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La discussione è aperta sul carattere della massiccia presenza di persone e capitali provenenti dalla Cina: al di là dell'esito nelle primarie milanesi. Qui nella postilla l'opinione di Fabrizio Bottini, che ci ha segnalato l'articolo. La Repubblica, 8 febbraio 2016,

Cinquemila, per la Camera di Commercio. Seimilacinquecento, secondo la stima della stessa comunità cinese. Tante sono le imprese individuali a Milano con titolare nato in Cina. La differenza fra i due dati si spiega anche con i casi in cui la licenza rimane intestata al vecchio titolare, spesso italiano, ma alla cassa sta il nuovo gestore. È questa la fotografia, il giorno dopo le polemiche per l’esordio al voto della comunità cinese. «In città i cinesi sono 25mila, un’impresa ogni quattro persone - dice Angelo Ou, imprenditore di 68 anni, figlio di uno dei primi arrivati negli anni Trenta - veniamo dalle regioni di Wenzhou e Qingtian. È il vostro Triveneto. Non ci piace lavorare sotto padrone».

Delle 5.002 imprese cinesi censite in città, il 30,9 per cento è attivo nel commercio, il 25,7 nella ristorazione. Il 31, 8 percento dei cinesi vive a Chinatown, intorno a via Paolo Sarpi. Molti nelle periferie a Nord : Villapizzone, Affori, Quarto Oggiaro. «Non esiste più un quartiere cinese – dice Alessio Menonna, ricercatore di Ismu – sono ovunque ci sia sofferenza commerciale e deprezzamento degli immobili».

La crescita del numero di aziende cinesi rispetto al 2014 è del 7,2 per cento, 334 nuove società. E dal 2009 sono raddoppiate. «Negli anni della crisi, la comunità cinese è la sola che è cresciuta. Lo dicono gli indicatori, dal reddito alle case di proprietà», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia in Bicocca. E non è l’unica tendenza: aumentano le donne imprenditrici, i dipendenti lavorano di più (68 ore a settimana) e guadagnano 1.610 euro lordi al mese. Intervistati dalla fondazione Ismu, solo il 20 per cento dei cinesi a Milano dice di capire bene l’italiano e il 9 per cento di poterlo leggere.

«Ma la novità degli ultimi anni non è il numero di imprese. Siamo noi - dice Francesco Wu, 34 anni, presidente dell’associazione dei giovani imprenditori cinesi Uniic – abbiamo messo d’accordo le 14 associazioni di commercianti cinesi in città e abbiamo insegnato ai vecchi una cosa: siamo in Italia non in Cina, se vuoi cambiare le cose puoi farlo. Devi farti sentire. Queste primarie sono state l’occasione». Figli più integrati e istruiti dei propri padri, che hanno mandato i genitori a votare. Per Giuseppe Sala. «La comunità chiede al Comune poche cose semplici, che gli assessori Majorino e Balzani hanno dimostrato di non volere - dice ancora Angelo Ou -. Meno lacci al commercio, un rappresentante nelle istituzioni e l’autorizzazione a creare alcune grandi cose». La più grande: una international school cinese per 640 studenti. Un progetto fermo da tempo.

postilla

Chi ha seguito con una certa attenzione sul social network lo svilupparsi del dibattito sui «cinesi ai seggi delle primarie» milanesi, avrà certamente notato l'abisso che separa certe strampalate teorie di integrazione, vitalità urbana, convivenza, dalla realtà su cui si vorrebbero esercitare. La comunità cinese, tra la scarsa attenzione (poco oltre il folklore e qualche diffidenza) di chi a parole si fa paladino di quei concetti, è uno dei protagonisti di punta della riqualificazione dei quartieri urbani, e della loro rivitalizzazione commerciale. Il fenomeno più vistoso è quello «open air mall» di via Paolo Sarpi, che fa da virtuale trait-d'union tra il monumentale Parco Sempione e il neomonumentalismo postmoderno di Porta Nuova. È con questo tipo di iniziative, ovviamente tutte da capire, favorire, governare, che una politica urbana davvero all'altezza dei tempi dovrebbe confrontarsi, domandandosi tanto per cominciare fin dove qualunque attività che produce ricchezza è accettabile, e dove invece occorre affiancare una piena integrazione culturale. La diffidenza di certa sinistra che ha scambiato per invasori di campo i commercianti cinesi, in fila ai seggi delle primarie sostanzialmente contro certe pedonalizzazioni che ritengono controproducenti, dimostra quanta strada ci sia da fare verso un'idea di commercio urbano meno nostalgicamente campata per aria (f.b.)

L'intervista di Dario del Porto al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il commento di Marco Rossi Doria. «Qui la guerra c’è da sempre. E trova soldati, sempre più giovani, nelle più dure fragilità che nascono nei luoghi della povertà, della crisi educativa, del non lavoro». La Repubblica, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)


“COSÌ UNA GENERAZIONE DI VENTENNI SPIETATI HA RIMPIAZZATO I BOSS”
Intervista di Dario del Porto a Franco Roberti


Napoli. Una «spaventosa quantità di armi in circolazione nelle strade». Nuove leve di giovanissimi criminali disposti a tutto che «sparano nel mucchio e per questo fanno più paura». È una «situazione eccezionale sul piano dell’ordine pubblico, senza eguali in Europa, peggio che nelle banlieue parigine», quella con cui deve confrontarsi oggi l’area metropolitana di Napoli nella lettura di un magistrato che conosce benissimo la realtà della città e della regione: il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

Che cosa sta succedendo a Napoli, procuratore Roberti?
«È una situazione apparentemente paradossale: le organizzazioni camorristiche tradizionali sono state quasi tutte colpite da interventi giudiziari molto incisivi. Sono stati sequestrati e confiscati beni di valore elevastissimo. Oggi la camorra ha il maggior numero di collaboratori di giustizia e ben 294 detenuti al carcere duro su 725. Eppure, nelle strade, le cose sono peggiorate».
Perché?
«La repressione ha funzionato, ma proprio per questo ha determinato vuoti di potere criminale, aprendo spazi a gruppi composti da ragazzi di nemmeno vent’anni, se non addirittura minorenni, che si scontrano per il controllo del territorio e del mercato della droga. Hanno tantissime armi a disposizione e sono pronti a uccidere per nulla. Non credo che, nel panorama nazionale o europeo, esistano esempi analoghi».
Che cosa rende questo territorio tanto diverso da altre aree del Paese e della stessa Campania?
«È tutto il contesto a essere eccezionale. Ci sono problemi irrisolti da 200 anni, dall’evasione scolastica alla disoccupazione crescente compensata dall’economia del vicolo controllata dalla camorra, che sono alla base della penetrazione del modello camorristico nel tessuto sociale. L’area metropolitana copre il 10 per cento della regione, ma in questo 10 per cento vivono, una sull’altra, quasi quattro milioni di persone. Ci sono interi quartieri che, per la loro situazione urbanistica e in assenza di adeguate infrastrutture sociali, sono diventati di per se stessi criminogeni. Penso a Forcella, Scampia, il Parco Verde di Caivano, il Rione Salicelle ad Afragola. E potrei continuare. Altro che le banlieue di Parigi».
Questo discorso però ricorda la definizione, che è costata tante critiche alla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, della camorra come «dato costitutivo » della società napoletana?
«Ma è esattamente quel che penso anche io: se arresti, processi, condanne e sequestri non sortiscono l’effetto deterrente che hanno altrove, è proprio perché la camorra è diventata parte integrante della società napoletana e riproduce automaticamente, da secoli, il modello camorristico di controllo del territorio e della vita di intere fasce di sottoproletariato urbano».
Come se ne esce?
«Per risolvere i problemi sul piano sociale occorrono interventi che segnaliamo da sempre: lavoro, scuola, servizi pubblici efficienti, trasparenza della pubblica amministrazione. Tutto ciò che genera fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, perché solo con la fiducia dei cittadini lo Stato potrà vincere contro la crimninalità organizzata».
E dal punto di vista dell’ordine pubblico?
«Se questa è una situazione eccezionale, e io ne sono convinto, occorrono provvedimenti eccezionali per assicurare una prevenzione efficace, visto che la repressione ha dimostrato, da sola, di non bastare».
Ad esempio?
«Le forze di polizia svolgono un lavoro straordinario. Ma il ministro Alfano dovrebbe chiedersi, per prima cosa, se il controllo del territorio funzioni sempre con l’assiduità, la continuità e la completezza che la situazione eccezionale richiede. Poi dovrebbe domandarsi se gli organici delle forze dell’ordine siano sufficienti. A me pare proprio di no. Suggerisco di rivedere la distribuzione degli organici sull’intero territorio nazionale, in modo da portare più risorse umane nell’area di Napoli. A sfide eccezionali si risponde con interventi eccezionali. D’altra parte, lo dicono le statistiche: vengono sequestrate armi ogni giorno, ciò nonostante il mercato non viene intaccato. Stesso discorso per la droga: gli interventi sono quotidiani, ma tonnellate di stupefacenti vengono vendute ogni giorno nelle piazze. Sulla droga poi voglio aggiungere una riflessione».

Prego.
«Deve cambiare il target delle indagini, allargando l’azione di contrasto alle strutture finanziarie che alimentano quel mercato. Su questo obiettivo, il mio ufficio si sta impegnando moltissimo».
Lei ha discusso di questi argomenti con il ministro Alfano nel vertice di giovedì scorso a Napoli?
«Il mio ufficio non è stato invitato ».
SALVIAMO I NOSTRI SOLDATI BAMBINO
di Marco Rossi Doria

Qui la guerra c’è da sempre. È una guerra che crea morti su morti entro la lunga, mutante vicenda del crimine organizzato. E che trova soldati, sempre più giovani, nelle più dure fragilità che nascono nei luoghi della povertà, della crisi educativa, del non lavoro e del venir meno del monopolio statale della forza. Marzo 2015: le telecamere dei carabinieri riprendono bande di ragazzini sui motorini che sparano all’impazzata, mese dopo mese. Gli abitanti sono terrorizzati. Non sembra Italia. Da allora in molte parti della città alle scorribande armate si aggiungono omicidi, inseguimenti, torture. È per controllare affari e territori. E - con la vecchia catena di comando camorristico resa labile da lunghe detenzioni - i giovanissimi prendono la scena. Con una fragilità che si unisce a determinazione e crudeltà. Stati di esaltazione, violenze impulsive, agite per analogia, imitazione, spinta del momento.

È la minoranza più esclusa in preda a demoni terribili. Intanto, la maggioranza fatta di migliaia di ragazzi poveri studia in scuole-presidio, viene sostenuta da una rete di educatori capaci, fa sport, lavora in fabbriche e servizi per pochi euro a settimana, emigra, prova a mettere su piccole imprese, tartassata da mancanza di credito, fiscalità impossibile, pizzo. Ed ecco gli ultimi giorni napoletani. Maikol, ragazzo ucciso per caso a Capodanno. Poi, in un mese: Davide, Vincenzo, Mario, Giuseppe, Pasquale, Francesco. La guerra terribile in una grande città d’Europa. Che dura da decenni. È ora di dire che è Storia patria e non una catena di episodi di cronaca. Che ci chiama a reagire a un fallimento della Repubblica. È urgente uno scatto d’orgoglio nazionale. Bisogna unire le forze, dare sostegno a chi già sta lavorando e bene. E farne una priorità politica.

Il Fatto quotidiano, blog "ambiente e veleni", 6 febbraio 2016.

Dopo il Tar nel febbraio 2012 e il Consiglio di Stato nel gennaio 2014, anche la Cassazione, nel dicembre dello scorso anno, ha riconosciuto la “illegittimità di una pluralità di atti tutti relativi alla lottizzazione di Capo Malfatano. Vittoria! Notizia lieta, a lungo attesa. Da quando nel 2010 il Resort di categoria 5 Stelle e 5 Stelle lusso è diventato una realtà. Uno dei tratti di costa più belli e naturalisticamente meno antropizzati della Sardegna messo in salvo. La vegetazione mediterranea non sarà del tutto spazzata via per lasciare il posto ai 190mila metri cubi di costruzioni suddivisi in quattro complessi alberghieri, quattro residence, due agglomerati di residence stagionali privati e relativi servizi, che si sarebbero dovuti realizzare. Tutt’altro che illegalmente. Il Comune di Teulada, nel cui territorio si trova Capo Malfitano, e la Regione avevano regolarmente autorizzato l’operazione. Non solo. Avevano esentato il progetto da ogni controllo sull’impatto ambientale. Con il consenso delle Soprintendenze delle province di Cagliari e Oristano e del Mibact.

L’espediente utilizzato dalla Sitas, la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde che aveva predisposto il piano di lottizzazione, la sua articolazione in cinque differenti parti. Autorizzata la prima, le altre sarebbero seguite. Quasi naturalmente. Invece si trattava di una frammentazione ingannevole. Già, perché, come hanno scritto i giudici del Consiglio di Stato, “l’impatto del progetto sul paesaggio doveva essere valutato nel suo complesso, perché fosse chiaro il rapporto tra il sacrificio ambientale e le eventuali ricadute sociali”. Il progetto Capo Malfetano Resort, l’intervento-immobiliare promosso da Sitas con il coinvolgimento di Sansedoni, di Ricerca Finanziaria di proprietà della famiglia Benetton, di Progetto Teulada, invece della famiglia Toffano, e della Silvano Toti, società del gruppo Toti, smascherato. Fortunatamente. Ma non casualmente. Decisivo il ruolo di Italia Nostra Sardegnache aveva presentato ricorso sulla legittimità delle concessioni paesaggistiche. Ricorso accolto dal Tar nel febbraio 2012.

“Questa sentenza solleva molti dubbi sul corretto comportamento e sulla responsabilità della Regione Sardegna, del Comune di Teulada e delle strutture periferiche del MiBact, che hanno autorizzato questo intervento, e troppi altri, interpretando la normativa regionale, nazionale ed europea con scarsa competenza e tanta “superficialità”, il commento dell’associazione dopo il felice esito della vicenda. Già, a rimanere in sospeso sono soltanto i giudizi morali sulle decisioni di Amministrazioni locali e regionali e degli organi ai quali è delegata anche la tutela di siti e monumenti e del loro habitat naturale. Quel che è indubitabile è che non si governa così un territorio.

