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Orsoni prudente sul futuro di Tessera

di Alberto Vitucci

Il sindaco prende tempo anche sul mega-progetto - Casson: «Piano senza senso»

Il nuovo Casinò non si fa più. Lo stadio slitta in attesa di tempi migliori per le squadre lagunari sprofondate nelle serie minori. La Tav è stata «bocciata» dalla commissione di Salvaguardia, il grande terminal e la porta di Gehry sono rimasti nel libro dei sogni. Cadono i presupposti per cui era stata avviata la grande operazione del Quadrante di Tessera. Un milione di metri cubi di edifici privati in gronda lagunare per finanziare in parte la costruzione dei due edifici pubblici. Che ne sarà del contestato megaprogetto di Tessera city? «Vedremo, vedremo», frena il sindaco Giorgio Orsoni con la consueta prudenza. Lasciano aperto uno spiraglio gli assessori Antonio Paruzzolo e Enzo Micelli. Ma le voci critiche sono tante. Questione di risorse che non ci sono più (oltre 40 milioni il deficit del Casinò, che ha abbandonato l’idea di costruire la nuova sede) casse del Comune all’asciutto. Ma anche di «consumo del territorio». Urbanizzazione selvaggia al di fuori dei Piani regolatori per costruire palazzoni, uffici e servizi proprio in riva alla laguna.

La Variante di Tessera city è adesso ferma in Regione. C’è stato nel frattempo il cambio delle amministrazioni, Zaia al posto di Galan, Orsoni dopo Cacciari. L’accordo firmato da Galan e Cacciari insieme al presidente della Save Enrico Marchi prevedeva di dare il via libera alla grande operazione immobiliare con una semplice osservazione al vecchio Prg. Esposti alla Procura, proteste, una campagna elettorale dove in tanti si erano espressi contro l’operazione. «Noi ribadiamo il nostro no a operazioni di questo genere che passano sopra la testa dei cittadini», dice Nicola Funari, a nome di Italia dei Valori. Critici anche Rifondazione e i grillini, molti settori del Pd, una parte del Pdl.

«Un’operazione che non ha senso», dice il senatore Felice Casson. Contraria al Quadrante anche la Lega. Era stato il capogruppo Alberto Mazzonetto a presentare alla Procura un dettagliato esposto sull’illegittimità della procedura. Frenano anche gli ambientalisti. «La Salvaguardia ha votato no», ricorda Stefano Boato, rappresentante del ministero per l’Ambiente, «se resta l’interesse pubblico, Casinò e stadio si possono fare tranquillamente sui terreni già di proprietà publica, circa 27 ettari, senza stravolgere l’intera area». «Una questione di cui dovrà occuparsi il nuovo Pat, il Piano di assetto del Territorio», garantisce l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, «le nuove edificazioni in quell’area dovranno essere pianificate, senza scorciatoie». Una battaglia che sta per arrivare in aula a Ca’ Loredan. Dal momento che sia in maggioranza che in opposizione sono parecchi i consiglieri che non hanno cambiato idea sulla necessità di realizzare a Tessera la più grande operazione immobiliare nella storia recente di Venezia.

«Il Quadrante si farà, è strategico»

di Mitia Chiarin

Il Pd punta i piedi: «Non tocca a Ravà decidere, si sta bloccando tutto»

«Il Quadrante di Tessera, con la realizzazione di stadio e Casinò, è strategico ed è parte integrante del programma del sindaco. Se Orsoni ha cambiato idea ce lo venga a dire». Sul futuro del Quadrante di Tessera, il Pd ora fa quadrato.

Da Claudio Borghello, prossimo segretario comunale, a Michele Mognato, candidato alla guida del provinciale, arriva un monito ad Orsoni. E’ alta la preoccupazione in casa Pd dopo l’annuncio dell’amministratore delegato del Casinò, Vittorio Ravà, della rinuncia alla nuova sede della Casa da gioco. Scelta che toglie un tassello importante al piano e fa temere anche per il progetto stadio. Dopo lo stop al trasloco del mercato da via Torino e i ritardi del cantiere all’ex Umberto I, un’altra frenata allo sviluppo in terraferma e torna il subbuglio nella maggioranza. «Il quadrante è parte integrante del programma del sindaco, se Orsoni ha cambiato idea ce lo dica. Per noi il Quadrante è una grande opportunità di sviluppo della città, anche in termini di nuovi posti di lavoro. L’idea iniziale per noi è valida, se ci sono altre proposte discutiamone», avverte Claudio Borghello. «Io resto dell’idea che nuova sede del Casinò e nuovo stadio sono strettamente legati allo sviluppo di quell’area e a un disegno della città che guarda al futuro. Certo, siamo pronti al confronto - aggiunge Michele Mognato - ma io resto convinto che non si possa più aspettare oltre. Sullo stadio siamo indietro di dieci anni, un ritardo che evidenziavo già quando ero vicesindaco. E di fronte alla crisi di Porto Marghera, il Quadrante può garantire un giusto sviluppo alla città». Gabriele Scaramuzza, attuale coordinatore provinciale aggiunge: «a questo punto, occorre fare chiarezza con il sindaco e con l’assessore all’urbanistica. Non basta l’audizione del presidente di una società pubblica per dichiarare chiusa la questione e io sono preoccupato per le scelte strategiche per la città da qui ai prossimi 30 anni. E’ bene che si vada al confronto in maggioranza». L’assessore all’Urbanistica Ezio Micelli cerca di placare gli animi: «resta lo stadio ma va pensato come una struttura per grandi eventi con un progetto che tenga conto non solo del contenitore ma anche dei contenuti. Nell’immediato Ravà sottolinea l’impossibilità dell’investimento sul nuovo Casinò, ma il Quadrante è un piano di medio-lungo termine ed ora si tratta di dividere il Casinò dallo stadio, che la città attende da anno. Questo non significa affatto tirarsi indietro». E’ decisamente meno preoccupato Gianfranco Bettin, assessore ed esponente dell’ala ambientalista della giunta Orsoni: «La sede appropriata per decidere il futuro di quell’area era il Pat, l’accordo sul Quadrante noi l’abbiamo sempre considerato una procedura irregolare. Sul fronte stadio abbiamo davanti ancora un paio di anni per ragionare in attesa che la squadra risalga la china delle classifiche». E dal centrodestra interviene Saverio Centenaro (Pdl): «il milione di metri cubi di edificazioni previsti consentivano di realizzare, con gli oneri di urbanizzazione la nuova sede del Casinò e lo stadio, che per noi resta prioritario. L’impianto non è a rischio, va ridimensionato ma il Quadrante ora è parte integrante del Pat». Anche dalla Confcooperative col presidente Angelo Grasso un monito: «Far partire gli investimenti a Tessera per superare la crisi».

Chi ha seguito la puntata di Report di domenica scorsa ha potuto vedere di che cosa sono capaci “gli energumeni del cemento”. Paolo Mondani ha infatti illustrato la distruzione delle coste dei Caraibi ad opera della speculazione edilizia: spiagge che scompaiono per far posto a moli di cemento, la natura violata nella sua integrità: 180 ettari di paradiso sottratti per sempre alla naturalità.

Quello che sta accadendo in questi giorni in uno dei pochi lembi di costa della Sardegna scampato alla cementificazione selvaggia dei decenni passati è molto più grave: si tratta di 700 ettari (un campo di calcio ha dimensione di un ettaro) di territorio incontaminato su cui si vogliono a tutti i costi costruire 150 mila metri cubi: ville esclusive e un resort a cinque stelle. Si tratta della splendida costa di Malfatano, che significa il luogo della speranza. I protagonisti dell’ennesimo scandalo urbanistico italiano vorrebbero invece riempirla di cemento e asfalto, altro che speranza.

Perché parliamo di scandalo? Perché i proprietari dell’area hanno ottenuto i permessi per costruire gli edifici attraverso la collaudata tecnica dello “spezzatino”. In sintesi, pur in presenza di un disegno unico, vengono presentati al comune di Teulada cinque stralci progettuali. In questo modo gli edifici appaiono con un impatto ben più modesto: un conto è vedere disegnati 150 mila metri cubi di cemento, strade, parcheggi e quant’altro, altro conto è vederne cinque molto più piccoli.

E’ lo stesso caso sollevato appena un anno fa sempre da Report. A Roma un potentissimo costruttore (Domenico Bonifaci, proprietario del quotidiano Il Tempo) ha ottenuto i condoni per un immensa costruzione di 200 mila metri cubi chiedendo la sanatoria per ogni alloggio. La legge del condono edilizio vietava infatti la sanatoria per immobili più grandi di 750 metri quadrati e sarebbe stato impossibile ottenere i condoni. Così viene presentato lo “spezzatino” e il comune non si accorge che le 700 domande di condono fanno parte di un unico complesso edilizio!

Anche nel caso di Malfatano nessuna delle amministrazioni coinvolte –comune, regione Sardegna e Soprintendenza di Stato- si è accorto del trucco e rispedito al mittente i cinque progetti richiedendone uno globale. In questa povera Italia le amministrazioni pubbliche sono preda dell’economia di rapina e fingono di credere che dietro questa nuova Colata, per citare il bel libro edito da Chiarelettere, ci sia un futuro di lavoro per la popolazione sarda. E’ questa la giustificazione di tutti gli amministratori –rigorosamente bipartisan- coinvolti: affermano infatti che di fronte alla grave crisi economica non si può chiudere la porta a generosi investitori.

E’ questo un tema non banale e conviene dunque discuterne perché la gigantesca crisi economica e finanziaria mondiale in cui tutti i paesi ricchi si dibattono non sembra trovare vie di uscita solide. Ma intanto onestà intellettuale vorrebbe che si facesse un bilancio dei quarant’anni che hanno cambiato il volto delle coste sarde riempiendole di cemento. Ogni volta che venivano concessi i permessi per costruire di devastanti progetti si cantava il solito mantra: non si può rinunciare allo sviluppo. La Sardegna è nel pieno di una crisi economica e sociale devastante proprio perché ha creduto a questa falsa promessa. Le case di vacanza si riempiono solo per due mesi e gli alberghi chiudono almeno per nove mesi all’anno. Invece di investire nella produzione si è preferito aprire autostrade alla speculazione edilizia. Perpetuando il meccanismo di distruzione delle bellezze della Sardegna si otterrà oggi il progresso che non è avvenuto in quarant’anni di laissez faire?

Non c’è persona in buona fede che possa sostenere questa tesi. Eppure gli amministratori pubblici continuano a propagandare questa favola. La prova di una vergognosa mala fede la troviamo anche in una clausola contrattuale stipulata tra il comune di Teulada e i proprietari. Vi si afferma che “nel caso venissero costruite case al posto di alberghi, i promotori dovranno pagare al comune un maggior onere di 200 euro al metro cubo”. Il sindaco di Teulada, Gianni Albai è entusiasta di questa norma e la pubblicizza a dimostrazione del rigore pubblico. Vediamo di fare due conti. Una villa è grande circa 200 metri quadrati, 600 metri cubi. Così quando gli speculatori edilizi chiederanno di trasformare gli alberghi in case dovranno pagare al comune poco più di 100 mila euro. Sembra tanto, ma una villa in quel paradiso si vende ad almeno 3 milioni di euro: seconde case regalate alla speculazione da amministrazioni compiacenti. Altro che sviluppo.

