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A Roma scenderanno in campo comitati, associazioni e movimenti per reclamare un programma di azioni concrete capace di contrastare il riscaldamento globale, fermare le grandi opere inutili e dannose e salvaguardare i territori non solo dai cambiamenti climatici ma anche dal saccheggio in nome del profitto. Qui l'appello. (i.b.)


MARCIA PER IL CLIMA, CONTRO LE GRANDI OPEREINUTILI
Non serve il governo del cambiamento, serve un cambiamento radicale

Chi siamo

Siamo i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per l’inizio di una nuova mobilitazione contro i cambiamenti climatici e per la salvaguardia del Pianeta.

Abbiamo iniziato questo percorso diversi mesi fa, ritrovandoci a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Dall’assemblea di Roma del 26 gennaio lanciamo l’invito di ritrovarsi a Roma il 23 Marzo per una manifestazione nazionale che sappia mettere al centro le vere priorità del paese e la salute del Pianeta.


Grandi opere e cambiamento climatico

Il modello di sviluppo legato alle Grandi Opere inutili e imposte non è solo sinonimo, come denunciamo da anni, di spreco di risorse pubbliche, di corruzione, di devastazione e saccheggio dei nostri territori, di danni alla salute, ma è anche l’incarnazione di un modello di sviluppo che ci sta portando sul baratro della catastrofe ecologica.
Il cambiamento climatico è uscito da libri e documentari ed è venuto a bussare direttamente alla porta di casa nostra.
Nel nostro paese questa situazione globale si declina in modo drammatico. La mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni temporale, a ogni ondata di maltempo, a ogni terremoto.

Il cosiddetto “governo del cambiamento“ si è rivelato essere in continuità con tutti i precedenti, non volendo cambiare ciò che c’è di più urgente: un modello economico predatorio, fatto per riempire le tasche di pochi e condannare il resto del mondo a una fine certa. Le decisioni degli ultimi mesi parlano chiaro.

Mentre ancora si tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, il governo ha fatto una imbarazzante retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi a Venezia, il MOSE, l’ILVA a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, oltre al tira e molla sul petrolio e le trivellazioni , con rischio di esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia.

Giustizia sociale è giustizia climatica

Le catastrofi naturali non hanno nulla di naturale e non colpiscono tutti nella stessa maniera.

Lo vediamo purtroppo quotidianamente e chi sta in basso, infatti, paga i costi del cambiamento climatico e della mancata messa in sicurezza dei territori.

È vero fuori dai grandi centri cittadini, dove la devastazione ambientale mangia e distrugge la natura, ma è vero anche negli agglomerati urbani, luoghi sempre più inquinati in cui persino i rifiuti diventano un business redditizio.
È vero non solo dal nord al sud dell’Italia, ma anche dal nord al sud del nostro pianeta.

Milioni di migranti climatici sono costretti a lasciare le proprie terre ormai rese inabitabili e vengono respinti sulle coste europee.

Nel nostro paese terremotati e sfollati vivono in situazione precarie, carne da campagna elettorale mentre le risorse per la ricostruzione non sono mai la priorità per alcuna compagine politica.

Quando le popolazioni locali, in Africa come in Europa, provano ad opporsi a progetti tagliati sui bisogni di multinazionali e lobby cementifere la reazione dello Stato è sempre violenta e implacabile.
L’unica proposta “verde” dei nostri governanti è di scaricare non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso.

Noi diciamo che se da una parte la responsabilità di rispondere al cambiamento climatico è collettiva e interroga i comportamenti di ciascuno di noi, dall’altra siamo convinti che i costi della transizione ecologica debbano ricadere sulle spalle dei ricchi, in primis le lobbies che in questi anni si sono arricchite accumulando profitti, a discapito della collettività e dei beni comuni.

Il sistema delle grandi opere inutili e il capitalismo estrattivo sono altrettante espressioni del dominio patriarcale che sollecita in maniera sempre più urgente la necessità di riflessione sul legame tra donne, corpi e territori e sarà uno dei temi portato nelle piazze dello sciopero transfemminista globale dell’8 marzo.

E’ giunto il momento di capire di cosa il nostro paese e il nostro pianeta hanno davvero bisogno

Si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta al cambiamento climatico, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto, dove lo stato di diritto è negato e chi produce morte lo può fare al riparo da conseguenze legali solo:

– riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili e del gas e rifiutando che il paese venga trasformato in un Hub del gas

– negando il consumo di suolo per progetti impattanti e nocivi e gestendo il ciclo dei rifiuti in maniera diversa sul lungo periodo (senza scorciatoie momentanee) con l’obiettivo di garantire la salute dei cittadini
– praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e spinto dal mercato

– abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose e finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , bonifiche, riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali)

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

I nostri territori, già inquinati da discariche fuori controllo, inceneritori e progetti inutili, sono oltremodo distrutti da monoculture e pesticidi che determinano desertificazione e minano la possibilità di una sempre maggiore autodeterminazione alimentare.

E’ necessario che le risorse pubbliche vengano destinate ad una buona sanità, alla creazione di servizi adeguati, al sostegno di una scuola pubblica e di università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, ad un sistema pensionistico decoroso, ad una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

Appuntamenti verso il 23 marzo (agenda ancora in aggiornamento)

27 gennaio: Vicenza. Assemblea regionale dei comitati veneti
2 febbraio: Roma. Rete Stop TTIP Assemblea nazionale
2 febbraio: Napoli. Assemblea Regionale Stop Biocidio
3 febbraio: Termoli. Assemblea di movimenti e comitati in lotta contro la deriva petrolifera
23 febbraio: Venezia. Iniziativa e mobilitazione dei comitati e associazioni del Veneto
23 febbraio: Tito. Assemblea coi sindaci No Triv della Basilicata e della Campagna.
3 Marzo: Napoli. Prossima assemblea nazionale verso il 23 marzo.
8 marzo: Roma. Non una di Meno. Sciopero Globale Transfemminista.
8-9-10 marzo: Roma. A Sud. Tavoli su giustizia climatica, energia, ecofemminismo.
15 marzo: Global Climate Strike
22 marzo: Roma. Giornata su alimentazione agroecologia a cura di Genuino Clandestino
15-31 marzo: Fabriano. Festival Terre Altre.

Siamo ancora in tempo per bloccare le grandi opere inutili e inutili!
Siamo ancora in tempo per contrastare il cambiamento climatico!
Siamo ancora in tempo per decidere NOI il nostro futuro!

Re:Common, 31 gennaio 2019. Processo contro i dirigenti della Tirreno Power accusati di disastro ambientale e sanitario colposo per la gestione della centrale a carbone di Novi Ligure, impianto sequestrato nel 2014. (i.b.)

A fine gennaio è cominciato il processo di 26 persone, ex e attuali dirigenti e funzionari dell'azienda e vari componenti dei Cda. L'accusa è di disastro ambientale e sanitario colposo. Sotto inchiesta erano finiti anche politici e amministratori locali, ma la loro posizione è stata archiviata. L'impianto é stato sequestrato nel 2014 per il rischio di inquinamento nonché di mortalità dei residenti e dell'aumento delle malattie respiratorie. Attualmente la centrale è in funzione solo in parte, ma alimentata a metano.
Si leggano gli articoli: RE: Common Stories sulla centrale di Vado Ligure,
Centrale a carbone di Vado Ligure, processo alle porte?, e La lotta contro il carbone di Vado Ligure non è finita. (i.b.)

Finalmente il Ministro Bonisoli decreta la tutela del Monte Stella, memoriale contro la guerra e isola verde pubblica frequentatissima dagli abitanti e al tempo stesso blocca i lavori di presunta riqualificazione. Il comune di Milano insorge e minaccia di procedere per via legali. Qui Un articolo di Graziella Tonon sul devastante progetto. (i.b.)

Con il progetto del comune di Milano si vuole distruggere questo importante spazio pubblico «sacrario civile costituito dalle macerie della città devastata dai bombardamenti» progettato da Piero Bottoni, che lo ha pensato come un oasi di pace fruibile da tutti gli abitanti.
Si legga l'articolo su Arcipelago Milano di Graziella Tonon Il giardino dei giusti non può essere ingiusto per comprendere come questo progetto non solo stravolge l'idea originale, ma trasforma uno spazio verde in un susseguirsi di spazi lastricati.

L'appello iniziale per fermare il progetto: Il Giardino dei Giusti resti un Giardino; e qui il link per firmare la petizione. (i.b.)

In anteprima per eddyburg, la sintesi del tavolo sul «Degrado ambientale e profughi, transizione energetica, rinnovabili, decarbonizzazione» al Forum Associazione Laudato Si’: Un alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale del 19 gennaio 2019. (i.b.)

19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.

Sintesi del Tavolo Clima
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)

Intervengono:

Massimo Scalia - docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie
Karl Ludwig Schibel - coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee
Angelo Consoli - direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin
Andrea Donegà - segretario Fim Cisl Lombardia

La protezione dell'ambiente o, detta altrimenti, la salvaguardia del creato, deve diventare sempre di più un compito prioritario, vitale, perché non ci impegna soltanto a difendere i beni ricevuti gratuitamente quanto a consegnarli alle generazioni future. Ma finora non c’è stata una diffusione capillare del grido della terra nelle coscienze e nemmeno la politica sembra essersi risvegliata. Forse è prevalsa la preoccupazione di sentirsi continuamente sul banco degli imputati.

L’Enciclica “Laudato Sì’” ricorda che il 20 percento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da togliere alle nazioni povere e alle nuove generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere. In un pianeta grande ma di dimensioni limitate la produzione e il consumo di oggetti, utili e superflui avviene soltanto sottraendo risorse naturali (acqua, prodotti agricoli e forestali, minerali, fonti di energia) dal pianeta e con l’inevitabile formazione di scorie e rifiuti che rendono meno utilizzabili l’aria e le acque, rendono meno fertile il suolo e, soprattutto sconvolgono irreversibilmente il clima. Più difficile continuare ad abitare.

La falsa narrazione delle destre reazionarie, xenofobe e razziste opera quotidianamente con l’indice puntato contro i migranti. Agita i pericoli e le paure derivanti dal rischio presunto dell’invasione di orde che minaccerebbero l’ordine e il benessere acquisito. Spesso si tratta del benessere di quanti, nel loro orizzonte consumistico, pretendono che le risorse siano messe esclusivamente a loro disposizione.

Viviamo in un sistema ignaro delle persone e dei corpi ed in cui il pensiero dominante, che presuppone che non ci sia spazio per tutti su questo Pianeta e che addirittura non basti una Terra sola, non mette in conto il degrado ambientale né gli effetti di un aumento della temperatura sulle possibilità di sopravvivenza, innanzitutto di chi abita - frequentemente in condizioni di povertà - i territori più vulnerabili. Nel corso di poche decine d’anni sono peggiorate le opportunità di sostentamento e di esistenza che - in maggiore o minor misura a seconda della collocazione geografica - sono esposte all’intensità di eventi climatici. Anziché risalire all’origine - cioè alla responsabilità antropica - di uno dei cambiamenti più rapidi registrati nella storia recente dell’atmosfera terrestre, si applica la forza e si nega il diritto, scaricando non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso. Il respingimento di quanti cercano di rifugiarsi nei territori meno colpiti, si rivela così brutale da concorrere consapevolmente al rilancio di quelle categorie di esclusione e di identità che sono state all’origine di autentiche tragedie nella storia. Ma non si tratta solo di avversare decisioni perfide: bisogna cambiare registro. Se il clima non diventa un’emergenza per l’umanità tutta, prima o poi tutti saremo migranti. E’ il capitalismo neoliberista e insieme negazionista che ha bisogno di aggiungere la xenofobia alla rapina delle risorse naturali e allo sfruttamento del lavoro, creando così un ulteriore strumento di sfrangiamento sociale. Bisogna prendere atto di una capacità inesauribile di adattamento alla contingenza, che passa dall’individualismo competitivo ad una sorta di “individualismo della paura” (forse questo distingue Berlusconi da Salvini…) contro, ovviamente, l’ecologia integrale e in opposizione così incomponibile da prevedere l’esclusione dai diritti di cittadinanza - e perciò di esistenza politica - per gli stranieri costretti a migrare. Lo scopo è quello di lucrare consenso in sovranità “protette” per perpetuare l’ingiustizia sociale più generale, intrinseca ad un modello di crescita innaturale. Si conferma per antitesi quanto giustizia climatica e sociale procedano necessariamente in parallelo. In definitiva, ci troviamo per la prima volta di fronte ad uno schema economico e tecnocratico che, mentre cancella la cura della casa comune e la piena occupazione, promuove un’umanità frantumata. Un sistema che caldeggia il superamento dell’umano, da duplicare asessuato e sostituire magari con braccia e intelligenza artificiali.

Non bastano più le chiavi interpretative che ci fornisce la “cassetta degli attrezzi” ereditata da una cultura e da un’idea dello sviluppo continuo, spiazzate dalla velocità dei flussi della globalizzazione e dalla concentrazione della ricchezza. Non siamo affatto - bisogna riconoscerlo - padroni già di un’autentica rivoluzione culturale. Ci proviamo con tutta la memoria ed andando oltre le ricette del passato. Quando il nuovo quadro sarà reso più organico, vista la portata della posta, ci troveremmo – come dice Riccardo Petrella, esagerando, ma non troppo «nelle condizioni dei copernicani segnati a dito dai tolemaici».

Ascoltandoci e scambiando esperienze, ci proponiamo già dalla riunione odierna di cogliere e praticare una direzione diversa da quella della globalizzazione univoca. A questo proposito, una consapevolezza di massa del significato del cambiamento climatico non è rinviabile. L’impresa sta in una torsione che potremmo definire verso il “terrestre”: l’unica prospettiva che risponda ad un’evoluzione dell’umanità con le sue differenze, ma non divisa e in sintonia con la biosfera e il limite della natura. Emergono infatti con sempre maggior evidenza e discontinuità fattori che mettono in relazione il futuro della società umana con la cura per l’ambiente nella sua interezza. La scienza moderna, che ricostruisce quasi per intero la storia e l’evoluzione dell’Universo dalle sue origini, fa emergere la singolarità della vita sul nostro pianeta; spiazza altresì la visione antropocentrica e fornisce l’interpretazione della biosfera come un insieme di processi, di rigenerazioni e di riparazioni che combattono e dilazionano nel tempo il disordine e il degrado. Aver cura coscientemente della Terra diventa l’orizzonte da condividere; negare le implicazioni sociali di questo obbligo e erigere muri per delimitare inclusi e scarti equivale a perdersi irrimediabilmente, oltre a precludere il diritto della pace e l’universalità dei diritti civili e sociali conquistati.

Sia l'economia capitalista che il clima mondiale rappresentano sistemi complessi e dinamici. L'incertezza rispetto al cambiamento climatico e ai suoi effetti economici ha a che fare con l'interazione di questi due sistemi complessi. A peggiorare le cose, sia il sistema climatico che l'economia umana sono sottoinsiemi della biosfera e sono inseparabilmente interconnessi in modi estremamente complessi con innumerevoli altri processi biogeochimici. Molti di questi vengono trasformati dall'azione umana. Secondo l’IPCC siamo molto vicini alla rottura dell’equilibrio, al di là del quale lo stato energetico complessivo del pianeta raggiungerà un punto di non ritorno. E non sarà semplicemente un cambiamento graduale, un aumento del disagio cui adattarsi con mezzi economici e tecnologici. Le previsioni più aggiornate (dall’IPCC al Pentagono) indicano come probabile un cambiamento brusco, con un massiccio sconvolgimento sociale, una ridislocazione incontrollabile di nativi costretti a spostarsi fuori dai loro paesi. Inaspettatamente, le stesse previsioni segnalano un’eterogeneità molto significativa nel peggioramento delle performance economiche e nel tenore di vita medio, proporzionalmente più a sfavore dei paesi ricchi (USA e Brasile) e di quelli con maggior popolazione (India e Cina). In ogni caso, l’instabilità climatica sarà lo scenario delle prossime decadi.

600 milioni di schiavi sono stati deportati nelle Americhe; 250 milioni di nativi sono stati uccisi nel Nuovo Continente; si calcola che 2 milioni di fanciulli lavorino in condizioni massacranti nelle miniere africane e del Brasile. Le strategie economiche delle multinazionali in Asia ed Africa sono tutt’ora la causa per cui una parte consistente di emigranti parte per evitare regimi di schiavitù. Ma sempre più saranno la siccità, le inondazioni e l’innalzamento del livello dei mari ad obbligare a trasferirsi a qualunque costo dalla terra d’origine. Ogni minuto 60 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di conflitti, persecuzioni e mutamenti ambientali. A metà 2018 sono registrati come migranti in tutto il mondo 65.6 milioni di persone, un numero senza precedenti costretto a fuggire dal proprio Paese. Di queste persone circa 22.5 milioni sono registrate come rifugiati, più della metà con età inferiore ai 18 anni. Ci sono inoltre 10 milioni di apolidi cui vengono negati una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.