Riferimenti

Su eddyburg: Giorgio Todde, Una gioia e un dolore, e A Capo Malfatano "sviluppano" (sic) il paesaggio, Giorgio Meletti, Il pastore ferma il cemento a Capo Malfitano, Mauro Lissia, Ovidio eroe di Facebook non arretra d'un passo, l'Hotel va demolito, Andrea Massidda, Capo Malfatano Resort, 5 stelle di cemento

«È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio». La Repubblica online, blog "Articolo9", 6 febbraio 2016

Il lucido, durissimo articolo di Salvatore Settis apparso venerdì su Repubblica ha colto nel segno. Ieri il ministro Franceschini ha replicato – senza mai citare Settis – con una intervista sempre a Repubblica, tutta giocata in difesa.

Un'intervista imbarazzante, per almeno tre motivi.

Il primo riguarda il cuore stesso dell'articolo, e cioè il fantomatico Istituto di Archeologia, il coniglio che esce dal cilindro del ministro di fronte all'epic fail della sua 'riforma' dell'archeologia. Una risposta che non risponde affatto alle critiche della comunità scientifica circa la soppressione delle soprintendenze archeologiche: perché non si compensa l'abolizione di organi di governo e tutela vagheggiando la creazione di istituti di ricerca. Questo è puro storytelling, e di pessima qualità.

È poi noto che il ministro pensa di servirsi di ciò che resta dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia: e nella foga di trovare una risposta qualsiasi alle pesanti critiche di questi giorni, Franceschini è prontissimo a cancellare da quell'istituto la storia dell'arte, i cui cultori sono evidentemente meno fastidiosi degli archeologi: l'unico risultato di questa grottesca sarabanda sarà infallibilmente quello di ridurre a spezzatino gli organi cui è affidata la vita del patrimonio culturale. Prima si sono separate tutela e valorizzazione, ora si fanno divorziare tutela e ricerca. È chiaro l'obiettivo politico: mani libere sul territorio.

Il secondo motivo di imbarazzo riguarda l'affermazione di Franceschini sulla divisione della comunità scientifica sulla soprintendenza unica. Ebbene, tutte le consulte archeologiche si sono dette contrarie a questa riforma. E ora anche quella degli storici dell'arte ha fatto altrettanto. Forse Franceschini si riferisce all'isolato plauso di Giuliano Volpe, l'archeologo che presiede il plaudente Consiglio Superiore dei Beni culturali. Volpe ha sostenuto più volte di essere in quella posizione non per ragioni politiche, ma per ragioni scientifiche: e sia. Ma ora che la comunità scientifica lo sconfessa in modo così plateale non dovrebbe allora tirarne le uniche conseguenze dignitose?

Terzo, e forse più grave, motivo di imbarazzo è che Franceschini abbia detto di aver imbavagliato l'archeologia a propria insaputa. Il ministro sostiene di non conoscere il provvedimento che vieta ai soprintendenti di parlare della 'riforma' con la stampa: ma il codice di comportamento su cui essa si basa l'ha varato lui stesso, il 23 dicembre scorso. Al comma 8 dell'articolo 3 vi si legge: «Il dipendente - fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini - si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell'immagine e del prestigio dell'Amministrazione ed informa il dirigente dell'ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa. Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce dell'organo di vertice politico dell'Amministrazione e dall'Ufficio stampa, le attività di comunicazione attraverso l'Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso eventuali analoghe strutture». Tradotto: un funzionario archeologo non può parlare con i media della riforma che rischia di cancellare la tutela archeologica.

Ha ragione Settis: se Franceschini firmerà il decreto sull'archeologia il governo si rivelerà una bad company. Ma chi lo dice lede «l'immagine e il prestigio dell'Amministrazione»: tutti zitti, mi raccomando.

Un modello utopico di integrazione locale delle diversità culturali? Molto probabilmente no, visto che con evidenza vengono tenuti fuori tutti i fattori non esplicitamente economici, che invece nella vita vera contano, eccome se contano. La Repubblica, 6 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Ci sono un italiano, un polacco, un turco, un arabo e un indiano: ma non è l’inizio di una di quelle barzellette all’insegna degli stereotipi etnici. È la descrizione di un pezzetto di Narborough road, la strada più multietnica d’Inghilterra, se non d’Europa o forse del mondo: 24 nazionalità, in rappresentanza di quattro continenti, una accanto all’altra, su poco più di 200 esercizi pubblici, vetrina di negozio dopo vetrina di caffè, barbiere, salumiere, in apparente armonia nel cuore di una cittadina di provincia.

«Magari gli immigrati andassero così d’accordo nel nostro paese o da qualunque altra parte », dice Gennaro Zappia, cuoco salernitano, in mano una teglia di ravioli pronti per il forno, nel ristorante che ha appena aperto al numero 2 di questa colorita via del cosmopolitismo urbano. A individuarla sono stati i sociologi della London School of Economics, la cui ricerca è finita sui giornali. “Bottegai di tutto il mondo unitevi”, suggerisce il titolo del Mail, parafrasando involontariamente il motto di Marx: uniti per commerciare in santa pace e possibilmente in prosperità, certo, mica per fare la rivoluzione. Ma questa unità è un segno di civile progresso, nel momento in cui in Europa risuonano allarmi sulle invasioni straniere e sui presunti danni di un’immigrazione senza controlli.

A un’ora di treno dalla capitale, Leicester deve la sua fama passata a Riccardo III, l’ultimo re inglese caduto in battaglia, e quella più recente a Claudio Ranieri, l’allenatore che ha sorprendentemente portato in testa alla Premier League la squadra locale. Ora l’indagine della Lse (acronimo della prestigiosa università di scienze politiche londinese) sottolinea un altro motivo di distinzione: meno di metà della popolazione locale (300mila abitanti) si autodefinisce britannica, le due università cittadine attirano studenti da ogni angolo della terra e Narborough road, l’arteria che taglia il centro, è diventata una sorta di nazioni unite del piccolo commercio. Una volta era una strada in declino, contrassegnata da abbandono, degrado e miseria. Globalizzazione e immigrazione, i due grandi accusati dai nostalgici del tempo che fu, l’hanno rivitalizzata.

Beninteso, non è una strada ricca: modeste casette a due piani costellano le vie adiacenti (90 mila sterline per un appartamento con due camere da letto, si legge nella vetrina di un’agenzia immobiliare – prezzo con cui sotto il Big Ben non compri neanche un garage). Né vi compaiono “chain stores”, le catene di negozi tutti uguali (Starbucks, Gap, Pizza Express) che hanno reso omogenee le “high street”, le vie centrali nel resto della nazione. Ma è costellata di negozietti indipendenti che trasmettono dinamismo e speranza. Vicino a Sultan (barbeque turco) c’è Alino (bar africano), di fianco a Nawroz (cucina caraibica) c’è Al Sheikh (ristorantino arabo), dopo Karczma (delicatessen polacco) c’è Vashnu Daba (alimentari indiano). E avanti così, isolato dopo isolato: un macellaio pachistano, una tabaccaia kenyota, un droghiere lettone, una sarta dello Zimbabwe, un ristoratore giamaicano. “Antonio Sun Tanning”, salone per abbronzarsi, non cela un italiano, bensì un inglese: ebbene sì, ci sono anche i nativi, con nome nostrano per sembrare più esotici. Accanto ai supermercatini “halal”, cibo secondo i dettami del Corano, sorge il salone di bellezza Platinium, con in vetrina la gigantografia di una bionda in bikini. Sul marciapiede mi sfiorano una bionda in carne e ossa che parla russo dentro un telefonino, una massaia con il velo e le sporte della spesa, un gruppo di sikh con il turbante, uno di operai polacchi. Kerreen Nelson, giamaicana, dietro il bancone dell’omonimo Nelson Soul Food, dice che è bello vedere così tante comunità diverse in buoni rapporti.

«Ci siamo guardati intorno per cercare il posto giusto», racconta Zappia, lo chef di Sapri, provincia di Salerno, fra i tavoli di “La cucina italiana”, il ristorante che ha aperto con il socio romano Alessandro Graziani. «A Londra di ristoranti italiani ce ne sono tanti, qui c’erano soltanto imitazioni e abbiamo pensato ci fosse spazio per uno genuino ». Era l’unica cosa di cui Ranieri si è lamentato arrivando ad allenare il Leicester: l’assenza di un posto dove cenare come in Italia. Adesso può portare la squadra su Narborough road e mangiare tagliolini all’astice o ravioli ai funghi come in patria. Il mondo in una strada. Non è una barzelletta.

postilla

Non è certamente un caso, se quella strada scelta dai sociologi della London School of Economics come possibile «modello di integrazione» sta nel cuore profondo della patria del liberalismo, e del conseguente amore sviscerato per una certa idea di spazio condiviso utilitaristico assai circoscritto, ma dove le cose a modo loro effettivamente funzionano. Ricordando sempre, però, che appena si esce da quell'universo altamente artificioso, nulla pare più altrettanto equilibrato, come ci dimostra ogni giorno la realtà. E del resto, basterebbe forse provare a andare appena oltre quella superficiale tolleranza da «business is business» di questa sorta di centro commerciale autogestito, dove ci si allea o ci si fa concorrenza solo per il profitto, per cogliere il senso del modello britannico della integrazione esclusivamente economica (che lascia le culture a macerarsi nella loro specificità), contrapposto a quello di scuola francese (che vorrebbe integrarle in uno Stato portatore di valori comuni di riferimento). Se esce una lezione dal racconto, anche senza ovviamente entrare nei valori specifici della ricerca LSE appena citata, è che si può praticare una ricerca di spazi comuni sperimentali, da cui forse far emergere regole più generali, ma certamente non confidando al 100% in entità del tutto astruse come lo Stato o il Mercato, a loro volta soggette a declinazioni particolari (f.b.)

«A Venezia non si sa neppure cosa sia lo smog! Nel senso letterale della frase: Venezia è inquinata forse più di ogni altra città della pianura padana, ma è probabilmente l’unica città al mondo a non avere una rete di centraline che misurino la qualità dell’aria». Ytali.com, 4 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il Nabu, una prestigiosa organizzazione non governativa tedesca, ha fatto dei rilievi per conto suo sulle polveri ultrasottili, concludendo che a Venezia la situazione è pessima, oltre ogni limite di guardia.
Ogni giorno i bollettini dell’Arpav ci dicono di quanti microgrammi per metro cubo siano stati sforati i limiti in via Tagliamento, a Mestre, o in via Beccaria, o al Parco della Bissuola, per non dire di Spinea o di San Donà. Ma a Cannaregio? a San Marco? a Castello? al Lido? a Burano? A volerla proprio dire tutta, c’è una centralina di rilevamento anche a Venezia, a Sacca Fisola, peccato che abbia un piccolo difetto: è sottovento ai venti dominanti in laguna, Scirocco e Bora. Quando tira lo Scirocco, cioè, misura l’inquinamento prodotto da chissà chi in mare aperto o in una fettina del Lido, e quando tira la Bora misura forse i veleni immessi nell’aria tra il Cavallino e Sant’Erasmo. La centralina di Sacca Fisola rileva l’inquinamento proveniente dalla Terraferma o dalla Marittima con le grandi navi da crociera solo nelle rare giornate in cui soffiano il Garbìn (Libeccio), il Maestrale (praticamente assente), la Tramontana.

Ma cosa vogliono ‘sti veneziani? si dirà qualcuno: non hanno mica le auto. Non vanno a piedi? Come se il traffico marittimo non inquinasse. Proprio in questi giorni il Gazzettino ha ricordato che dal 2007

si sa che la maggior fonte inquinante nel Veneziano è la portualità grazie agli studi dell’Arpav (Le emissioni da attività portuali) confermati dal progetto comunitario Apice (Common Mediterranean strategy and local practical Actions for the mitigation of Port, Industries and Cities Emissions), ma alle navi commerciali e civili bisogna aggiungere le centinaia di vaporetti dell’Actv e di Alilaguna, le centinaia di taxi acquei, le centinia di Lancioni Gran Turismo, le centinaia di topi da trasporto, le migliaia di imbarcazioni da diporto che solcano le acque della laguna. Solo di contrassegni “LV” (Laguna Veneta), obbligatori per imbarcazioni con motori di potenza superiore ai 10 hp e che già non abbiano una targa per forza di legge, ne sono stati rilasciati più di 50 mila. Poi ci sono quelle senza targa, migliaia.

Ogni nave da crociera inquina come 14 mila automobili messe assieme: altro che Tangenziale. E spesso in Marittima ce ne sono anche sette contemporaneamente, coi motori accesi 24 ore su 24. Ma usano carburante “verde”, dicono le autorità, perché gli armatori hanno firmato il Venice Blue Flag, ovvero un accordo per limitare allo 0,1 per cento il tenore di zolfo del diesel usato il laguna, contro il 3,5 per cento in mare aperto. Peccato che il tenore dello zolfo nel diesel delle automobili sia dello 0,001 per cento, cioè 3500 volte inferiore a quello usato in mare e 100 volte inferiore a quello usato in laguna e all’ormeggio. Actv non aderisce al Venice Blue Flag. Ci sarebbero gli scrubber, i filtri, ma gli armatori li usano nel Baltico e negli Stati Uniti, in Italia no.

Come si vede, ragioni per dotare anche Venezia di una rete di centraline ve ne sono, ma in 25 anni di governo cittadino di centrosinistra non ci hanno mai pensato una volta, né ora Brugnaro sembra ricordarsi che a inquinare ci sono anche le navi e le barche se le ordinanze emergenziali del Comune fanno riferimento al solo traffico automobilistico: se sosto in auto devo spegnere il motore, se mi ormeggio in topo posso inquinare a man salva. Di blocchi o riduzioni del traffico nautico non se n’è mai parlato.

Dati più recenti non ne ho trovati, ma già nel 2011 il Registro tumori dell’Istituto Oncologico Veneto mostrava che Venezia insulare era la prima città d’Italia per l’incidenza dei tumori ai polmoni: che c’entri qualcosa?

La Repubblica, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attacco a una professione già fragile.

Ministro, perché ha cancellato le 17 soprintendenze archeologiche?
«Ne ho create 41 nuove: 39 uniche più due speciali (Roma e Pompei). Molti soprintendenti unici saranno archeologi. Ho fatto un’operazione che punta a rafforzare la tutela. E mi offendo quando sento dire che, al contrario, l’ho indebolita. Prima un soprintendente doveva occuparsi di una regione intera. Con la riforma, la Lombardia, per esempio, ha quattro soprintendenze che controllano un territorio più piccolo. E il cittadino che chiede di procedere con un intervento su un palazzo deve fare una sola domanda e aspettare una sola riposta».