Tutte queste irregolarità sono state denunciate con forza da Italia Nostra con l’azione instancabile di Maria Paola Morittu e dal Gruppo di intervento giuridico, ma finora le amministrazioni pubbliche non danno segni di vita. Del resto, Renato Soru è stato sconfitto anche con l’aiuto di pezzi del centro sinistra proprio perché il suo rigoroso piano paesistico impediva simili speculazioni.

E come questa classe politica governa i beni comuni è dimostrato dell’albergo dell’isola della Maddalena, la scandalosa vicenda dello svolgimento del G8. Lo Stato ha speso 120 milioni di euro per realizzare l’albergo e ora lo ha dato in gestione alla Mita resort della famiglia Marcegaglia per un canone di 60 mila euro all’anno. Vuol dire che riprenderà le spese in 1500 anni! Un altro straordinario esempio di rigoroso uso dei soldi pubblici.

Che c’entra la Marcegaglia, si chiederà qualcuno. C’entra perché il nuovo resort di Malfatano sarà gestito dalla Mita. Dietro la grande speculazione sarda si scorgono ancora una volta le radici della crisi italiana. Tra i promotori dell’operazione speculativa condotta dalla società Sitas c’è infatti la classe dirigente italiana: la Sansedoni spa controllata dal Monte dei Paschi di Siena, la Benetton, il gruppo Toffano, il gruppo Toti (che sul suo sito già illustra il plastico dell’albergo). Un paese dedito esclusivamente alla speculazione immobiliare ha davvero poche speranze di futuro.

(ps. chi volesse rendersi conto della natura dello scempio, può vedere in rete il commovente documentario Furriadroxus di Michele Mossa e Michele Trentini)

Arrivò il giorno in cui mezzo paese si scoprì abusivo. Per trent’anni a Palinuro, in provincia di Salerno, si è costruito senza autorizzazione in riva al mare. La procura di Vallo della Lucania ha disposto ieri il sequestro di 15 ettari nel piccolo paese della costiera cilentana. Una superficie pari a circa 40 campi da calcio, in prossimità del mare. Anche se il piano regolatore non le prevedeva, sono sorte villette, appartamenti per le vacanze e piccole abitazioni. In tutto, sono stati sequestrati 120 immobili, per un valore complessivo di circa 12 milioni di euro. Una speculazione edilizia che riguarda soprattutto piccoli proprietari, sono 81 gli indagati, la maggior parte residenti nel Comune di Centola, di cui Palinuro è frazione. Il sindaco Romano Speranza prende le difese dei suoi concittadini: «In questa zona ci sono troppi vincoli. È quasi impossibile costruire. Ora c’è stato questo sequestro fatto con tanto clamore, ma negli ultimi 30 anni dove sono state la magistratura e la sovrintendenza?».

Gli abusi sono iniziati più o meno nel 1980. Prima, nell’area posta sotto sequestro, sorgeva un villaggio del Club mediterannée. Il tour operator francese si era insediato a Palinuro nel 1954 e l’aveva lanciata come meta del turismo di massa. E dal momento che le leggi regionali vietavano la cementificazione vicino al mare, il vil-laggio turistico, che si estendeva per oltre 15 ettari, era costituito esclusivamente da tukul, capanne di legno e paglia. Nel 1980, però, il Club mediterranée non ha più rinnovato il contratto di affitto di quei terreni. I proprietari si erano resi conto che per loro era molto più conveniente costruire che non affittare. E quindi hanno cominciato a trasformare i tukul in ville.

In questo modo, è partita la speculazione. Ovviamente, non avrebbe potuto avere dimensioni così devastanti per il territorio se non ci fosse stata la connivenza delle istituzioni locali, che per trent’anni chiuso tutti e due gli occhi. Infatti anche Speranza, che nel negli anni ’80 si è battuto per fare rimanere il Club mediterranée a Palinuro, ammette: «Se ci sono tali brutture nel nostro paese non è perché siamo stati colonizzati dai marziani. Siamo noi stessi gli artefici del nostro sottosviluppo». Ilprimo cittadino, però, nonostante il sequestro, ci tiene ad aprire una polemica sui vincoli paesaggistici, secondo lui troppo rigidi: « Io combatto ogni giorno con la Sovrintendenza e con il Parco per le licenze edilizie. Ho dovuto fare i salti mortali per farmi autorizzare la costruzione di un piccolo parco giochi. Se le regole sono troppo rigorose, nell’opinione della gente, un abuso minimo finisce con l’essere equiparato a uno grande».

Non la pensa sicuramente così Alfredo Greco, il pm della Procura di Vallo che ha chiesto il sequestro. A Terra, spiega: «Quell’area è stata devastata. Da anni la magistratura prova a bloccare la lottizzazione abusiva, ma purtroppo per questo tipo di reato la prescrizione arriva prestissimo. In tutti i procedimenti giudiziari avviati in passato non si è mai arrivati a una sentenza passata in giudicato».

Un recente editoriale del Giornale dell'Arte denuncia con veemenza e amarezza la consistenza dei tagli imposti dalla Finanziaria alle attività culturali, l'incoerenza di tali provvedimenti rispetto all'ampiezza del patrimonio artistico del paese e al suo potenziale valore per il suo sviluppo, l'arbitrarietà della loro distribuzione. Non è una critica nuova: la contrazione delle risorse pubbliche, la riduzione degli spazi di azione dello stato nel campo culturale sono tendenze ormai denunciate da anni, certamente non solo in Italia. Anche gli argomenti che hanno animato il dibattito si sono ormai codificati in schieramenti ("beniculturalisti" contro "economicisti") che impediscono una visione più chiara dei problemi. Da un lato si denuncia la farraginosità, l'inefficienza, la neghittosità, la mancanza di incentivi della struttura pubblica, che accompagnano una gestione largamente inadeguata del nostro patrimonio culturale e in generale di ogni produzione culturale "pubblica" (dal cinema alla lirica) e si saluta l'avvento salvifico del privato.

Dall'altra si risponde ricordando la complessità di un territorio in cui pullula la ricchezza e la stratificazione storica, in cui esistono migliaia di musei, pievi, chiese, teatri, ville, castelli, evidenze archeologiche. archivi, biblioteche, che chiedono attenzioni, risorse, restauri, protezione cui nessun privato può provvedere, e producono una farragine di esigenze sotto cui la struttura pubblica soccombe in un momento di risorse scarse. Così mentre il dibattito tecnico e culturale è in stallo, la forza delle cose prosegue a mietere risorse con un abbrivio apparentemente inarrestabile. Secondo la visione oggi dominante, il senso di musei, istituzioni, luoghi d'arte sembra oggi condizionato dalla loro capacità di essere agenti per lo sviluppo, di attrarre turismo e consumo, di produrre ricchezza. A parte i problemi tecnici posti da quest'ordine di valutazioni, e senza nulla togliere alla necessità di vedere le cose "anche" in questa prospettiva, l'impressione è di essere di nuovo alle prese con la consueta, esasperante, tendenza all'unilateralità: è fin troppo ovvio che la posta in gioco più importante non è il turismo ma l'educazione, la diffusione delle opportunità, la capacità di convivenza.

C'è bisogno di una svolta, che parta dalla consapevolezza della centralità del problema. La cultura e le arti stanno ponendo una questione centrale al pensiero economico e politico contemporaneo, e lo fanno mettendo in gioco la loro possibilità di fiorire o di decadere, portando con sé i destini complessivi delle nostre collettività. La risposta a questa interrogazione chiede cura e umiltà, chiede di unire i saperi e i pensieri per dare forma a una ecologia delle arti e della cultura capace di preparare le condizioni istitutive delle arti nel futuro. Se non altro per consentire alle arti di offrirci ancora la possibilità — citando Agnes Martin — "di attraversare la vita con gioia" offrendoci "un'esperienza completamente soddisfacente, anche se elusiva...". La posta in gioco più importante sono l'educazione, la convivenza, le opportunità.

Italia Nostra ha presentato ieri un interessante rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, dal titolo "Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica" che dà conto della sostanziale inadempienza di tutti gli organi dello Stato in materia.

Il quadro è desolante: le esperienze migliori sono quella sarda, che la giunta di centro destra sta smantellando; i 15 piani paesistici, ormai di 15 anni fa, redatti in Campania e approvati nel 1996 dall'allora Ministro Paolucci scavalcando la regione.

Le regioni del tradizionale buon governo urbanistico: Toscana, Emilia Romagna, Umbria, sembrano regredire in una visione meramente urbanistico - edilizia della pianificazione. La Toscana in qualche modo ha perseverato (come non ricordare la vicenda della delibera 296 a seguito del Decreto Galassopo legge 412 del 1985); le altre rischiano concretamente di tornare indietro: l' Emilia Romagna abbandonando il piano territoriale redatto con Felicia Bottino assessore, l'Umbria rinunciando al "cuore verde d'Italia".

Il Lazio ha una buona proposta di piano. Ma il cambio di maggioranza di governo sembra preludere al peggio, magari sfruttando le 18000 osservazioni presentate.

Bolzano è ancorata al presupposto che l'applicazione della tutela naturale e paesaggistica abbia la precedenza di fronte agli utilizzatori del territorio e questo fin'ora ha consentito buoni risultati che pero appaiono anche fortemente radicati in una cultura di tradizionale attaccamento alla terra, all'agricoltura.

Il Ministero non ha dettato le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio con finalità di indirizzo della pianificazione, non c'è ufficio ministeriale che deve occuparsene, non c'è copianificazione con le regioni come previsto dal codice dei beni culturali, d'altra parte le soprintendenze sono state stremate.

Sorge il dubbio se esistano le regioni, o meglio se queste siano state ridotte alla funzione di produzione di indirizzi senza sostanziale cogenza e funzionalità, per responsabilità politica, ma non solo.

Le province sono state ridotte a ruoli marginali, tanto che si ha l'impressione che i piani territoriali di coordinamento siano al meglio strumenti di valenza ricognitoria senza capacità alcuna di influire sulle sorti del territorio quando la pianificazione di area vasta appare irrinunciabile.

I comuni comunque fanno, però nei casi migliori le amministrazioni formano il consenso anche sull'urbanistica e l'edilizia, seppure contemperando vari interessi, nei peggiore scambiano i mattoni con voti e potere.

Non c'è dubbio: "Paesaggio: la tutela negata", come sintetizzano Vezio de Lucia e Maria Pia Guermandi. Ciò detto e dato il merito ad Italia Nostra di aver mostrato una situazione che potremmo definire disastrosa, bisogna cercare di ragionare per cercare di porre rimedio.

E' indubbio che si debbano superare errate e negative applicazioni del titolo V della Costituzione in merito alla concezione della sussidiarietà, del pluralismo istituzionale paritario, che per esempio hanno trovato esasperata e negativa applicazione in Toscana.

Altrettanto sembra evidente che si debba richiedere la formazione di una rinnovata classe dirigente ministeriale in sede centrale ed in sede decentrata dove la tutela è ridotta a limitare il danno imponendo soluzioni edilizio - architettoniche che scimmiottano sempre peggio l'edilizia storica, ma pur sempre nuove costruzioni propongono; una classe dirigente capace di elaborare piani paesaggistici ed urbanistici (nel senso che introiettano il piano paesaggistico come presupposto, invariante strutturale del territorio) unitamente alle regioni.