La transizione energetica richiede profondi tagli delle emissioni di CO2 (dall'80- al 95% entro il 2050) in presenza di un marcato sviluppo delle fonti rinnovabili, chiare vincitrici anche nella competizione per il costo del KWora prodotto. In questa prospettiva, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere sottoterra incombusta, mentre va riconvertito un apparato industriale ed un sistema di distribuzione e mobilità ancora per la maggior parte dipendenti dal sistema fossile centralizzato. La chiave non è tanto tecnologica quanto logistica e organizzativa: la rivoluzione industriale aveva disconnesso completamente i territori dalle fonti, ma ora è possibile rimettere a fuoco città e territori, che vanno ridisegnati come sistemi in cui l'energia è distribuita più vicino alla domanda; la fonte è diffusa e di provenienza solare diretta; le perdite di rete sono minimizzate; l’efficienza e il risparmio vengono incentivati; gli edifici possono diventare passivi e mettere in rete essi stessi il surplus accumulato, con l’obiettivo di fondo di una rapida decarbonizzazione dell’economia. Le comunità dell’energia si stanno diffondendo: su di esse sarebbe opportuno spostare le risorse destinate ai fossili, che in Europa gravano oggi per 600 €/anno a cittadino.

I cambiamenti climatici avvengono a dimensione globale, ma una governance globale è solo sulla carta. Se teniamo conto che è in pericolo la base naturale della specie umana e che i meeting mondiali indicano solo vagamente limiti che dovrebbero essere cogenti, la salvezza viene dal locale. Non basta mobilitarsi per le generazioni future: in gioco c’è la dignità di noi stessi, ora, e, perciò, va sviluppata una narrativa che penetri nel mondo vitale delle persone da raggiungere in carne ed ossa. L’idea di una buona vita rende condivisibile la preoccupazione per il clima. Pur nel rigore dei contenuti, l’educazione e la narrativa sul clima deve saper coinvolgere diverse appartenenze e ispirazioni nonché responsabilizzare tutte le forze politiche e le istituzioni (es. in Lombardia 160 Comuni sono governati dalla Lega).

Una Proposta di Legge di iniziativa popolare, lanciata a Roma in Gennaio, fissa l’inversione di tendenza all’aumento di emissioni di climalteranti in Italia a partire dal 2020, per azzerarle entro il 2050. Si basa su 100% rinnovabili e sull’uso dell’idrogeno come vettore e serbatoio di energia, da usarsi sia per fini industriali, sia di mobilità che per celle a combustibile per gli edifici. Una legge analoga è stata proposta in Francia e approvata nel 2015, ma una sua estensione veicolata dalla direttiva RED II dell’Unione Europea trova profondi contrasti nei governi del “gruppo di Visegrad.”

A titolo di esempio di cooperazione nel campo energetico da parte di ONG, in Senegal, nel cuore della savana ad una decina di km dal fiume Gambia, è in corso di realizzazione un orto di 25 Km quadrati, sostenibile al 100% con energia solare, dotato di un impianto di irrigazione a pioggia, in grado di approvvigionare sei villaggi e impiegare 17 contadini locali.

La programmazione di lavoro dignitoso e di crescita dell’occupazione trova nel passaggio dalle fossili alle rinnovabili concrete opportunità di successo. Nel campo delle “energie verdi” l’innovazione porta lavoro qualificato e, al contrario dell’automazione nel manifatturiero tradizionale (la famosa 4.0…), non è “labour saving”. La manifattura per eccellenza, che sforna da decenni auto individuali e l’intero comparto petrolifero sono giustamente accusati di concorrere all’insostenibilità, sia per gli effetti inquinanti prodotti dal binomio, sia per le conseguenze redistributive della tassazione dei veicoli e dei carburanti. Nel convegno è stata suggerita la versione della “carbon tax” alternativa alle “ecotasse”, per cui, alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili, verrebbe addebitata una “tassa sul carbonio” (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal carburante. L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero come dividendo su base pro capite alla popolazione che paga le tasse (potremmo definirlo un reddito di cittadinanza ecologica).

Aggiunte finali del curatore
Non si può ignorare l’enorme rischio che l’Amazzonia, il polmone del mondo, sta vivendo dopo l’elezione del nuovo presidente brasiliano. Si prospetta uno scenario di attacco ai popoli della foresta e alla foresta stessa, a favore dell’interesse dei grandi proprietari terrieri e delle grandi società dei minerali, del petrolio, della soia, del legname. Va ricordato che il Consiglio Comunale di Milano, 30 anni fa, quando fu dedicato a Chico Mendes in piazza Fontana un cippo ed un albero in ricordo del suo sacrificio, prese l’impegno di proseguire la sua lotta in difesa della foresta. Nella regione dell’Acre, della cui Camera del Lavoro Chico fu segretario, sono state assunte misure e progetti cooperativi e comunitari che hanno rivoluzionato il rapporto tra cittadini brasiliani, campesinos, indigeni, siringueros, togliendo l’egemonia dei cocaleros lungo il confine con la Bolivia. Occorre dar seguito ad un percorso che è risultato esemplare per tutta l’Amazzonia.

Reinventare le nostre infrastrutture ad alta intensità di carbonio è fondamentale e pregiudiziale se si vogliono raggiungere realmente e non lasciare sulla carta gli obiettivi dell'UE e dei documenti su cui si svolgono le Cop sui cambiamenti climatici globali. Il raggiungimento di riduzioni delle emissioni dell'80-95% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050, deciso in ambito UE con scarsa convinzione, richiede un processo di "decarbonizzazione" dell’economia a tutti i livelli. L’Italia e l’Europa continuano a usare come paravento il minor impatto in climalteranti del gas rispetto agli altri fossili. Si tratta di un autentico escamotage per mantenere inalterate le strutture centralizzate del vecchio sistema. E’ fuor di dubbio che la realizzazione della TAP, in una fase in cui la questione climatica assume una valenza discriminante, assumerebbe davvero tutto l’effetto simbolico di una sottomissione a “quell’Ancien Regime” di cui le lobby sono sostenitrici.

La decarbonizzazione avrebbe implicazioni di grande valenza sull’area mediterranea oggi al centro della tragedia dei migranti e sottomessa in una pluralità di Paesi a regimi autoritari e a forme di sfruttamento intensivo delle risorse naturali. La forma territoriale dell’approvvigionamento energetico distribuito e la cultura cooperativa che lo ispira, avrebbero grande influenza sulla convivenza dei popoli che si affacciano alle rive del Mare Nostrum, favorirebbero legami culturali più aperti ed una autentica integrazione dall’una all’altra sponda sia per le comunicazioni che per la mobilità. Si renderebbero automatici e oltremodo utili scambi di esperienze, integrazioni di standard ed un trasferimento di tecnologie e ricerca applicate all’industria e all’agricoltura, rendendo più labile la linea di demarcazione tra Nord e Sud Europa. L’Europa per prima ne trarrebbe beneficio, optando per una autonomia energetica fondata su sole, vento e acqua anziché su petrolio gas e carbone. (C’è una alternativa alle trivelle in mare…)

Contrariamente a quanto viene sostenuto dalla Commissione Europea, vanno promosse aziende energetiche municipali pubbliche, incaricate non solo di fornire energia elettrica rinnovabile per le proprie strutture, ma anche per cittadini e aziende. L’Utility pubblica dovrebbe avere per missione una particolare attenzione ed una diffusione della democrazia energetica. In particolare, dovrebbe facilitare la produzione autonoma di energia rinnovabile da parte dei cittadini e di altri attori locali da mettere in rete, promuovendo il networking tra nuovi produttori e incoraggiando la creazione di cooperative di piccoli produttori sotto gli auspici della municipalità. Per condomini ed edifici, un ruolo di ESCO dell’azienda municipale assicurerebbe garanzie finanziarie ai cittadini e un rendimento degli investimenti. Risolverebbe infine un ruolo decisivo e democraticamente validato per la pianificazione urbanistica in chiave energetica.

Va impresso un forte impegno politico per combattere la povertà energetica: la questione della povertà di carburante è dilagante: colpisce un europeo su sei.

Un analisi della TAV, delle politiche nazionali dei trasporti, delle posizioni comunitarie e il paragone con la Svizzera. Infine considerazioni su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (i.b.)

Nel 1983, scrivendo su Casabella, Guglielmo Zambrini intitolava Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti un suo famoso articolo in cui commentava lo stretto legame tra le politiche di rilancio di grandi infrastrutture (allora autostradali) e la formazione dell’ ”altro disavanzo”, incorporato nel patrimonio nazionale naturale e costruito. Un disavanzo sommerso, fatto di abusivismo, mancanza di manutenzione, ammaloramento degli acquedotti, distruzione di risorse agricole: un quadro non tanto diverso da quello attuale.

Se questo è lo sfondo, queste note nascono dal desiderio di riprendere le fila sulla questione TAV alla luce del dibattito attuale e delle trasformazioni che hanno segnato i trent’anni che ormai ci separano dall’inizio della vicenda, intorno al 1990. Le osservazioni che seguono a proposito della TAV derivano principalmente da documenti ufficiali: un primo luogo i recentissimi Verifica del modello di esercizio (2017) e Quaderno n. 11 dell’Osservatorio (2018). Ma derivano anche dalla considerazione, per quanto possibile oggettiva, delle politiche nazionali in materia di trasporti, delle posizioni comunitarie e dell’esperienza di altri paesi, come la Svizzera o l’Austria e la Germania che hanno intrapreso una concreta politica ferroviaria molto prima e molto più efficacemente dell’Italia.

Tutti questi documenti, e in particolare quelli specificamente dedicati alla TAV elaborati dall’Osservatorio, contengono una ampia raccolta di numeri sulle dinamiche del traffico merci attraverso le Alpi (rilevazioni, fonti statistiche diverse puntualmente indicate, ecc). Se la serietà della raccolta non è in discussione merita invece di essere discussa l’interpretazione che ne viene data. La tesi di fondo dei documenti TAV, semplificando molto, suona pressappoco così: negli anni 2000 gli oppositori alla nuova linea potevano avere qualche ragione; oggi, vent’anni dopo, alla luce della crescita del traffico merci, dell’innovazione tecnologica e del consolidamento delle politiche europee a favore della ferrovia, la Torino-Lione è l’indispensabile tassello di una nuova grande rete europea capace di reggere con successo la concorrenza del trasporto stradale. Con tutti i vantaggi ambientali, sociali ed economici che ne derivano.

Sarebbe bello condividere una tale tesi ed entusiasmarsi per le novità politiche e tecniche che essa sottende. Ma una più attenta lettura dell’opera e del suo contesto mette in luce il peso delle molte incongruenze e delle molte questioni non risolte, compresa la ben collaudata (e mai smentita) subordinazione della politica nazionale dei trasporti ad interessi stradali e autostradali oggettivamente contrari a questa prospettiva. Tutti fattori che, allo stato delle cose, portano a considerare marginale la realizzazione dell’opera ai fini dell’obiettivo dichiarato e altissima la probabilità che l’ingente impegno di risorse e il danno ai territori interessati si risolva nell’ennesimo episodio di cattiva politica e dilapidazione di risorse pubbliche. A meno di un cambio profondissimo nella politica nazionale dei trasporti, di cui oggi non si vedono le condizioni.

La linea Torino Lione: lo stato delle cose

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio fornisce un quadro drammatico della linea esistente e del suo funzionamento. Non solo il traffico non ha cessato di diminuire nel tempo, ma sono diminuiti prestazioni e tempi di percorrenza. Oggi la capacità della linea per le merci è stimata essere di 38 treni merci/giorno. E comunque neppure tutti tali treni vengono in realtà effettuati, così che la linea porta, con non pochi problemi di costo e di sicurezza, circa 3 milioni di tonn/anno: una quantità ridicola.

Per quelli che hanno seguito la vicenda dal suo inizio questa descrizione solleva un mix di stupore e di indignazione. Nel 2000, sotto la spinta del conflitto territoriale e sociale ormai evidente, le due compagnie ferroviarie (SNCF e FS) avevano prodotto un rilevante studio tecnico di “modernizzazione” della linea, con il quale dimostravano che attraverso fattibili modifiche di sagoma, il potenziamento dell’alimentazione elettrica, miglioramenti del segnalamento, l’adozione di motrici bicorrente, e altre misure tecniche e organizzative la linea era in grado di portare 150 treni merci/giorno pari a 20-21 milioni di tonn/anno. Ovvero il doppio del traffico di merci registrato in quegli anni, pari a poco meno di 10 milioni di tonn/anno. Certo non ad alta velocità, ma comunque a velocità più che accettabili se solo si considera che la velocità media dei treni merci si aggirava allora intorno ai 16 km/h. Proprio da quello studio “ufficiale” nasceva la ragionevole posizione del Governo italiano: la nuova linea si farà “quando la linea esistente mostrerà segni di saturazione”. Che, detto in altre parole, significava: “quando una profonda riforma della politica italiana dei trasporti a favore del riequilibrio modale comincerà a dare i suoi frutti e a dimostrare la necessità dell’opera”.

Ma quando si tratta di spesa pubblica la ragionevolezza non è di casa. Delle riforme necessarie ad una politica di riequilibrio modale nel trasporto merci non c’è traccia. Mentre proseguiva con terze corsie e nuove tratte, spesso sovvenzionate con risorse pubbliche, l’aumento della capacità autostradale, gli investimenti sulla ferrovia, concentrati esclusivamente sull’alta velocità per i passeggeri, confinavano le merci sulle linee storiche, in una difficile convivenza con i servizi per i pendolari e con i problemi ambientali degli attraversamenti urbani. In questo quadro invece di tendere ai 20 milioni di tonn/anno, gli interventi sulla linea esistente, disomogenei tra la parte italiana e la parte francese, discontinui e incerti nel tempo e nei risultati, hanno prodotto il paradossale risultato di ridurre il traffico ai 3 milioni di tonn/anno prima ricordati. Togliere di mezzo l’unica concreta possibile alternativa è stato certo un bel regalo ai promotori della linea nuova. Anche senza dietrologia varrebbe la pena di inviare la storia degli interventi di “miglioramento” della linea esistente alla Corte dei Conti e alla Magistratura.

Senza dimenticare che l’autostrada del Frejus tra Torino e la Francia, che attraversa la Val di Susa, è stata oggetto di un potenziamento: nato e progettato come una galleria di servizio per aumentare la sicurezza in caso di incidente, si è poi trasformato nel 2012, con specifica autorizzazione della Commissione Intergovernativa Italia-Francia, in una seconda canna dedicata alla circolazione dei veicoli. In questo modo si è trasformato in un incremento reale di capacità di transito per l’autotrasporto e i veicoli passeggeri, senza che nessun contingentamento sia stato deciso per i TIR o sia stata introdotta una tassa di transito modello svizzero per contenere il trasporto su strada, come richiederebbe anche la Convenzione di protezione delle Alpi recepita anche dal nostro paese. Ed è paradossale che siano le stesse forze politiche, imprese ed associazioni di categoria che vanno in piazza a Torino per il Sì-TAV, che si oppongono con decisione ad ogni politica di disincentivo del trasporto stradale, arrivando a contestare le scelte di Austria e Svizzera sui valichi. Contingentamento e tassazione che certo farebbero crescere il traffico ferroviario tra Italia e Francia.

Tutto cambia, tranne la sezione internazionale

Fatto sta che l’inadeguatezza della linea vecchia è oggi uno dei punti di forza dei promotori della linea nuova che dovrà, ovviamente, rispondere ai più attuali criteri di geometria e di prestazione e comportare, ovviamente, elevati costi di costruzione. Negli ultimi dieci anni il progetto è stato oggetto di numerose proposte di modifica, riprese in modo organico nella Revisione Progettuale del 2017 condotta dal MIT nell’ambito della revisione dei progetti inseriti nella Legge Obiettivo. Il sito del Ministero dei trasporti così descrive i risultati della revisione progettuale:

«I costi sono scesi da 9 miliardi di euro del progetto originale a 4,5 miliardi del nuovo scenario. La project review portata avanti dalla Struttura Tecnica di Missione del Ministero, dall’Osservatorio sulla Torino Lione, cui partecipano Sindaci, Governo ed esecutori dell’opera, ha scelto di revisionare il tracciato della Torino-Lione, riducendo i tratti di nuova linea da 82 a 32 chilometri, cancellando quindi 50 chilometri di nuova linea grazie alla scelta di utilizzare in gran parte la linea storica………. Gli interventi previsti garantiranno comunque il transito di 180 treni al giorno, di cui 162 merci e 18 passeggeri, per un totale di 25 milioni di tonnellate trasportabili l’anno e 3 milioni di passeggeri.»

Dunque la sezione internazionale non si tocca, e il problema si sposta sulla capacità della linea storica di sopportare i nuovi carichi. Secondo il rapporto di Verifica, redatto nel 2017 e destinato al Governo Gentiloni, quasi dovunque i previsti interventi di allungamento dei moduli stazione, l’aumento dei carichi per asse, il potenziamento dell’alimentazione elettrica e la modernizzazione del segnalamento mettono in grado la linea di sopportare le soglie di traffico indicate. Colpisce, in questa descrizione, la mancanza di qualunque cenno al problema degli attraversamenti dei centri, soprattutto nel tratto tra Bussoleno e Avigliana, dove gli impatti della cantierizzazione, i livelli di rumore a regime e i rischi connessi al trasporto di merci pericolose non miglioreranno certo la convivenza con gli abitanti.