Però, con la riforma della pubblica amministrazione e l’introduzione del silenzio assenso, i prefetti hanno più potere in materia di tutela ambientale e paesaggistica…
«Il prefetto ha una funzione di coordinamento delle strutture territoriali dello Stato. Ma non sostituisce il soprintendente in nessun caso. Tutti i contrasti saranno risolti all’interno del ministero. In ogni soprintendenza c’è un responsabile per il patrimonio archeologico, storico e artistico, architettonico, per il paesaggio… Se prima c’erano 17 soprintendenti, oggi per l’archeologia ci sono 39 responsabili».
Insomma, non crede di avere indebolito le soprintendenze?
«Semmai ho provveduto a una razionalizzazione. Nella comunità scientifica, il tema della soprintendenza unica divide. Il dibattito è legittimo, ma poi bisogna scegliere. Operare una sintesi: è quello che cerco di fare. Contemporaneamente alle nuove soprintendenze, nascono nuovi parchi archeologici che avranno statuti e bilanci autonomi e si occuperanno di tutela e valorizzazione. Parlo tra gli altri dei parchi archeologici di Ostia, dell’Appia Antica… finora erano semplici uffici di Roma…».
Sul futuro dell’Appia Antica c’è apprensione. Il 13 febbraio ci sarà una marcia dell’associazione Bianchi Bandinelli per i beni culturali in ricordo di Antonio Cederna…
«Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… non capisco dove sia l’indebolimento. Dal punto di vista della tutela, l’archeologia ne esce rafforzata da questo secondo atto della riforma. Semmai bisognerà essere più attenti agli scavi… ».
E quindi?
«È per questo che faremo nascere un Istituto Centrale di Archeologia del ministero che supporterà le soprintendenze come luogo della ricerca e del coordinamento delle missioni di scavo italiane sul territorio nazionale e all’estero. Per l’archeologia sarà il corrispettivo dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure».
Quali sono i tempi?
«Saranno veloci, lo faremo in fretta. Le preoccupazioni degli archeologi vanno ascoltate».
L’età media del ministero è alta. C’è un sostanziale blocco del turn over. Lei ha avviato l’assunzione di 500 funzionari. Basteranno?
«Basteranno per qualche anno. Il numerò coprirà tutti i posti ora vacanti più quelli occupati da chi andrà in pensione nel 2016. Si ringiovanirà l’età media del ministero. Poi, più avanti, si potrà procedere a un altro concorso. Il dato positivo è che si inizia a capire che sulla cultura si può investire. Il bilancio del 2016 è cresciuto del 27 per cento rispetto all’anno scorso».
C’è una circolare del ministero, diffusa su Internet, che invita i funzionari a non parlare con gli organi di stampa…
«Non l’ho vista. Il dibattito sulla riforma ci deve essere fuori e dentro il ministero. Deve essere libero e mi pare sia così».

Il nuovo disegno di legge sul cinema abolisce le commissioni ministeriali che attribuivano finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale”. I crediti fiscali saranno assegnati in base a “parametri oggettivi” come i risultati economici e il successo in sala. Non si rischia di favorire i progetti di cassetta?

«L’obiettivo è quello di creare un indotto per il Paese: del tax credit hanno usufruito il remake di
Ben Hur, Zoolander, 007. Film che restituiscono l’immagine dell’Italia nel mondo. Il cinema è un’industria. C’è un nuovo interesse intorno a Roma e a Cinecittà. Se un film oggi produce l’effetto che fece Vacanze Romane, ben venga. Poi il 15 per cento del Fondo unico per lo spettacolo sosterrà comunque opere prime e seconde, start-up e piccole sale».
Si è dato una risposta chiara sull’incidente delle statue inscatolate ai Musei Capitolini, durante la visita del presidente iraniano Rouhani? Una commissione doveva accertare l’accaduto: a che punto è?
«Non ho nuovi elementi. L’indagine della commissione interna a Palazzo Chigi evidentemente non è finita. Continuo a dire che ci sono mille modi per non offendere la sensibilità di un leader straniero. Non bisognava certo coprire le sculture classiche».
Quale sarà la sede per la mostra della collezione e per il Museo Torlonia?«È tutto aperto. L’accordo con la famiglia Torlonia è fatto, ma non ancora firmato. C’è un interesse internazionale: si tratta della più grande collezione archeologica di scultura mai vista. La mostra girerà il mondo. Dobbiamo trovare a Roma una sede di grande prestigio».
«Alfano tradisceun timore molto forte rispetto alla possibilità che si celebriquesto referendum e che,con esso, venga spazzata via lafilosofia dello Sblocca Italia checancella il ruolo delle autonomielocali e prevede un modellodi sviluppo basato sul greggio». Articoli di Serena Giannico e Andrea Fabozzi, il manifesto, 4 febbraio 2016 (m.p.r.)
ELECTION DAY. ALFANO DICE «NO». MA NON FINISCE QUI

di Serena Giannico

Un «no» secco, quello di Angelino Alfano: non ci sarà alcun election day che metterà insieme amministrative e referendum anti trivelle. Perché? «Difficoltà tecniche non superabili in via amministrativa: ci vuole una legge apposita». Questo ha affermato il ministro dell'Interno, durante il Question time della Camera, rispondendo a un'interrogazione di Sinistra italiana-Sel, primo firmatario Arturo Scotto.
Ma il Governo non se la caverà così, con una manciata di parole. «Noi infatti chiediamo un decreto legge», ha subito ribattuto il movimento No Triv. E lo stesso Scotto: «Alfano tradisce un timore molto forte che attraversa le stanze di Palazzo Chigi rispetto alla possibilità che si celebri questo referendum e che, con esso, venga spazzata via la filosofia dello Sblocca Italia che cancella il ruolo delle autonomie locali e prevede un modello di sviluppo basato sul greggio, invece che sull’ambiente e le energie rinnovabili...». Quindi il monito: «Ricordo ad Alfano che nel 2011 il suo ex capo Silvio Berlusconi scelse di non unire i referendum sul nucleare e l’acqua pubblica e le elezioni amministrative. E non fu una tornata elettorale fortunata per il centrodestra e vinse il popolo dell’acqua pubblica. I cittadini lo sanno e faranno prevalere il valore della partecipazione democratica a qualsiasi altro interesse o calcolo politico».
È rovente la questione election day. «Il Governo ha il dovere di garantire la più ampia partecipazione dei cittadini al voto e, nell’ottica della razionalizzazione e della riduzione delle spese dettate dalla spending review, ha l'obbligo di risparmiare denaro pubblico. Questi due obiettivi possono essere contemporaneamente centrati abbinando il voto del referendum al primo turno delle amministrative 2016, con un taglio di spesa di oltre 300 milioni di euro che andrebbero invece in fumo nel caso tali consultazioni si svolgessero in giorni diversi». Sono oltre 50 i parlamentari che, sulla faccenda, hanno fatto propria una mozione depositata alla Camera - prima firmataria è la deputata di Sinistra Italiana, Serena Pellegrino, ma è anche presente il Pd con Angelo Capodicasa - e che oggi sarà motivata in un incontro promosso dalla Fondazione UniVerde (presieduta da Alfonso Pecoraro Scanio) e al quale sarà presente il costituzionalista abruzzese Enzo Di Salvatore, autore dei quesiti referendari.
Election day sollecitato anche da Greenpeace con una petizione on line: oltre 55 mila adesioni in due settimane. E mentre il fronte no triv porta avanti la battaglia per la consultazione - il 14 febbraio è prevista, in proposito, un'assemblea nazionale a Roma -, la Corte Costituzionale ha pubblicato le sentenze con le quali, lo scorso 19 gennaio, ha dichiarato ammissibile il referendum.
Con la sentenza 17/2016 la Consulta da l'ok al quesito numero 6 e permette ai cittadini di andare alle urne per evitare che i permessi già accordati ai petrolieri entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la «durata della vita utile del giacimento». Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile concedere permessi di ricerca o sfruttamento. «Il quesito referendario – spiega la Corte - non comporta l'introduzione di una nuova e diversa disciplina, proponendosi un effetto di mera abrogazione al fine di non consentire che vi siano deroghe ulteriori rispetto alla durata dei titoli abilitativi già rilasciati. E - aggiunge - qualora l'effetto del referendum fosse di abrogazione, la salvaguardia ambientale resterebbe comunque oggetto di una apposita disciplina normativa, anche di origine europea».
Con la sentenza 16/2016, invece, la Corte dichiara estinto il giudizio di ammissibilità dei primi cinque quesiti referendari, sulla scia del pronunciamento della Cassazione dello scorso 7 gennaio. Tuttavia, sottolineano i giudici «resta impregiudicata la possibilità» di un «ricorso per conflitto di attribuzione avverso l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum». Circostanza già ben chiara a 6 Consigli regionali (Puglia, Basilicata, Liguria, Marche, Sardegna, Veneto), che, infatti, nei giorni passati hanno depositato presso la Corte Costituzionale proprio due ricorsi per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. In caso di accoglimento, sarebbero ammessi a referendum altri due quesiti sugli idrocarburi, quelli relativi alla proroga dei titoli sulla terraferma e al Piano delle aree. Quest’ultimo obbligherebbe il Governo a rifarsi ad uno strumento di pianificazione delle attività estrattive condiviso con i territori. In caso contrario, l’opinione degli enti locali non avrà voce in capitolo quando toccherà individuare le zone da perforare.
Nelle sentenze della Consulta è finito anche il voltafaccia del presidente della Regione Abruzzo, Luciano D'Alfonso. L'Abruzzo, inizialmente è stata tra le 10 Regioni promotrici del referendum, poi, di fronte alla Consulta, si è schierata contro le altre (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) e con Renzi al fine di evitare, alle multinazionali del greggio di affrontare il giudizio popolare. Dopo aver chiarito che «la Giunta regionale», che ha bypassato e snobbato il Consiglio, «non ha potere rappresentativo in ordine alla proposizione del referendum abrogativo», la Consulta ha respinto tutte «le prospettazioni della difesa dello Stato e della Regione Abruzzo» e ha dichiarato che il quesito sulle trivellazioni in mare «si presenta come unitario ed univoco e possiede i necessari requisiti di chiarezza ed omogeneità». «È proprio quello che avevamo contestato a D'Alfonso e a Lucrezio Paolini, delegato della Regione Abruzzo – commenta Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista -: si sono mossi senza mandato del Consiglio in un'operazione spregiudicata che ha disonorato la regione verde d'Europa. C'è anche da riflettere sul grado di subalternità alla politica di dirigenti e avvocatura che avrebbero dovuto rifiutare la propria disponibilità a questa evidente castroneria. Quella che ha ricevuto D'alfonso è la più autorevole delle pernacchie».
CACCIA ALLA DATA PEGGIORE PUNTANDO SULL'ASTENSIONE

di Andrea Fabozzi
Per quale ragione non potrà esserci l’accorpamento tra il referendum No Triv e le prossime elezioni amministrative Alfano non lo ha davvero spiegato. Rispondendo ieri alla camera all’interrogazione di Sinistra italiana, il ministro dell’interno ha elencato una serie di ostacoli tecnici al cosiddetto «election day», ma ha poi dovuto concludere che questi ostacoli sono superabili e sono infatti già stati superati almeno una volta - nel 2009. In realtà c’è anche un altro precedente, per quanto di diversa natura: il referendum consultivo sull’Europa che si tenne congiuntamente alle elezioni europee del 1989. In quel caso però non era previsto un quorum minimo di partecipanti, anche se l’affluenza risultò molto alta. Mentre nel 2009 malgrado l’accoppiata con le amministrative i referendum - sulla legge elettorale - si fermarono al 24% di affluenza e risultarono non validi.

Alfano nella sua risposta ha ecceduto in cavilli. Ha detto che c’è un problema di costi: quelli delle operazioni referendarie ricadono interamente sullo stato mentre quelli delle elezioni amministrative in parte sui comuni e in caso di accoppiamento non si saprebbe come dividerli. Ha detto che le leggi prevedono quattro scrutatori per le amministrative e solo tre per i referendum. Ha detto anche che non si saprebbe in quale ordine cominciare lo scrutinio - se dai Sì e dai No oppure dai candidati sindaci. Non ha citato, il ministro, l’unico argomento di qualche spessore, e cioè il fatto che nel referendum dov’è previsto un quorum minimo la scelta dell’astensione è scelta politica degna di rispetto e dunque l’accoppiata alle urne può avere un effetto distorsivo.
L’argomento in effetti è complesso, anche se il dibattito tra i costituzionalisti può dirsi confinato all’orizzonte teorico visto il concreto calo di affluenza che accomuna da anni elezioni politiche e amministrative: l’accorpamento non è più garanzia di superamento del quorum. La risposta di Alfano conferma però che il governo ha talmente paura di questo referendum che non rinuncerà a creare ostacoli agli avversari delle trivelle. La preoccupazione è politica, visto che a ottobre Renzi ha deciso di giocarsi tutto su un altro referendum - quello confermativo della revisione costituzionale - e non vuole cominciare l’anno con una sconfitta referendaria.
Per l’«election day» - che secondo Sinistra italiana farebbe risparmiare 300mila euro - servirebbe una legge. E una legge fu fatta da Forza Italia (c’era anche Alfano) nel 2009, in non più di sei giorni netti tra camera e senato. Ma oggi non sono questi i piani del governo. Che magari farà svolgere il referendum nell’ultima domenica utile, il 12 giugno. A un passo dall’estate e tra altre due domeniche elettorali (primo e secondo turno delle amministrative).

l'Italia, dagli anni di Giuseppe Bottai a quelli di Concetto Marchesi e Aldo Moro, fino alla miseria di oggi. Ma non è detto che il fondo sia raggiunto. La Repubblica, 4 febbraio 2016

C’era una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi (Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese), ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di “valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa, secondo il Codice dei Beni Culturali (art.6). Vanto del nostro patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da parte della collettività».

Ma il blocco delle assunzioni ha svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del Ministero. Come in una tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un merito fare e disfare il Ministero con colpi di mano, codicilli in Fianziaria, riforme-missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le decisioni dietro le quinte.