Ma non possiamo neanche tacere delle evidenti lacune delle scuole di architettura ed urbanistica (quest'ultime sempre meno e sempre meno affollate, mentre imperano le archistar); la grave latitanza di istituti culturali, come l'INU, che della tutela del paesaggio e del territorio, della difesa ed affermazione della pianificazione quale unico strumento di governo del territorio hanno fatto, almeno fino alle soglie degli anni 90 del secolo scorso, il connotato apprezzato a tutti i livelli, anche nello scontro talvolta radicale tra vedute diverse, uno strumento di motivazione di nuove leve tecniche e professionali.

Insomma, se non vogliamo assumere il rapporto di Italia Nostra come occasione di flagellazione, ma quale impulso positivo per una nuova stagione, dobbiamo cercare di dare un contributo ad una svolta con la speranza che qualche forza politica raccolga l'esito del rapporto e le esigenze che da esso scaturiscono, assumendole come fondative del proprio programma per rifondare anche l'organizzazione legislativa, per redistribuire le competenze, per superare assurdi convincimenti circa l'equipollenza assoluta in termini di competenze e poteri tra il piccolo comune di 300 anime e una città di 300.000 abitanti; con l'auspicio che si torni a discutere, condividere, fare quanto è possibile; non già a comunicare decisioni assunte nella logica del fare ad ogni costo.

Nella tutela del paesaggio non c'è niente di rivoluzionario. C'è la condizione per il successo di ogni intrapresa umana, perché solo la qualità del paesaggio (inteso in senso olistico), può garantire la vivibilità, l'appetibilità di fruizione del territorio, esagerando anche i mattoni che si vanno mettendo insieme, magari e soprattutto, ristrutturando l'esistente. Lo si vuole capire?

IL PAESAGGIO: LA TUTELA NEGATA

“[...] si è costruito per lo più l’inutile e il superfluo, seconde e terze case invece della prima per chi ne aveva bisogno. [...] Perché la degradazione di città e territorio non diventi irreversibile è dunque necessaria, in quest’u/ltimo decennio del secolo, un’autentica rifondazione della pianificazione.”

Antonio Cederna, 1990

A vent’anni di distanza, il monito di Cederna è più che mai attuale e il tempo è ormai ridottissimo. Lo strumento è quello: una pianificazione territoriale mirata innanzi tutto a salvare quel paesaggio italiano, miracoloso risultato di secoli di armonica interazione fra uomo e natura.

Con questo Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica, Italia Nostra vuole presentare, seppure in estrema sintesi, un’analisi critica dell’attuale situazione della pianificazione in materia di paesaggio, regione per regione. L’obiettivo iniziale era di fornire un quadro aggiornato e ragionato della copianificazione paesaggistica che avrebbe dovuto essere, ad oltre due anni e mezzo dalla definitiva approvazione del Codice, a un avanzato grado di elaborazione su gran parte del territorio italiano. Ci siamo invece resi conto che si trova in uno stato di scandalosa impasse.

Apparentemente arbitro della partita, il ministero, sfibrato da anni di riduzione delle risorse finanziarie, di riorganizzazioni spesso fra loro contraddittorie e comunque incoerenti rispetto ai compiti prescritti dal Codice, da ultima la cancellazione di una direzione generale autonoma del paesaggio, sembra aver ridotto il proprio intervento a un mero ruolo di segreteria amministrativa, mentre gli organi periferici procedono in ordine sparso e con grandi difficoltà determinate non solo dalla scarsità delle risorse a disposizione, quanto soprattutto da un’inadeguatezza, eccezioni personali a parte, delle competenze di pianificazione.

Il rapporto è frutto, nel suo insieme, dello sforzo collettivo di Italia Nostra, che attraverso i suoi Consigli regionali e oltre duecento sezioni ha consentito un’indagine estesa praticamente all’intero territorio nazionale. Pur con i limiti derivati, fra l’altro, dalla difficoltà di reperimento di informazioni affidabili, e con una disomogeneità che rispecchia, d’altronde, quella territoriale, il presente rapporto, il primo di questo genere in Italia, fornisce un quadro drammaticamente chiaro della situazione italiana.

A partire da questo primo risultato Italia Nostra intende costituire un Osservatorio indipendente e permanente sul paesaggio che assicuri un monitoraggio duraturo della pianificazione paesaggistica e che estenda, nelle prossime tappe, la propria analisi a tutti i fattori che agiscono sul nostro paesaggio.

A cominciare dal federalismo demaniale e dal perverso intreccio di una congerie di provvedimenti normativi di varia natura (piano casa, semplificazioni dell’autorizzazione paesaggistica e nuove regole per le conferenze dei servizi) che rischiano di innescare un micidiale meccanismo di accelerazione alle trasformazioni sul territorio difficilmente governabile dall’attuale sistema delle tutele.

Come le recentissime linee guida per l’autorizzazione alla costruzione di impianti alimentati da fonti rinnovabili (Dm 10/9/2010), pur emanate in concerto con il ministero Beni culturali, che presentano veri e propri profili di illegittimità laddove tendono ad annullare la preminenza della tutela del paesaggio rispetto a ogni altro interesse pubblico sancita dall’art. 9 della Costituzione.

1. Com’è noto, i piani paesaggistici previsti dal Codice del paesaggio devono essere elaborati “congiuntamente tra Ministero e regioni” (art. 135, c. 1). Questa è una delle differenze sostanziali con i piani paesistici ovvero paesistico-territoriali della legge 431 del 1985 (cosiddetta Galasso) che erano di esclusiva competenza regionale.

L’elaborazione congiunta Stato regioni è evidentemente un rilevante passo avanti, dal nostro punto di vista, rispetto al trionfante e indistinto regionalismo dei giorni nostri, tanto più apprezzabile in quanto opera, in gran parte, di una maggioranza politica che fa del federalismo un suo tratto distintivo. D’altra parte, la partecipazione dello Stato alla formazione dei piani paesaggistici era una condizione indispensabile per realizzare la previsione di cui all’art. 131, c. 2, del Codice e cioè la tutela del paesaggio “relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”: parole che riprendono quelle scritte da Benedetto Croce in occasione della legge 778 del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”).

Che la partecipazione dello Stato non debba essere solo nominale, e comunque subordinata alle diverse iniziative regionali, ma debba essere invece unitariamente concepita è puntualizzato dall’art. 145, c.1 del Codice: “La individuazione, da parte del Ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali”.

L’art. 145 assume quindi un’importanza capitale, e va apprezzato il ritorno al lessico, da ascrivere a Massimo Severo Giannini, del noto e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616 del 1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica.

Ma quest’aspetto davvero innovativo del Codice, è totalmente disatteso. Delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione” non c’è traccia. Non è stata possibile neanche l’individuazione dell’ufficio ministeriale che dovrebbe occuparsene.

E non basta. Dall’indagine condotta da Italia Nostra [cfr. il seguente punto3.] in nessuna regione risulta effettivamente operante l’elaborazione congiunta con lo Stato dei piani paesaggistici e il ministero non ha neppure provveduto a definire criteri uniformi per la redazione degli accordi di pianificazione.

Particolarmente critica appare poi la fase dei monitoraggi. Mentre le regioni stanno provvedendo in ordine sparso e senza riscontri certificati ad alcune delle verifiche previste dal Codice (art. 159: le regioni provvedono a verificare la sussistenza, nei soggetti delegati all'esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica stabiliti dall'articolo 146, comma 6, apportando le eventuali necessarie modificazioni all'assetto della funzione delegata), il ministero non ha ancora attivato l’osservatorio nazionale sul paesaggio, da tempo costituito, pur se con compiti alquanto vaghi e neppure ha mai fornito criteri omogenei per la costituzione degli osservatori regionali che, per quanto risulta dalle documentazioni disponibili, appaiono del tutto privi di quelle caratteristiche di terzietà basilari per garantirne efficacia ed indipendenza di giudizio.

2. Prima di dar conto delle situazioni regionali quali emergono dai documenti di Italia Nostra, va sottolineata un’altra importante novità del Codice relativa alla possibilità di individuare direttamente ulteriori beni paesaggistici (art. 134, c. 1 lett. c) oltre a quelli derivanti da provvedimenti amministrativi (art.136) e a quelli stabiliti per legge (art. 142). Tre piani paesaggistici, Sardegna, Marche e Lazio si sono avvalsi, seppure con forme differenti, di tale possibilità.

Cadono in tal modo molte riserve sulla effettiva portata della tutela da parte del piano paesaggistico – considerato erroneamente settoriale e circoscritto – che trova in questo modo la possibilità di estendere ai territori con prerogative di conservazione del paesaggio la propria diretta azione di salvaguardia e tutela.

3. La sintesi che proponiamo, fondata in massima parte sulle relazioni dei referenti urbanistici di Italia Nostra, riguarda di fatto l’intero territorio nazionale, comprendendo, quindi, anche le regioni escluse, in virtù del loro statuto di autonomia, dall’obbligo di adeguamento della pianificazione ai sensi del Codice (Valle d’Aosta, Province di Trento e Bolzano, Sicilia).

La regione Piemonte fu tra le prime a dotarsi di una legge urbanistica regionale (la famosa legge Astengo, 56/1977) lungimirante in materia di tutela del territorio ma successivamente tradita e snaturata. Non si è mai dotata invece di piani paesistici (ma solo di alcuni cosiddetti piani settoriali). Nel 2005 si è messo mano al piano paesaggistico adottato in giunta nel dicembre 2009, oggetto di puntuali osservazioni e critiche formulate dal consiglio interregionale di Italia Nostra. La prevista attuazione del piano paesaggistico tramite i piani territoriali di coordinamento provinciali (scarasamente cogenti); la mancata subordinazione del piano territoriale regionale al piano paesaggistico; l’assenza di norme immediatamente prescrittive a far data dall’adozione del piano medesimo (art. 143, c. 9 del Codice) se non per i “corridoi” delle grandi infrastrutture e per i vincoli ope legis; la mancata indicazione dei laghi e delle fasce contermini fra i beni da tutelare: questi sono solo alcuni dei difetti e degli errori denunciati da Italia Nostra. Si chiedeva pertanto un’accurata revisione del piano, individuando una specifica criticità nelle problematiche di gestione. Con il cambiamento del quadro politico regionale, l’iter del Ppr langue. Ad oggi non è stata ancora costituita la commissione regionale per il paesaggio,mentre operano quelle locali che garantiscono ai comuni l’esercizio della subdelega.

La regione Liguria si era dotata in tempi assai brevi (adozione nel 1986) di un piano territoriale di coordinamento paesistico, esteso a tutto il territorio, ai sensi della legge Galasso. Ai fini della tutela del paesaggio, l’efficacia di tale strumento, caratterizzato peraltro da margini interpretativi assai ampi, è stata fortemente attenuata, negli anni, dalla deroga ai comuni in materia di definizione dei vincoli, dall’uso generalizzato di varianti di programma e conferenze di servizi. Tali pratiche distorte di pianificazione hanno agevolato quegli effetti di “rapallizzazione” per cui il territorio ligure è tristemente noto. Nel luglio 2009 è stata adottata una variante del piano territoriale di coordinamento relativa a 82 comuni quale primo adeguamento al Codice che però non appare dotata di quell’efficacia in grado di operare un’inversione di tendenza rispetto alla crescente pressione edilizia in atto.

Non ancora avviata è l’attività di copianificazione con il ministero.