Il rapporto Verifica del modello di esercizio presenta in termini descrittivi le tappe di questa evoluzione e la cosiddetta “fasizzazione” ovvero la definizione delle opere da realizzare nella Fase 1-2030. Nella figura seguente è rappresentato il contenuto di questa prima fase. Altre opere, come la gronda merci di Torino,o il tunnel dell’Orsiera tra Susa e la Chiusa di S. Michele, sono rimandate a dopo il 2035 e comunque solo se la saturazione delle linee in esercizio le renderà necessarie. Il rapporto Verifica del modello di esercizio è un documento consapevole, dal punto di vista tecnico, che la realizzazione della Torino Lione ha senso solo in una prospettiva di potenziamento della rete ferroviaria destinata alle merci e indica una serie di interventi di potenziamento, adeguamento, raccordo con le altre linee in fase di realizzazione, in primo luogo il Terzo valico dei Giovi e da lì il collegamento con la portualità genovese.

Il rapporto racconta che tali opere sono state inserite nel Contratto di programma 2017- 2021 tra il MIT e RFI. Tuttavia occorre ricordare che il Governo Gentiloni non ha presentato la proposta di Contratto di programma alle Commissioni parlamentari prima della scadenza della legislatura. Così che lo schema originario è stato rivisto dalle nuove Commissioni, ancora non è stato sottoposto alla approvazione del CIPE e ancora non è stato emanato il Decreto di approvazione.

Ciononostante alcuni fatti sono fin d’ora molto chiari: sono cadute sostanzialmente nel vuoto le raccomandazioni del CIPE e dell’Antitrust perché il nuovo Contratto di programma 2017-2021 rispondesse alle regole fissate dal Codice dei contratti pubblici. Regole che prevedono una forte ripresa della programmazione dei trasporti attraverso due strumenti chiave: il Piano Generale dei trasporti e della logistica (PGTL) con orizzonte almeno decennale e il Documento Poliennale di Pianificazione (DPP) , che deve contenere, in coerenza con il PGTL, gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento.
Nel 2016 il documento strategico Connettere l’Italia indicava gli orientamenti da seguire per il nuovo PGTL, ma oggi il Piano vero e proprio non è stato neppure avviato, e nessun DPP che dovrebbe contenere la revisione delle opere in Legge Obiettivo è stato approvato. Il Contratto di programma 2017-2021 dichiara che la prospettiva decennale di investimenti ferroviari è stata elaborata da RFI piuttosto che dal MIT: cosa che costituisce una sconcertante inversione dei ruoli. Infine la discussione nelle Commissioni parlamentari non fa neppur cenno alla necessità di riprendere la programmazione e sembra piuttosto ricalcare un vecchio schema ben consolidato nella tradizione italiana: la rivendicazione puntuale di opere di interesse di questo o quel territorio sponsorizzate da questo o quel parlamentare. Insomma: si naviga a vista. Come stupirsi della fragilità delle decisioni e come aver fiducia nella esistenza di una strategia di rete capace di dar senso anche alla Torino Lione?

Pensare per reti, non per corridoi

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio traccia il quadro dei valichi ferroviari di tutto l’arco alpino e sottolinea che i valichi ferroviari dell’arco alpino di ovest, quelli che interessano il confine italo-francese, sono caratterizzati da una quota modale della ferrovia nettamente inferiore a quella dei valichi dell’area centrale e dell’ala est. La differenza è davvero molto rilevante.

Nella figura seguente, tratta dal Quaderno n.11 se ne dà una efficace rappresentazione.

La ferrovia copre meno dell’8% nei valichi tra Francia e Italia, mentre copre quasi il 30% nei valichi tra Austria e Italia che servono i traffici scambiati con la Germania e il nord Europa. Per tacer della Svizzera dove la quota ferroviaria del traffico di attraversamento alpino oscilla intorno al 70%. Secondo il Quaderno questo squilibrio sarebbe dovuto proprio alla mancanza di una efficiente infrastruttura ferroviaria di valico in grado di accogliere la domanda crescente. Dunque basterebbe costruire la nuova infrastruttura per rispondere ad una domanda che c’è e che solo la mancanza di una infrastruttura adeguata costringe all’uso della strada. La ricetta è accattivante, ma non realistica. Con evidenza infatti la differenza sostanziale è spiegata non tanto dalle prestazioni delle linee di valico quanto dal ruolo e dall’efficienza della ferrovia nel sistema dei trasporti dei paesi di origine e destinazione degli scambi.

Una modernissima linea di valico che si innesta su una rete ferroviaria nazionale inadeguata per il trasporto delle merci, con vincoli di peso, di sagoma, di lunghezza dei convogli, con problemi ambientali e di sicurezza, con terminali inefficienti ha un solo effettivo risultato: i mezzi stradali e i semirimorchi che, anche grazie a sostanziosi incentivi, attraversano le Alpi caricati sulla ferrovia trovano conveniente scendere quanto prima dalla ferrovia medesima e completare il viaggio via strada, mentre containers e merci pregiate scelgono direttamente il tutto strada. Tanto più se in quel paese la rete autostradale è invece assai sviluppata e il suo uso per il trasporto merci incentivato in vario modo, compresa la restituzione agli autotrasportatori di gran parte dei pedaggi autostradali. Come in Italia.

Il ruolo della ferrovia è una componente essenziale del’intero sistema dei trasporti e si gioca in primo luogo sui traffici interni. Basta dare un’occhiata alle statistiche di Eurostat sulla ripartizione modale del traffico merci dei paesi membri. Nella figura, tratta dall’edizione 2018 del rapporto annuale Energy, transport ad environment indicators, è rappresentata la ripartizione modale percentuale, misurata in tonn-km, del traffico interno paese per paese. E’ evidente che i paesi che dovrebbero alimentare il flusso di merci ferroviarie sulla Torino-Lione, ovvero Francia, Spagna e Portogallo sono anche quelli nei quali la ferrovia svolge un ruolo minore: 11% in Francia, 5,3% in Spagna, 14,5% in Portogallo, come del resto in Italia [1]. Contro il 31,5% dell’Austria e il 19% della Germania. I traffici internazionali, pur essendo le distanze più lunghe più favorevoli al trasporto ferroviario, sono solo l’altra complementare componente di un medesimo sistema dei trasporti: modesta la prima modesta la seconda.

La lezione della Svizzera

Come si è visto i valichi svizzeri sono l’unico caso dell’arco alpino dove la ferrovia, con una quota modale intorno al 70%, vince alla grande la concorrenza con il trasporto stradale. Vale la pena di riprendere sinteticamente le ragioni di tanto successo e soprattutto di trarre dall’esperienza svizzera indicazioni utili anche per la Torino-Lione.

La storia svizzera di potenziamento della ferrovia, che si è svolta in contemporanea con la vicenda dell’Alta Velocità italiana, ha seguito una impostazione politica e ha dato risultati del tutto diversi. Anche in Svizzera, come in Italia, il modello francese di innovazione aperto dall’Alta Velocità Parigi-Lione aveva portato alla proposta di un attraversamento “forte” AV est-ovest tra Berna, Olten e Zurigo: la Neue Haupt Transversale (NHT). Tale progetto, anche a seguito di accese contestazioni territoriali, fu modificato sostanzialmente a favore di Bahn 2000, un progetto per il traffico passeggeri basato su criteri di equi-accessibilità, approvato attraverso referendum nel 1982. Bahn 2000 è la copertura dell’intero paese con uno schema di rete che permette un orario cadenzato, nel quale le città, a seconda dell’importanza, sono collegate con tempi dell’ordine dell’ora o della mezzora. I treni arrivano contemporaneamente ai nodi stazione poco prima dell’ora (o della mezz’ora) e ne ripartono, sempre contemporaneamente, poco dopo. Il sistema rende l’interscambio tra le diverse linee facile e senza perdite di tempo, assicura un omogeneo ed elevato livello di servizio a tutto il territorio svizzero, e produce un effetto di equa copertura territoriale, opposto al prevedibile effetto della linea veloce. Questa avrebbe sì velocizzato una relazione importante, ma avrebbe al tempo stesso reso periferiche tutte le altre. Come è successo per l’AV italiana.

Occorre notare che la Svizzera non rinunciava affatto a puntali interventi di Alta Velocità: da realizzare solo dove fossero stati necessari a garantire il cadenzamento all’ora o alla mezz’ora. Bahn 2000 inoltre era accompagnato dalla piena integrazione del servizio ferroviario con i servizi di trasporto pubblico urbani ed extraurbani, anch’essi convergenti all’ora o alla mezzora nei nodi stazione. I numerosissimi interventi di miglioramento della rete ai fini del cadenzamento fornivano contemporaneamente nuova capacità, sulle stesse linee, per il trasporto ferroviario delle merci, senza alcuna separazione tra i due servizi. La ferrovia diveniva così l’asse portante dell’intero sistema dei trasporti. Esattamente il contrario di quanto avvenuto in Italia dove il rilevantissimo investimento ferroviario per le linee alta velocità per i passeggeri ha di fatto estromesso da quelle linee il trasporto delle merci, confinandolo all’uso delle linee storiche, alla problematica convivenza con i servizi pendolari e metropolitani e con i problemi ambientali e di sicurezza degli attraversamenti urbani.

In Svizzera l’idea dell’attraversamento veloce, questa volta in direzione nord-sud, è stata ripresa negli anni ’90 con il progetto Alptransit, incluso nei complessi negoziati con la Comunità europea interessata ad aprire il percorso stradale svizzero ai mezzi pesanti, fino a quel momento esclusi per via del limite di peso dei veicoli merci a 28 tonn. Un tale limite scaricava oggettivamente sui valichi ad est e ad ovest della Svizzera gran parte del traffico pesante, con allungamenti di percorso e aumento dei costi. A seguito delle trattative la Svizzera, in varie fasi, ha accettato di portare a 40 tonn il peso dei veicoli stradali ammessi sulla rete nazionale, ma insieme ha imposto una pesante tassa sul loro passaggio. La TTPCP, ovvero la tassa commisurata alle prestazioni, è uno strumento di regolazione del mercato ma al tempo stesso è uno strumento di internalizzazione dei costi ambientali esternalizzati. Il suo livello è stabilito in base al peso dei veicoli, ai km percorsi in territorio svizzero e alle prestazioni ambientali (inquinamento e rumore) dei veicoli stessi.

Le motivazioni ambientali hanno avuto un grandissimo peso nel determinare le politiche di trasferimento del traffico stradale alla ferrovia. Il trasferimento è stabilito dalla Costituzione svizzera nell’ambito delle politiche per la protezione delle Alpi e deve raggiungere l’obiettivo vincolante di ridurre a 650.000 i transiti di mezzi pesanti ai valichi svizzeri. Se si considera che solo nel 2016 si è raggiunto l’obiettivo di ridurre tali transiti a meno di 1 milione (obiettivo che doveva essere raggiunto già dal 2011) si ha la misura della difficoltà del compito. La morfologia montagnosa rende l’intero territorio svizzero particolarmente vulnerabile all’inquinamento e al rumore del traffico stradale pesante: come fosse una grandissima Val di Susa. Da qui l’attenzione e l’importanza delle politiche ambientali.

Ai fini delle indicazioni per il caso italiano occorre osservare la sequenza dei tempi. La legge sul trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia risale al 1999 e la tassa commisurata alle prestazioni è applicata dal 2001, con tariffe gradualmente crescenti negli anni. A queste misure sono associate misure di sostegno agli operatori per il trasporto combinato, compresa la strada viaggiante, e per il potenziamento dei terminali. La liberalizzazione degli accessi alla rete (1999) ha consentito, soprattutto sull’asse nord-sud, l’entrata in gioco di una pluralità di imprese ferroviarie tra loro in concorrenza, capaci di rispondere efficacemente alle esigenze della domanda. Tutto questo è stato concretamente avviato ben prima della realizzazione delle nuove gallerie di base. La Svizzera, in altre parole, non ha aspettato la realizzazione di nuove infrastrutture per far politica di trasferimento del trasporto merci, ma al contrario ha messo in atto efficaci politiche di trasferimento che hanno giustificato nel tempo il potenziamento delle infrastrutture ferroviarie. Per la Torino Lione è una indicazione importante: non è l’infrastruttura che genera il trasferimento, ma sono le politiche per il trasferimento che rendono necessaria l’infrastruttura

I risultati svizzeri sono davvero apprezzabili sia sul lato ferroviario che sul lato stradale: la tassa ha incentivato la modernizzazione del parco di veicoli stradali pesanti e ha ridotto il numero dei loro transiti ai valichi. Le risorse finanziarie provenienti da quella tassa hanno sostenuto potentemente (circa il 55%) la nuova ondata di massicci investimenti ferroviari del progetto Alptransit, che comprende il potenziamento di due fondamentali valichi alpini. la nuova galleria di base del Lötschberg (circa 34,6 km entrata in esercizio sia pure parzialmente nel 2007), la nuova galleria di base del S. Gottardo (57 km, entrata in esercizio nel 2016) seguita poi, lungo l’itinerario veloce, dal nuovo tunnel del Ceneri e dal cosiddetto “corridoio di 4 metri” per il passaggio del trasporto combinato (semirimorchi) di cui era prevista l’ultimazione nel 2020, ma che probabilmente verrà ritardata di qualche anno. Su versante italiano di ingresso all’itinerario veloce non sono ancora stati completati gli interventi di adeguamento dei due itinerari previsti: via Chiasso e via Luino, che pure godono di un co-finanziamento svizzero. Sono lavori che avrebbero meritato un più solerte interessamento italiano, data la rilevanza, anche per l’Italia, del nuovo asse inter-europeo nord-sud.

Occorre notare bene che le nuove infrastrutture svizzere ad alta velocità, compresa la nuovissima galleria di base del S. Gottardo, anche grazie alle pendenze minime (8 per mille in galleria e 12,5 per mille nei tratti all’aperto) fanno correre sullo stesso binario treni merci lunghi e pesanti e treni passeggeri veloci, con un (previsto) modello di esercizio che inserisce un treno passeggeri ogni tre treni merci. Oggi la convivenza è ottenuta riducendo a 200 km/h la velocità dei treni passeggeri, alzando a 120 km/h la velocità dei treni merci e risolvendo adeguatamente i problemi della manutenzione giornaliera. Una bella differenza con la situazione italiana, dove le nuove linee ad Alta velocità, nonostante siano state ribattezzate linee ad Alta Capacità, non portano treni merci ne di giorno ne di notte perché, secondo RFI, danneggerebbero la geometria dei binari e ostacolerebbero la manutenzione notturna. E’ ben vero che oggi qualcosa si muove anche in Italia e che il polo di aziende del gruppo FS Mercitalia [2] si appresta a trasformare qualche ETR 500 in treno merci, ri-organizzando gli spazi interni e facendo viaggiare i treni di notte sulle linee AV. Il trasporto veloce di merci leggere, come dimostra il recente contratto con Amazon, rappresenta un’area interessante di mercato. Tuttavia siamo ancora molto distanti dall’esperienza svizzera.

Il vero scoglio: la mancanza di una programmazione di sistema

Al di la delle oscillazioni delle quantità di traffico da un anno all’altro, ormai molto contenute, se solo si guarda al lungo periodo non è difficile riconoscere una sostanziale stabilizzazione del volume degli scambi merci tra i paesi europei. E’ un fenomeno. che riguarda l’intera Europa. Un interessante rapporto della Corte dei Conti Europea [3] sulla situazione delle ferrovie osserva:

« Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale».
Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale.

La tendenziale stabilizzazione delle quantità scambiate è un fatto importante e costituisce un riferimento fondamentale per tutte le politiche infrastrutturali, compresa la Torino-Lione Se le quantità variano solo marginalmente, cambia invece il valore della merce trasportata, che cresce più delle tonnellate trasportate. E’ lecito pensare che le tradizionali merci ferroviare (povere e pesanti) stiano lasciando il posto a merci più leggere, di maggior valore e dunque probabilmente con richiesta di prestazioni più elevate non tanto in termini di carichi per asse o moduli di stazione quanto in termini di accessibilità, velocità, sagoma limite e facilità di integrazione con il modo stradale, cui spetta comunque di far fronte all’”ultimo miglio”.

In questo contesto le nuove infrastrutture non rispondono tanto alla crescita della domanda quanto a strategie di competizione tra i mezzi (stradali, ferroviari, marittimi, ecc.), tra i valichi, tra gli operatori, tra i terminali. Il ruolo dello Stato e della spesa pubblica chiamata a sostenere gli investimenti infrastrutturali non può essere quello di favorire questo o quell’operatore, questa o quella cordata di interessi finanziari e imprenditoriali. Lo Stato deve costruire la sua razionalità su una visione strategica e democraticamente stabilita degli interessi del paese, da cui far discendere le politiche, le misure e gli investimenti infrastrutturali necessari a raggiungere obiettivi condivisi di equità territoriale, di benessere sociale, di qualità ambientale oltre che di sviluppo economico. Occorrono in altre parole, decisioni solide, attendibili, lungimiranti, valutate in modo trasparente sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Tutti requisiti che solo strumenti di programmazione ben costruiti e condivisi possono assicurare.

La capacità di costruire decisioni di questo tipo è proprio quello che nel nostro paese manca da moltissimi anni. E appena il caso di ricordare che il vigente Piano Generale dei trasporti e della Logistica, che risale 2001, teorizzava una ampia serie di riforme, molte delle quali intese a contrastare i monopoli e ad introdurre fattori di concorrenza, il rilancio della ferrovia e un serio riequilibrio modale.