Quando nella legge di stabilità spuntò sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del Ministero», il disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa Direzione Generale), accorpandole con Belle Arti e Paesaggio. Perché, invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci !) è un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani. Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una notte (29 gennaio). Prima spiega che porre i Soprintendenti alla «dipendenza funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il silenzio assenso».

Vano spacciare per innovativi questi accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle Arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il Ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante, visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal Ministero, che la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?

La neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti “super-musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto, gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche ‘globali’ con cui devono misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro archivi e biblioteche sono trasferiti ai Musei? Se vengono sfrattate dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito, condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero distinguere una good company (i musei) e una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?

Segnali contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica (come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali vari punti dello “Sblocca-Italia”. Intanto il Governo capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di sette costituzionalisti (fra cui Zagrebelsky), in prima su questo giornale, è rimasto senza risposta; nè ha detto una sillaba in merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo Mattarella.

Rafforziamo pure i musei, ma il tallone d’Achille della tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da sindaco) ha inveito contro i Soprintendenti («una delle parole più brutte del vocabolario», scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio) dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela. Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta” natalizia, la bad company sarebbe il Governo, non le Soprintendenze.

Seconda parte del lavoro su Pisa che si propone di seguire passi indispensabili per cambiare cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Significa anche sbugiardare bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 25 gennaio 2016

E’ interessante vedere a chi appartengono gli immobili totalmente abbandonati nel comune di Pisa. Il 61% (146mila mq) è di proprietà pubblica, mentre il restante 39% (93mila mq) è di proprietà privata.

Tra i nomi dei proprietari privati spiccano, tutti già fin troppo ricorrenti nelle cronache locali, il costruttore Bulgarella, la famiglia Pampana, la multinazionale J Colors proprietaria dell’ex colorificio. Tra i soggetti pubblici, ecco quelli meno virtuosi: a farla da padrone è il Comune di Pisa che possiede circa 97mila mq delle aree completamente abbandonate all’interno del comune stesso (il 66% di tutto il comparto pubblico), seguono l’Università e l’Azienda Ospedaliera.

Dal confronto con i dati censiti nel 2012 emerge un altro dato inconfutabile. Negli ultimi sei anni le aree abbandonate sono aumentante dell’11%, di cui 7,5% solo negli ultimi 3 anni. E di questo aumento sono responsabili esclusivamente le amministrazioni pubbliche, in particolare il Comune di Pisa che ha contribuito a creare la metà delle più recenti superfici abbandonate. Siamo di fronte alla necessità di un serio controllo del territorio finalizzato alla prevenzione di questi fenomeni responsabili del degrado urbano.

Tra il 2012 e il 2015 numerose sono state le azioni nate dal basso per la riqualificazione e il recupero di grandi aree della città: dall’ex Colorificio, alla Mattonaia, al Distretto 42: tutte azioni represse e sgomberate per lasciare nuovamente queste aree al degrado e soprattutto alla speculazione. A contrasto si nota la stesura di veri e propri tappeti rossi da parte dell’amministrazione comunale ai costruttori, con l’effetto di avere oggi decine di scheletri in cemento che non verranno completati: dalle Torri di Bulgarella all’ex-Draga della ditta Rota fallita negli scorsi mesi. Un danno urbano che ricadrà interamente sulla comunità, visto lo scandalo emerso recentemente che ha mostrato come, a garanzia di lavori di urbanizzazione mai fatti, siano state accettate fideiussioni fasulle e inutilizzabili. Tutto questo in una città che nell’occasione dell’alluvione avvenuta il 24 agosto scorso ha evidenziato una estrema fragilità sul piano del rischio idraulico.

L’unica cosa sensata sarebbe smettere di costruire, recuperando il patrimonio inutilizzato. E invece, mentre per i privati la strategia è attendere che arrivi la giusta variante urbanistica, con tempi di attesa incomparabili rispetto alla vita dei cittadini e delle cittadine comuni, per gli enti pubblici l’imperativo è vendere per “valorizzare”, secondo un meccanismo che di fatto fa sì che si moltiplichino le aste pubbliche deserte fino a che, pur di vendere in qualche modo una parte del proprio patrimonio, le cifre vengono abbassate e gli immobili svenduti tramite poco trasparenti trattative private.

Negli ultimi anni la direzione presa dagli enti locali è stata quella di adottare piani faraonici di vendita che stanno cambiando il volto di Pisa: si cerca di vendere l’area dell’ex ospedale S. Chiara, si vendono - o meglio si permutano - le caserme e lo stadio, il Palazzo dei Trovatelli e quelli delle Gondole, e ancora Palazzo Mastiani in Corso Italia, la Mattonaia dietro Borgo Stretto, per non parlare del recente caso del Palazzo ex-Telecom, dietro alla sede del Comune.

A novembre l’amministrazione comunale ha preso formalmente atto che il progetto che riguardava le caserme è definitivamente fallito: però solo dopo aver bocciato pochi mesi prima un progetto partecipato di recupero e riutilizzo dell’ex distretto militare, costruito dai cittadini del quartiere e da numerose associazioni del territorio. Ci chiediamo se ora sarà possibile riaprire la discussione sul futuro dell’area o l’amministrazione perseguirà miope le proprie fantasie speculative sulle villette di lusso.

Investire nel mantenimento dell’esistente, invece di creare nuovi volumi, è sempre più necessario: dai crolli nelle scuole ai danni provocati dall’alluvione nell’ex-convento di grandissimo pregio Fossabanda, dai soldi spesi per bonificare l’area intorno alla Mattonaia in pieno centro allo scempio delle Torri di Bulgarella, emerge in maniera evidente il quadro di un sistema che non funziona più.

Molteplici sono le proposte di immediato riutilizzo degli immobili, sia a scopo abitativo residenziale di cittadinanza e corpo studentesco, che a fini sociali e culturali, che abbiamo sottoposto alla discussione pubblica ma che finora l’amministrazione ha sempre ignorato evitando in ogni modo i confronti di merito.

E per tutti i terreni per i quali resta la destinazione edilizia: è legittimo che i diritti edificatori siano intangibili anche quando le necessità di un Comune cambiano? Il soggetto pubblico, che pure è titolare e sorgente della potestà sul territorio e sull’uso dei suoli non mette in discussione, per prassi, il diritto a costruire che ha già rilasciato. Infatti, le imprese e le banche che si sono esposte per i loro investimenti operano sostanzialmente un ricatto, in nome della salvaguardia dell’occupazione. Un ricatto sterile visti questi dati incontrovertibili: dal 2002 al 2014 la città ha perso il 10% della popolazione attiva, si è allargata in maniera impressionante la forbice reddituale con una tendenza costante indipendentemente dalla crisi conclamata del 2008, ed è evidente infine un aumento del tasso di disoccupazione che è passato dal 3,5 % del 2006 al 8,3 % del 2014.

Allora ci chiediamo che vantaggio abbiano portato alla comunità le centinaia di milioni investiti sul territorio per nuove costruzioni. Eppure il pubblico, in qualche modo soggiogato dagli interessi privati, continua a favorire la speculazione, rinunciando di fatto ad esercitare la propria funzione costituzionale di decisore sull’uso del suolo.

A Pisa però abbiamo visto che dal basso è necessario e possibile agire: la battaglia condotta e vinta dai cittadini e dalle associazione ambientaliste per imporre la previsione del Parco Urbano di Cisanello è stato forse uno dei primi casi di messa in discussione di principio di intangibilità dei diritti edificatori. Ancora una volta la concreta realizzazione è ferma a causa della colpevole inerzia dell’amministrazione.

Noi non ci scoraggiamo, la battaglia contro il consumo di suolo e per il recupero del patrimonio esistente non si ferma: è possibile, oltre che necessario proseguire su questa strada.

QUI la prima parte dello studio

La Repubblica, blog "Articolo 9", 3 febbraio 2016


Se un provvedimento come questo, firmato ieri l'altro dal soprintendente archeologico di Roma, fosse uscito sotto Bondi ci sarebbe stata la rivoluzione. Ringrazio la Cgil per avermelo fatto conoscere, e lo pubblico qua sotto. ( nostra trascrizione, qui il testo dell’originale in .pdf)

1 febbraio 2016, prot. N. 2208
oggetto: Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.M. 23 dicembre 2015)
In seguito all’adozione del Codice in oggetto, come comunicato via intranet in data 18 gennaio u.s., si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Le modalità di comunicazione agli organi d’informazione (giornali, radio, TV) relative ad attività istituzionali dovranno essere preventivamente sottoposte al dirigente, per il tramite dell’addetto stampa dr. Luca Del Frà e/o delle strutture istituzionali Ufficio Stampa e Ufficio Comunicazione o, in caso urgente, al Dirigente.
Ogni iniziativa autonomamente presa dalle SS.LL. in maniera difforme è ritenuta non consona al disposto dell’art.3, comma 8 del codice di comportamento.

Quanto sopra, al ripetersi di quanto recentemente apparso in più occasioni sulla stampa, darà luogo ad azione disciplinare nei confronti del dipendente ritenuto responsabile.
Il Soprintendente
arch. Franco Prosperetti

Questa inaudita circolare vieta ai dipendenti di parlare con la stampa della “deforma” del Ministero per i Beni culturali voluta da Franceschini. Mentre la protesta si fa internazionale, mentre si avvicina lo sciopero, il Ministero non trova nulla di meglio che mettere il bavaglio agli archeologi: sarebbe come se si fosse proibito ai professori universitari di dire la loro sulla (devastante) riforma Berlinguer, o agli insegnanti di parlare della (altrettanto devastante) #buonascuola.

I funzionari delle soprintendenze non sono dei grigi passacarte, né gli impiegati di una multinazionale che deve difendere la sua immagine. Sono, invece, ricercatori al servizio del pubblico interesse: e l'oggetto della loro ricerca è la tutela del patrimonio. La libertà di esprimersi su tutto ciò è dunque garantita dalla Costituzione.

Noi paghiamo lo stipendio (miserabile, peraltro) dei soprintendenti perché difendano il nostro patrimonio dalle pressioni del potere politico e di quello economico. Ora tutto questo viene spazzato via dalla Legge Madia che sottopone i soprintendenti ai prefetti, cioè ai rappresentanti del potere esecutivo. A questo è funzionale la riduzione delle soprintendenze da tre ad una sola: perché una testa si piega, e si taglia, meglio di tre.

Il bavaglio ai soprintendenti è un altro, odioso, passo in questa direzione. Ed è un attacco diretto alla democrazia, e agli interessi dei cittadini: perché mira a far tacere coloro che più e meglio di tutti possono spiegare come e perché la 'deforma' Franceschini uccide la tutela del patrimonio.

Coprire le statue antiche, imbavagliare gli archeologi: c'è del metodo, in questa follia.

In un quartiere ridotto ad anfratti a fondo chiuso da trasformazioni infrastrutturali stradali e ferroviarie mal pensate e peggio gestite, scende in campo la «sicurezza di sinistra», ovviamente identica per superficialità a quella di destra. La Repubblica Milano, 4 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Taglieranno la vegetazione e recinteranno “il bosco della droga”. Chiuderanno con cancelli le vie intorno alla piazza di spaccio dell’eroina più famosa della Lombardia. L’area verrà blindata e il “supermercato della droga” di Rogoredo chiuderà i battenti. Così promette il Comune, che ha già iniziato a fare i primi interventi. Da anni il problema dello spaccio e della microcriminalità nell’area intorno alla ferrovia è stato segnalato dai residenti di Rogoredo e consiglio di Zona 4. Ma, dice Stefano Bianco, presidente del comitato di quartiere Milano Santa Giulia, «il problema riguarda anche chi frequenta metropolitana e stazione, non solo gli abitanti». Già a luglio, durante un sopralluogo dell’assessorato alla Sicurezza con il consiglio di Zona, si era valutato di chiudere con cancelli, nelle ore serali, il sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini di via Rogoredo e tra la zona tra via Sant’Arialdo e Parco Cassinis.

Ma la svolta è arrivata settimana scorsa. È stato messo il primo cancello in via Orwell, in un’area di proprietà di Ferrovie dello Stato. Le chiavi sono state date ai proprietari delle aree agricole a cui si accede passando per quell’ingresso. Poi ne sono stati posti due anche ai lati del sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini. Amsa si occupa di chiuderli di notte e riaprirli di giorno. «Questi cancelli costituiscono un deterrente importante all’ingresso nell’area dei giardinetti e delle proprietà di Ferrovie dello Stato. In questo modo cominciamo a porre un freno alle attività illegali e allo spaccio nella zona», dice Marco Granelli, assessore alla Sicurezza. Nei prossimi mesi, il Comune si occuperà anche del “bosco della droga”. Verranno eliminati gli arbusti per evitare che tossicodipendenti e spacciatori si possano nascondere e verranno messe «altre recinzioni nelle aree a Ovest di via Sant’Arialdo verso San Donato». Ci sarà, infine, anche un maggior presidio delle forze dell’ordine.

postilla

Cancelli e recinzioni, pattuglie di ronda, controlli: il medesimo armamentario della destra, e non certo perché «d'altra parte che soluzione c'è a un problema di ordine pubblico, se non le forze dell'ordine e i loro metodi?». I cosiddetti Bronx, dal nome del quartiere newyorchese reso famigerato dalla «mannaia autostradale» dello zar del lavori pubblici Robert Moses, si costruiscono piuttosto consapevolmente, e volendo si potrebbero altrettanto consapevolmente smontare, reintroducendo in qualche modo il sistema di occhi sulla strada che i budelli a fondo cieco delle grandi linee di trasporto hanno reciso moltiplicando all'infinito nel tessuto urbano sacche di concentrazione del degrado e del rischio. Ma se, invece di competenze urbane e sociali (i «rammendatori di periferie» qui dove sono finiti?) si mobilitano quelle raccogliticce della «sinistra per l'ordine», che scimmiotta malamente la destra usando un linguaggio lievemente meno volgare, si arriva solo alle gabbie: i comitati di quartiere, grati per la soluzione almeno dell'emergenza, premieranno coi loro voti l'assessore con l'elmetto, e dietro le cancellate maturerà la prossima emergenza, il prossimo «pugno di ferro». Amen (f.b.)