La Val d’Aosta, esclusa dal proprio statuto di autonomia amministrativa dall’adeguamento della propria pianificazione ai sensi del Codice, è dotata di un Piano territoriale paesistico approvato nel 1998, non orientato specificamente alla valenza paesaggistica, tant’è vero che i beni culturali e ambientali sono solo una delle nove “orientations sectorielles”. Il Ptp ha un carattere prevalentemente descrittivo; generalizzata è la delega ai comuni per quanto riguarda le attività di tutela del paesaggio. Preoccupanti segnali derivano dalle recenti iniziative in materia di progetti territoriali (v. VdA Nature Métro) che, utilizzando finanziamenti europei, paiono coniugare gli ormai abusati riferimenti alla valorizzazione e alla green economy principalmente in termini di infrastrutture, impianti di energia rinnovabile e

“sviluppo di dinamiche di crescita economica”.

In Lombardia non esiste un piano paesaggistico. È stato recentemente predisposto uno schema di piano paesaggistico, all’interno del Piano territoriale regionale, approvato nel gennaio 2010, in contrasto con il Codice nello spirito, nel metodo e nei contenuti. Il documento, unilateralmente predisposto dalla regione, si limita a una descrizione del territorio senza regole né norme e non è sottoscritto dal direttore regionale dei Beni culturali, anche se sono sempre più forti le pressioni regionali in tal senso.

Pur esclusa grazie all’autonomia speciale dalla copianificazione ai sensi del Codice (Corte costituzionale sentenza 2009/226), la Provincia di Trento è dotata di un piano urbanistico provinciale fin dal 1967 che, soprattutto in anni passati, si è rivelato efficace nella tutela del paesaggio. Attualmente, però (l’ultima revisione risale al 2008) tale strumento non appare adeguato a contrastare i fenomeni di dispersione urbana e l’espansione selvaggia delle infrastrutture in zona montana.

Allo stesso modo esclusa dalle procedure pianificatorie stabilite dal Codice, la Provincia di Bolzano esercita le attività di tutela del paesaggio elaborando, sulla base della legge provinciale 16/1970, le Linee guida natura e paesaggio Alto Adige, alle quali si devono conformare i piani paesaggistici veri e propri, redatti su base comunale, che contengono il “piano dei vincoli paesaggistici”, considerato dalla stessa Amministrazione provinciale, un "prodotto di successo" in quanto “nessuna regione all'interno o all'estero può annoverare tra le sue conquiste un sistema di zone protette esteso alla quasi totalità della sua superficie”.

In linea con questo risultato appare d’altro canto la strategia generale di pianificazione, imperniata sul presupposto che “l'applicazione della tutela naturale e paesaggistica abbia la precedenza di fronte agli utilizzatori del territorio”.

La regione Friuli Venezia Giulia risulta a tutt’oggi priva di piano paesaggistico. Nella vigente, recente legge regionale 22/2009 con cui si avviano le procedure per l’elaborazione del piano di governo del territorio, è del tutto assente ogni normativa specifica sulla pianificazione paesaggistica, demandata alla futura copianificazione ai sensi del Codice. La cosiddetta Carta dei valori, una sorta di elaborato introduttivo al piano, appare un documento dalle finalità poco chiare e improntate ad un lessico a dir poco ambiguo: a tal punto che il termine paesaggio non viene praticamente mai utilizzato.

Il Veneto dispone di un piano territoriale regionale di coordinamento, adottato nel 1986 e approvato nel 1991, al quale era stata data efficacia ai fini della legge Galasso, in particolare mediante alcuni “piani d’area” successivamente approvati: tra questi, il piano d’area della Laguna di Venezia, dotato di adeguate prescrizioni di tutela. A norma del Codice la regione avrebbe dovuto procedere all’adeguamento di tali strumenti alle nuove prescrizioni legislative. Invece la regione ha adottato, nel 2009, un Ptrc del tutto inefficace, riservandosi di procedere solo successivamente alla formazione di un vero e proprio piano paesaggistico, secondo il percorso prescritto dal Codice.

Il Ptrc ha confermato i pesanti, e spesso inutili, interventi di infrastrutture soprattutto stradali e le numerose new cities giustificate solo da interessi immobiliaristici, e presenta un’assoluta mancanza di cogenza delle esortazioni di difesa del territorio rurale; ha inoltre sancito l’esplicito (e illegittimo) “superamento” delle poche prescrizioni di tutela contenute nei previgenti strumenti di pianificazione: la tutela diviene “possibile” e non cogente, ed è comunque lasciata alla buona volontà di questo o quel comune, disomogenea e a pelle di leopardo.

Il Ptrc è stato oggetto di una fortissima contestazione organizzata da una rete che ha raccolto oltre un centinaio di associazioni e comitati, fra i quali le diverse strutture di Italia Nostra Veneto: la rete ha presentato 14 mila osservazioni, col risultato di bloccare l’iter del piano.

Non risulta che l’attuale giunta regionale stia procedendo con le attività di copianificazione ai sensi del Codice se non in senso di una mera ricognizione tecnico-giuridico-cartografica dei vincoli.

L’Emilia Romagna si dotò a suo tempo, nel 1993, del piano paesistico da molti ritenuto il più efficace e rigoroso. Prescrizioni direttamente operative a tutela dei crinali e del sistema collinare, della costa, dei corsi d’acqua, delle zone d’interesse storico e paesaggistico ambientale, unite a precisi indirizzi e direttive per i piani sotto-ordinati e per le altre amministrazioni: tutto ciò ha sicuramente portato a risultati importanti preservando il paesaggio e orientando positivamente l’azione degli enti locali e la formazione degli strumenti urbanistici. Ma i principi ispiratori del piano paesistico del 1993 sono stati a mano a mano dimenticati. Nella recente legge regionale per il paesaggio (n.23/2009) è evidente la rinuncia a dettare norme cogenti e il futuro piano paesaggistico è configurato come mera sommatoria dei piani di coordinamento provinciali e dei piani strutturali comunali senza quegli approfondimenti (per esempio in materia di controllo degli interventi di trasformazione delle aree già urbanizzate) che Italia Nostra si aspettava.

La Toscana è sempre stata una regione congenitamente contraria a qualsivoglia autonomia della pianificazione del paesaggio rispetto a quella urbanistica. Il protagonismo dei comuni è assoluto. Fin dal 1979 furono subdelegate ai comuni le funzioni delegate nel 1977 dallo Stato alle regioni. In coerenza con questa impostazione non sono mai stati redatti i piani paesistici della legge Galasso né i piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali. La centralità comunale è stata rafforzata dalla legge urbanistica del 1995, quella che prevede l’articolazione del piano regolatore in due componenti: piano strutturale e regolamento urbanistico. Ancora più marcata è l’autosufficienza comunale stabilita dalla successiva legge regionale urbanistica del 2005 che si rifà a un’esasperata concezione di quel “pluralismo istituzionale paritario” che sarebbe il portato delle infelici modifiche al titolo V della Costituzione del 2001, e a un’altrettanto esasperata concezione della sussidiarietà. Con sentenza del 2006, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge toscana del 2005 per contrasto con il Codice del paesaggio. Ma la regione non demorde e attribuisce valore di piano paesaggistico al Pit – piano di indirizzo territoriale – un piano che non assume mai efficacia immediatamente precettiva e che, secondo Italia Nostra, risponde a una prevalente concezione del territorio come “motore dello sviluppo” cui è subordinata la tutela. Ma in Toscana, come si sa, anche a seguito di un vivace dibattito sviluppato a partire dal 2006 dalle organizzazioni ambientaliste sulle carenze regionali in materia di controllo dei valori paesaggistici, è stato operato un radicale rinnovamento della giunta regionale che ha avviato una positiva revisione della tradizionale politica urbanistica.

La regione Marche nel 1989 si era tempestivamente dotata di un piano paesistico ambientale “semplice ma al contempo intelligente ed immediatamente efficace”. A partire dal 2001 è iniziata però una irreversibile inversione di rotta a opera di una politica ammaliata dalla deregulation e dalle pratiche derogatorie che hanno progressivamente indebolito a livello di gestione l’efficacia del piano del 1989. Recentemente la giunta regionale ha messo mano all’adeguamento del piano paesistico al Codice del paesaggio con un documento che preoccupa Italia Nostra. Di fondamentale importanza, secondo la nostra associazione, è il recupero, da parte della regione, di forti e importanti funzioni di coordinamento e controllo, da esercitare insieme alle soprintendenze, “unico deterrente valido per controllare e gestire in modo adeguato i particolarismi e i campanilismi pubblici e privati sempre presenti o latenti, nonché indicare nella provincia l’ambito ottimale per individuare e sancire le invarianti paesistico-ambientali in alcun modo derogabili a livello degli adeguamenti comunali”.

Particolarmente preoccupante la situazione dell’Umbria dove la regione pare intenzionata a rinnegare 40 anni di tutela. Nel documento d’avvio del nuovo piano urbanistico territoriale si legge che “l’idea guida assunta alla base del Disegno strategico territoriale reinterpreta un’immagine consolidata, quella di «Umbria verde» o di «Umbria cuore verde d’Italia»”. Si propone “il superamento” di quell’immagine, “stante il suo valore evocativo più che descrittivo”, per sostituirla con “Umbria territorio-snodo”, cioè soprattutto asfalto e cemento. Ma “in Umbria batte ancora forte un cuore verde” assicura Italia Nostra.

Il piano territoriale paesistico regionale della regione Lazio, adottato e tuttora in corso di formazione, costituisce forse il primo organico tentativo di applicazione delle innovazioni introdotte dal Codice dunque va seguito con attenzione soprattutto per verificare l'esito delle controdeduzioni alle 18 mila osservazioni, pervenute a seguito della pubblicazione, che potrebbero stravolgerne l'impostazione.

Il piano presenta luci e ombre. Fra le prime si segnalano: la corretta applicazione dell'articolo 134 lettera c) in particolare vengono individuati quali nuovi beni paesaggistici tutti i centri storici dei comuni del Lazio e ampie zone della campagna romana e delle aree agricole delle bonifiche oltre ad altri beni identitari quali casali agricoli e beni storici ed archeologici; inoltre il dettaglio dell’impianto conoscitivo (base cartografica 1:10.000); infine che alla sua formazione ha partecipato il Ministero con tutte le soprintendenze. Le ombre riguardano la modifica dei vigenti piani territoriali paesistici (discendenti dalla legge Galasso) attraverso l'accoglimento, da parte del consiglio regionale, di numerose osservazioni comunali che, come prescrive la legge regionale, sono preliminari all'adozione, peraltro senza adeguate forme di pubblicità, una particolare indulgenza è stata rivolta al comune di Roma ed al suo nuovo Prg; inoltre non appare del tutto evidente con quali criteri è stata operata la traslazione delle tutele dai vigenti piani paesistici al nuovo piano territoriale paesaggistico adottato.

In Abruzzo, fin dall’inizio, il piano paesistico – approvato nel 1990, articolato in 11 ambiti (in effetti 11 piani paesistici) – è stato caratterizzato “dalla soccombenza della tutela del paesaggio ai differenti interessi economici”. In particolare, il piano vigente ha escluso dagli ambiti della propria competenza tutte le aree agricole della collina adriatica. Risulta così privo di ogni forma di tutela proprio il territorio più prossimo alla conurbazione costiera interessata dai più rilevanti processi di crescita edilizia. Le pressioni insediative in questi delicati contesti si sono trasformate in significative tendenze al consumo del suolo e alla compromissione di delicati paesaggi agrari. Nel 2006 è stata affidata all’esterno la formazione del nuovo piano paesaggistico che, con ritardi sensibili rispetto ai tempi previsti, è giunta alla presentazione delle analisi dalla cui lettura emergono gravi carenze nei contenuti e preoccupanti negligenze nell’impostazione, soprattutto per quanto riguarda lo spazio rurale. Il deficit di partecipazione finora registrato dovrà comunque essere colmato, è la legge che lo impone, con l’avvio della Vas.