Nessuna di quelle previsioni ha avuto la realizzazione sperata. Anzi nel lunghissimo periodo tra il 2001 e il 2016 la politica infrastrutturale è stata governata dalla Legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi, ma poi mantenuta dal Governo Renzi fino alla sua abolizione con il nuovo codice degli appalti del 2016. La Legge Obiettivo doveva semplificare e velocizzare con procedure “speditive” un limitato numero di opere strategiche “in attesa” da molto tempo. Si è tradotta invece in un incredibile carrozzone dove le opere strategiche, per la gran parte stradali e autostradali, sono diventare oltre 400, i finanziamenti ovviamente non ci sono o derivano da improbabili proposte di finanza di progetto, i tempi sono incerti e soprattutto l’insieme delle opere non segue alcun disegno strategico di livello nazionale e non è accompagnata da nessuna seria valutazione dei costi e dei benefici degli interventi.

Di fronte al dissesto istituzionale e operativo generato dalla Legge Obiettivo e sotto minaccia da parte della Comunità di non assegnare i fondi strutturali in assenza di un Piano approvato e valutato nei suoi aspetti funzionali, economici ed ambientali, il Ministro Delrio, meritoriamente, aveva avviato una ripresa della Pianificazione, a cominciare dalla (difficile) revisione delle opere comprese nella legge Obiettivo. Il Ministro aveva promesso l’elaborazione di un nuovo Piano generale dei trasporti, anticipandone gli orientamenti attraverso l’interessante documento “Connettere l’Italia” nel quale si illustrano le quattro strategie di fondo (figura successiva) su cui deve poggiare una nuova concezione integrata del sistema nazionale dei trasporti capace di superare le inefficienze, gli sprechi, la scarsa trasparenza e l’ostilità sociale endemica verso interventi infrastrutturali decisi fuori da regole di partecipazione e democrazia.

Oggi, come si è detto, del promesso Piano Generale dei Trasporti e della Logistica non si hanno più notizie, mentre il nuovo Governo torna ad occuparsi di infrastrutture caso per caso, al di fuori di ogni logica di sistema. Proprio questa mancanza totale di strategia confina la questione Torino-Lione alla alternativa se fare o non fare il nuovo tunnel: una impostazione ben riduttiva del problema, che a mio avviso nessuna analisi costi-benefici, pure importantissima per decidere bene, può migliorare.

Per uscire dall’impasse: riprendere a pianificare

Oggi la decisione sulla Torino Lione sembra dipendere dal responso dell’analisi costi-benefici e i sostenitori della nuova linea organizzano manifestazioni di piazza dopo aver contestato il gruppo di tecnici, guidato da Marco Ponti, incaricato di elaborare l’analisi. Non si conosce ancora il testo del Rapporto consegnato al Ministro dei trasporti. Ma alcune cose si possono dire fin d’ora. Molti atteggiamenti di critica si motivano solo con la diffusa, e talvolta strumentale, ignoranza sul significato e sul ruolo dell’analisi costi-benefici. Che non è affatto una decisione, ma un oggettivo quadro di informazioni che deve essere ben conosciuto e ben tenuto in conto dal decisore e deve essere ben conosciuto anche dalla popolazione che deve poter conoscere e valutare politicamente le motivazioni, ovviamente non solo economiche, della decisione. Il decisore è sempre politico e, alla luce delle stime dei costi, dei benefici e della loro distribuzione deve assumere le responsabilità della sua decisione, utilizzando proprio i risultati dell’analisi non solo per decidere se fare o non fare, ma per scegliere, ove opportuno, le alternative più favorevoli, per evitare i costi evitabili e riprogettare gli elementi più critici, per ri-calibrare vantaggi e svantaggi dei soggetti coinvolti. Ovvero per elaborare quelle politiche di contesto necessarie, se si vuole, a far fronte alle criticità individuate e a riportare la decisione nella sua giusta prospettiva, che non è l’espressione delle piazze, o comunque non solo l’espressione delle piazze, ma la responsabilità politica di governo dell’intero paese.

Una delle ragioni che impediscono oggi di considerare la Torino Lione un intervento utile e necessario per gli interessi del paese sta proprio nella mancanza di un solido e condiviso disegno di Piano del sistema dei trasporti e del servizio offerto al paese, che dia ragionevole certezza sulle prospettive, sui risultati, sulla permanenza nel tempo, sulle cose da fare e sulla loro fattibilità. Un Piano destinato a ri-posizionare in un quadro di interesse generale le proposte infrastrutturali sul tappeto, compresa la Torino-Lione. Per uscire dal vicolo cieco che accomuna oggi la Torino Lione a molte altre grandi infrastrutture in un quadro di endemica contestazione occorre:

1. Riprendere a Pianificare. Che significa governare l’intero sistema dei trasporti: agendo in maniera integrata e coerente sul comparto stradale e sul comparto ferroviario, sulle misure infrastrutturali e sulle misure regolamentari, sui trasporti per i passeggeri e quelli per le merci, sulle lunghe distanze, compresa la dimensione europea, e sui trasporti metropolitani e locali, ragionando in termini di rete piuttosto che di corridoio. Non è un compito facile; comporta una revisione coraggiosa delle opere in Legge obiettivo e riforme attese da anni, come la riforma delle concessionarie autostradali. Gli obiettivi da raggiungere con il nuovo PGTL e gli interventi necessari devono essere decisi dallo Stato con la partecipazione attiva delle Regioni e delle popolazioni interessate, utilizzando in modo trasparente e scientificamente appropriato gli strumenti di valutazione economica e ambientale, e lo strumento del Dibattito Pubblico. Il raggiungimento degli obiettivi deve essere adeguatamente monitorato nel tempo e il monitoraggio deve guidare la concreta attuazione delle strategie. La fattibilità e la realizzazione di qualunque nuova infrastruttura dovrà essere condizionata al raggiungimento degli obiettivi del nuovo Piano.

2. Mettere mano ad un vero Piano di trasferimento modale per il trasporto merci sul modello svizzero, integrando politiche per il trasporto stradale, la ferrovia, il trasporto marittimo, i terminali e le altre attrezzature per la logistica Non solo dal punto di vista delle infrastrutture ma delle regole per il governo della domanda e del sistema di incentivi/disincentivi, come la tassa commisurata alle prestazioni. Portare a coerenza le politiche di riequilibrio modale anche riformando, ove necessario, le logiche, oggi strettamente “aziendali”, dei promotori e dei gestori delle infrastrutture, in primo luogo quelle stradali e ferroviarie.

3. Decidere sul Piano dei trasporti e sugli interventi infrastrutturali e normativi che ne dovranno seguire solo dopo aver valutato in modo trasparente e partecipato costi e benefici, l’equità sociale della loro distribuzione tra i diversi territori e i diversi soggetti e aver assicurato, attraverso la Valutazione Ambientale Strategica e la VIA, la capacità del Piano e degli interventi previsti di raggiungere gli obiettivi ambientali sottoscritti con gli accordi nazionali e internazionali in materia di riduzione delle emissioni di CO2. di riduzione dell’inquinamento, di protezione della salute umana, di garanzia del buon funzionamento gli ecosistemi e di tutela della biodiversità.

4. Dibattere in modo pubblico e trasparente l’analisi costi-benefici che sarà presentata dal MIT sulla Torino-Lione, come non sta avvenendo sul Terzo Valico Milano-Genova. Ragionare sul metodo utilizzato, sui numeri, sugli scenari di traffico e l’evoluzione della domanda, sui costi, confrontando le alternative, verificando il contesto strategico e gli obiettivi generali. Al fine di coinvolgere cittadini e associazioni nel processo di partecipazione e mettere le istituzioni e i decisori nelle condizioni di assumere una scelta ponderata e trasparente.

Note

[1] Il Polo Mercitalia è composto da sette società. Mercitalia Logistics, Mercitalia Rail, Gruppo TX Logistik, Mercitalia Intermodal, Mercitalia Transport & Services, Mercitalia Shunting &Terminal e TERALP (Terminal AlpTransit).

[2] Cfr Corte dei Conti Europea - Relazione Speciale Il trasporto delle merci su rotaia nell’UE non è ancora sul giusto binario

[1] Ma il Conto nazionale dei trasporti, statistica ufficiale del MIT, indica per il 2016 una quota modale intorno al 12%.

Articolo pubblicato anche in Sbilanciamoci

ArcipelagoMilano.org, 5 febbraio 2019. Una legge dello stato consentirebbe di recuperare parte della rendita da trasformazione urbana a vantaggio della collettività. Ma è completamente disattesa. (m.b.)

Gli oneri urbanistici, come è ben noto, costituiscono lo strumento più adeguato per la tassazione delle rendite emergenti dalla trasformazione urbana e per fornire ai comuni le risorse per il miglioramento delle città: essi vengono imposti nel luogo e nel tempo in cui la rendita di trasformazione si manifesta nonché sotto la diretta responsabilità e il controllo delle amministrazioni pubbliche. Purtroppo gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività[1].

Fortunatamente, ma in modo inaspettato, una importante riforma degli oneri di urbanizzazione è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 17 del DL 12.9.2014 n. 133, cosiddetto “Sblocca Italia”, e integrata nel Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (DPR 6.6.2001 n. 380, art. 16(L) comma 4.d-ter): esso introduce, al di là degli oneri tradizionali per le urbanizzazioni, un “contributo straordinario” sul maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso (…) in misura non inferiore al 50%”[2]. Si tratta di una norma che finalmente e potenzialmente porta il paese nella schiera dei paesi avanzati e moderni, fortemente federalista e non ambigua. La critica che è stata mossa, di operare un aumento della già elevata tassazione generale o di infierire su un settore, quello edilizio, ancora toccato gravemente dalla crisi, non ha alcuna rilevanza economica: la disposizione opera su un “paradiso fiscale” moralmente illegittimo e iniquo rispetto ad altri settori produttivi e, quanto alla crisi – che è crisi di domanda e non di profittabilità del settore edilizio – essa anzi ne favorisce il superamento in quanto la tassazione viene utilizzata direttamente e totalmente per incrementare la domanda di opere pubbliche e infrastrutture, in un contesto che chiamerei win-win fra settore pubblico e privato.

Alcuni hanno poi subito rilevato che la materia urbanistica ed edilizia è soggetta alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (che nel testo del DL viene esplicitamente menzionata) e dunque allo Stato resta solo la possibilità di esprimersi su principi fondamentali. Tuttavia appare del tutto lecito affermare che proprio di un principio generale si tratti, confermato dal fatto che la legge dice esplicitamente che le Regioni possono intervenire solo sul quantum della ripartizione p/p e sulle modalità di versamento e utilizzo del contributo[3]. In mancanza di leggi regionali successive alla legge nazionale, si applica quest’ultima (comma 4bis e 5 del TU).

Dobbiamo dunque considerarci soddisfatti? Purtroppo la risposta non è positiva. E non mi riferisco solo al fatto che molte possibilità esistono ancora di correggere la norma e di ridurre in sede di valutazione i veri plusvalori; ma mi riferisco al fatto che una legge nazionale di principi sia stata, a quasi cinque anni di distanza, quasi totalmente disattesa nella pratica legislativa e attuativa. Nei primi tre anni di vigenza delle legge, essa è stata completamente ignorata dalle Regioni e dalla grandissima maggioranza dei Comuni (oltre che, ed è quasi peggio, dalla nostra “cultura” urbanistica), mentre nel successivo biennio le Regioni l’hanno per la massima parte depotenziata se non disconosciuta con provvedimenti ai limiti – e a mio avviso oltre i limiti – della legalità.

Ho recentemente avviato una raccolta delle decisioni legislative e regolamentari delle Regioni, ancora da completare e verificare, con risultati del tutto sconfortanti. Elenco qui di seguito alcuni principali risultati. Ad oggi mi sembra che le sole regioni che hanno legiferato in modo (quasi) appropriato siano la Liguria (LR 15/2017, con la percentuale del 50%), le Marche (LR 17/2015)[4] e il Piemonte con delibera di Giunta 8 febbraio 2016[5]. La Regione Toscana, con la L.R. 65/2014 aggiornata nel 2017, all’art. 184 afferma: «Con deliberazione della Giunta regionale (…) vengono definite altresì le modalità di attuazione delle disposizioni introdotte con l’articolo 16 del d.p.r. 380/2001» ma non aggiunge alcuna disposizione attuativa. I Comuni sono lasciati soli: alcuni non recepiscono la legge nazionale, altri ci provano con buona volontà definendo criteri propri, altri ancora vanno in senso contrario riducendo gli oneri attuali (Empoli). Un comportamento bizzarro e ambiguo. La Regione Umbria (L. R. 1/2015) cita un contributo straordinario (non quello della legge nazionale), ma lo lega, al di là di ogni immaginazione, alla “adesione volontaria da parte del proprietario alla applicazione di norme premiali”.

Indubitabilmente i peggiori comportamenti sono quelli di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Il Veneto, che comunque possiede un istituto abbastanza simile come il “prelievo perequativo”, dopo aver invano impugnato la norma statale di fronte alla Consulta per violazione delle competenze regionali[6], non ha mai legiferato in materia, lasciando l’incombenza a un pugno di comuni volenterosi. La Regione Lombardia con la LR 12/2005, aggiornata fino al 2017, non ha legiferato ma si è posta palesemente contra legem mantenendo, all’art. 103 comma 1, la dizione: «A seguito dell’entrata in vigore della presente legge cessa di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista: a) dagli articoli 4, 5,… 16, … del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380». Una norma palesemente illegittima. E il Comune di Milano si guarda bene dal seguire, come dovuto, la legge nazionale.

La Regione Emilia-Romagna, con la nuova legge urbanistica del dicembre 2017, si rimangia una sua circolare favorevole del 2014 e all’art. 8c1a afferma: «Il contributo straordinario di cui all’art. 16 …. non trova applicazione all’interno del territorio urbanizzato …». Seguono tre pagine di incentivi, sconti sugli standard, premialità volumetriche, riduzione «fino alla completa esenzione» di contributi di costruzione, assegnazione in diritto di superficie di aree pubbliche, abolizione di limiti di densità e di altezza, .…! Il tutto mi pare illegittimo, ridicolo e irresponsabile nei confronti della finanza locale.
Trovo queste posizioni, assecondate dal silenzio della cultura, inquietanti a voler essere minimalisti.

Mentre si moltiplicano le proposte di esperti e istituzioni a favore di una strategia opposta, di riduzione degli oneri per finalità di rilancio edilizio – proposte errate come ho già detto, ma anche totalmente inefficaci per la dimensione già omeopatica degli oneri attuali – si lasciano illanguidire le risorse pubbliche locali e con esse le possibilità di rilancio delle nostre città; e lo si fa disattendendo una legge nazionale e ponendosi, come amministratori, in una posizione oggettiva di procurato “danno erariale”.

Note

  1. Uno studio recente dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia ci indica che nel periodo 1950-2012 più di 2/3 dell’aumento del valore reale delle abitazioni è rappresentato dall’aumento del prezzo dei terreni, una percentuale che addirittura sale notevolmente nelle città maggiori.
  2. “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale (…) in relazione (…) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.”
  3. La stessa ANCE in una nota del marzo 2016 sul “contributo straordinario” afferma che “la possibilità di poter escludere totalmente la corresponsione di tale contributo non sembrerebbe ammessa”.
  4. Fra le novità del TU sull’Edilizia cui si riferisce, la LR non nomina il contributo straordinario né gli oneri, ma all’art. 3 afferma: «Per quanto non previsto, si applica la normativa statale vigente». Strano modo di acquisire.
  5. La delibera afferma anche che «in sede negoziale potrà essere prevista, quale alternativa al versamento finanziario, la cessione di aree o immobili», prevista dalla legge nazionale. Ma è chiaro che la cessione di aree non colpisce la rendita se i volumi edificabili restano uguali!
  6. Sentenza 68/2016. Si veda anche la conferma nel merito della legge nella sentenza della Consulta 209/2017, nonché nelle sentenze del Consiglio di Stato 4545 del 2010 sul caso pionieristico di Roma e del Tar del Veneto n. 692 del 2017.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

E' una rivista online open access di studi urbani per approfondire attraverso un approccio transdisciplinare le trasformazioni urbane, affrontando temi quali periferie, spazio pubblico, differenze, pratiche di riappropriazione/rigenerazione, politiche urbane, nuovi conflitti urbani, produzioni culturali e diseguaglianze. Qui il link (i.b.)

Recensione al libro «Housing for Degrowth» che parte da una giusta critica della predominante narrazione di un abitare che consuma suolo, sempre più carente di spazi pubblici, e comunque incapace di soddisfare la domanda di persone in balia di un mercato del lavoro selvaggio. (m.p.r.)

Il libro uscito qualche mese fa affronta «le principali sfide dell'abitare: alloggi inaccessibili, insostenibili e anti-sociali» sostenendo la ristrutturazione piuttosto che la demolizione e affrontando le controversie sull'urbanizzazione del dibattito interno al movimento della decrescita, sul decentramento e sul localismo.
Sulla critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente si veda di Ilaria Boniburini Letture sulla decrescita. Sul diritto alla città si veda di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano, La città non è solo un affare. Su eddyburg altri articoli sono raggiungibili digitando nel "cerca" la parola "decrescita". (m.p.r.)