C'è da vergognarsi di essere cittadini di una città che di fronte alla privatizzazione, mercantilizzazione, stravolgimento totale di un bene come il Fòntego dei Tedeschi discetta oggi sul colore delle finiture, ma ha rinunciato a scendere in piazza quando il fatto é accaduto. La Nuova Venezia, 3 febbraio 2016

Si comincia a scoprire il nuovo Fontego dei Tedeschi e fanno già discutere i nuovi infissi dorati delle finestre del cinquecentesco edificio destinato a essere riaperto il primo ottobre come un grande magazzino del lusso gestito dal gruppo francese Dfs. In questi giorni è iniziata infatti la scopertura delle facciate del palazzo e sono apparsi così i nuovi serramenti che assomigliano per il colore all’alluminio anodizzato vietato a Venezia ma che sono invece di ottone brunito, autorizzato dalla Soprintendenza. Lo stesso tipo di materiale è stato già infatti utilizzato dall’architetto Alberto Torsello - che dirige i lavori di ristrutturazione per l’impresa Sacaim, con la committenza di Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria del palazzo e in base al progetto di Rem Koolhaas per lo Studio Oma - anche per i grandi finestrini nella nuova ala delle Gallerie dell’Accademia e per quelli della Scuola Grande della Misericordia. Infissi che secondo i progettististi si armonizzerebbero perfettamente con lo spazio circostante e presenterebbero il vantaggio di resistere nel tempo alle aggressioni dell’ambiente marino tipico della laguna veneziana.

L’effetto di queste decine di serramenti nuovi e dorati sui quattro lati del Fontego, desta però più di una perplessità, ad esempio anche su Facebook secondo quanto registrato dal sito Venessia.com. Molti li hanno appunto scambiati per infissi in alluminio anodizzato, perché l’effetto visivo è molto simile. È perplesso anche il professor Amerigo Restucci, già rettore dell’Iuav e storico dell’architettura e del paesaggio. «In effetti il confine tra l’alluminio anodizzato e l’ottone brunito sul piano visivo è molto labile » commenta -«e mentre nel caso delle Gallerie dell’Accademia e della Misericordia era usato per pochi finestroni e molto grandi, qui compare in decine e decine di finestre, influendo pesantemente sull’effetto complessivo dell’edificio. Proviamo a pensare se in tutta Venezia gli infissi venissero sostituiti progressivamente con questo tipo di materiale, cambierebbe l’aspetto della città. Forse anche la Soprintendenza dovrebbe riflettere meglio su questo aspetto».

L’altra novità comparsa sul Fontego è il ballatoio metallico, anch’esso dorato e quindi probabilmente anch’esso in ottone brunito comparso sul tetto, con la ringhiera che delimierà quindi l’area della terrazza-belvedere che tanto aveva fatto discutere prima del via libera definitivo. Anch’essa, naturalmente, destinata a suscitare molte discussioni. Il cantiere del Fontego dei Tedeschi per la ristrutturazione proseguirà sino a fine marzo. Poi subentreranno alla Sacaim e a Edizione, gli architetti e le maestranze di Dfs, per gli allestimenti, in vista dell’apertura di ottobre.

Riferimenti
Sulla vicenda si veda su eddyburg di Paola Somma La lezione del Fontego dei tedeschi, di Francesco Erbani L’odissea veneziana del Fontego dei Tedeschi tra pubblico e privato, di Paolo Lanapoppi Fontego dei Tedeschi, accettati tutti gli oltraggi, di Salvatore Settis Quel centro commerciale che ferisce Venezia. La strategia di occupazione concertata (con i sindaci veneziani, da Massimo Cacciari a Giorgo Orsoni) è documentatamente raccontata da Paola Somma nel saggetto Benettown, un ventennio di mecenatismo, edito da Corte del fontego editore, nella collana "Occhi aperti su Venezia". La vicenda del Fontego dei Tedeschi è narrato, nella medesima collana, dal libretto di Lidua Fersuoch, Il nostro Fontego dei Tedeschi.
La commissione Cultura rileva che «non c’è il necessario coordinamento con il Codice dei beni culturali del 2004». Chissà se qualcuno si accorge che per il consumo di suolo non serve a niente, ma anzi...Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016

Roma. Rischia di impantanarsi di nuovo il Ddl sul consumo di suolo. La discussa riforma che punta a ridurre la realizzazione di nuove costruzioni e a incentivare la rigenerazione urbana, dopo l’approvazione in commissione a fine ottobre, pareva a un passo dal traguardo. Sulla sua strada, però, si è appena messo un durissimo parere della commissione Cultura di Montecitorio che, di fatto, chiede di riscrivere il provvedimento in una ventina di passaggi. I deputati, recependo indicazioni del ministero dei Beni culturali, sottolineano i «profili assai problematici» della legge: non è coordinata con le regole sui piani paesaggistici regionali ma, soprattutto, mette sulle spalle degli enti locali un carico organizzativo giudicato eccessivo. Per il testo, atteso in aula per il mese di marzo, pare profilarsi l’ennesima riscrittura.

Dopo il disco verde presso le commissioni Ambiente e Agricoltura di fine ottobre, la speranza dei relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio era chiudere la partita subito, entro il 2015. Questi piani, però, sono saltati ben presto. Il provvedimento, infatti, è stato licenziato senza tutti i pareri parlamentari prescritti: in attesa del loro arrivo, è stato messo in lista di attesa. Nel frattempo, è partita la sessione dedicata alla legge di Stabilità 2016, che ha congelato tutto, allungando i tempi. Lentamente i pareri stanno arrivando. Al momento si sono espresse cinque commissioni che, in larga maggioranza, non hanno avuto nulla da ridire.
C’è però un’eccezione molto pesante: la commissione Cultura che, pronunciandosi sul testo, ha assestato un colpo piuttosto duro alla versione del provvedimento uscita dalla prima fase di lavori. Formalmente, si tratta di un parere favorevole. Anche se, a leggere con attenzione il testo, si trae un’impressione tutta differente. La commissione, infatti, spiega che nel Ddl«non mancano profili assai problematici». Nello specifico, non c’è il necessario coordinamento con il Codice dei beni culturali del 2004: tradotto in parole povere, vuol dire che la legge disegnata in questi mesi non tiene conto come dovrebbe delle regole sui piani paesaggistici regionali. Poi, le norme sui borghi rurali sono troppo permissive nei passaggi che riguardano la demolizione e ricostruzione. Ma è il rilievo finale quello più pesante. La riforma, secondo la commissione Cultura, pone un «eccessivo carico organizzativo e decisionale sugli enti locali».
Al di là del merito, però, pesa anche la fonte di queste osservazioni. Ne parla Gianna Malisani, relatrice del parere: «Abbiamo rispettato le indicazioni dell’Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio del ministero dei Beni culturali. È un organo costituito da direttori del ministero ed esperti del settore che si è espresso sottolineando problemi condivisi anche da me». Il parere della commissione non è vincolante, ma sarà difficile non tenerne conto. Anche se Fiorio esclude un nuovo passaggio in commissione: «Affronteremo le ultime questioni in Aula, dove il testo è già calendarizzato a marzo».
Riferimenti
Si veda su eddyburg di Vezio De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e la relativa postilla di Edoardo Salzano. Sul consumo di suolo si veda la relativa sezione di eddyburg Città e Territorio/Temi e problemi/Consumo di suolo.

Se manca l'acqua non si mangerà. I guasti che abbiamo compiuto ai ritmi della natura sono tali che oggi possiamo solo imparare ad adattarci. Un'analisi realistica, ma non consideriamola consolatoria. La Repubblica, 1 febbraio 2016

MANCA l’acqua» è ancora più inquietante di «manca il cibo ». Perché la prima frase determina la seconda. Nell’ultimo paio di decenni non sono mancati i segnali del riscaldamento globale, e non erano solo quelli che possiamo percepire contando le alluvioni o misurando i danni. Cambiano - più rapidamente del normale - i nostri paesaggi agrari, si spostano verso nord i limiti delle coltivazioni cosiddette mediterranee, mentre verso sud si combatte sempre di più e sempre più duramente con la desertificazione e l’erosione dei suoli.

Un amico e agricoltore tedesco disse tempo fa in un incontro pubblico: «Noi contadini non siamo parte del passato, ci occupiamo quasi esclusivamente di futuro. Pensiamo al futuro perché abbiamo bisogno di pianificare e perché la maggior parte di quel che facciamo acquista senso e valore anche molto tempo dopo che l’abbiamo fatto. Seminare significa occuparsi di futuro. Arare significa occuparsi di futuro».

Il 2016 non ha ancora potuto collezionare tanti meriti, ma sicuramente ne ha uno: questo inverno così mite, che segue un’estate già tanto asciutta, ci sta facendo pensare al riscaldamento globale molto più di quanto ci abbiamo pensato finora. Perché sta mancando l’acqua, e se manca l’acqua ci manca il futuro. Gli agricoltori devono decidere adesso cosa seminare e quanto far rendere i loro terreni. Senza un qualche livello di prevedibilità sull’acqua, questo non possono più farlo. Possono provare, a loro rischio e pericolo. Ma se il rischio d’impresa, in un’azienda agricola, è già di per sé più alto che nelle altre, in un’epoca di stravolgimenti climatici diventa intollerabile.

L’agricoltura massiva degli ultimi decenni ha provato a credere che industrializzando i processi di produzione, con l’aiuto della chimica di sintesi, fosse quasi possibile azzerare questi rischi pur in presenza di quanto di più rischioso la natura possa immaginare: l’uniformità delle monocolture. Come se riproponendo in campagna i modelli della fabbrica si potesse davvero creare un ambiente isolato dal “qui ed ora”, simile a quello delle fabbriche.

Ma l’agricoltura dialoga con la natura, e in natura solo la diversificazione protegge dal rischio. Questo lo sanno bene e lo praticano le agricolture tradizionali, che hanno sempre visto nella variabilità delle produzioni l’unica forma possibile di assicurazione contro l’imprevisto.

Oggi, allo sgomento che prende tutti noi - produttori e consumatori - davanti all’impossibilità di fare previsioni consolanti, e alla chiara percezione di vivere un momento climaticamente delicatissimo e pericoloso, possiamo reagire solo prendendo atto che l’arma di cui abbiamo bisogno si chiama adattabilità. La nostra agricoltura deve rendersi leggera, adattabile e pronta a trovare soluzioni puntuali a problemi globali. La sola via di buonsenso che abbiamo - se vogliamo sopravvivere fisicamente ed economicamente - è quella di ripensare, subito, il nostro modo di produrre, rendendolo amico e non antagonista dei suoli, dei microorganismi, dell’acqua, dell’aria. Quando capita un guaio occorre fare tre cose e bisogna farle in un ordine ben preciso: innanzitutto rimediare ai danni, poi chiedersi come è successo, e quindi adoperarsi perché non succeda di nuovo. Le emergenze che ci attendono nei prossimi mesi verranno fronteggiate, ma bisogna anche ragionare su quanta parte abbiamo avuto nel causarle e su come cambiare il modo in cui ci comportiamo.

I cambiamenti climatici sono in corso: bisogna essere sufficientemente adattabili per adeguarsi ad essi, ma anche sufficientemente intelligenti da non continuare a peggiorare le cose.

«Se la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune, la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili».

Intervento alla Tavola Rotonda nell’incontro Studiare il futuro già accaduto. Il sistema climatico del Bacino del Po dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Ezio Tabacco e Luciana Tasselli, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano, 27 gennaio 2016.

Quanto della trasformazione del mondo è frutto di un progetto consapevole e condiviso e quanto invece avviene nell’indifferenza o con la latitanza della politica? Politica ovviamente intesa nel senso più alto del termine, implicante il nostro essere parte di una società attenta alla direzione in cui si muove e in grado di apportare i correttivi per assicurare la migliore convivenza e il massimo grado possibile di benessere e felicità per il maggior numero di persone. Ci sono processi travolgenti che sembrano generarsi per meccanismi spontanei rispetto ai quali chi ha responsabilità di governo nella moderna democrazia si dimostra disattento o impotente, o, più spesso, connivente.

Si pensi all’agricoltura e agli insediamenti umani. Per tutta una fase iniziale dello sviluppo capitalistico - fase che, con riferimento alla Lombardia e alla Valle Padana, potremmo chiamare cattaneana, dal nome del suo massimo interprete -, le campagne hanno potuto essere descritte come un «edificio idraulico» e un «immenso deposito di fatiche» e le città essere celebrate come il contesto del manifestarsi della «magnificenza civile» (le definizioni sono, appunto, di Carlo Cattaneo).

Seppure in quella fase abbia avuto luogo una dilapidazione del patrimonio boschivo usato soprattutto come fonte energetica nelle prime lavorazioni della seta - e senza mai dimenticare che alle «fatiche» corrispondeva un elevato sfruttamento della forza lavoro -, si può dire che l’azione antropica su città e campagna sia andata di conserva esaltando le virtù sia della campagna che della città e il loro rapporto sinergico.

Nel configurarsi nell’arco di almeno un millennio di un assetto fisico e relazionale tutto sommato equilibrato, la politica ha avuto un ruolo abbastanza marginale. A guidare l’azione umana sono stati principi non scritti ma così radicati nel sentire comune e nei comportamenti che non avevano nemmeno la necessità di essere ratificati nel corpo legislativo. Ne richiamo due in particolare:

1) il patto fra le generazioni (le esistenti e le future) riguardante il mantenimento della capacità nutritiva della terra;
2) un modello di convivenza civile che, calato nelle forme insediative, ha mosso la storia della città verso una più netta affermazione dell’urbanità, che, a conti fatti, possiamo considerare come il lascito più alto della civilizzazione. Un’azione, questa, ulteriormente sostanziata nella prima metà dell’Ottocento dal rinnovarsi dell’idea operante della città come opera d’arte, che vedeva la nuova classe in ascesa, la borghesia, ricorrere alla bellezza come a un modo per legittimare la propria egemonia (in linea con una lunga tradizione).

Questi principi nel corso nel Novecento sono via via evaporati, con un’impennata negli ultimi decenni, senza che la politica se ne interessasse e mettesse in atto le opportune contromisure.

Un bilancio di medio-lungo periodo ci porta a concludere che, nell’ultimo secolo, agri coltura e urbis coltura hanno conosciuto una crisi parallela. Una crisi che, a dispetto delle apparenze, ha una radice comune nel venir meno del nesso tra l’antropizzazione e il colĕre, ovvero quel complesso di azioni che la lingua latina condensa in questo termine, in particolare l’avere cura e il venerare/onorare (che, ai fini del nostro ragionamento, possiamo laicamente attualizzare in riconoscimento e condivisione di valori comuni e attribuzione di ragioni di senso). Per questo non è fuori luogo parlare di una rottura epocale.