Resta da dire, dell’assenza di qualsivoglia politica di tutela paesaggistica nel territorio dell’Abruzzo colpito dal terremoto dell’aprile 2009. Il Comitatus aquilanus e il Circolo per la valorizzazione delle terre pubbliche hanno denunciato che il commissariato per la ricostruzione propone illegittimamente come riferimento-base di tutela, “non il piano regionale paesistico vigente, ma il controverso nuovo piano paesaggistico in elaborazione” (a cura di Ecosfera-Inu)”, e soprattutto la sua “devastante e liberatoria Carta dell’armatura urbana”.

Il Molise si dotò, nel 1989, di un piano territoriale in adeguamento alla legge Galasso a carattere quasi esclusivamente descrittivo e quindi privo di quelle caratteristiche di prescrittività indispensabili per una adeguata tutela paesaggistica. Da allora, nulla si è mosso su questo versante e la regione non ha mai iniziato, neppure formalmente, l’iter per l’adeguamento della propria legislazione al Codice.

La Campania, regione più di ogni altra devastata dall’abusivismo e dal malgoverno, non si è mai dotata di un piano paesistico, a eccezione del piano urbanistico territoriale della Costiera amalfitana e della Penisola sorrentina approvato con legge regionale nel 1987 (in effetti, il Put deriva da un piano territoriale di coordinamento che Italia Nostra aveva “imposto”, per così dire, al ministero dei Lavori pubblici prima dell’istituzione delle regioni). In Campania sono invece vigenti ben 14 piani paesistici formati dai funzionari delle soprintendenze (coordinati da Antonio Iannello) approvati nel 1996 con decreto del ministro Paolucci in sostituzione della regione. Nel 2005 la regione ha approvato con legge un piano territoriale regionale, ma assente è l’iniziativa in materia di tutela.

La regione Basilicata non è ancora dotata di un piano paesaggistico esteso all’intero territorio regionale, attualmente in fase di redazione ai sensi del Dgr 366/2008. Tale strumento dovrebbe ovviamente rispondere alle prescrizioni del Codice, ma la fase di copianificazione con il ministero non si è ancora avviata, neppure a livello formale.

La Puglia dispone di un piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (Putt/p) del 2000 che non ha posto un argine al malgoverno del territorio, al sovradimensionamento dei piani, al dilagare dell’abusivismo. Nel 2010 è stata adottata la proposta di nuovo piano paesaggistico. Italia Nostra, che ha attivamente seguito l’iter di formazione e ha contributo alla procedura Vas, si ritiene però insoddisfatta dei risultati raggiunti. Teme che “la democrazia partecipata” di cui sono permeate le norme possa non essere efficace nel contrastare progetti di manomissione del territorio ed ha presentato apposite osservazioni.

La regione Calabria non dispone di piani paesistici. A gennaio 2010 la precedente Giunta era riuscita ad approvare il quadro territoriale regionale con valenza paesaggistica (Q.T.R./p.) con il quale la Calabria si sarebbe dotata, per la prima volta, di uno strumento di regolazione del territorio esteso a tutta la regione; nel dicembre 2009 era altresì iniziato, almeno formalmente, l’iter di copianificazione. Ma il Q.T.R./p., pur di efficacia limitata, non è mai stato approvato dal consiglio regionale e non è quindi vigente. Attualmente ogni attività pianificatoria pare bloccata, mentre continua inarrestabile, fra abusivismo e dissesto idrogeologico, lo sfacelo del territorio.

Neanche la regione Sicilia dispone di piani paesistici ai sensi della legge Galasso e risulta comunque esclusa dall’obbligo della copianificazione ai sensi del Codice. Nel 1999 è stato approvato un documento di “Linee guida” per formare 17 piani paesistici affidati alle 9 soprintendenze regionali. I piani paesistici sono attualmente in formazione (alcuni adottati). Significativo appare quanto accaduto in queste ultime settimane per quanto riguarda l’ultimo di questi piani, quello relativo alla provincia di Ragusa: dopo averne boicottato l’iter di formazione, gli enti locali e le associazioni di categoria, una volta adottato dalla regione nell’agosto 2010, si sono violentemente scagliate contro il piano considerato come una vera e propria minaccia allo “sviluppo” del territorio. Addirittura le associazioni sindacali, per una volta unite nell’impresa, in un incredibile documento hanno definito le prescrizioni del piano “aggressioni in puro stile terroristico contro il progresso economico” ordite da parte di “una dittatura intellettuale”, rappresentata in particolare dalla locale soprintendenza ai beni culturali e ambientali.

La regione Sardegna rappresenta un caso affatto particolare in quanto, pur dotata di un recentissimo piano adeguato ai sensi del Codice, ne ha già iniziato la revisione. Dopo una lunga fase di sostanziale assenza di strumenti di una qualche efficacia ai fini della tutela paesaggistica – i 14 piani paesaggistici emanati in adeguamento alla legge Galasso all’inizio degli anni Novanta sono poi stati annullati, tutti tranne uno, poiché ritenuti addirittura in contrasto con l’esigenza di tutela del paesaggio – con la giunta Soru, 2004-2008, la regione ha conosciuto una decisiva inversione di tendenza. Nel 2004, la così detta legge “salvacoste”, legge regionale 8/2004, diviene il primo tassello del piano paesaggistico regionale approvato in via definitiva nel settembre 2006. Fra gli elementi di innovazione del PPR sardo, la suddivisione in due successivi livelli normativi: il primo relativo alla tutela dei beni paesaggistici veri e propri (fra i quali è inserita la fascia costiera nella sua interezza), l’altro che detta le prescrizioni sugli ambiti di paesaggio individuati. Così pure rilevante appare l’inserimento dei centri e dei nuclei storici fra beni paesaggistici tutelati. Ma soprattutto, in perfetto allineamento con il contemporaneo Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’elaborazione del piano paesaggistico regionale sardo si è conformata, per espresso volere degli organi regionali, ad una copianificazione con gli organi del ministero, anche se, per evidenti motivi, non ha potuto tenere conto degli ultimi emendamenti del Codice stesso introdotti nel 2008. Lo stesso ministero ne ha comunque riconosciuto di fatto l’adeguamento ai criteri stabiliti dal Codice stesso.

L’iter di applicazione del piano si è scontrato da subito con la fortissima opposizione da parte, fra gli altri, degli enti locali. Purtroppo, la nuova giunta Cappellacci ha fatto della revisione del Ppr uno dei punti qualificanti della sua azione di governo. Tale revisione, iniziata a partire dal giugno 2010 sotto la stravagante denominazione di “Sardegna Nuove Idee”, affida la propria strategia alle parole d’ordine di “concertazione” e “compartecipazione” che lasciano prefigurare un cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie degli enti locali.

4. Come abbiamo visto il quadro generale della pianificazione presenta gravissimi elementi di criticità. In generale, i piani paesaggistici elaborati dalle regioni possiedono solo raramente elementi prescrittivi e una definizione chiara di procedure e regole atte a regolamentare l’uso del territorio e a delimitare senza ambiguità le aree tutelate e i diversi livelli di tutela. Anche quelle che, soprattutto in adeguamento alla legge Galasso, avevano elaborato piani adeguati ad una efficace tutela paesaggistica (Emilia Romagna, Marche, Umbria) ne hanno progressivamente indebolito l’impianto. Un contraccolpo fortemente negativo alla pianificazione è rappresentato poi dagli avvicendamenti dovuti all’ultima tornata elettorale a seguito dei quali alcune regioni che, faticosamente, avevano completato l’iter di formazione (e in un caso di approvazione) di un piano paesaggistico, rischiano di tornare al punto di partenza affrontando revisioni radicali degli strumenti elaborati (Sardegna, Lazio), mentre in altri casi (Calabria, Friuli), l’iter di copianificazione appena avviato è ora di nuovo confinato in una indeterminatezza priva di prospettive temporali ragionevoli.

In generale, la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale ordinaria dove comanda sempre il livello comunale, al quale è riconosciuta, un’autonomia ampia, quando non amplissima, mentre a livello regionale generalizzata è la rinuncia a operazioni di strategia territoriale su area vasta. A questa situazione di grave debolezza del sistema della tutela su base regionale, il ministero pare incapace di opporre alcuna strategia di rilancio delle operazioni di copianificazione.

Come detto, non solo le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio previste nell’art. 145, sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti, ma tale compito, seppur mai esplicitamente rinnegato, nell’attuale situazione di collasso organizzativo e di irrilevanza politica del ministero Beni culturali appare a dir poco velleitario.

Ma a mancare, a livello centrale, è anche l’elaborazione di un quadro univoco di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, solo, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, mentre ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile sembra l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati.

Ma soprattutto ci appare pericolosa l’ultima deriva “interpretativa” che l’amministrazione, a livello centrale e periferico, sta propugnando negli ultimi tempi, ormai sempre più esplicitamente anche in documenti ufficiali. Tale orientamento tende in sostanza ad oscurare il carattere di prevalenza e preminenza della tutela del paesaggio rispetto ad ogni altro interesse pubblico, pur eretto limpidamente a valore primario dalla disciplina costituzionale, per sostituirlo con un ben più accomodante ‘contemperamento’ fra la salvaguardia di tali valori e la esigenze della libera attività imprenditoriale anche laddove quest’ultima comporta pesanti interventi di trasformazione del territorio (v. da ultimo le sopra ricordate Linee guida per l’autorizzazione alla costruzione di impianti alimentati da fonti rinnovabili).

5. Eppure, anche se la situazione appare per certi versi drammatica, la vicenda della copianificazione paesaggistica non può essere abbandonata nel novero delle battaglie perdute. Troppo importante è la sua rilevanza: la pianificazione del paesaggio è la madre di tutte le battaglie per le sorti del territorio e del patrimonio culturale italiano.

Per queste ragioni Italia Nostra intende non solo limitarsi a una denuncia degli inadempimenti, ma sollecitare innanzi tutto il Ministero perchè si faccia promotore di un decisivo rilancio delle attività di copianificazione

A partire dalla redazione delle “linee fondamentali” dell’art. 145, per le quali Italia Nostra intende formulare proposte di merito che saranno oggetto di un apposito successivo approfondimento con il contributo delle indispensabili competenze. Un primo riferimento che evidenziamo riguarda i due elementi costitutivi basilari del paesaggio italiano, sui quali incombono gravissimi rischi di manomissione:

i centri storici

lo spazio rurale e naturale.

Riguardo ai centri storici riteniamo di dover riproporre, tra l’altro, il vincolo ope legis che da tempo Italia Nostra sollecita.

Il tema dello spazio rurale che comprende, appunto, quei territori sui quali appare più urgente la tutela in quanto teatro di alterazioni e modificazioni profonde e spesso irreversibili, riporta invece alla questione ormai ineludibile dello stop al consumo del suolo.