Casa dolce casa. Di proprietà, in un quartiere per bene, col videocitofono e di giorno il portiere. Balcone, terrazzo, ma - osiamo! - un giardino col prato curato. Siepe, muretto e porta sicura per blindarsi al riparo da sguardi indiscreti a guardare qualcosa di discreto in tv. Posteggio comodo davanti al portone, box o posto auto per il suv di famiglia - chiaramente, s’intende, padre, madre e figli biondi.

Così appare l’abitare proposto dalle pubblicità di mutui e assicurazioni, serie televisive, romanzi e riviste patinate. Un sogno da realizzare? Non per gli autori e le autrici del libro Housing for Degrowth (Abitare per la decrescita, Routledge, 2018, a cura di Anitra Nelson e François Schneider). Questo modello viene denunciato come la narrazione dell’abitare in una società della crescita: una narrazione, cioè, utile solo a far andare avanti l'economia, ossia a giustificare affari e profitti (monetari, per pochi) ad ogni costo (sociale, economico e ambientale, da sobbarcarci tutti/e).

In Italia (ma non solo) questa narrazione è servita a industrializzare il Paese nel dopoguerra, col settore edilizio motore trainante del celebre boom economico e con la presunta solidità del mattone protagonista indiscussa dei risparmi di operai, imprenditori e travet. Ma i giovani d’oggi sono sempre più poveri e più anziani di quelli degli anni ‘60: con la sparizione dell’edilizia pubblica e la precarizzazione del lavoro, questa narrazione dell’abitare assume contorni diversi, e non sembra in fondo poi tanto auspicabile.

Non a livello individuale: un po’ perché anche chi sembra emanciparsi dall’affitto o da altre forme di abitare precario s’ingabbia nel meccanismo del debito e del lavoro ai tempi del Jobs Act (salvo lasciti di famiglia, deve cioè rimanere senza sosta e a qualsiasi condizione nel selvaggio mercato del lavoro pur di ripagare il mutuo senza farsi confiscare l’agognata casa) e un po’ perché sempre più spesso obbliga a passare buona parte della vita nel traffico di un abitacolo o su inesistenti mezzi pubblici per raggiungere e vivere nei luoghi né urbani né rurali delle nuove urbanizzazioni incontrollate - senza servizi e senza spazi pubblici così come senza i pregi di una vera campagna. Certo, a quel punto la casa può apparire un miraggio, il divano una culla, in cui anestetizzarsi dopo una giornata di stress e di lavoro. Ma a quale prezzo?

Se non è auspicabile a livello individuale, questa narrazione dell’abitare lo è tantomeno a livello collettivo: consuma suolo fertile a ritmi spaventosi coprendolo di cemento (spesso, tra l’altro, “tagliato” con i rifiuti cremati negli inceneritori), frammenta ecosistemi umani e non umani e contribuisce alla crisi ecologica generale (dunque anche sanitaria) col taglio di vegetazione, l’uso di risorse scarse e il rilascio di emissioni durante la costruzione, per il riscaldamento e attraverso gli oggetti acquisiti a riempire sempre più transitoriamente lo spazio. Il tutto senza risolvere minimamente le emergenze abitative delle città.

D'altra parte, infatti, la città storica viene smantellata, usata come oggetto di investimento finanziario ed estrazione di profitto, subisce gentrificazione, turistificazione, disneyficazione, da Lisbona a Venezia, da Palma a Barcellona.

Come si può di fronte a tutto questo costruire una narrazione alternativa? È questo il principale compito che il libro si pone, unendo i puntini di esperienze che già tentano di andare oltre il modello dominante del “produci, consuma, crepa”, inserendole nel dibattito sulla decrescita - l'idea che non solo in un pianeta limitato non si può crescere all’infinito, ma che, ridistribuendo ricchezza, lavoro e risorse si può vivere meglio tutti/e anche con meno: liberandosi dall’ossessione per la crescita e dalla corsa alla produzione, al possesso e al consumo di merci (e dallo sfruttamento, dalla frustrazione e dall’inquinamento che ciò comporta), è possibile infatti ristabilire una società più equa ed ecologicamente sostenibile (Rif. www.decrescita.it, www.decrescitafelice.it).

Organizzato in sette parti e in venti capitoli firmati da un paio di dozzine di penne, il libro affronta questa sfida con una grande varietà di contributi su proposte nella maggior parte dei casi concretamente esistenti, seppur sperimentate per ora solo in piccola scala. Abitare in un’ottica ‘decrescente’ significa quindi affrontare le sfide chiave di un abitare che è oggi, come chiariscono da subito i curatori, “spesso inaccessibile, insostenibile e antisociale”. Si parla di forme di vita collettiva, in cui l’abitare diventa il primo passo di un modo diverso di relazionarsi con la società e con la sua economia e di ricostruire comunità, ripensando vari aspetti del quotidiano, ivi compresi il lavoro e gli spazi pubblici. Da Roma a Barcellona, da Christiania a Copenaghen fino a Bangalore in India, vengono presentate esperienze di resistenza urbana e non (Elisabeth S. Olsen, Marco Orefice e Giovanni Pietrangeli; Claudio Cattaneo; Natasha Verco; Mara Ferreri; Lina Hurlin; Anitra Nelson): dal diritto alla città al diritto al metabolismo (ossia i flussi, spesso suddivisi in maniera iniqua, di energia, materiali e rifiuti), dall’auto-ristrutturazione di case popolari alle occupazioni di stabili abbandonati che mettono insieme città e campagna, da forme di co-abitazione eco-collaborativa fino ad esperimenti di vita non monetaria e di proprietà collettiva.

Di fronte al suolo sempre meno disponibile e agli impatti sociali e ambientali di case grandi, un’altra proposta è rappresentata ad esempio da un possibile limite massimo di superficie abitativa pro capite socialmente accettabile (Harpa Stefandottir e Jin Xue). Hans Widmer, François Schneider e Ted Trainer propongono nei loro capitoli dei modelli di organizzazione territoriale del mondo a partire di piccoli quartieri e paesi compatti di circa 500 abitanti con “grandi opportunità di differenziazione personale e iniziative collettive di festa” che ci offrono delle visioni di un bel mondo altro. Mentre questa proposta è utopica a livello globale, alcuni quartieri funzionanti secondo questi principi in Svizzera esistono, testimoniando livelli interessanti di vitalità urbana

In alcuni capitoli (Jin Xue; Aaron Vantsintjan; Andreas Exner; Karl Krähmer; etc.) si snoda poi un dibattito sulla questione città vs. campagna. Sarà più sostenibile e democratico un sistema territoriale organizzato attorno a delle città dense e compatte o dovremmo piuttosto pensare a un futuro di ecovillaggi? Di sicuro non possiamo ignorare la necessità di porre un freno all’inesorabile penetrazione delle città nelle campagne - garantendo uno spazio vitale per la produzione del cibo e per la rigenerazione ecologica essenziale tanto per la biodiversità che per la nostra salute. Anche pensando a forme abitative e materiali edili più sostenibili e a noi più congeniali, non possiamo non considerare ciò che già abbiamo di costruito e ancora utilizzabile, dai tanti quartieri urbani sottopopolati fino agli innumerevoli insediamenti rurali o montani in via di spopolamento.

Forse potremmo concludere che la risposta alla domanda di qualche riga fa potrebbe semplicemente essere “dipende”: non è una scelta da fare in astratto e in generale, non può prescindere cioè dal singolo luogo o territorio e da chi lo vive interrogandosi sul suo futuro. Una scelta che forse può portare a città compatte tanto quanto a (eco)villaggi legati a una campagna che produce cibo localmente e in modo ecologico, però difficilmente potrà includere l’urbanizzazione diffusa organizzata attorno a villette, centri commerciali e svincoli autostradali che dal possesso individuale dell’automobile difficilmente potranno prescindere e la cui trasformazione ci pone una delle sfide maggiori.

La proposta politica dei curatori è infine quella del localismo aperto (‘Open Localism’) - vale a dire riconoscere un maggior rilievo e una maggiore autonomia ai singoli territori, ma senza rinchiudersi di fronte all'altro, senza rifuggire il dialogo ma anzi aprendosi al diverso (attenzione, dunque, stiamo parlando dell’esatto opposto del sovranismo).

Tutti questi esempi non sono forse nuovi se presi singolarmente. Il merito del libro è quello di metterli insieme e di dimostrare come ogni proposta da sola rischia di essere cooptata dalle forze del mercato. Senza separare la questione sociale da quella ecologica, il volume “Housing for Degrowth” (con le sue sette presentazioni italiane con università, associazioni e movimenti già avvenute a Trieste, Venezia, Torino e Roma) apre quello che consideriamo un esercizio pratico per un dibattito fondamentale: riconoscere in queste esperienze un denominatore comune per iniziare finalmente a costruire insieme una storia diversa, una storia nuova, a partire dalle vertenze esistenti nelle nostre città.

Materiale aggiuntivo (in inglese):
Il sito web ufficiale del libro
Il blog del tour di presentazione in treno/bici
Il sito web della curatrice Anitra Nelson

1 febbraio 2019 - Cronaca dal fronte di Nicoletta Dosio, da oltre 25 anni in prima linea con il Movimento no Tav:

Saliamo verso Chiomonte in un paesaggio che sa di presepio e d’infanzia. Cade la neve a ricoprire le ferite di questa terra martoriata e tutto è silenzio, incanto di luoghi incontaminati, dove anche i ruderi, i cumuli di detriti, sembrano costruzioni fantastiche, segreti di natura.

Ma oltre il ponte, a sbarrare l’accesso ai cancelli della Centrale, ci sono, più anacronistici che mai, gli uomini in arme di sempre.

All’improvviso, evidentemente in omaggio al “ministro col manganello”, partono contro di noi quelle i mass media definiranno con singolare metafora “cariche di alleggerimento”: colpi di scudo e manganellate, calcioni a tradimento.

Il ministro non lo vediamo: è ad almeno due chilometri di distanza, in visita al buco del maxi-sondaggio che egli, spalleggiato dai mass media di regime e dal partito trasversale degli affari, continua a chiamare indebitamente “ inizio del tunnel di base”, per dire che la Grande Opera è cominciata, che “il dado è tratto” e non si tornerà indietro, pena il presunto (e non veritiero) pagamento di salatissime penali.

Dagli smartphone ci giungono discorsi e immagini: a far corona al ministro appaiono berretti gallonati e, al suo fianco, ad illustrare le magnifiche sorti e progressive della Grande Opera, ecco le solite triste figure, i crociati del TAV, i boiardi del Mercato, i Gattopardi del “che tutto cambi perché nulla cambi”, che osano parlare di necessità di tutelare ambiente e salute, mentre portano avanti inquinamento e devastazione.

Quando riprendiamo la via del ritorno, il ministro è ormai lontano.
Intorno a noi gli alberi si piegano sotto il cumulo della neve che continua a cadere fitta.

Poco lontano da qui c’è il confine della Francia verso cui si inerpicano le rotte di chi espatria, i migranti di sempre, in fuga dalla fame e dalla guerra, dietro una speranza di emancipazione. Questa neve, così bella e dolce per noi, può diventare per loro la tomba da cui riemergeranno al disgelo: così, lo scorso anno hanno trovato la morte Mamadou, la dolce Blessing.

Il sistema spietato che, con i suoi governi vecchi e nuovi, condanna i territori a morire di grandi male opere in nome della libera circolazione di capitali, eserciti, merci, è lo che stesso innalza frontiere davanti a chi fugge dalla guerra e dalla fame.

Noi lo sappiamo bene, perciò la nostra lotta non può che essere solidale e complessiva: il vero antidoto al mondo della guerra tra poveri cui vorrebbe ridurci il comune oppressore.

il Fatto Quotidiano, 1 Febbraio 2019. Qui tutte le questioni aperte a Venezia: turismo, residenza, cambi di destinazione d'uso, inquinamento di aria e acqua, grandi opere, e il grande assente, il Piano Morfologico della Laguna, che tutto questo avrebbe dovuto contribuire a regolare. (m.p.r.)

Banfi o non Banfi, l’Unesco è un ente serio: a giugno la conferenza annuale a Baku dovrà decidere se annoverare Venezia tra i “Patrimoni dell’Umanità in pericolo” (insieme ad Aleppo e Leptis Magna) per il mancato rispetto delle raccomandazioni esposte in un denso studio del 2015, degno emulo del Rapporto Unesco su Venezia uscito giusto 50 anni fa. In tempi recenti, Vienna e Liverpool sono state retrocesse per molto meno, per singoli progetti edilizi discutibili: a Venezia, è tutta la gestione della città ad andare nel senso sbagliato, come denunciano in un imminente e-book Giuseppe Tattara, Roberta Bartoloni, Gianni Fabbri e Franco Migliorini, autori anche di un libretto dal titolo Governare il turismo.
Proprio sul turismo, l’amministrazione Brugnaro sembra voler far cassa e confondere le acque: la “tassa di sbarco”, da applicare chissà come ai singoli avventori, mentre si poteva semmai agire sulle agenzie e sui gruppi; le campagne di manifesti per il decoro urbano e i tornelli giù dal ponte di Calatrava, del tutto inefficaci; altri 9.000 posti-letto nuovi di zecca a Mestre, che vanno ad aggiungersi ai 7.500 già esistenti e ai 37.500 complessivi (a spanne) della città storica. Si poteva intraprendere invece una regolamentazione (anche di Airbnb) come a Parigi, Barcellona, Amsterdam, e varare un sistema di prenotazioni gratuito online atto a contenere gli escursionisti giornalieri, che sono ormai i 2/3 dei visitatori e costano più di quanto rendano.

Intanto, continuano i cambi di destinazione d’uso degli immobili (pratica deleteria iniziata con le giunte Cacciari degli anni 90); più del 70% degli acquisti di case a Venezia sono fatti da non residenti (muoiono così i negozi di vicinato, intere aree della città si spopolano e si dimezzano i posti-letto all’ospedale); vengono osteggiate le esperienze associative dal basso, come la colletta per una gestione condivisa dell’isola di Poveglia o la co-gestione partecipata dell’ex teatro anatomico della Vida in Campo San Giacomo (in quest’ultimo caso, lo sgombero è addirittura avvenuto con la forza pubblica contro artisti e passeggini).

Peggio va per le arie (inquinate quanto quelle di Padova) e soprattutto per le acque: al Lido si posa l’ultima paratoia del Mose (assurdo mastodonte che, come la stessa Unesco ventila, si rivelerà inutile a fronte dell’innalzamento dei mari), nei canali si fa ben poco per regolare la velocità dei natanti a motore (pochissime le multe) e in Laguna si tengono le Grandi Navi, che da anni continuano a passare dinanzi a Palazzo Ducale in spregio alle dichiarazioni dei politici e – così un dettagliato studio di Tattara – alla stessa convenienza economica della città. Ora le si vuole dirottare nella prima zona industriale di Marghera (un luogo, per inciso, tutto da bonificare, prima di una fantomatica “riconversione”), facendole passare nel Canale dei Petroli e nel Canale Vittorio Emanuele III, i quali andranno entrambi scavati fino ad arrivare a 260 metri di ampiezza, e consolidati con argini di pietra solidi e irreversibili. Una decisione, questa, che, oltre a generare prevedibili difficoltà di ingorgo e rischi di collisione con le navi merci, taglierà definitivamente in due la Laguna asportando 7-8 milioni di metri cubi di sedimenti e approfondendo i noti e riconosciuti danni idrogeologici causati dagli scavi dei canali degli anni 60.

Secondo Stefano Boato, per anni anima della Commissione di Salvaguardia, le delibere comunali in questo senso (al pari di quelle che varano la seconda pista dell’aeroporto di Tessera, tramite l’interramento di pezzi di Laguna) sarebbero senza mezzi termini illegittime (pare che lo stesso ministro Costa abbia chiesto chiarimenti): di certo, il dossier Unesco del 2015 chiedeva l’opposto.

A oggi manca ancora il Piano morfologico della Laguna richiesto a gran voce dall’Unesco: nel 2018 la Commissione Vas ministeriale ha bocciato quello partorito dal Corila (l’apposito organo del Consorzio Venezia Nuova, travolto dallo scandalo Mose ma recentemente rifinanziato e di nuovo pronto a elargire i suoi denari a università e centri studi), le cui mostruosità furono denunciate, per tempo e nel dettaglio, da Italia Nostra e dalla sua presidente Lidia Fersuoch. Per le Grandi Navi una prima soluzione – ventilata dallo stesso rapporto Unesco del 2015 – ci sarebbe: la creazione di un apposito terminal off-shore, auspicato da anni dai veneziani più avveduti sulla base di dettagliati progetti che hanno avuto anche l’assenso della commissione Via.

In uno scenario che assomiglia a quello prefigurato da Vittorio Gregotti vent’anni fa (“gestire la ricca decadenza come fenomeno turistico”), scompare la Repubblica fondata sul rispetto e il governo delle sue acque e sulla gestione sapiente delle problematiche sociali; sembra non si voglia cogliere l’opportunità di creare (decisivo, in questo senso, il destino ancora incerto dell’Arsenale) una nuova “città della conoscenza” che non si risolva nella portaerei della Biennale ma porti ricercatori e studiosi di mare, di arte, di lingue, di futuro a stabilirsi qui per periodi medio-lunghi, ridando fiato a una residenzialità che non sia d’assalto.

È questo il sogno che ancora tenacemente coltiva, dalla sua casa di Campo Santa Margherita, uno dei massimi urbanisti italiani, il novantenne Edoardo Salzano, animatore del prezioso sito eddyburg.it e protagonista delle pagine finali, e più commoventi, di Non è triste Venezia di Francesco Erbani (Manni 2018).

