith II Salomè, e un'altra opera di Chagall. Brugnaro ne parlava con accenti gravi già durante la campagna elettorale: sforato ripetutamente il patto di stabilità (64 milioni nel 2015), la legge speciale a secco da almeno una decina d'anni e il «dramma incombente di non poter più finanziare neppure gli asili» aggiunge adesso con voce afflitta.

Se la metafora climatica ha un senso, si può proseguire con il Casinò municipale di Ca' Vendramin, che dieci anni fa sommergeva il Comune di liquidità (oltre 100 milioni di euro) e ora, a malapena, alimenta un rigagnolo di una decina di milioni. Il mondo è cambiato anche per la città più amata dai turisti del globo terracqueo. Completata la cessione dei palazzi nobiliari, i cosiddetti gioielli di famiglia della gestione Orsoni (l'ex Pilsen, Ca' Corner della Regina a Prada e il cambio di destinazione d'uso del Fontego dei tedeschi finito ai Benetton), il neosindaco ha deciso di affrontare il rosso strutturale dei conti con misure eccezionali.

Tanto che il dossier con le singole opere d'arte in vendita (per un valore di base d'asta di 400 milioni, con il Klimt che da solo ne vale 70) è sulla scrivania del sindaco dall'indomani del suo insediamento a Ca' Farsetti. «Si tratta di opere che non hanno nulla a che vedere con la storia artistica e culturale di Venezia» precisano i collaboratori del sindaco. Come dire: i Canaletto e i Giovanni Bellini non si toccano. Un atto di contrizione ma pure una prova di realismo. L'imprenditore Brugnaro su questi temi è secco: «Inutile fingere che il debito pubblico italiano non esista. Se lo tagliassimo, la ripresa potrebbe essere ben più robusta e sgraveremmo di una zavorra micidiale il futuro dei nostri figli. Ecco, Venezia è pronta a inaugurare una prassi che potrebbe essere seguita anche da altre città».

Nel dossier che lunedì scorso il sindaco ha consegnato ai parlamentari veneziani ci sono altre misure sempre ventilate ma mai attuate. Una tra tutte: il biglietto d'ingresso per i turisti che si accingono a varcare l'area marciana o la zona di Rialto, un provvedimento che avrebbe bisogno di una legge nazionale ad hoc. Spiega Brugnaro: «Io non voglio cavarmela tassando i turisti, non fa parte della mia cultura. Ma una città irripetibile come la nostra non può fronteggiare da sola problemi di tale portata». Di questo e di altro il sindaco parlerà nei prossimi giorni con il sottosegretario del premier Claudio De Vincenti.

Alcune richieste, almeno le più urgenti, Brugnaro vorrebbe fossero inserite nella legge di stabilità. Mancano all'appello 40 milioni per la manutenzione dei palazzi e la pulizia dei rii. L'assessore al Bilancio, Michele Zuin, fa la radiografia del cash: «Per la conservazione di un immenso patrimonio immobiliare abbiamo in cassa solo 200mila euro». Alla vendita di opere d'arte e ticket d'ingresso per i turisti si sommano la richiesta di una zona franca e la cancellazione dello status di sito d'interesse nazionale per l'area industriale di Marghera, una mossa che semplificherebbe l'attrazione di nuovi investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro.
A sparare bordate sulla situazione finanziaria è anche l'assessore ai Lavori pubblici, Renato Boraso: «Da aprile abbiamo smesso di pagare i fornitori. Nella capitale del mitico Nordest fare impresa è diventata un'impresa». La sua è la sintesi efficace di un pacchetto di proposte che sotto sotto rivendica una sorta di statuto speciale a misura di città-stato. Brugnaro è secco: «Da soli non ce la facciamo, questo è chiaro. Ripetere tutto va bene madama la marchesa credo sia privo di senso. Di una cosa sono certo: se ce la fa Venezia, ce la farà anche l'Italia».
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