La crisi è chiaramente riscontrabile nei fatti concreti non meno che nel venir meno di una tensione ideale. Pratiche plurisecolari e principi saldissimi sono stati travolti dall’affermarsi di una realtà, insieme economico-sociale e territoriale, che possiamo denominare metropoli contemporanea, un organismo inedito nella storia dell’umanità, come lo è il modo di produzione capitalistico di cui è l’emanazione.

Tutt’uno con la rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, la metropoli contemporanea ha avuto il suo motore primo nella messa a frutto delle specifiche economie esterne di città e campagna e soprattutto delle loro differenze, a cominciare dal divario nei costi riproduttivi della forza lavoro. Alla sua marcia trionfale ha concorso non poco la capacità di promuovere il sostentamento di ingenti masse e di consentire processi di emancipazione come mai si era verificato nella storia.

La fase attuale, contrassegnata dal predominio del capitale finanziario, è caratterizzata da un accentuarsi della concorrenza tra le realtà metropolitane conseguente alla globalizzazione in cui, oltre alla capacità dei contesti di attrezzarsi per far fronte alle nuove sfide, conta non poco la risposta ai problemi connessi al modello di sviluppo. Ne richiamo quattro:

- la dilapidazione di larga parte delle campagne ricadenti nella più diretta influenza dell’organismo metropolitano;
- l’abbandono, in molta parte di ciò che rimane del suolo agricolo, della cura volta a rigenerare gli elementi che assicurano la fertilità della terra;
- il dilagare nell’ultimo secolo di un’urbanizzazione estesa, informe, per lo più a bassa densità e a elevata entropia: un quadro ben identificato con il termine inglese sprawl;
- l’azione disgregatrice esercitata sul corpo della città compatta dalla rendita immobiliare e dalla speculazione, a cominciare dall’innesto di corpi estranei a elevata densità.

Questi processi strettamente intrecciati sono tutt’altro che esauriti. Ciò che le metropoli si trovano di fronte è una modalità insediativa e relazionale che presenta notevoli criticità su due fronti interdipendenti: la sostenibilità ecologica e la sostenibilità sociale.

Siamo alla resa dei conti di un modello di formazione e funzionamento degli insediamenti che ha avuto ed ha nella rete di trasporti su gomma il suo supporto. Il vantaggio iniziale offerto da questa modalità insediativa - essenzialmente riconducibile alla riduzione relativa della rendita fondiaria - si è rapidamente rovesciato in svantaggi.

Per cominciare, ne indico un paio:

- la forte dissipazione di risorse non rinnovabili (suolo, energia etc.);
- il gravare sul bilancio pubblico dei costi di realizzazione e di manutenzione delle reti (viabilità e trasporti, servizi primari).

Mentre sul primo punto si registra una crescita di consapevolezza e cenni di mobilitazione civile, l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori, ma anche degli intellettuali e dei cittadini sul secondo punto è assai meno stringente. Eppure la crisi fiscale dello Stato e la stessa crisi economica hanno qui una loro radice strutturale e persistente.

Il modello insediativo e di funzionamento della metropoli contemporanea pesa sul bilancio dello Stato (ai vari livelli, a cominciare da quello locale) per via di una notevole sproporzione - e ingiustizia - nel riparto, tra settore pubblico e settore privato, delle spese relative ai cosiddetti processi urbanizzativi. Se per descrivere sommariamente il territorio usiamo l’immagine dell’albero, assimilando la pianta alle reti infrastrutturali pubbliche e i frutti alle costruzioni (per lo più private), possiamo dire che chi gode dei frutti non si assume per intero i costi di impianto e di manutenzione dell’albero. La sproporzione è particolarmente rilevante in Italia dove gli oneri di urbanizzazione - oltre a essere del tutto inadeguati al costo di realizzazione delle opere, per non dire della loro manutenzione - da un quindicennio possono essere sottratti al capitolo di spesa specifico per essere impiegati in altri capitoli, a cominciare dal funzionamento della macchina burocratica[1].

A ciò si aggiunge la possibilità, concessa per legge, di monetizzare quanto il privato non può assicurare in termini di dotazioni obbligate. Si pensi alla legislazione regionale per il recupero dei sottotetti che consente di trasformare in un tributo la mancata realizzazione della quota dei parcheggi di pertinenza; o ai vari casi in cui viene consentita la monetizzazione degli standard urbanistici. In tutto questo si evidenzia la propensione degli Enti Locali a favorire in tutti i modi il settore delle costruzioni pur di ottenere introiti per le casse pubbliche sempre più in sofferenza: poco denaro fresco, a fronte di un ben più rilevante esborso futuro da parte dell’ente pubblico, con un risultato certo: l’accumularsi esponenziale di un deficit nel bilancio dello Stato e delle sue articolazioni.

Le conseguenze sono devastanti anche e soprattutto sotto il profilo del governo delle trasformazioni territoriali. La sfera urbanistica, da tempo in sofferenza per lo sguardo corto degli amministratori pubblici, attenti solo ai cinque anni del loro mandato - tacendo dell’acquiescenza diffusa tra i cosiddetti esperti del settore -, è ormai sempre più vista e praticata dai gestori della cosa pubblica come una branca della fiscalità generale. Il che spiega la scarsa attenzione - quando non la rimozione - riservata alle questioni del progetto e dell’effettivo governo del territorio. Il territorio è un patrimonio e un bene comune a cui lo Stato attinge, svendendo il futuro del consorzio umano.

Parlano i fatti: anche il progetto di trasformazioni che hanno una portata rilevante per il destino delle città da decenni è del tutto demandato agli attori privati, ovvero a chi detiene le redini degli investimenti e della speculazione immobiliare (i grandi gruppi finanziari, la cui ‘potenza di fuoco’ è enormemente cresciuta con la globalizzazione). Ma la delega riguarda anche gli interventi di piccolo cabotaggio sul fronte dell’espansione insediativa; un ambito, questo, in cui l’esercito dei piccoli e medi investitori consegue nell’insieme un esito quantitativamente non meno rilevante di quello dei grandi operatori. La capacità della Pubblica amministrazione non solo di indirizzare, ma, più limitatamente, di discernere e di contrattare, è indebolita - quando non annullata - dalla convergenza che si è di fatto instaurata tra investitori immobiliari e amministratori pubblici. Una convergenza prossima alla connivenza che ha come esito un prezzo sociale altissimo, oltre a quello ecologico: la rimozione sia della difesa della città sia dell’attribuzione di qualità urbana e relazionale al nuovo ambiente costruito.

Una delle specificità di questo modello di sviluppo, del tutto assente nel mondo precapitalistico, è la sovrapproduzione. Una pratica ampiamente presente in campo edilizio a cui, oltre che una accentuazione della devastazione ambientale, corrisponde la sottrazione di ingenti risorse finanziarie ad altro tipo di investimenti. Da una recente analisi del Centro studi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, apprendiamo che in Italia a novembre 2015 «Oltre il 30% delle sofferenze delle banche è riconducibile al settore immobiliare»: 64 miliardi di euro su un totale di 201 miliardi di euro di prestiti non esigibili. Ma sulla bolla immobiliare il silenzio dei media rasenta l’omertà. A nessuno dei commentatori interessa addentrarsi in una materia che vede il settore immobiliare trasformato da alcuni decenni in pesante zavorra: in una spugna che assorbe risorse sottraendole a investimenti strategici, ovvero ad attrezzare i nostri contesti metropolitani in modo che non soccombano nella sfida economica globale.

Ma non meno rilevanti sono le conseguenze sul versante della sostenibilità sociale. Le sintetizzo in tre punti:

- l’homo metropolitanus, disperso in quelle che con grande intuito già nel 1893 Émile Veraheren chiamava Les campagnes hallucinées, paga in termini di tempo e denaro ciò che in apparenza risparmia sul versante del tributo alla rendita: l’erosione della risorsa tempo lo impoverisce (se è vero che il tempo disponibile per ciascuno può essere considerato come il vero misuratore della ricchezza[2]);
- la cosiddetta «città diffusa» non ha nulla della città e questo va a discapito delle qualità relazionali, per non dire dell’ingigantirsi della questione della sicurezza. A essere in pericolo è lo stesso processo di incivilimento, se è vero che l’urbanità costituisce il livello più elevato raggiunto dalla convivenza civile tanto nell’urbs (la città fisica) quanto nella civitas (la città degli esseri umani);

- l’indebolimento della tensione su cui si regge l’urbanità come habitus diffuso ha tra i suoi indicatori la caduta della bellezza civile. Le forme del nuovo non mentono: le archistar sono costrette a esercizi inventivi i cui esiti stravaganti mal nascondono il vuoto di valori. Un vuoto che, in estrema sintesi, nasce dalla sostituzione del coesistere al convivere (da cui la scarsa o nulla attenzione alle relazioni di prossimità a favore di un’esaltazione enfatica delle relazioni a distanza, complici le nuove tecnologie). Molti degli organismi fuori scala sorti di recente a Milano non sono altro che teche sigillate che riducono l’intorno a deserto relazionale e di senso. Siccome l’essenza dell’architettura sta nella relazione, oltre alla morte dell’urbanistica, assistiamo così a prove di morte dell’architettura.

Questo nostro è tempo di divaricazioni e di contrasti. Proprio quando la globalizzazione economica e l’informatizzazione sembrano unire e fare piccolo il mondo, si accentuano crepe antiche (tra culture, dove le religioni hanno grande peso) e se ne formano di nuove.

Una di queste lacerazioni riguarda il tempo: c’è una parte del reale che conosce mutamenti rapidissimi e una parte che arranca. Si allarga la forbice tra mondo neotecnico e mondo paleotecnico. Ci sono le frontiere dell’innovazione dove la tecnologia, e in parte anche la scienza, sono protagonisti su più fronti - informatizzazione virtuale, comunicazione, automazione, biologia, medicina ecc. - e un mondo che, al confronto, appare quasi fermo, impaniato nel suo assetto. Il neotecnico non rimuove il paleotecnico, se non in minima parte: lascia un esteso residuo, un’eredità della storia che presenta valenze variegate. Così assistiamo al divaricarsi tra il mondo dei flussi, in particolare di quelli immateriali, e la realtà fisica, in particolare quella degli insediamenti. Realtà, quest’ultima, dove il paleotecnico è, in una parte non trascurabile, il risultato di quello che non molto tempo fa - si pensi all’automobile - appariva come neotecnico, capace di rappresentare l’idea stessa di modernità (Le Corbusier, per fare un esempio, pensava che gli insediamenti umani andassero ridisegnati in toto pur di adattarli all’automobile).

In realtà quello che chiamiamo modernità è un succedersi di astrazioni, scollamenti e separazioni: nelle pratiche e nei saperi; tra pratiche e saperi; tra il fare e la responsabilità civile. L’astrazione più potente ed emblematica è la proprietà privata, per la quale ci si dimentica facilmente del vincolo dell’utilità sociale sancito, per restare in Italia, nella Costituzione repubblicana.

Se l’aria delle città rendeva liberi, l’aria della metropoli sembra aver liberato l’individuo sia dal vicinato, dalla sua tirannia ma anche dai suoi vantaggi, sia dalla cura del contesto stessa della vita. Così, mentre una parte sempre più consistente di popolazione è attratta nella sfera delle metropoli e delle megalopoli, l’immane opera costruttiva che vi corrisponde non è iscrivibile sotto il segno della città (che Claude Lévi-Strauss, in Tristi tropici, ha definito la «cosa umana per eccellenza»[3]). E questo a dispetto dell’abuso del termine città (un mascheramento che, al pari della devastazione, non conosce l’eguale nella storia).

Oggi anche nel pensiero che si interroga sulle strategie possibili, e dunque in quel che resiste nel pensiero politico per eccellenza, pesa una dicotomia fra istanze ecologiche e istanze civili. È più facile trovare convergenze sulle prime che sulle seconde ed è raro vederle poste insieme. Ma la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune. E la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili.

[1] Il Testo Unico per l’edilizia (D.P.R. 380/2001), abolendo nell’art. 136, comma 2, la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Bucalossi), ha aperto la strada alla possibilità degli Enti Locali di dirottare gli oneri di urbanizzazione dalla specifica voce di spesa a cui erano vincolati ad altre voci di bilancio. È uno degli ultimi atti del governo Amato su proposta del Franco Bassanini, allora Ministro della Funzione Pubblica. Un’operazione, come osservato da Sergio Brenna, «apertamente illegittima, poiché un TU non può né introdurre né abrogare alcuna norma».
[2] Karl Marx,
Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), Dietz Verlag, Berlin 1953, trad. it. di Enzo Grillo, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 405.
[3] Claude Lévi-Strauss,
Tristes Tropiques, Librairie Plon, Paris 1955, trad. it. di Bianca Garufi Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1972 (1960), p. 119.

La Repubbica online. blog"Articolo 9", 30 gennaio 2016
L'ultimo stadio del razzo del Governo Renzi contro l'articolo 9 della Costituzione ha avuto finalmente l'effetto di far insorgere il popolo del patrimonio culturale. Sit in sotto il Collegio Romano a cui partecipano accademici dei Lincei, assemblee nei musei, appelli preoccupatissimi della comunità nazionale dell'archeologia, dure lettere dei dirigenti interni del Mibact e del comitato tecnico scientifico dello stesso Ministero, articoli di giornale ampi e ben informati: ora Dario Franceschini e la sua 'deforma' del governo del patrimonio è sul banco degli accusati.
Meglio tardi che mai, si dirà: dopo lo Sblocca Italia con suo assalto al territorio, l'asservimento dei musei autonomi al potere discrezionale del ministro, la Legge Madia col silenzio assenso e la letale sottomissione delle soprintendenze ai prefetti. Un vaso di veleni, stracolmo: e ora l'ultima goccia, la soppressione delle soprintendenze archeologiche con la relativa Direzione generale. Venuta di notte, come un ladro: con una normetta nascosta nella legge di stabilità (l'avevo svelata su Repubblica il 21 dicembre). E con questa goccia, il vaso trabocca.

Dell'inaffondabile, spregiudiciato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio. E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda. Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto? Sarebbe una bella pagina istituzionale. Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:

«Una soprintendenza all'arte o all'antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d'essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l'azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d'azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.

«Occorre, quindi, che l'archeologo faccia l'archeologo, l'architetto risarcisca l'architettura lo storico dell'arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l'informazione culturale, altra l'azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».

Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la "deforma" Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.

Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.

Riferimenti

Sull'argomento vedi l'opinione di Maria Pia Guermandi Archeologia e territorio: l'ultima spallata e l'articolo di Tomaso Montanari La tutela sotto mobbing

Per trasformare una città non bastano i programmi. Occorrono cose che scaturiscono dall'incontro del cuore col cervello. Qui ne trovate molte, utili per tutte le città del mondo.waltertocci.blogspot.it, 30 gennaio 1016

Ormai sappiamo quasi tutto dei Mali di Roma. Per scoprire i Beni di Roma, invece, ci vuole uno sguardo nuovo. A Roma l'innovazione è come una civiltà sepolta ancora da scavare. Occorre un'archeologia del contemporaneo per portarla alla luce, rompendo la crosta dell'indifferenza e del conformismo che la opprime.

Sarà per questo che il nuovo, quando riesce ad esprimersi, si fa beffa del consueto.

C'è ironia nei giovani del co-working che producono l'immateriale proprio nelle vecchie officine dove si batteva il ferro.
C'è ironia nei colori sgargianti della street art che illumina il paesaggio dei palazzi anonimi di periferia.
C'è ironia nel progettare un giardino pensile sopra la brutta tangenziale est.
C'è ironia nell'usare il car-sharing liberandosi del fardello proprietario dell'automobile.
C'è ironia nel realizzare un orto urbano dove era previsto un centro commerciale.
C'è ironia nei giovani del Garage-Zero che in un'autorimessa del Tuscolano hanno dato vita all’unica galleria romana di arte contemporanea nota nel mondo.
C'è ironia involontaria nella ruspa speculativa che ha rotto una falda creando un romantico laghetto nell'area industriale inquinata della Snia-Viscosa.
C'è ironia nel ripulire una discarica coltivando gigli, gladioli e tulipani da parte dei cittadini dell’associazione Bulbi Sovversivi.
Al contrario le opere promosse dall'establishment sono noiose, prevedibili e seriali: le palazzine nell'hinterland, gli uffici in vetrocemento, gli scatoloni edilizi degli ipermercati.
C'è un'ironia dell'innovazione che annuncia una trasformazione - ancora non compresa - degli stili di vita, dei modi di produzione e dell’immaginario urbano. Si esprime per frammenti un nuovo diritto alla città. Trovare una connessione con queste domande. Ecco l’imperativo di chi voglia ancora pensare un progetto di governo per la prossima Roma.
Occorre una politica del Riconoscimento, come scoperta degli innovatori, come relazione tra gli attori sociali, come luogo che offre un senso comune alle differenze. Le relazioni sociali si rappresentano nello spazio pubblico. Anche nella più semplice delle relazioni, come il dare un appuntamento, ci riconosciamo in un luogo.
Chi partecipa agli eventi dell'ironia impara sempre qualcosa. La soluzione non è quasi mai scritta in partenza, ma è generata nello scambio, nel conflitto e nell'invenzione. C'è sempre un apprendimento sociale quando la città si trasforma. Venti anni fa per uscire dalla depressione di Tangentopoli inventammo le Centopiazze, non tutte riuscirono bene, ma in molti casi aiutarono i quartieri a riconoscere le proprie risorse. Oggi, per uscire dal buio di Mafia capitale ci vorrebbe un programma nuovo: le Centoscuole da rinnovare nelle tecnologie e nelle architetture per farne i centri più belli dei quartieri, aperti giorno e sera, non solo per l'istruzione dei figli, ma anche dei genitori. Sarebbero i luoghi dell'apprendimento e del riconoscimento: spazi per la libera espressione dei linguaggi giovanili; strutture per l'alternanza scuola lavoro nelle filiere creative; laboratori civili per la riconversione ecologica, porte aperte per i bambini e gli adulti migranti.

Su un muro di Roma è apparsa una scritta paradossale: basta fatti, vogliamo promesse. A prima vista mi è sembrata sbagliata; come ex-amministratore conosco il valore dei risultati e quante soluzioni oggi si attendano i cittadini. Ma la retorica dei fatti nasconde molti inganni: risolve tutto un uomo solo, si risponde sempre a un'emergenza, sembra già stabilito e certo il da farsi. Non è cosi. Fare le riforme non significa promulgare un editto, ma aiutare i riformatori che stanno già realizzando il cambiamento, che si danno il tempo necessario, che inventano insieme le soluzioni. La promessa è diventata una brutta parola nella politica mediatica. Ma è tempo di darci nuove promesse come comunità sociale e politica che prepara il futuro, per realizzare i fatti che non abbiamo ancora immaginato.

Rivolgo un augurio ai giovani: fate irruzione nei partiti, scansate i notabili che se ne sono impadroniti, aprite le porte verso la società e la cultura. Ai militanti del mio Pd una raccomandazione ulteriore: non bastiamo a noi stessi, cerchiamo ancora nella società romana i protagonisti del cambiamento. A indicare le tracce saranno le parole da riscoprire, come Ironia, Riconoscimento e Promessa.


Intervento alla convention Puoi dirlo forte organizzata da Tobia Zevi e da tanti altri giovani appassionati di Roma, alla Galleria Colonna il 28-1-2016.

PS - Per aiutare uno sguardo curioso sulla città rinvio alla bibliografia che abbiamo raccolto come CRS sugli studi e le ricerche degli ultimi anni. Si tratta di contributi eterogenei per argomento e per approccio, ma offrono tante piste di approfondimento. Purtroppo circolano poco nel dibattito pubblico ormai dominato dalle angustie mediatiche. Aiutateci a perfezionare e ad arricchire la raccolta di analisi e progetti per Roma.

Come dovrebbe suggerire il buon senso, oltre che l'esperienza, a realtà complesse devono corrispondere approcci complessi. Ci si pensa troppo poco e troppo occasionalmente. La Repubblica, 31 gennaio 2016

Se n’era già accorto, un paio di anni fa, Luca Doninelli: gli scrittori raccontano sempre più spesso la realtà urbana, e quello che per un determinato periodo era rimasto un semplice fondale della narrazione diventa con frequenza crescente protagonista della storia (qualunque sia il genere e la declinazione della medesima). Nasce dunque a proposito, proprio domani, una nuova rivista on line, The Towner Italia, tutta dedicata alle città (italiane e no), da narrare in forma saggistica o di pura fiction. L’avventura si deve a Tim Small e a un drappello di giornalisti e scrittori (Francesco Pacifico, Valerio Mattioli, Pietro Minto, Cesare Alemanni, Giulia Cavaliere, Laura Spini): nel numero di esordio Valeria Parrella spiega come trasporta Napoli nella scrittura, Flavio Santi descrive poeticamente Udine e la campagna che la circonda, Vanni Santoni illustra cosa significa per uno scrittore vivere a Firenze e come fare i conti con la storia e con il turismo.

Ad affiancare gli interventi e le interviste d’autore, notizie su mostre e attività culturali delle città visitate: fra non molto, inoltre, nascerà una rivista gemella in lingua inglese con la collaborazione di scrittori internazionali. In nota, a proposito di debutti: è online da pochi giorni biancamano2. einaudi.it: non un sito canonico, ma un blog della Narrativa Straniera (e delle Frontiere) di Einaudi con notizie, recensioni ed extra. Per cominciare, Paolo Giordano su Marylinne Robinson (Lila), Vincenzo Latronico su Io e Mabel di Helen MacDonald, Antoine Laurain su Modiano, Lorenzo Ceccotti su Haruki Murakami. Buona lettura.

Nonostante le evidenti diversità, se le intenzioni si giudicano dai fatti è fortemente probabile che sulla "valorizzazione" il sindaco e il ministro siano d'accordo. La Nuova Venezia, 30 gennaio 2016

Venezia «L’attenzione ai monumenti e alle opere d’arte è importante, ma deve essere sempre promossa pensando alle persone. Non dimenticando che in queste case e in questi palazzi vivono delle persone. Noi vogliamo una città viva, e i regolamenti devono essere ispirati al buon senso». Quasi un assist, quello che il sindaco Luigi Brugnaro porge al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Che gli risponde in sintonia: «Tutela e valorizzazione stanno assieme. Noi vogliamo che Venezia non sia solo un luogo per turisti che consumano, ma di visitatori che entrano nella bellezza».

La pace ufficiale tra il sindaco e il ministro viene firmata a un tavolo del Gran Hotel Monaco, a San Marco. Si parla di politiche del turismo, di prestiti di opere d’arte, di grandi navi. Al termine di una mattinata intensa, in cui il ministro è venuto a inaugurare le nuove sale dell’ala palladiana delle Gallerie dell’Accademia, restaurate e aperte al pubblico. Franceschini ricorda l’importanza delle Soprintendenze. «Organi della tutela, di cui dobbiamo andar fieri». E rilancia la sua idea del museo-azienda. Le Grandi Gallerie sono uno di questi, con la nuova direttrice Paola Marini che gli illustra con entusiasmo i nuovi spazi e le nuove opere finalmente godibili.

Cultura e turismo. Volàno di una città che, entrambi sottolineano più volte, deve essere “viva” e deve poter ricavare lavoro e ricchezza dai suoi tesori. Nel pranzo all’hotel Monaco, prima di andare insieme al teatro La Fenice per una rapida visita nel giorno del ventennale dell’incendio, il ministro e il sindaco hanno parlato di come frenare l’invasione del turismo mordi e fuggi. E di come dare alle città d’arte autonomie impositive per recuperare le risorse necessarie a organizzare i flussi e i servizi. «Un dialogo molto positivo», commenta alla fine Brugnaro. «Abbiamo deciso di confrontarci sui problemi concreti», gli fa eco Franceschini, «Venezia è una sfida mondiale».

L’esempio è lì davanti. Un restauro di qualità, una trasformazione delle polverose Gallerie in un’azienda. «Prima questi musei erano governati da funzionari, nemmeno da dirigenti, non avevano nemmeno un bilancio proprio», attacca il ministro, «adesso potranno dare anche lavoro e reddito». Musica per le orecchie del sindaco, che cerca di fare altrettanto con la Fondazione dei musei veneziani, affidata a una giovane imprenditrice di origini torinesi, Mariacristina Gribaudo. Non c’è solo la cultura. «Abbiamo parlato anche di progarmmazione e bigliettazione integrata», dice Franceschini. Un contatto cominciato due giorni fa a Firenze, a margine del convegno dell’Anci sulle Città metropolitane.

In Comune adesso cercano di rendere concrete le buone intenzioni manifestate sul fronte del “degrado” e del centro storico sempre più a rischio per l’invasione dei turisti e delle attività turistiche che scalzano le botteghe storiche e i negozi di vicinato. Anche di questo hanno parlato Brugnaro e Franceschini. È stato il sindaco a introdurre il discorso del controllo per le aree in sofferenza come l’area marciana, invasa nel 2015 da 27 milioni di turisti. «I sindaci possono emettere provvedimenti per limitare l’accesso all’area marciana solo a chi ha prenotato», ha detto Franceschini. Discorso avviato anche sulla possibilità per il Comune di tenere per sé gli introiti che derivano dal turismo e di incassare un “ticket” anche per i passeggeri delle navi degli aerei, in prospettiva anche dei treni. Oggi la “tassa sul turismo” funziona solo con chi pernotta in hotel, sotto forma di tassa di soggiorno. «Abbiamo extracosti incredibili che derivano dal turismo», ha ribadito Brugnaro. Concetto espresso anche in mattinata, nel discorso di saluto al ministro alle Gallerie.

«Oggi è una giornata di festa per Venezia», ha esordito Brugnaro, «salutiamo il ministro, insieme costruiremo le premesse per ripartire». Poi un ringraziamento al governo per le risorse stanziate con l’ultima Legge di stabilità. «Anche se gli faremo capire che non sono sufficienti», ha detto. Infine, Brugnaro ha ringraziato l’ex soprintendente oggi segretario regionale Renata Codello, autrice insieme a Tobia Scarpa del progetto di restauro delle Gallerie. E ha aggiunto: «Anche con l’attuale soprintendente i rapporti sono ottimi, è una strada su cui continuare. Vogliamo una città viva».

«Dal 2 settembre, le New Town nate dopoil terremoto del 2009, si stanno sgretolando con la gente dentro». Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Sono rimasto solo». Luigi osserva il quartiere che pochi mesi fa brulicava di vita. Silenzio. Non c’è più nessuno, come per un attacco atomico. Resta questo pensionato, Luigi Bellicoso, strano nome per una persona tanto mite. È l’ultimo abitante di una delle New Town di Cese di Preturo, i quartieri cresciuti come funghi dopo il terremoto de L’Aquila. Il miracolo reclamizzato da Silvio Berlusconi.