Tratto da Il Fatto Quotidiano.

Continua il percorso dei comitati e movimenti ambientalisti italiani contro le grandi opere inutili, per una giustizia ambientale, che rimetta al centro dell’azione la difesa, la messa in sicurezza dei territori, i diritti degli abitanti. Qui il contributo dal Veneto (i.b.)

"Un clima rivoluzionario" é il contributo scritto portato dei comitati veneti sul rapporto tra grandi opere e giustizia climatica alla quarta Assemblea Nazionale dei comitati e movimenti ambientalisti italiani, che oggi, 26 gennaio si riunisce a Roma, ospitata dagli studenti de La sapienza di Roma, presso la Facoltà di Lettere.

Su questo importante percorso intrapreso dai comitati si legga su eddyburg: "Manifestazione Nazionale contro le grandi opere e la giustizia ambientale" .

Questo l'appello di convocazione della Quarta Assemblea dei comitati contro le grandi opere inutili e i movimenti per la giustizia ambientale:
A tutti i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per una nuova stagione di giustizia ambientale e la salvaguardia del Pianeta.

Ci siamo ritrovati a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Tutte e tutti abbiamo accolto una sfida, quella di portare a Roma il prossimo 23 marzo la nostra voce ed un nuovo messaggio. Un messaggio che ribadisca la necessità di farla finita con il modello di sviluppo legato alle grandi opere inutili e dannose: una tragedia per l’ambiente, un furto di denaro pubblico per interessi di pochi, una manna per i corrotti, con progetti e cantieri che, in barba alla volontà popolare, vengono imposti manu militari, reprimendo il dissenso.

Porteremo le nostre valutazioni sul “governo del cambiamento“ che mentre tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, ha fatto chiara retromarcia su tutte le altre opere e gli altri territori: Il TAV 3° Valico, il TAP, le Grandi Navi ed il MOSE a Venezia, l’ILVA a Taranto,le autorizzazioni a cercare idrocarburi nello Ionio, in Adriatico, in Sicilia ed il rischio di rilascio di numerose concessioni on shore, Il MUOS in Sicilia e così via.

Dovremo esprimere un punto di vista chiaro su ciò di cui il nostro Paese ha davvero bisogno, facendola finita con le grandi opere inutili, per avviare un percorso unanime e virtuoso di programmi concreti a favore delle vere necessità del popolo e dei territori, mettendo al primo posto la cura e la messa in sicurezza del territorio, le bonifiche, piccole opere necessarie a vivere meglio ed in grado di dare lavoro diffuso e garantito, buona sanità, servizi adeguati, scuola pubblica ed università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, sanità e pensioni decorose, una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

L’ultimo rapporto IPCC indica che le emissioni vanno ridotte subito, altrimenti nel 2040 avremo già superato la soglia di sicurezza del riscaldamento globale di 1,5°C.

Affronteremo la crisi climatica che è collegata al modello di sviluppo attuale che ha già fatto troppi danni. Assistiamo ai continui fallimenti delle COP governative (l’ultima a Katowice, in Polonia, pochi mesi fa) e siamo consapevoli che solo un grande movimento può cambiare il corso di questa catastrofe climatica che si aggrava di anno in anno.

Molto si può e si deve fare!

Solo rinunciando da subito al carbone, agli inceneritori, alla combustione di biomasse, alla geotermia elettrica, agli agrocombustibili; solo riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili, del gas anch’esso climalterante; solo praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e di mercato, abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose, finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali), si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta degli effetti climalteranti, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto.

E’ urgente imporre un cambio di rotta rispetto all’attuale paradigma energetico e produttivo, per il diritto al clima ed alla giustizia climatica, per favorire cooperazione e sviluppo scientifico al servizio del valore d’uso.

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

Sosteniamo che questa transizione ecologica indispensabile la debbano pagare i detentori di capitale, i grandi gruppi finanziari, le élite che negli ultimi anni hanno approfittato della crisi per arricchirsi riservando alle persone e ai territori solo la ricetta dell’austerità e la distrazione di massa della guerra tra poveri, mettendo l’uno contro l’altro, alimentando la disinformazione.

Assieme al NO , la nostra piazza sarà capace di trasmettere l’urgente necessità di cambiamento della società a fronte del modello capitalistico che distrugge convivenza ed ecosistema.

Siamo consapevoli che ad oggi nessun governo, tanto meno quello in carica, ha mostrato di avere le condizioni per poter realizzare quello che vogliamo e che necessita per far sopravvivere il pianeta.

A fronte delle emergenze reali che chiamiamo in causa, chi ha il potere è impegnato a soffiare sul fuoco del razzismo, del sessismo e dell’autoritarismo, alimentando, con costante opera di manipolazione mediatica, nuove forme di desolidarizzazione ed oscurantismo.

Discuteremo di come costruire un movimento, uno spazio pubblico aperto che in tante e tanti stiamo cercando per trasformare la società, il modo in cui si guarda alla vita dei territori, per decidere insieme il nostro futuro, per iniziare un cammino di giustizia ambientale, che non può più aspettare.

La manifestazione di Roma, il prossimo 23 marzo, sarà un passo importantissimo in questa direzione. Prepariamolo assieme!

Eccoci, il nuovo anno è partito! Nella capitale europea della cultura si vive uno straordinario presente e si guarda al futuro, come ci racconta un'urbanista materana. (m.b)
Eccoci, il nuovo anno è partito! Per noi materani è cominciato il 19 gennaio scorso con la cerimonia inaugurale che ci ha messo ufficialmente sotto i riflettori dell’Italia, dell’Europa… Finora tanto è stato compiuto e verrà portato alla prova dei fatti, molto è ancora in cantiere e verrà portato a compimento nel corso di quest’anno solare e si vedrà cosa passerà a pieni voti e cosa no.
La sera della cerimonia di apertura
Ma facciamo un po' di storia di quanto accaduto in questi ultimi anni. Riprendendo il Dossier di candidatura a capitale europea della cultura (a cura del Comitato oggi Fondazione Matera-Basilicata 2019), si ha già questa visione, quella di far emergere il meglio dalla nostra comunità, di metterla in connessione, di darle opportunità, di mettere in luce quanto finora era rimasto in ombra.
Come diceva Nicola Lagioia qualche giorno fa su Repubblica, quando i commissari europei sono venuti di persona a valutare la candidatura (nel 2014), questi non sono stati ospitati nelle solite strutture alberghiere, ma adottati da famiglie locali, hanno pranzato con noi. E si è continuato su questa linea: sabato scorso i 2019 musicisti di bande europee erano gemellate a bande lucane e hanno dormito in strutture di quartiere (a cominciare da scuole e parrocchie dell’intera Regione) e quando a Matera la festa è cominciata, questi hanno animato l’intera città a cominciare dalle strade di periferia e, di nuovo, a pranzo, è stata la comunità nella veste di “volontari” a dispensare loro cibo e bevande, nelle piazze, nelle scuole, in luoghi pubblici che appartengono a Matera: momenti unici di convivialità, conoscenza reciproca, entrata in sintonia. Quello della candidatura di Matera a capitale della cultura per il 2019 è stato ed è questo: un processo di ascolto, un processo aperto, un processo che ha chiesto e che chiede, in un periodo di cambiamento e consapevolezza per la città, dove vuole andare e a cosa aspiri.
C’è stato anche un periodo semi buio, di non dialogo e mancata comprensione tra la vecchia amministrazione (sindaco Salvatore Adduce) che era stata promotrice di tutto ciò sino a vedersi giudicare il titolo (17/10/2014) e la nuova (da giugno 2015 in campo, con Raffello De Ruggieri sindaco) con la Fondazione; ad oggi, a mio avviso, scontiamo queste diverse identità di veduta e quindi questi ritardi, che vedono ancora impreparata la città a livello infrastrutturale, con molti cantieri aperti e livello di organizzazione non certo impeccabile, di cui è responsabile però una pubblica amministrazione che negli ultimi decenni a Matera non ha saputo di certo ben pianificare il bene e l’interesse pubblico, ma piuttosto quello privato, che vede ormai una città sformata, irriconoscibile da quella che Quaroni, Aymonino, De Carlo avevano saputo creare alla fine degli anni Sessanta. Ma su questo tema ci concederemo un’altra riflessione nei mesi a venire.
Tornando a Matera nel 2019, altro punto assolutamente positivo, nella gestione del processo e quindi della programmazione culturale, è stato mettere al centro di ciò 27 realtà associative locali (con sedi in tutta la regione) che già da tempo si occupano di musica, teatro, sport, turismo… le quali hanno passato una selezione e con la Fondazione hanno costruito un progetto fatto di diversi step e momenti performativi, cominciati già nell’anno precedente (crush-test) e che nel 2019 vedranno quelli finali, che attraverso tanti partner internazionali costituiranno momenti di crescita inauditi, da sedimentare qui e ora anzitutto!
Per concludere, il progetto pilastro per MT2019 è l’open design school, a cui ho partecipato personalmente agli inizi del 2018 in un workshop di mappatura per quattro mesi (mappatura dei luoghi per ospitare gli eventi nel corso del 2019, di cui consiglio l'approfondimento). L’ODS è una fucina di idee, è una scuola in cui tutti sono al contempo insegnanti e studenti, è un laboratorio dove l’apprendimento è reciproco in un continuo processo di scambio creativo tra scienze, arte e tecnologia, in cui ci sono un terzo di partecipanti locali, un terzo nazionali e un terzo che viene dal resto del mondo che dà modo di scambiare di continuo conoscenze, modi di pensare e di fare. La teoria Open si fa pratica! Qui si sono progettate le strutture che hanno cominciato ad allestire la città, strutture versatili (open structure), che verranno smontate e rimontate per divenire palchi, panche, appoggi, supporti, co-creati con la comunità e non affittate e semplicemente importate. Saperi che resteranno in città, che stanno insegnando tanto e che avranno vita anche oltre il 2019! (Se ne consiglia un approfondimento, nel sito della ODS) .
Per ora le impressioni sono solo positive, Matera sta guidando se stessa in maniera aperta e inclusiva, sta producendo conoscenza e bellezza, sta incarnando appieno la voglia di un riscatto sociale, e lo sta facendo in modo partecipato sviluppando una coscienza di luogo che senza dimenticare il suo passato, ne trae insegnamento, ma guarda altrove, guarda al futuro, guarda all’Europa!
Nota. Nel sito ufficiale è consultabile il programma culturale.

Un ampio articolo sui conflitti a Venezia e nella sua Laguna, e della resistenza dei sui abitanti alla turistificazione, mercificazione, svendita e al degrado fisico, politico, sociale e ambientale. Prende spunto da due libri recenti "La Venezia che vorrei" curato da Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo e "Non è triste Venezia" di Francesco Erbani. Qui il link. (i.b.)

Esistono economie civili e solidali che sappiano dialogare fecondamente con i luoghi? L’ultimo numero di Scienze del territorio, curato da Giuseppe Dematteis e Alberto Magnaghi, raccoglie un quadro assai articolato di “riflessioni, azioni, esperienze, progetti di ciò che già adesso sono le economie territoriali del bene comune”. Si può leggere qui. (m.b.)

Scienze del territorio, rivista di studi territorialisti
Le economie del territorio bene comune
n. 6/2018
Firenze University Press

arcipelagomilano.org, 14 gennaio 2019.
La Storia si ripete puntualmente, la Storia non insegna. (m.c.g.)

Quando al principio del nuovo secolo gli studiosi attenti ai cambiamenti delle relazioni fra l’urbanistica, l’economia e i proprietari fondiari ammonirono che la disciplina era entrata a pieno titolo nel libero mercato come qualsiasi altra merce, dovevano sapere che essa nel secolo breve apparteneva già in qualche modo al mercato. Anzi, in un processo alla rovescia era il mercato a essersi introdotto nell’urbanistica poiché lì c’erano territorio (terreni), piano (progetti), regole (eccezioni)… Con altre parole: la nuova condizione proveniva da lontano. Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta amministratori pubblici e urbanisti, spregiudicati gli uni e gli altri, ritenevano ordinaria utilità proporre a imprenditori e a proprietari di aree destinate a verde pubblico dal piano regolatore la cessione di metà della superficie vincolata, concedendogli sull’altra una cubatura da calcolare, da contrattare, magari fino al limite massimo implicante l’intera area secondo l’indice di edificazione previsto per la zona. Sicché la densità di costruzione sarebbe risultata doppia nella parte neo-edificabile privilegiata, per di più beneficata dalla presenza del confinante verde pubblico. Secondo loro non esisteva altra possibilità di realizzare giardini comunali, ancorché dimezzati rispetto alle previsioni.

Era una negoziazione sui generis, fra persone appartate ignote alla vita della città; originale vocazione proveniente da germi corruttivi già presenti allora nei partiti. Ad ogni modo non era caso di mercato «libero»; mancava la concorrenza stante la preesistenza della proprietà immobile o, nel caso dell’imprenditore, il legame con la proprietà e talora la collusiva alleanza precostituita con l’amministrazione pubblica. Tuttavia, quando questa vecchia maniera di mercanteggiare si allargava ai diversi quadranti della città poteva nascere un vero commercio urbano contraddistinto da una specifica situazione topografica e fondiaria, una specie di gara (quasi-concorrenza) delle proprietà vincolate e relative imprenditorie: per ottenere la priorità del contratto fra cessione del fondo e «diritto di cubatura», se così si può dire. Quale tramestio, inoltre, poteva nascondersi fra le quinte di tale rappresentazione con attori privati e pubblici?
In seguito il mercantilismo, se non il mercato come lo si intende oggi (anche in modo capzioso), ha dominato il territorio e il relativo pensiero comprendente derivati economici, urbanistici, edilizi (come nei famigerati titoli finanziari) gravidi di squassanti conseguenze sui rapporti sociali. La vittoria degli immobiliaristi e della rendita non fu messa in discussione neppure da un certa ripresa del profitto (anni dopo la sconfitta causata dal contratto all’Alfa Romeo del 1963), né da qualche infortunio nella speculazione finanziaria del minus habens fra quelli.
Mercato concorrenziale o monopolistico o oligopolistico, oppure offerto ai mercanti dalla stessa autorità pubblica, la compravendita si estendeva all’intero suolo nazionale. Si impiega (o si dovrebbe impiegare) il termine «libero», nel significato di aperto confronto fra domanda e offerta, di chiara trattativa in ogni specie di possibile scambio, materiali o prestazioni, corpi o anime quando niente di esterno la ostacoli o nessuna autority ne detti qualche regola a difesa di eventuali compratori deboli. Era dunque un’altra cosa il mercato del e nel territorio di allora? Un mercato bloccato? Non lo era, bloccato, se ha potuto esprimersi attraverso la gigantesca ampiezza che conosciamo; tanto, appunto, da costituire quasi in ogni anno dal dopoguerra la fetta maggiore o comunque troppo grossa della torta degli investimenti totali.

Qualche impedimento alla privatizzazione liberista e conseguente sottrazione della terra nazionale alla società dei cittadini esisteva al tempo (quasi preistoria) di un relativo funzionamento anti-speculativo dei demani (terreni e costruzioni civili). Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, quasi per naturale contraddizione rispetto ai comportamenti disonesti, fu approvato qualche Piano regolatore contenente aree di riserva demaniale, cioè intoccabili. Poi un precipizio si è aperto in questa resistita crosta; amministratori e politici intossicati dal bacillo liberista vi gettarono i beni patrimoniali della collettività insieme al proprio doppio dovere: di osservatori critici del mercato privato urbanistico-edilizio e di promotori e attori del progetto pubblico. Del resto negli anni Trenta le amministrazioni milanesi avevano ceduto buona parte del ricco demanio fondiario a gerarchi fascisti, a imprenditori amici, a finanzieri speculatori.
Dunque oggi niente di nuovo sul fronte nazionale dopo il Novecento e l’avvento del secondo millennio? Eh, purtroppo una novità spaventevole. Il neo-liberismo non vige soltanto nella realtà del territorio e nella gestione urbanistica di molti comuni e regioni. Il mercato «libero liberista libertario» del territorio e della stessa pianificazione (come, da prima, processo edilizio e progettazione architettonica) è diventato pensiero duro e forte fissato come una spessa piastra di titanio nel cervello dei politici e degli amministratori pubblici, mentre si conformava come profondo basamento e impenetrabile diaframma delle postazioni tenute dai rappresentanti della sinistra e degli urbanisti a loro collegati (succubi o maestri …). La negoziazione, vantata per prima dalla proposta del ciellino milanese Maurizio Lupi, assessore nella giunta del sindaco Gabriele Albertini (1997-2006), rilanciata inopinatamente dall’Istituto nazionale di urbanistica, non avrà bisogno di appartenere a un nuova legge approvata dal parlamento. Una pragmatica abitudine di enti pubblici e società private a contrattare fuor di ogni legittimazione democratica si consoliderà attraverso una miriade di episodi susseguitisi sempre più velocemente e costituirà essa la riforma legislativa dell’urbanistica.
A partire dalla vecchia madre di tutti gli accordi, la grande espansione di Milano sui terreni della Bicocca (chi avrebbe potuto immaginarla prima?) concessa da un sindaco a un «padrone delle ferriere» deciso a passare dal dovere capitalistico del profitto alla pacchia possessoria della rendita fondiaria, l’applicazione della nuova urbanistica privata intaccherà man mano ben più malamente città e territori. E cagionerà la trasformazione culturale anche dell’ultima classe resistente di intellettuali, in senso opposto ai bisogni e diritti della maggioranza dei cittadini, vale a dire della società tout court: termine sentimentale proveniente dall’analisi sociale dei maestri del socialismo. Un punto d’arrivo tanto più sorprendente del punto di partenza sarà impiantato a Bologna, la città leggendaria per i risultati ammirevoli raggiunti al suo tempo nella pianificazione pubblica, con realizzazioni esemplari anche a scala di piano particolareggiato.
Ah! Il famoso modello bolognese. Gli amministratori pubblici lo hanno capovolto in armonia con un’esagerazione masochistica dichiarata: la pianificazione e tutti i progetti siano alienati ai padroni della rendita fondiaria e della produzione edilizia, l’ente pubblico anticiperà l’approvazione e il supporto, magari oneroso. Così siamo pervenuti a un intreccio culturale ultraliberista, letteralmente reazionario. Parafrasando Marx: assistiamo a nuovi trionfi dei signori della terra, del capitale, della spada sui cittadini (vedi M. Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, Einaudi 2018, p.122, IV capoverso).