Per quanto riguarda le procedure di copianificazione, Italia Nostra richiede che il ministero stabilisca, a livello centrale, attraverso una definizione puntuale del contenuto degli accordi di pianificazione, le regole e i criteri affinchè i piani possiedano le prescrizioni e le cogenze necessarie a tutelare l’identità dei paesaggi propri delle singole regioni (standard cartografici, georeferenziazione aggiornata dei vincoli, strumenti di monitoraggio indipendenti, ecc.) verificando la congruenza delle attività di copianificazione svolte e in svolgimento a tali parametri e ricostituendo l’Osservatorio nazionale del paesaggio in modo che divenga un presidio di indirizzo e controllo realmente operativo e culturalmente aggiornato.

A Stato e regioni Italia Nostra evidenzia poi come, per interpretare compiutamente lo spirito del Codice, l’attività di pianificazione deve tendere a una espansione piuttosto che a una contrazione dei beni paesaggistici: anche laddove i valori originari siano stati alterati o compromessi deve essere privilegiata la riqualificazione. Conformando comunque gli obiettivi a quella preminenza dei valori di tutela del paesaggio stabiliti dalla nostra Costituzione.

“Abbiamo lavorato trent’anni per avere questo parco e adesso ce lo stanno distruggendo”. Pasquale Raia, responsabile Aree Protette di Legambiente Campania, sotto il Vesuvio ha combattuto la sua battaglia. Una battaglia che ha due martiri: i consiglieri comunali di Ottaviano, l’avvocato Pasquale Cappuccio, freddato nel settembre del ‘78 mentre era in auto con la moglie e Mimmo Beneventano, ammazzato nel novembre del 1980 davanti casa. Lottavano contro la speculazione edilizia che con la complicità della camorra di Ottaviano, quella di Raffaele Cutolo, stava cambiando faccia al territorio: costruzioni abusive che portavano cave; cave che, una volta svuotate dei materiali da costruzione, chiamavano rifiuti da interrare. Un ciclo della malavita che non accettava oppositori e che aveva modificato un’area dalle enormi bellezze naturali in una periferia malconcia della città di Napoli. “Dagli anni ‘60 e fino al 1994 in questo territorio si contavano quattro grandi discariche e diverse cave più o meno legali. Nel 1995, con l’istituzione del Parco Nazionale del Vesuvio, iniziarono gli abbattimenti dei manufatti abusivi, i divieti di cava, la chiusura degli sversatoi e il ritorno graduale alla normalità”.

Il parco ha un regolamento?

Nel 2008 il Consiglio regionale della Campania ha approvato il ‘piano del parco’ con le regole di tutela dell’ambiente e delle comunità che vi risiedono.

Che tipo di tutele ci sono?

L’area è divisa in quattro zone. Le prime due, quelle più prossime al cratere, godono di una ‘protezione integrale’. La terza ha una specializzazione agricola. La quarta prevede la possibilità di costruire piccole aree a servizio turistico.

Che succede se qualcuno costruisce in un’area tutelata come quella del parco?

Se si costruisce un muretto a secco arrivano le guardie forestali e fanno un verbale. Non si può costruire e non si può cavare. Ovviamente non si potrebbe neanche aprire una discarica.

Ma rispetto alle quattro zone di protezione dove si trova la cava Vitiello?

A cavallo tra la seconda e la terza area. Nella seconda, per intenderci, per norma non si possono fare neanche le visite guidate. Invece qui hanno costruito in poche settimane anche una strada asfaltata per permettere ai camion che trasportano i rifiuti di muoversi meglio. Non sappiamo chi l’abbia costruita, con che soldi, e a che titolo. Non ha ancora passato il collaudo, ma servirà a spostare i rifiuti nel parco nazionale.

Oltre che tutelare il paesaggio, il territorio ha delle produzioni di eccellenza...

Qui ci sono le cantine del Lacryma Christi e produzioni di qualità come il “piennolo”. Il produttore di questa varietà di pomodoro, oggi, ha inscenato anche una protesta a Terra Madre, al Salone Internazionale del Gusto di Torino, per dare pubblicità a questo scandalo che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti.

Secondo lei perché si è scelto di portare i rifiuti nel Parco del Vesuvio?

Per due motivi. Il primo è che i “buchi” lasciati dalle cave andavano ripristati prima che qualcuno immaginasse di riportarci i rifiuti. Il secondo è che la cava è gestita da A2A e Asia, la società che raccoglie i rifiuti a Napoli, e per loro è molto meno costoso portare l’immondizia sul Vesuvio che fuori regione.

Con il ricordo di Antonio Cederna nello sfondo, Italia Nostra ha presentato il Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica, un’analisi esauriente e critica dello stato della pianificazione in materia di paesaggio, regione per regione. Si sentiva questa necessità di avere notizie, e si deve rendere merito agli autori di questo lavoro. Questi hanno agito nella convinzione che la pianificazione del paesaggio sia “la madre di tutte le battaglie per le sorti del territorio e del patrimonio culturale italiano”. Così come pensava, appunto, Antonio Cederna. L’obiettivo è quello di capire la risposta del Paese alle disposizioni del Codice dei Beni culturali a quasi tre anni dalla sua approvazione. E dopo quasi un secolo dalle parole di Benedetto Croce in occasione della pubblicazione della legge del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”).

Italia Nostra non ha dubbi: un esito deludente e preoccupante. Il processo di trasformazione del territorio procede con determinazione (e non mancano le violazioni di legge), ma la strumentazione per la difesa del paesaggio italiano - risorsa patrimoniale di lunga durata – non è ancora adeguata ai bisogni e alla legge, né ci sono buoni segnali, come se si fosse deciso di rimanere disarmati contro chi è pronto ad approfittare di questo vuoto. Il rapporto della associazione (esteso alla fase che precede il Codice) è stato curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi. E’ basato sulle relazioni dei referenti nelle diverse regioni e riguarda l’intero territorio nazionale, e include anche le regioni che per il loro statuto sono esenti dall’obbligo di adeguamento della pianificazione ai sensi del Codice (Valle d’Aosta, Province di Trento e Bolzano, Sicilia).

Il rapporto si legge con apprensione: si scopre che anche le regioni più organizzate, quelle con lunga esperienza nelle attività di pianificazione, hanno sottovalutato la sfida. La richiesta che viene delle leggi statali di fare un salto di qualità nella tutela del paesaggio è stata in molti casi risolta in modo burocratico. Si capisce che si è spesso deciso di procedere in modo parziale, o utilizzando espedienti, lasciando margini di ambiguità molto ampi nella strumentazione. Così il giudizio sulla attività di molte regioni è molto duro e preoccupato. Specie nel caso di aree “difficili” come la Campania, “regione più di ogni altra devastata dall’abusivismo e dal malgoverno, che non si è mai dotata di un piano paesistico, ad eccezione del piano urbanistico territoriale della Costiera amalfitana e della Penisola sorrentina, approvato con legge regionale nel 1987”.

L’appello che Italia Nostra rivolge a Stato e regioni è di non perdere altro tempo prezioso e di valutare con cura i rischi che in alcuni contesti sono molto elevati. Si suggerisce, per interpretare pienamente lo spirito del Codice, che l’attività di pianificazione tenda ad una espansione piuttosto che a una furbesca contrazione dei beni paesaggistici. “Anche laddove i valori originari siano stati alterati o compromessi - si sottolinea - deve essere privilegiata la riqualificazione. Conformando comunque gli obiettivi alla preminenza dei valori di tutela del paesaggio stabiliti dalla nostra Costituzione”.

L’iniziativa, è bene ricordarlo, si tiene nei giorni in cui si celebra il decennale della Convenzione europea del paesaggio, documento che richiama con forza tutte le istituzioni a guardare con cura al valore dei luoghi, presupposto indispensabile per stare al passo con le

attese delle nuove generazioni che sul paesaggio fondano un pezzo del loro futuro.

IN SARDEGNA - Regione ad alto rischio

«In Sardegna - si legge nel rapporto di Italia nostra - nel 2004 la così detta legge “salvacoste” diviene il primo tassello del piano paesaggistico regionale approvato in via definitiva nel settembre 2006. Fra gli elementi di innovazione del ppr sardo, la suddivisione in due successivi livelli normativi: il primo relativo alla tutela dei beni paesaggistici veri e propri, l’altro che detta le prescrizioni sugli ambiti di paesaggio individuati». «Così pure rilevante appare - prosegue il rapporto - l’inserimento dei centri e dei nuclei storici fra beni paesaggistici tutelati. Ma soprattutto, in perfetto allineamento con il contemporaneo Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’elaborazione del piano paesaggistico regionale sardo si è conformata, per espresso volere degli organi regionali, ad una copianificazione con gli organi del ministero».

«L’iter di applicazione del piano si è scontrato da subito – rileva ancora Italia nostra - con la fortissima opposizione da parte, fra gli altri, degli enti locali. Purtroppo, la nuova giunta Cappellacci ha fatto della revisione del Ppr uno dei punti qualificanti della sua azione di governo. Tale revisione, iniziata a partire dal giugno 2010 sotto la stravagante denominazione di “Sardegna Nuove Idee”, affida la propria strategia alle parole d’ordine di “concertazione” e “compartecipazione” che lasciano prefigurare un cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie degli enti locali».

Il dossier presentato da Italia Nostra racconta di un Paese che non si cura del paesaggio E al codice che prescrive la co-pianificazione Stato-Regioni mancano le linee guida

Addio turismo. Una politica miope che suicida l'industria del turismo

Il caso Sicilia. Contro il piano del parco degli Iblei anche i sindacati

Sta sempre peggio il paesaggio italiano. Con alcune eccezioni, dovute all'impegno di singoli governatori - come in Toscana - a favore dell'ambiente. Eppure esiste un Codice che le Regioni dovrebbero applicare.

Il paesaggio italiano, malgrado le mille colate di cemento e asfalto, resta fra i più ammirati del mondo. Però sta sempre peggio. Il Ministero per i Beni Culturali ha cancellato la direzione generale per il paesaggio e sembra aver rinunciato alla co-pianificazione paesaggistica con le Regioni prevista dal Codice Urbani-Rutelli. Né si muovono granché le Regioni, tranne qualche lodevole eccezione (la Toscana con la nuova giunta). E' il succo amaro del rapporto presentato ieri a Italia Nostra dai consiglieri nazionali Vezio De Lucia, urbanista fra i più impegnati, e Maria Pia Guermandi dell'IBC Emilia-Romagna. Di qui il proposito di costituire un Osservatorio nazionale sul paesaggio e di battersi con più forza, visto che il MiBAC latita da quando Bondi ne è il titolare-fantasma.

DA CROCE IN POI.