Ma il 2 settembre 2015 i Complessi Anti-sismici Sostenibili Eco-compatibili, le famose CASE, hanno preso ad andare in pezzi. Con la gente dentro. Ha cominciato un balcone, una mattina un crac ed è andato giù. Poi sono arrivati gli uomini del Corpo forestale coordinati dal Comandante Nevio Savini, che da anni collaborano con la Procura, e hanno scoperto che i balconi non tenevano più. Marci. Allora hanno cominciato a sigillarli, quelli costruiti da una ditta di Piacenza e da un consorzio della Campania. Ottocento. Sulle facciate sono emerse crepe.
Quel quartiere e gli altri costruiti dalle stesse ditte (490 abitazioni) saranno evacuati. Quasi mille persone. Alberto Maurizi della Forestale ha perso giorni per visitare le famiglie e spiegare loro cosa stava succedendo. «Hai preso tutto?», chiede Matteo Valente alla moglie mentre chiude la porta e carica la Panda. Ci hanno stipato la loro vita.
Un progetto da 800 milioni sotto inchiesta
Ma che cosa è successo alle CASE? «Una città ricostruita in 4 mesi», titolavano trionfanti i giornali nel 2009. I dati della Protezione civile parlavano di 4.449 alloggi per 15mila persone. Un progetto da quasi 800 milioni. Da allora, come ricorda il procuratore Fausto Cardella, è stato un fiorire di inchieste. Il magistrato è preoccupato: «Abbiamo 6 pm invece di 14. È stato fatto un lavoro enorme». Ma il rischio è la prescrizione. Una cosa è certa: in tanti ci si sono riempiti le tasche. Soprattutto la camorra. «Molti progetti sono stati realizzati da associazioni di imprese guidate da una ditta aquilana che faceva da testa di legno», dicono gli investigatori. Il guaio, sostiene Cardella, «non sono gli appalti pubblici che hanno regole rigide. Ma quelli privati»: gli isolati della città sono stati uniti in “aggregati” e ognuno dato a un privato che affida gli appalti. Una manna per i clan. Inchieste come Dirty Job hanno rivelato che i lavoratori, spesso della Campania, dovevano restituire al datore di lavoro fino al 50% del compenso.
Ci si è arricchiti su tutto. L’ultima inchiesta è quella sui balconi, condotta dal pm Roberta D’Avolio. Il bando di gara prevedeva tempi stretti e penali alte. Risultato? «Per non pagare sanzioni - dice l’accusa - una ditta piacentina avrebbe usato legno fresco invece che stagionato». I solai si sono piegati, l’acqua si è accumulata sui balconi. Fino a farli crollare. Scrivono i periti della Procura: «Il rivestimento inferiore, frontale e laterale non è stato realizzato in legno trattato per esterni… i solai sono stati realizzati con pannelli costituiti da tavolati in legno massello chiodato e incollato in modo discontinuo». E così qualcuno si sarebbe arricchito, altri - alti dirigenti della Protezione civile - non avrebbero vigilato, ma mille persone devono di nuovo lasciare le case.
C’è stato di peggio, come lo scandalo degli isolatori sismici. Un’inchiesta - già ci sono state condanne in Appello - condotta dal pm Fabio Picuti. Gli esperti la descrivono così: «Il bando prevedeva che le case dovessero poggiare su isolatori sismici». Una saggia cautela o un modo per riempire le tasche a qualcuno? «I costi sono raddoppiati e si sono realizzate piattaforme di cemento che resteranno per sempre anche se le CASE dureranno pochi anni». Dai collaudi è emerso che quasi il 50% degli isolatori non sarebbero in regola. «Erano privi dei certificati di omologazione e qualificazione…alcuni campioni non hanno superato le prove rompendosi». Il costo è quasi raddoppiato. Senza garantire la sicurezza. L’ombra della truffa assume a volte tinte tragicomiche. Il pm Simonetta Ciccarelli ha portato a processo un’impresa di pompe funebri che avrebbe certificato di aver sepolto una quarantina di vittime che non aveva mai visto. La cresta sui defunti.
I muri in cartongesso e i ruderi abbandonati
Ma il balcone crollato ha distrutto il mito delle CASE. Basta infilare il dito nel legno marcio di Cese di Preturo. Ma anche in altre, come ad Assergi, ai piedi del Gran Sasso. Qui Francesca Di Noto racconta «di muri in cartongesso che si sciolgono con la neve, prese della corrente senza nemmeno i fili, specchi fotovoltaici non collegati». Il vicino mostra un buco nel pavimento. Dovevano durare 15 anni le CASE. Vanno a pezzi dopo 6. «Resteranno centinaia di ruderi», sospira Camilla Inverardi - architetto con la passione per il suo mestiere e per L’Aquila - indicando i complessi con stili a volte surreali. «Non c’è stato un disegno preciso nella ricostruzione. A partire dai colori. Ma guardate queste case! Azzurro puffo, giallo evidenziatore e viola cocotte. Il colore della nostra città era il bianco, come la pietra delle montagne».
Oggi la ricostruzione è ripartita. Per le strade l’aria è piena di polvere di calce. Ma non bastano i palazzi. La sfida è riportarci la vita. L’impressione è che la regia sia da perfezionare: «C’è una ricostruzione a macchia di leopardo», ancora Inverardi. «Così chi ha recuperato la casa non può andarci ad abitare perché le strade intorno sono un cantiere». Per non dire degli allacci, l’elettricità, l’acqua. I lavori interferiscono con i cantieri delle case e si bloccano a vicenda. Intanto ecco voci di progetti mirabolanti, come una specie di ponte di Brooklyn sull’Aterno, roba da 8 milioni mentre le scuole attendono di essere ricostruite. Per non parlare del “cratere”, l’area intorno a L’Aquila. Qui a essere distrutta è anche la legalità: c’è chi ha comprato ruderi, caduti prima del sisma, e li ha trasformati in case abusive, ristoranti e negozi. E ci sono paesi che di notte sono un ammasso di ombra. Antonio Moretti, geologo dell’università, abita ad Arischia, borgo a venti chilometri da L’Aquila. Fino al 6 aprile 2009 ci vivevano in 5 mila. Adesso dalle finestre escono buio e freddo umido. A ogni rudere corrisponde un nome: “Qui abitava Attilio”, “qui c’era il panettiere”. Se ne sono andati tutti.
Riferimenti

Nell'archivio del vecchio eddyburg c'e un'intera cartella di analisi e denunce dei devastanti eventi tra loro per chi è stato il peggiore: il sisma o il dopoterremoto, Poprio qui: Terremoto all'Aquilax

La Repubblica, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio.

La miccia esplosiva è la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17 soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno 39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica, Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti, farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani. Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600 giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana, «che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato, corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17 soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo».
Per lunedì prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o 6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze.
Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa - ammesso che sia onesta - sospende i lavori, segnala il fatto alla soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia (il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni, altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel 2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una cassaforte di oltre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela dell’area.

Sono i risultati dell’Eurobarometro 2015, un sondaggio tra i cittadini della Ue I trasporti funzionanti e la possibilità di fare sport all’aperto sono considerati decisivi. La qualità della vita non dipende solo dal reddito ma da come sono amministrate le città , dall’istruzione e dal livello d’integrazione. In classifica svetta il Nord, con qualche sorpresa. La Repubblica, 27 febbraio 2016

Non è un paradosso: il sette per cento dei cittadini europei dichiara di essere totalmente felice ma del tutto insoddisfatto della propria vita. Una quota considerevole, rilevata in un Eurobarometro sulla qualità della vita nella Ue. L’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che la felicità è una variabile indipendente. Ma spulciando le tabelle di questo e altri studi più recenti sull’umore dei cittadini europei, è chiaro che ci sono degli aspetti su cui i governi e le amministrazioni locali possono lavorare, per migliorare almeno il grado di soddisfazione delle persone.

La buona notizia, anzitutto, è che gli europei stanno riemergendo più sereni dalla crisi: tra il 2008, l’anno dello scoppio della Grande crisi, e il 2013, il numero di persone contente della propria vita è salito dal 76 all’80%. E la stragrande maggioranza delle persone che vive in città, sostiene uno studio che fa riferimento al 2015, è soddisfatta. In 79 città analizzate, oltre l’80% degli abitanti ci vive volentieri.

Tuttavia i sondaggi rivelano anche che la serenità cala con gli anni. E non è un dettaglio da poco, in Paesi che stanno invecchiando velocemente e in cui si allunga la vita. L’87% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è “abbastanza” o “molto” soddisfatto. Anche qui, tra i dati si annida un dettaglio curioso: in molti Paesi del Nordeuropa c’è un “effetto pensionamento” per cui tra i 65 e i 74 anni la soddisfazione aumenta, rispetto agli ultimi anni lavorativi. Una sensazione che non riguarda, tuttavia, i pensionati italiani, francesi, croati o bulgari, insomma di Paesi dell’Est e del Sudeuropa. Inoltre, dopo i 74 anni la salute “gioca un ruolo essenziale” per il crollo della qualità della vita.

Altro elemento che dovrebbe far riflettere: le più scontente sono le donne over 65 o i genitori soli con figli. Quasi un terzo è insoddisfatto della propria vita. Al contrario, è nelle famiglie con figli che si registra il tasso più alto di persone che si ritengono realizzate. Più prevedibilmente, la serenità è anche proporzionale al reddito e al livello di istruzione. In più, in vetta ai cittadini europei più contenti, ci sono i “soliti” nordici: svedesi, danesi e finlandesi.

Esaminando maggiormente nel dettaglio i dati sulla qualità della vita urbana dell’Unione europea si scoprono cose sorprendenti. La città dove si trova più facilmente lavoro è Praga, poi la rumena Cluj Naroca e Monaco di Baviera. Purtroppo, in fondo alla classifica ci sono tre città italiane: Palermo, Torino e Napoli. E le città italiane sono anche in fondo alla lista delle 79 città sulla tolleranza nei confronti degli stranieri: alla domanda “la presenza di stranieri è positiva per la mia città”, sei sono finite tra le ultime quindici.

L’indagine sulle città mostra che sono generalmente i sindaci del Nordeuropa i più bravi a creare l’ambiente più favorevole ad una vita serena. Le domande riguardano i trasporti pubblici, la possibilità di fare attività all’aperto, la sicurezza, l’educazione, la qualità di strade ed edifici. In cima risultano Oslo, Zurigo e la danese Aalborg; tra le prime dieci, quattro sono tedesche, Amburgo, Lipsia, Rostock e Monaco.

PIÙ FELICI

Forse il significato migliore della definizione «le primarie più belle del mondo» per Milano sta nel far emergere le differenze di strategia, le varie idee di città: qualcuna dotata di senso, altre meno. La Repubblica, 27 gennaio 2016, postilla (f.b.)

Non c’è campagna elettorale senza sogni da tradurre in slogan. Servono a dare il segno della propria visione di città, ma anche a creare un dibattito che abbia al centro il nome del candidato di turno. Il libro dei sogni dei candidati alle primarie di Milano del prossimo febbraio potrebbe iniziare così: c’era una volta una città con l’acqua dei Navigli che scorreva ovunque, autobus e tram gratis per tutti, un reddito minimo garantito dal Comune per chi si trova in difficoltà. Sono, rispettivamente, le proposte più importanti di Beppe Sala, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, il commissario Expo (in scadenza), la vicesindaco e l’assessore al welfare che, con Antonio Iannetta, si sfideranno alle primarie del 6 e 7 febbraio.

Alle proposte più concrete, quelle che si realizzano più o meno in poco tempo e senza grandi rivoluzioni, si aggiungono ormai quelle che hanno anche un forte valore simbolico. E che fanno discutere tanto: quando Balzani, ieri, ha presentato la proposta di rendere gratuiti i mezzi di superficie entro i cinque anni di mandato, tutti — dalla destra alla sinistra — hanno detto la loro. Accusandola di fare boutade elettorali senza coperture, di ipotizzare «finanza creativa con la demagogia tipica della destra» (è la frecciata di Sala), di non pensare all’equità sociale, dando così la possibilità di viaggiare gratis anche a chi non ha problemi a pagare un biglietto. Lei, ieri, ha spiegato: «Non è una promessa, ma un impegno che dovrà diventare una proposta strutturata ». Alla base del progetto c’è l’offerta di linee metropolitane a Milano (quattro, più una in costruzione) e l’idea che il trasporto pubblico sia da ripensare integralmente su area metropolitana. L’assessore alla mobilità Pierfrancesco Maran (che appoggia Sala) ha subito replicato che un’operazione del genere costerebbe almeno 160 milioni di minori introiti e quasi 60 per potenziare bus e tram. Preoccupazioni che Balzani liquida in poche parole: «Il bilancio deve essere un elemento propulsore, non per dire che non si può fare nulla: le risorse si trovano quando ci si dà una forte priorità».

Beppe Sala ha precisato subito che il suo sogno non è una priorità («prima il problema case»), che avrà bisogno di dieci anni e che non ha ancora studiato come trovare i circa 400 milioni che servirebbero per realizzarlo. Ma racconta: «Ho studiato a lungo il tema: non è un ritorno al passato, ma è pensare a una nuova mobilità per Milano, guardando a quella che diventerà. Riaprire tutta la cerchia dei Navigli, lasciando una corsia per mezzi pubblici e di soccorso e per le bici: non è follia». Un reddito di riscatto sociale «per proteggere chi è a rischio emarginazione», il primo in Italia: non sogni ma solide realtà, assicura Pierfrancesco Majorino. Tre interventi: 5mila euro annui per 10mila famiglie, sconti e gratuità per altre 70mila famiglie, 500 euro al mese per un anno per far lavorare altre 2mila persone. Costo del progetto: 55 milioni: 27 sarebbero già nel bilancio, 12 arriverebbero dal governo, mancano all’appello 16 milioni.

postilla

Benissimo fa, per una volta, la stampa a presentare sul medesimo piano le tre «strategie» dei tre principali candidati alle primarie del centrosinistra milanese. Forse un po' meno corretto sarebbe però considerarle davvero in qualche modo analoghe, schierandosi per un «progetto» o per l'altro senza porsi una questione di metodo, ovvero: c'è un'idea di città, dietro questi slogan-strategie esposti in forma necessariamente semplificata (anche troppo) durante la campagna elettorale? A parere di chi scrive una distinzione, almeno una, sta nella differenza tra piano e progetto delle tre opzioni, ovvero nella capacità di diventare contenitore-animatore-propulsore di molto altro, e riassumere in gran parte politiche pubbliche assai pervasive. Della riapertura dei Navigli fatta propria da Sala già si è detto in lungo e in largo sin dai tempi del referendum cittadino, di come il progetto in sé avesse magari obiettivi condivisibili, ma come senza la contestualizzazione di una sinora improbabile strategia metropolitana e coinvolgendo molti soggetti diversi dall'amministrazione comunale, si riducesse a ben poco (il disastro delle Vie d'Acqua Expo dovrebbe quantomeno suonare da campanello d'allarme). La solidarietà nei servizi ai più bisognosi, virtuosissima pratica messa ampiamente in campo dall'assessorato del candidato Majorino, pur del tutto condivisibile nel merito, pur apprezzabilissima nel mettere al primo posto l'obiettivo dell'eguaglianza e della solidarietà, vistosamente poco si presta a fare da contenitore di politiche locali non di settore. Resta l'ultima, l'ipotesi di parziale gratuità dei trasporti pubblici proposta da Balzani, che più è stata irrisa, messa in discussione nei presupposti minimi, contestata immediatamente dagli «specialisti». Ma che pure, anche alla luce di numerosissimi studi internazionali, ha caratteristiche piuttosto simili a quelle che hanno ispirato ad esempio i ricalcoli del Pil: un'idea di «bilancio» dove si fanno entrare negli equilibri nuovi fattori e attori, dove efficienza ed eguaglianza possono non solo convivere, ma alimentarsi l'una con l'altra. Forse anche i trasporti, come tanti altri settori, sono una cosa troppo importante perché li lasciamo ai trasportisti (f.b.)

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