Intanto a Milano l’ultima narrazione costituita dal negoziato con FS per il riutilizzo dei sette scali ferroviari liberati dalla vecchia funzione è sfociata in un lungo silenzio. Cosa ne sappiamo ora? Dopo le discussioni pressapochiste, le commesse progettuali inutili giacché illegali, il rifiuto dei concorsi, restano gli scartafacci del più importante problema urbanistico della metropoli nell’ufficio dell’assessore polivalente Maran. Tuttavia ci ha pensato il sindaco, invece di far ordine nelle carte e ritornare al confronto con FS da una posizione meglio costruita, forte, atta a rappresentare davvero il bene della popolazione e dei frequentatori, a rivolgere un invito stravagante alla controparte circa la destinazione del milione e 300 mila metri quadrati in causa. Mi sembra che pochi l’abbiano saputo, a me invece è capitato di ascoltare l’intervista ritrasmessa da Radio Popolare il 12 dicembre. Premessa di Sala: «Noi non facciamo case popolari». Seguito: «Le Ferrovie facciano quello che vogliono. Basta che il trenta per cento sia riservato a edilizia convenzionata» (sottolineatura mia). Così la richiesta, data l’identità sostanziale della convenzionata con l’edilizia corrente, non è altro che consentimento alla cementificazione dell’intera superficie.

Al Palazzo Reale di Milano il 19 gennaio 2019 dalle 9.30 si terrà un incontro sulla connessione tra cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti e povertà; si parlerà di riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute, resistenza culturale, antifascismo come fondamentali antidoti a questa società in declino. (i.b.) Qui il programma.

FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE
Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino

Milano, 19 gennaio 2019
Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12
ore 9.30-13, 14-17.30

SALUTI
Basilio Rizzo (consigliere comunale Milano in Comune)

INTRODUZIONE
Daniela Padoan (presidente associazione Laudato si’)

Prima sessione (9.30-13)

1. CLIMA
Degrado ambientale e profughi, energia, rinnovabili, decarbonizzazione
Coordina Mario Agostinelli (Energia felice)
Massimo Scalia (docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie)
Karl Ludwig Schibel (coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee)
Angelo Consoli (direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin)

2. DEPREDAZIONE AMBIENTALE
Landgrabbing, watergrabbing, estrattivismo e grandi opere, difendere i difensori della Terra
Coordina Oreste Magni (Ecoistituto della valle del Ticino)

Elena Papadia (NoTAP)
Roberta Radich (NoTriv)
Elena Gerebizza (Re:Common)
Chiara Sasso (NoTav)
Francesco Martone (già senatore, In difesa di)

3. MIGRANTI
Accoglienza, contrasto delle politiche di respingimento e militarizzazione delle frontiere, razzismo, criminalizzazione della solidarietà
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Sergio Bontempelli (Associazione Diritti e Frontiere)
Luigi Manconi (coordinatore UNAR, presidente A buon diritto)
Donatella Di Cesare (filosofa)
Riccardo Gatti (capomissione Proactiva Open Arms)
Anna Camposampiero e Fabrizio Ungaro (Rete No-CPR)

4. POVERTA’ ED ECONOMIA DELLO SCARTO
Cultura della sottomissione e nuovo schiavismo, cultura dei diritti, lavoro e politiche contro la povertà
Coordina Giovanna Procacci (Libera)

don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)
Francesca Re David (segretaria nazionale FIOM)
Gigi Malabarba (Ri-Maflow)
Guido Barbera (presidente CIPSI)
Guido Pollice (già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società)
Alessandro Pagano (segretario FIOM Lombardia)

Seconda sessione (14-17.30)

5. DEBITO, RICONVERSIONE, LAVORO
Debito, finanza, politiche dei grandi sistemi, riconversione ecologica, lavoro per tutti, amianto e salute pubblica
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Antonio De Lellis (Comitato per l’annullamento del debito illegittimo)
Fulvio Aurora (segretario nazionale Associazione It. Esposti Amianto)
Aldo Bonomi (sociologo, direttore Consorzio AASTER)
Andrea Di Stefano (direttore “Valori”)
Luigi Agostini (presidente Federconsumatori)
Vincenzo Vasciaveo (Distretto Economia Solidale Rurale - Parco Agricolo Sud Milano – GAS)

6. VIVENTE
Critica dell’antropocentrismo, tutela del vivente, patriarcato ed ecofemminismo, diritti della natura, diritto alla salute
Coordina Daniela Padoan (scrittrice, presidente Ass. Laudato si’)

Laura Cima (già deputata e presidente Gruppo parlamentare Verde)
Vittorio Agnoletto (medico, già parlamentare europeo)
Francesco Remotti (professore emerito, già ordinario di Antropologia culturale nell'Università di Torino)
Annamaria Rivera (antropologa)

7. PACE E BENI COMUNI
Disarmo, denuclearizzazione, beni comuni, diritti ambientali, tempo di vita, diritto alla bellezza
Coordina Mario Agostinelli

Lisa Clark (Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Paolo Cacciari (responsabile dipartimento beni comuni di DemA)
Elio Pagani (Pax Christi)
Luca Zevi (architetto e urbanista)

8. EDUCAZIONE, COMUNICAZIONE, RESISTENZA
Scuola, comunicazione e nuovi media, contrasto dei linguaggi d’odio, resistenza culturale, memoria storica e antifascismo

Coordina Simona Sambati (Casa della carità)
Raniero La Valle (giornalista, già deputato e senatore)
Roberto Giudici (FIOM, Zona 8 Solidale)
Alessandra Ballerini (avvocato, Terre des Hommes)

CONCLUSIONI
Don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)

Tra il dire e il fare, in urbanistica, spesso c'è di mezzo una norma transitoria che consente di rinviare obblighi e proposte. Come per il nuovo piano della Lombardia. Dal sito millennio urbano. (m.b.)

In Lombardia sono ancora pochi i comuni virtuosi che hanno volontariamente deciso di ridurre il consumo di suolo. Sono invece ancora molti quelli che hanno una rilevante, o anche rilevantissima, dimensione di aree edificabili nello strumento di piano (che rappresentano un incremento anche del 30% – 50% rispetto all’edificato esistente), e non intendono ridurle. In molti casi i proprietari delle aree in questione si avvantaggiano di un plusvalore economico creato dai meccanismi attivati dalla legge regionale (LR) 31/2014, paradossalmente pensata per limitare il consumo di suolo. Premono pertanto in diversi modi (anche intentando lunghe battaglie legali) affinché anche le previsioni mai attuate vengano mantenute.
Nella seduta del 19 dicembre 2018 il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato la variante del Piano Territoriale Regionale (PTR) che dettaglia le disposizioni contenute nella LR 31/2014. Questa variante impone, almeno sulla carta, una riduzione drastica del consumo di suolo nei piani comunali. Come evidenziato in precedenti contributi, bisognerà vedere se e come questo si tradurrà nella pratica operativa (1).
La norma regionale prevede che Province e Città metropolitana adeguino entro due anni i propri strumenti di pianificazione (rispettivamente PTCP e PTM) ai criteri del PTR, dettagliandoli e articolandoli secondo le caratteristiche dei diversi contesti di area vasta. Quindi in cascata i comuni ne daranno attuazione attraverso i PGT.
L’adeguamento dei piani provinciali e metropolitani potrebbe essere occasione per integrare i criteri del PTR, che in molti casi sono generici e talvolta anche tra loro contradditori. Ma l’impresa non è semplice, per la carenza di risorse economiche e di personale degli enti intermedi, per la scarsa rappresentanza politica degli amministratori ad elezione indiretta, e anche per il molto complesso percorso di attuazione disegnato dalla legge stessa, in particolare nell’art 5 “norma transitoria”. Essa prevede che i comuni possano continuare a variare i loro PGT nel periodo di transizione tra approvazione del PTR e adeguamenti dei PTCP e PTM scegliendo tra due opzioni alternative: con la prima i comuni devono rispettare i criteri qualitativi del PTR, ma non sono obbligati a ridurre il consumo di suolo, dovendo solo evitare di incrementarlo; con la seconda recepiscono il PTR in toto, anche per la percentuale di riduzione del consumo di suolo da esso prevista, senza attendere le indicazioni del PTCP (3).
Una terza possibilità consentita dalla legge, all’art 5 comma 5, consiste nel prorogare con delibera di consiglio comunale, prima della pubblicazione sul BURL del PTR, la durata del Documento di Piano (il documento strategico del PGT) fino a 12 mesi successivi all’approvazione della variante del PTCP o PTM.
Per i comuni che non intendono ridurre le previsioni la prima opzione è apparentemente più conveniente e sperano che venga mantenuta in vita il più possibile, magari ritardando l’adeguamento di PTCP e PTM, anche molto oltre i due anni previsti dalla legge.
Tenuto conto che negli organi degli enti intermedi siedono gli Amministratori comunali il rischio è concreto. Almeno fino a quando la dotazione di aree programmate non si sia esaurita, anche attendendo se necessario la creazione di condizioni più favorevoli nel mercato immobiliare.
Se questa ipotesi si avverasse si assisterebbe all’esito paradossale che la LR 31/2014, a causa dei suoi meccanismi attuativi, finirebbe per mancare il suo obiettivo principale, che è quello di ridurre il consumo di suolo secondo le soglie previste dal PTR.
Questo pericolo va scongiurato, mettendo in salvaguardia l’obiettivo principale del PTR ed evitando ritardi nell’approvazione dei PTCP e PTM. Si deve fare in modo che per i comuni la seconda opzione diventi più attraente e conveniente della prima. A tale fine si possono adottare diverse strategie, tenendo conto che la legge regionale assegna a Province e Città metropolitana il compito di verificare la coerenza dei PGT con i criteri del PTR nell’ambito del parere di compatibilità sul PGT adottato. E tenendo anche conto che la legge e il PTR assegnano agli enti intermedi un’ampia discrezionalità nell’interpretare e articolare le soglie del PTR, a condizione che la soglia regionale sia rispettata sul complesso della Provincia o Città metropolitana.
Per rendere la seconda opzione (adeguamento da subito al complesso dei criteri del PTR) più favorevole possono essere applicate modalità più convenienti o più flessibili di attuazione dei criteri regionali, quali a mero titolo di esempio: garanzia che la soglia di riduzione del PTR non venga incrementata dal PTCP o PTM; deroga per i comuni che già nel PGT vigente hanno assunto un comportamento virtuoso adottando previsioni insediative molto contenute; la possibilità di derogare alle soglie regionali perequandole con altri comuni limitrofi nell’ambito dello sviluppo di PGT associati.
Importante è muoversi tempestivamente, ora che la variante del PTR è stata approvata, per garantire omogeneità di trattamento a tutti i comuni che procederanno nei prossimi mesi ad aggiornare il proprio PGT.

internazionale.it, 7 gen 2018. Il grande processo contro l’industria petrolifera mondiale, che coinvolge anche l’Eni, va avanti senza suscitare clamori, sebbene stia rivelando una vera e propria “industria della corruzione” a scapito dei cittadini nigeriani. Un altro scempio di “aiutiamoli a casa loro”. (i.b)

Noto come “caso OPL 245”, dal nome della concessione petrolifera acquisita da Eni e Shell nel 2011 dalla Nigeria, questo è il più grande processo per corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale. Esso riguarda lo sfruttamento del più grande giacimento offshore di petrolio presente in Africa.
Per tutti i soggetti coinvolti, Eni e Shell incluse, l’accusa è quella di aver sottratto oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano. Questa cifra, anziché essere usata per pagare la concessione per lo sfruttamento del giacimento di petrolio al largo della Nigeria, è finita nelle tasche di politici e imprenditori nigeriani e mediatori vari. Il danno a discapito delle casse dello stato nigeriano è enorme.
Mentre ai nigeriani venivano sottratti soldi equivalenti al bilancio del ministero dell’istruzione per l’anno 2018, in un’operazione che coinvolge la più grande multinazionale italiana (in parte di proprietà dello stato) il governo italiano invocava di volerli “aiutare in patria”.
Speriamo che l’epoca in cui in Africa erano permessi ogni tipo di sfruttamento, prevaricazione e truffa sia arrivata alla fine. Fermare definitivamente queste rapine sarebbe il primo e forse uno dei più validi aiuti che l'Italia e l'Europa potrebbero dare all'Africa.
Qui il recente resoconto di Marina Forti per Internazionale, e precedenti articoli ripresi da eddyburg: “Caso OPL 245/ENI, al via il processo del secolo”, e “Tangenti e petrolio, la Nigeria contro l’Eni”. (i.b)

PerUnaltracittà, 8 dic 2018. Un'altra minaccia alla fattoria "senza padroni", un esempio di bene comune sottratto alla logica di mercato e destinato a progetti agricoli, lavoro collettivo, manutenzione, assemblee, una scuola e un teatro contadino. Qui i fatti, l'appello delle associazioni e alcuni riferimenti (i.b.)

Il fatto quotidiano, 7 gennaio 2019. L'abbandono dei fossili per affrontare la crisi climatica, uscire dal modello di sviluppo basato sulla crescita, e quindi dare un futuro al nostro pianeta non possono essere disgiunti dalla lotta per i diritti umani e sociali e la lotta contro le diseguaglianze. (i.b.)
I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l'incarico di sostenere l'accordo di Parigi 2015 (v. https://www.energiafelice.it/). Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni orsono, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili, ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l'incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo: vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve, che, secondo l’IPCC, non può andare oltre i prossimi quindici anni. Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni - senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Trump - Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali ad essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida, da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella “Laudato Sì” e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma, mi auguro, già capace di segnali al prossimo congresso CGIL. L'accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani, parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (TAV) o lungo un litorale marino (TAP) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all'eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine "giusta transizione", che non può che basarsi su un'attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5 gradi °C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. E’ d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati ad una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice una ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione UE è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell'Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all'UE. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Valle Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

Di Genova si sa poco e niente. Si parla del ponte, ma non della città sottostante, la cui forma - quella di un uomo a terra con le braccia allargate - riflette la condizione attuale. Dalla rivista La Città, n. 6/2018 (m.b.)