La prima legge sul paesaggio risale a Benedetto Croce ed è del '22, ribadita da Bottai del '39. Nel '77 la delega alle Regioni rimaste inerti. La legge Galasso dell'85 le spinge a pianificare. Poche lo fanno (in primo luogo Emilia-Romagna, Marche, Liguria). Altre tardano. alcune non muovono paglia. Come sta avvenendo ora col Codice che prescrive la co-pianificazione Stato-Regioni. Al Ministero non c'è traccia né delle linee di piano, né "dell'ufficio ministeriale che dovrebbe occuparsene" ed è in atto una diaspora di direttori generali, centrali e regionali, e di soprintendenti. Si susseguono però le aggressioni al paesaggio più insensate, dalle trivellazioni nel Parco degli Iblei al Motodromo di Fermo (ben 120 ha). In assenza, ovunque, di pianificate tutele, viene "suicidato" lo stesso redditizio turismo culturale e naturalistico. Fra le Regioni solo una, la Sardegna, con la Giunta Soru, aveva invertito la rotta: decreto salva-coste e piano paesaggistico regionale conforme ai criteri del Codice. Col centrodestra si va alla revisione e al "cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie" dei Comuni. Che in tutta Italia dominano la scena. Indebitati fino agli occhi, possono usare anche per la spesa corrente, grazie al Testo Unico sull'edilizia (Bassanini), gli oneri di urbanizzazione. Ovvio che antepongano l'edilizia al paesaggio. Un disastro nazionale. Dice il Rapporto De Lucia-Guermandi. Il Piemonte non ha ancora costituito la commissione regionale per il paesaggio,. La Liguria ha adottato una variante aggiornata per 82 Comuni. La Val d'Aosta ha un piano del '98 e sub-delega i Comuni. In Lombardia "non esiste un piano paesaggistico", ma uno territoriale totalmente "in contrasto col Codice". Trento e Bolzano, anni fa all'avanguardia, ora lo sono meno. Il Friuli-Venezia Giulia non ha piani, solo una Carta dei valori. Nel Veneto il piano territoriale è del 2009 "del tutto inefficace" in un paesaggio già massacrato dal cemento. Emilia-Romagna, Marche e Umbria, un tempo avanzate, regrediscono in modo allarmante. La Toscana invece tenta un percorso inverso, virtuoso".

A MACCHIA DI LEOPARDO.

Nel Lazio il centrodestra minaccia di cancellare i progressi compiuti. In Abruzzo, zero piani, pure dopo il terremoto. In Molise nulla si muove dall'89. In Campania, dopo i piani del '96, nessuna "iniziativa in materia di tutela". Come in Basilicata. La Puglia ha adottato la proposta di piano di "Italia Nostra" con più di un'ombra. Niente di niente nella devastata Calabria. In Sicilia, piani paesaggistici "in formazione", ma contro il primo, quello degli Iblei (Ragusa), insorgono in tanti, sindacati in testa, accusandolo di "aggressioni in puro stile terroristico contro il progresso economico". Che dire ancora? Che siamo, povera Italia, ad una barbarie mai vista.

QUI una sintesi del Rapporto

Dalle dichiarazioni che hanno accompagnato la prima approvazione del Lodo Alfano (che "lodo" non è perché non rappresenta un arbitrato super partes, ma l´espressione delle ragioni di una "parte") apprendiamo che la "serenità" delle alte cariche della Repubblica è un bene meritevole di tutela costituzionale. Mentre basta guardare fuori casa (ad esempio negli Usa, dove i presidenti vanno sotto impeachment per avere avuto –negandoli – rapporti fugaci con le stagiste) per accorgersi che di tale serenità una democrazia normale non ha bisogno.

Sbagliano però, tutti quelli che hanno votato l´emendamento in questione, se ritengono di poter sottrarre una siffatta disposizione alle censure di costituzionalità per il solo fatto che essa verrebbe approvata con la speciale procedura prevista dall´articolo 138 della Costituzione. Sbagliano perché le leggi costituzionali e di revisione costituzionale hanno il solo scopo – già chiaramente percepito dai filosofi politici del XVIII secolo – di integrare e di garantire la Costituzione "nel tempo" sia allo scopo di adeguarne pacificamente e gradualmente il contenuto alle nuove domande sociali sia per evitare modifiche effettuate violentemente o troppo frequenti.

Il disegno di legge costituzionale n. 2180 ha invece un contenuto "eversivo" della Costituzione. Infatti, qualora tale legge fosse definitivamente approvata, essa sarebbe una legge (in forma costituzionale) "in rottura della Costituzione", che, ancorché ammissibile in via di principio, come insegnava Carlo Esposito – un liberale autentico ed uno dei maggiori costituzionalisti italiani del secolo XX – , non sarebbe però mai ammissibile qualora provvedesse "nel caso singolo" per restringere la libertà di singoli individui o per incidere sullo status dei ministri o del Presidente della Repubblica.

E non sarebbe ammissibile anche perché tale legge, disponendo la temporanea immunità processuale per i reati comuni (extrafunzionali) del Presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, contrasterebbe col principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che la Corte costituzionale ha fatto rientrare nel novero dei "principi supremi dell´ordinamento", come tali immodificabili anche in forza di una legge costituzionale.

Ebbene, che il disegno di legge n. 2180 contenga una "norma singolare" di favore per l´attuale Presidente del Consiglio – un privilegio in flagrante violazione del principio costituzionale d´eguaglianza – deriva dal fatto notorio che l´unico beneficiario della sospensione dei processi penali «anche relativi a fatti antecedenti l´assunzione della carica» è, dei due "beneficati", il solo Presidente del Consiglio, non esistendo alcun processo penale a carico dell´attuale Presidente della Repubblica.

Tuttavia ciò costituisce un elemento di chiarificazione nel dibattito pubblico e in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Essendo stati via via eliminati ora l´una ora l´altra delle cinque alte cariche inizialmente beneficate dal Lodo Schifani (il presidente della Corte costituzionale "scartato" dal Lodo Alfano, i presidenti delle Camere "scartati" dalla legge sul legittimo impedimento, il Presidente della Repubblica "scartato" anch´esso dalla legge sul legittimo impedimento a beneficio dei ministri ma ora "riapparso", al posto dei ministri, nel disegno di legge n. 2180), non si potrà più sostenere, neanche con riferimento alla titolarità della presidenza del Consiglio dei ministri, che questa carica implichi di per sé un impedimento temporaneo tale da giustificare aprioristicamente l´assenza del premier nei processi penali a suo carico per reati comuni. E ciò, non solo perché questo unicum già di per sé appare strano, ma anche perché l´interim del ministero dello Sviluppo economico, durato ben cinque mesi, ha dimostrato inequivocabilmente – e a fortiori – che la presenza del premier in qualche udienza è agevolmente compatibile con le sue funzioni, dal momento che il loro disbrigo si è, nei fatti, rivelato compatibile con i ben più gravosi impegni connessi al lungo interim.

Un´ultima notazione. Nella quarta puntata di questo deplorevole gioco "a nascondino" del premier – che sarebbe addirittura risibile se non coinvolgesse, a livello internazionale, la serietà delle nostre istituzioni e non preoccupasse per i possibili ulteriori più gravi abusi – è stato nuovamente coinvolto anche il Presidente della Repubblica, dopo essere stato lasciato "fuori" dalla legge sul legittimo impedimento.

Ebbene, questa spregiudicatezza legislativa è assolutamente deprecabile non solo perché non si trattano le istituzioni costituzionali come se fossero carte da gioco, ma anche per quel rispetto che si deve alla persona del Presidente della Repubblica, che andrebbe preliminarmente sentito per esprimere ufficialmente il suo parere su una modifica costituzionale che lo coinvolge. Tanto più che l´Assemblea costituente, il 24 ottobre 1947, si espresse esplicitamente in senso contrario negando l´immunità processuale del Capo dello Stato per i reati comuni.

forte, in Italia, la tentazione di parlare della democrazia al passato. Facendo riferimento, cioè, a un sistema istituzionale che "c´era", ma oggi è, appunto, "passato". Ridotto agli aspetti formali e impoverito nella sostanza. Tanto che, per definirlo, si usano altre formule. Tra le più fortunate: Post-democrazia. Coniata (nel 2004) da Colin Crouch, per indicare il percorso assunto dai sistemi democratici, ormai lontani dai valori e dagli obiettivi della democrazia anche se non (ancora) anti-democratici. Alfio Mastropaolo, nello stesso periodo (2005), parla di "mucca pazza della democrazia". Per significare come la democrazia abbia contaminato se stessa, riducendosi a uno scheletro di procedure. Nella stessa direzione si pone un altro termine, di largo uso: populismo. Dove il popolo è un´entità indistinta, piuttosto che una comunità partecipe di cittadini. Questa lettura, in Italia, si è affermata negli anni del berlusconismo. Riassunto dai critici (e non solo) come l´esempio estremo – e irripetibile – di post-democrazia. Per le tendenze i tratti che lo caratterizzano.

Anzitutto: la personalizzazione e la mediatizzazione. I partiti ridotti a "una" persona, che comunica con i cittadini attraverso i media e, soprattutto, la televisione. Creando una democrazia im-mediata. Cioè: non mediata, se non attraverso i media,

In secondo luogo, l´imporsi dell´Opinione Pubblica come equivalente – e sostituto – degli elettori e dei cittadini. Considerata un´entità "reale", misurabile empiricamente. Sinonimo e riflesso del "popolo". Definito dalla "volontà popolare", sancita dal voto, Ma, ancor più e sempre più dai sondaggi.

Questo percorso è ricostruito, in modo originale, da Bernard Manin, autorevole filosofo politico francese, direttore all´Ehess di Parigi e professore all´Università di New York, in un libro dedicato ai Principi del governo rappresentativo. Tradotto e pubblicato in Italia, in questi giorni, dal Mulino. L´ultima parte, in particolare, si concentra sull´avvento della "democrazia del pubblico". La formula, entrata nel linguaggio comune, descrive un´epoca in cui i partiti cedono spazio alle persone, l´organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, compensate dalla fiducia personale diretta. Il rapporto con la società e gli elettori avviene, sempre più, attraverso i media e il marketing politico. Manin parla di "democrazia del pubblico" perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio fra leader e "opinione pubblica". Che avviene, prevalentemente, attraverso i media. In modo asimmetrico, perché a senso unico.

È difficile non ricondurre la "democrazia del pubblico", tracciata da Manin, alla "post-democrazia". E, in particolare, al cosiddetto "berlusconismo". Tuttavia, le prime – parziali - versioni del saggio risalgono a circa trent´anni fa. Quando Silvio Berlusconi era "solo" un imprenditore mediatico – potente e influente. Ciò riconduce l´Italia di Berlusconi nell´ambito di una tendenza politica e istituzionale più ampia. Che prende avvio "prima" della discesa in campo del Cavaliere. La "democrazia del pubblico", peraltro, secondo Manin, non annuncia la crisi o, peggio, la fine del sistema democratico. Semmai, una "metamorfosi". La personalizzazione, in particolare, non va considerata una degenerazione, ma un elemento costitutivo della democrazia rappresentativa. Perché la rappresentanza è, per sua natura, "personale". Fin dall´origine, al tempo del parlamentarismo (nel XVIII e XIX secolo). Ma anche nell´epoca della democrazia – e dei partiti – di massa i rappresentanti erano – sono – persone, che esercitano un grado, più o meno ampio, di autonomia personale.