Cinquant’anni fa Eugenio Montale scriveva, in un libro dell’Italsider, alcune pagine fondamentali sulla sua città. adottando la prospettiva dell’esule e rievocando tempi già allora lontani:
«Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le villes d’art del mondo; una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di caruggi che giungeva fino al porto». E ricorrendo al repertorio zoologico (e architettonico) ne sintetizza l’immagine così: «Genova era una città fatta a chiocciola, con un centro unico abitato dai ricchi e dai poveri». Poi, intervenuti tanti cambiamenti, usa per il presente in cui scrive un’altra similitudine animale, destinata a diventare famosa: «Una città che è una striscia di venti chilometri, da Voltri a Nervi, e a mezza via il grosso nodo centrale. Vista da un aereo deve sembrare un serpente che abbia inghiottito un coniglio senza poterlo digerire».
Oggi, dopo la tragedia del 14 agosto, come appare Genova? Messe da parte immagini da bestiario medievale, forse come una T rovesciata: un uomo a terra con le braccia allargate, rispettivamente, ad est e ad ovest delle due Riviere, la testa e il tronco reclini sul centro e le gambe unite distese verso l’interno della Val Polcevera. Lugubre? Irrealistico? Forse. Ma ben risponde – come tragedia alla farsa – a quanto s’è visto dopo il crollo del ponte Morandi: i selfie con i politici del rinnovamento ai funerali di Stato; il plastico da Vespa con Toninelli sorridente; il passaggio di Conte a Genova con il suo numero da commedia dell’arte («fogli bianchi, questi? No, pieni di parole che saranno fatti!»); la tiritera del decreto e poi i suoi, quanto meno eterogenei, contenuti.
A questo s’è aggiunta, quasi a beffa delle vittime della tragedia e della sorte degli sfollati, una gran dose di retorica. Nostrana e foresta: tempi di ricostruzione privi di ogni fondamento; odi alla risurrezione, funzionali a un rito consolatorio clamorosamente inutile; ripristino del mito polveroso della Superba; e proclami del solito ministro che, come in un fumetto, dice che «il super-commissario agirà alla velocità della luce». Una nebbia di stereotipi, di frasi fatte, di atti linguistici scorretti («io prometto» non equivale a dire «piove» ma è già un fare o, se resta senza seguito, un non fare irresponsabile) che ha messo in sordina realtà, considerazioni, domande su cui si gioca il futuro della città. Intanto, al di là di chi per ragioni umane ed economiche è rimasto coinvolto nel disastro, c’è qualcuno a cui importa davvero di Genova? A Roma ma anche nella stessa Genova?
In una città che, negli ultimi anni, ha fatto della separazione delle sue realtà urbane, e dei ceti sociali e delle varie economie, la sua insegna? Il crollo del ponte, in fondo, non ha fatto che sancire quanto era già nello stato delle cose: periferie abbandonate a sé stesse e viste con aria di sufficienza da chi sta al ‘centro’; piani di recupero monchi o mai realizzati; aree industriali dismesse da anni; scoordinate operazioni di lifting diventate dall’oggi al domani fatiscenti.
C’è un dato linguistico in proposito eloquente più di ogni discorso. Si sente sempre parlare di città spaccata in due, come se Genova esistesse solo su un asse orizzontale con Nervi e Voltri agli estremi. Ora, dovrebbe essere evidente che in realtà Genova è spaccata in tre (e in tanti altri pezzi). Zone rossa e arancione sono sia parte di Sampierdarena che sbocco e ingresso della Val Polcevera.
Se la seconda è sempre stata, con la sua storia passata di raffinerie e quella pre sente di grandi insediamenti commerciali e cittadine in basso e di borghi in alto, altra dalla città, Sampierdarena è un caso ancora più istruttivo: all’Ansaldo s’è sostituita la Fiumara ma nel cambio il quartiere non ci ha guadagnato e anzi s’è impoverito; la ‘piccola città’ d’un tempo ha patito dell’epidemia di sale-giochi e compra-oro – in perfetta sintonia tra loro – e di fenomeni di criminalità, giovanile e no; tante le saracinesche abbassate; e il valore degli immobili precipitato mentre è aumentata l’intollerabilità del traffico.
C’è chi resiste difendendo spazi di civiltà e d’integrazione in un contesto che è, insieme e paradossalmente, caos e deserto. A dimostrare come nella realtà – e non nelle ‘narrazioni’ delle macchine della persuasione – l’ossimoro sia la figura più ricorrente. E quella dal gusto più amaro.
Ora, tutto ciò è avvenuto perché le logiche particolari di gruppi e caste di una Genova neofeudale si sono sempre sottratte a un pensiero in fondo assai semplice: che una città vera è come un corpo o un organismo e che è pericoloso lasciar atrofizzare alcune sue parti a scapito di altre o trattarle come luoghi di scarto o porzioni solo fastidiose o superflue. A far questo, una città rischia di diventare, tutta, una sola periferia. La periferia dell’idea che ha di sé stessa e quindi un’invenzione, un paranoico esercizio retorico, una coroncina del rosario dai grani staccati. Ripiegata su di sé e poco interessata a prepararsi un passato da ricordare in futuro. Una realtà urbana spezzata. Il suo complessivo e unitario paesaggio umano e sociale si potrà vedere – come scriveva Montale – «solo in sogno perché i suoi abitanti lo hanno reso irriconoscibile». Ma sarà il sogno di chi dorme da esule nella sua casa.

A partire da una critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, la decrescita ha sviluppato un interessante dibattito su una possibile trasformazione politica radicale. (i.b.)


Il concetto della decrescita è una delle critiche più interessanti al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, che a partire dai ragionamenti dell'economista Nicholas Georgescu-Roegen e André Gorz ha sviluppato un dibattito su una possibile trasformazione politica radicale tesa al superamento delle ingiustizie e dell'insostenibilità ecologica del nostro modo di abitare il pianeta.
Si legga "Introduzione a 'Decrescita: vocabolario per una nuova era' – di Giorgos Kallis, Federico Demaria e Giacomo D’Alisa" tratto dal sito Effimera.

Per un approfondimento del rapporto tra lavoro e natura, e dell'ineluttabile nesso tra lotta di classe e lotte per l’ambiente e per i beni comuni, lotte accomunate da una critica all'accumulazione per appropriazione - del lavoro domestico, servile o delle risorse ambientali - si legga il libro "Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita" di Emanuele Leonardi (2017, Orthotes editore), di cui si veda la una recensione in perunaltracittà.
Segnaliamo inoltre due volumi, editi da Marotta e Cafiero, parte di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo:

“Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione” a cura di Marco Deriu (2016, editori) che raccoglie una serie di articoli che cercano di spiegare che è necessario "un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica ed organizzativa e della costruzione di una democrazia politica" (dall' introduzione di Marco Deriu). Qui una recensione al libro di Paolo Cacciari.

“La decrescita tra passato e futuro” a cura di Paolo Cacciari sul significato e il valore di liberarsi dal dominio della crescita economica per immaginare delle trasformazioni ecologicamente sostenibili e socialmente giuste.

Non è la prima volta che assistiamo all' entusiasmo, sostenuto da soldi pubblici, per fonti di energia etichettate come rinnovabili e pulite. Si scopre poi che inquinano, sottraggono risorse, arricchiscono qualche azienda, impoveriscono la popolazione, ma gli investimenti continuano e neanche la scusa occupazionale è rilevante. Sempre vilipesi sono gli interessi collettivi! (i.b.)

Da molti anni assistiamo alla falsa alternativa tra mantenere produzioni nocive generatrici di occupazione, e l'ambiente. Proprio in questi mesi abbiamo visto la parabola dei movimenti ambientalisti che si sono spesi politicamente per una alternativa all'Ilva di Taranto, alla galleria in Val di Susa per il TAV Torino-Lione, alla trivellazione del TAP a Melendugno e ogni volta che la questione della bonifica dei siti inquinati entrava in conflitto con gli interessi economici si poneva la questione occupazionale come ostacolo insormontabile, irrisolvibile, tutto in carico ai comitati dei cittadini.

La questione è vecchia e databile almeno 40 anni, ovvero dalla bonifica di Seveso. In quel caso l'ICMESA dovette pagare la bonifica del sito inquinato dalla fuoriuscita di diossina e i costi di quell'intervento di ripristino fu presa come base per contabilizzare il danno ambientale e fu evidente che più grande è l'industria inquinante, più grande il territorio inquinato da bonificare, maggiore la quantità di popolazione investita da elementi nocivi, i costi sarebbero stati talmente alti che nessuna impresa sarebbe stata in grado di sopportare il ripristino e le bonifiche. Da quel momento in poi ogni intervento legislativo è stato teso a favorire la socializzazione dei costi ambientali, riconoscendo alcuni buchi normativi per poter permettere alla grande industria la sopravvivenza.

Nel caso della Geotermia Elettrica Industriale della Toscana, monopolio di Enel, ora sappiamo che queste centrali hanno quotidianamente inquinato il territorio. Le centrali geotermiche Flash (con fluidi caldi tipici dell'Amiata) oppure a vapore dominante come quelle di Larderello con i classici soffioni producono e diffondono nell'aria tonnellate di anidride carbonica, metano, boro, acido solfidrico, ammoniaca, mercurio, tallio e arsenico, che ricadono nella Val di Cecina e sul Monte Amiata.

La popolazione investita non è monitorata adeguatamente. Solo negli ultimi anni, dopo infinite richieste alla Regione Toscana, sono saltati fuori i dati di un danno alla salute paragonabile ai siti altamente inquinati come la Val Bormida, Porto Marghera o l'Ilva di Taranto: l'incidenza di alcuni tumori è in alcuni casi superiore a questi siti e fa pensare che siamo di fronte al più grave danno ambientale della storia repubblicana, prodotto da una azienda pubblica, su un territorio vastissimo e su una popolazione tenuta all'oscuro da forze politiche, sindacali e in qualche caso anche ambientaliste.

Dirigenti di Enel Green Power sono sotto inchiesta della magistratura. La Procura della Repubblica di Grosseto ha aperto un fascicolo di indagini, iscrivendo l’Amministratore Delegato di ENEL Green Power, ing. Montemaggi, quale persona informata delle indagini a suo carico, per l’ipotesi di reato di emissioni fuori norma delle centrali di Bagnore di Santa Fiora. Il procedimento è in corso davanti al GIP.

In questa situazione è arrivata la scomparsa degli incentivi alla geotermia nella bozza FER 1 nel passaggio tra Ministero dell'ambiente e MISE. La geotermia non viene più considerata energia rinnovabile e sindaci geotermici, consiglieri regionali, qualche parlamentare, e in testa il Presidente della regione Toscana continuano a dare “ i numeri” del disastro che causerebbe. Eppure il decreto non tocca gli incentivi ex certificati verdi e le tariffe incentivanti degli attuali impianti di produzione geotermoelettrica che ammontano complessivamente a 90 milioni € l'anno. Una enormità, che continueranno a prenderli fino al 2028, dopo quindi la data nella quale si prevede la messa all'asta degli impianti nella liberalizzazione del mercato geotermico previsto dalla legge Scajola; la torta ricca nella quale i dirigenti Enel puntano per accaparrarsi soldi pubblici senza colpo ferire. Gli impianti verranno comprati da multinazionali e Banche e i dirigenti Enel si metteranno alla loro direzione (sono gli unici che conoscono effettivamente ogni impianto e anche il modo di “coltivarlo” efficacemente).

I contributi ai comuni sono 35 milioni € l'anno.

L'azienda elettrica è anche lei in via di privatizzazione; quote consistenti sono già in mano a grandi investitori internazionali che non credono nello sviluppo della geotermia come fonte alternativa (esperimenti tedeschi e cinesi sono fermi al 2014, gli americani, cileni, islandesi e turchi costruiscono centrali solo nelle zone desertiche) a causa degli alti costi di ricerca e trivellazione (oggi a carico dello Stato in Italia con i famosi contributi di Fer ) e con una resa piuttosto bassa della produzione elettrica.

Il 30% del fabbisogno di energia elettrica regionale toscana, non giustifica i soldi pubblici spesi per mantenerla, proprio perché i consumi elettrici sono solo l'8% dei consumi energetici totali. In 10 anni la produzione solare con pannelli in Toscana ha raggiunto la quota del 30%, quando per la geotermia ci sono voluti 40 anni. Si pensa che se gli stessi incentivi si spostassero dalla geotermia al solare e all'eolico, si avrebbe l'80% di energia elettrica prodotta da queste fonti e con l'idroelettrico arriveremmo in pochi anni a non avere bisogno di combustibili fossili per la produzione elettrica. In realtà la geotermia impedisce la transizione energetica per l'interesse di pochi.

La fonte geotermica non è rinnovabile: un pozzo geotermico che emunge fluidi caldi dal sottosuolo ha una vita efficace solo per una decina di anni, poi viene “coltivato” con una miscela di acidi che vengono reimmessi per “spingere” i fluidi profondi verso i pozzi. Questa pratica proibita per gli idrocarburi in Europa è invece altamente praticata dal 1975 proprio in Val di Cecina, una delle cause principali della subsidenza, terremoti e inquinamento di falde acquifere.

Nel 1975 la produzione geotermica aveva subito un declino irreversibile e al calo della produzione si reagì con varie strategie. I pozzi furono portati a profondità di 3000\4000 metri, venne proposta la tecnologia di reiniezione con la stimolazione delle fratture con una miscela di acido cloridrico e acido fluoridrico, misto ad acqua, stimolazione e reiniezione che serve anche a rimuovere fango e detriti (da 10 e 50 tonnellate al giorno per pozzo, dati rilevati da un progetto di trattamento fanghi Ecogest) e mineralizzazioni. Lo stress termico della reiniezione produce una contrazione e un cracking. Non è il fracking, ma gli somiglia tanto.

La reimmissione dei fluidi incontra delle difficoltà proprio nella condensazione dei gas. Sappiamo che una delle difficoltà del circuito chiuso (se no avremmo impianti senza emissioni, i famigerati impianti binari) è proprio la non condensabilità dei gas presenti in Val di Cecina e sull'Amiata. Il fallimento degli impianti binari è solo questione di tempo. Gli esperti ci dicono che si potrebbero nascondere i gas in qualche modo, ma la reiniezione porterà sicuramente a fenomeni tellurici, anche di grossa entità.

I fluidi geotermici non salgono da sé. Specialmente nei pozzi molto profondi si prevedono anche tre pompe in linea. Lascio immaginare il bilancio energetico finale. Mentre nelle centrali flash Enel si può arrivare ad un rendimento del 40%, nelle centrali con reiniezione si parla di 9%. Il bilancio è comunque molto basso.

La vita media delle centrali può essere anche più lunga, ma la coltivazione di un sito è molto breve. In Toscana ci sono 900 pozzi e 36 centrali, ma i pozzi chiusi sono molti di più. Capitolo a parte la chiusura dei pozzi. Possiamo fare una gita nelle campagne toscana a visitare le trivellazioni Eni degli anni 60 che all'epoca era alla ricerca di petrolio. Sono diventate dopo 50 anni, nei quali il cemento si è degradato, dei laghetti di anidride solforosa, cianuro e fanghi caldi. Il danno alle falde acquifere è irreversibile.

Peccato che proprio la falda del monte Amiata risulti scesa di quasi 200 metri se non di più in alcuni punti. Attraverso il sito INGV possiamo monitorare tutti i terremoti i delle zone metallifere toscane, essi coincidono con le centrali. La subsidenza all'Amiata è così evidente che hanno dovuto cambiare strade e ponti, case crepate etc.

Abbiamo le prove che nella Val di Cecina l'arsenico nelle acque potabili potrebbero essere direttamente riferibili alla geotermia. I pozzi profondi producono il mescolamento di acque appartenenti a stratificazioni diverse. La differenza di potenziale elettrico tra acque superficiali e profonde produce arsenico, che rimane localizzato nelle vicinanze del pozzo, ma con il degrado delle cementificazioni e il movimento delle acque sotterranee arriva ai pozzi di sollevamento della piana del Cecina. Non si può dire che il dilavamento diluisca gli inquinanti. Questa mentalità ingegneristica è lontana dalla realtà. Occorre tener conto delle sinergie tra gli elementi e non possiamo essere contenti di una minaccia che porterà conseguenze nel tempo, quando la geotermia sarà archeologia industriale.

Enel da qualche anno ha fatto capire che avrebbe abbandonato il settore, disinvestendo e portando uomini e mezzi finanziari in altri settori. Nei mesi scorsi c'era già stata la sollevazione dei sindaci della Val di Cecina contro la perdita questa fonte di soldi pubblici sulla quale però solo una parte della popolazione ne ha beneficiato.

Questo è stato evidente lo scorso sabato nella quale ex dipendenti Enel, sindacati e apparati di partito con i sindaci in testa hanno dato vita ad una manifestazione SI Geotermia, sulla stessa linea della manifestazione di Torino Si Tav. Il parallelo con le due manifestazioni è evidente: in entrambe chi si oppone al danno all'ambiente e alla salute dei lavoratori viene dipinto come terrapiattista, medioevale, contrario al progresso, mentre difendono un settore industriale che non produce valore da 40 anni e si tiene in piedi esclusivamente con i soldi delle bollette, come per la Tav sappiamo non ripagherà mai i miliardi spesi per una galleria pericolosa e inutile.

L'ambizione della manifestazione era quella di cambiare verso nell'opinione pubblica, ma il territorio è già ampiamente impoverito, desertificato dall'inquinamento e abbandonato dai giovani. Se gli incentivi di Fer 1 non riguardavano le centrali esistenti, i posti di lavoro attualmente presenti nel settore non sarebbero toccati, ci chiediamo perché i sindaci, il presidente della regione, i sindacati hanno allora mobilitato social, giornali e televisioni locali?

Togliere gli incentivi ai progetti progetti pilota gestite da multinazionali petrolifere o dell'acqua , società offshore ucraine, portoghesi, cerchi magici fiorentini e gioiellieri di Arezzo forse ha toccato un nervo scoperto che con l'occupazione e lo sviluppo economico c'entra poco.

Il conflitto ambiente e lavoro nel caso della geotermia quindi non si pone. Un settore che ormai destinato ad una fine ingloriosa, nel quale nessuno vorrà pagare i danni sociali e ambientali, giunto al crepuscolo della sua parabola, difende con i denti le ultime briciole di potere.

Articolo inviato contemporaneamente anche a controlacrisi.org e perunaltracittà.org


8 dicembre 2018, in migliaia sono scesi in piazza contro questo modello di sviluppo che sta devastando l'habitat in cui viviamo. Contro le grandi opere inutili e dannose; l'inquinamento dell'aria; la contaminazione di acque e suolo da processi industriali; gli inceneritori, le politiche sui rifiuti e l'ecomafia che ci specula; il consumo di suolo; le grandi navi; i gasdotti e la dipendenza dai fossili; la sottrazione di beni comuni; le antenne militari; l'erosione della democrazia; il prevalere del profitto di pochi sul benessere di tutti. Non solo per la difesa dell'ambiente, della salute, dei territori, ma per un inversione di rotta.
Fonte: l'immagine è della manifestazione di Torino, presa dal sito notav.info. Altre le città dove si sono svolte le manifestazioni: Padova; Firenze, Sulmona, Pescara, Niscemi; Melendugno; Giugliano (NA), Venosa (PZ), Melendugno (LE), Trebisacce (CS). (i.b.)

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