Nella "democrazia del pubblico", peraltro, i partiti non scompaiono, ma si riorganizzano – appunto. Intorno ai leader. Coerentemente con la presidenzializzazione dei governi occidentali. L´idea della postdemocrazia appare, per questa ragione, nostalgica. Evoca un´età dell´oro, quella dei partiti e della partecipazione di massa che, forse, non è mai esistita. E che, comunque, si è conclusa quando i partiti di massa si sono ridotti a oligarchie lontane dalla società. Investiti, anche per questo, da un´onda di sfiducia impetuosa e impietosa. Respingere l´idea della "democrazia del pubblico" tutta insieme, trattare come "populista" ogni forma di partecipazione e di comunicazione che non segua la strada tradizionale del partito di massa, pone, semmai, alcuni seri problemi. In particolare, delegittima e, quindi, ostacola la ricerca di leadership "personali" capaci e "rappresentative". Un problema serio, oggi, soprattutto per il centrosinistra, soffocato da partiti oligarchici. Inoltre, non permette di comprendere il significato vero dell´anomalia italiana. Che non coincide con la "democrazia del pubblico". Ma con una questione assai più antica, alle radici della democrazia liberale. L´equilibrio dei poteri e dei controlli (a cui fa riferimento, tra i primi, il barone di Montesquieu). Tra le istituzioni di governo, gli attori della rappresentanza e, soprattutto oggi, l´Opinione Pubblica – garanzia di controllo e dibattito sulle pubbliche decisioni. In Italia questo equilibrio appare violentemente "squilibrato". È questo l´aspetto che distingue il caso italiano dalle altre "democrazie del pubblico". Non tanto il crescente ruolo dei media e delle persone, nelle istituzioni e nei partiti, neppure il ricorso sempre più ampio al marketing in politica. È, invece, la concentrazione dei poteri essenziali – governo, partiti, media – in una sola persona. La democrazia del pubblico non è post-democratica.

Lo è, semmai, la "democrazia del pubblico all´italiana".

MILANO - Politica incapace di fare norme più stringenti per combattere il fenomeno delle mazzette. Ma anche troppe deleghe in bianco nell´assegnazione degli appalti pubblici che aumentano gli appetiti famelici degli affaristi. Gerardo D´Ambrosio, l´ex responsabile del pool di Mani pulite, risponde al telefono mentre al Senato è in corso una vibrante discussione. L´esponente del Pd, dopo i molti allarmi lanciati negli anni scorsi, appare quasi scoraggiato di fronte alle parole usate dal presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino nel suo discorso di insediamento. Che la corruzione sia un fenomeno diffuso, non c´è dubbio. Basta elencare i numerosi casi venuti alla luce ultimamente».

Senatore, quindi il passato non sembra non essere proprio servito a nulla?

«La corruzione è un reato difficile da scoprire di per sé. Per la mia esperienza non è mai stato denunciato, perché non è nell´interesse né di chi paga, né tantomeno del funzionario infedele. In più, le mazzette sono un fenomeno sommerso che ha una caratteristica: i funzionari corrotti di solito lo diffondono. Se un dipendente lavora in un ufficio in cui è presente la corruzione, difficilmente se ne va, ma è più facile che finisca per adeguarsi anche lui al sistema».

Sta dicendo che è un aspetto culturale?

«Che ci sia corruzione è evidente, lo dimostrano i fatti di cronaca recenti. Perché ultimamente continui a diffondersi penso sia solo la conseguenza alle deroghe sugli appalti, licenziati dalla politica come "opere urgenti" e "grandi opere". Queste deroghe facilitano episodi di abuso d´ufficio, ma perseguirli è diventato difficile a causa di norme che non contrastano più l´interesse dei privati in atti d´ufficio. Basta pensare che per questo reato non è più consentito disporre le intercettazioni telefoniche».

Ma qui, senatore, stiamo parlando di mazzette.

«Con l´inizio di Tangentopoli spesso si cominciava un´inchiesta perseguendo un abuso d´ufficio e si arrivava a scoprire le grandi corruzioni. Adesso tutto questo è scomparso perché la legge non lo consente più».

Quindi sono le norme vigenti che non aiutano la lotta alla corruzione?

«Il disegno di legge proposto in materia dal ministro Angelino Alfano non presenta alcuna novità in questa direzione. Si è limitato ad aumentare le pene per la corruzione, senza cambiare i tempi della prescrizione. D´altra parte, il governo non ha nemmeno creato nessun organo indipendente di controllo per prevenire i fatti di corruzioni. Il fenomeno è sempre lo stesso. Durante Mani pulite si giustificava l´abuso dicendo che si finanziavano i partiti, anche se a volte occorreva avere funzionari corrotti o funzionari nella stesso ordine di idee del potere».

Le ultime inchieste hanno dimostrato che non è più la procura di Milano a trainare il contrasto al fenomeno. Da cosa dipende?

«A Milano c´era un gruppo di magistrati eccezionale. Mi vengono in mente Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e anche Antonio Di Pietro, che si occupavano solo di questo fenomeno. Tra loro è rimasta solo la Boccassini, che però è diventata coordinatrice dell´antimafia. Anche Fabio Napoleone, che era un pilastro per le inchieste sulle tangenti negli appalti pubblici, ha lasciato Milano. Quella mole immensa di carte e inchieste prodotta durante Mani pulite era il frutto del lavoro di una ristretta cerchia di magistrati. Non so se, attualmente, sia stata ricreata un équipe di pm competenti come allora».

Chiusi al confronto col mondo globale proprio quando questo sarebbe disposto a guardare con interesse alle nostre storie vere

La fitta sequenza di brutte case - dappertutto in Sardegna - ci faranno riflettere quando ci riguarderemo e ci riguarderanno. Sarebbe bene se nelle pause del dibattito sull’autonomia - e sull’identità - si desse un’occhiata a come ci siamo conciati. Si scoprirebbe che il limite della decenza è ampiamente superato per travestimenti assurdi (come non è accaduto in altre regioni).

Qualche tempo fa ha scandalizzato il film televisivo di Franco Bernini che parlava dell’isola con deficit di accortezze storico-antropologiche, del sardo con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Un film, in fondo. Ma qui si tratta di vestiti indossati volentieri e difficili da togliersi. E’ il paradosso della rinuncia all’identità evocato dalle maschere delle Demoiselles di Picasso. Tanto più temibile se la finzione è compiacente (in Sardegna la maschera è una cosa seria, dice di riti preistorici, di paure primordiali da alleviare, di morte e rinascita).

Fra trent’anni l’isola perderà quasi un terzo dei suoi abitanti e le case vuote, non solo nei villaggi dei balocchi, saranno più di quelle odierne, già oltre un quarto del totale.

Lasciamole nello sfondo - per una volta - le quantità delle trasformazioni che hanno travolto i paesaggi naturali più preziosi. Per soffermarci sulle forme adottate dalla cangiante città diffusa. Grande parte del paesaggio costruito in Sardegna è rivelatore di una propensione ininterrotta ad assumere il carattere deformante e uniformante della villeggiatura, per piacere ai turisti e assecondare il turista che è in noi (il consumatore al posto dell’abitante, la messinscena al posto delle consuetudini).

E’ il trionfo dell’equivoco vecchio mezzo secolo: i travestimenti della Sardegna costiera (e non solo) sono ormai percepiti come autentici, appartenenti alla sua storia.

Invece è un abbaglio collettivo. Un repertorio che si diffonde da decenni, frutto di tentativi che si cumulano casualmente: un mix che rimanda ai primi villaggi di Costa Smeralda, che a loro volta richiamano scorci di Capri o Ischia, a prospettive veneziane, cartoline dalla California, scenografie fiabesche, scriteriati revivals stilistici, il tutto reso in modo iperbolico, fumettistico, caricaturale non si sa bene di cosa. Un grammelot, se fosse una lingua.

E’ un florilegio di successo, un’epidemia tentacolare: quelle figure esondano dalle riviere alle campagne, alle nuove espansioni, penetrano nelle parti antiche degli abitati. Una passione compulsiva per la sceneggiata, una disneyzzazione subita e alimentata, che distrae, dà speranze, illude di stare al passo di favolosi redditi.

Sovrapponendo vero e falso si realizzano nei vecchi centri alterazioni di tipologie originarie delle quali restano dignitosi esempi: superstiti palazzetti di fine Ottocento e primo Novecento, austeri per la ritrosia - pensate un po’ - ad accogliere i decori eclettici del Modernismo. Come i severi edifici descritti da Salvatore Satta che nel «Giorno del giudizio» immaginava in qualche modo l’epilogo («Le zitelle erano ben felici di lasciare nei lugubri palazzi il loro titolo di “donna” per abitare le case linde e di cattivo gusto [...] che già cominciavano a sorgere nella periferia»).

Agli interventi più sguaiati, blocchetti in cls e alluminio anodizzato a go go, si sta così sovrapponendo la tendenza - apparentemente innocua e a fin di bene - di camuffare interi brani di paesi, con abbellimenti che fingono il restauro eccitato dai repertori dei villaggi costieri. E pure le vecchie strade si rinnovano invecchiandosi, con altane, balconi e portali che non c’erano, cantonali e cornici distribuiti in modo approssimativo, e intonaci che mimano le malte d’epoca lasciando parti scrostate.

Dovunque l’obiettivo è l’effetto rustico che simula gli acciacchi del tempo, con malformazioni che consentono l’impiego di manodopera mediocre. Il vecchio muro finto e sbilenco dilaga anche negli interni, effetto baraccone assicurato (il meglio nei bar: la sublimazione della pietra incollata e la pittura a spugna).

Nelle marine più sfigate, in assenza di manutenzione, il tono è quello decadente di scolorite scenografie in disuso, l’atmosfera malinconica di cose che non sono mai state nuove e non potranno invecchiare con dignità. Tutto è dentro questo processo, pure Cala di Volpe (tra le icone più note all’origine di questa commedia) minacciata di finire nel gorgo di un incremento, tra le sdegnate proteste del figlio del suo autore (per realizzare l’ampliamento è stato chiamato - nientemeno - lo stesso progettista di Disney Wordl).

Una produzione intemperante e disarmante (un consulto di etnologi, semiologi, analisti della moda ecc. ci spiegherebbe, forse). D’altra parte, nel tempo dell’individualismo estremo, la libertà dell’immaginazione non ammette richiami alla coerenza, men che meno all’eleganza. Ogni appello alla buona educazione estetica, alla sobrietà dei comportamenti, rischia di apparire autoritario oltre che snob. Sarà però il caso di rifletterci su questa capitolazione di massa ai modi espressivi della vacanza, che ognuno con il suo giocattolo rimpingua, invadendo il paesaggio di tutti. Nel frattempo rimane ai margini l’architettura che, pure nell’isola, vorrebbe stare al passo con i tempi (gli stili che a suo tempo abbiamo accolto - dobbiamo ammetterlo - erano quelli all’avanguardia in Europa). Oggi la Sardegna sembra rinunciare al confronto con il mondo globale - scivolando dal pop al trash - proprio quando il mondo sarebbe disposto a guardare con interesse alle sue storie vere.



La richiesta di uno sciopero generale che i movimenti sociali e quelli studenteschi «uniti contro la crisi» hanno rivolto alla Cgil domenica scorsa a conclusione di un'affollata assemblea alla Sapienza di Roma non è un ritorno all'antico. Nel documento finale (pubblicato sul sito del Manifesto) emerge la necessità di unificare le lotte sui beni comuni: dal lavoro alla conoscenza, dall'acqua ai diritti sociali. «È un elemento di novità - dice Maurizio Landini, segretario della Fiom, il giorno dopo un intervento applaudito - da un lato i movimenti riconoscono nella Cgil il soggetto che proclama lo sciopero, dall'altro lato c'è l'impegno di creare un'azione comune in difesa della scuola, dell'università pubblica e dell'occupazione».

La base dell'intesa tra il sindacato e i movimenti non è soltanto diplomatica. Deriva dalla necessità di cambiare la matrice culturale neoliberista alla quale la sinistra politica ha aderito acriticamente negli ultimi vent'anni. Alla separazione esistenziale, prima ancora che politica, tra questa sinistra e il lavoro operaio, si è aggiunta quella, ancora più tragica, con il mondo del lavoro parasubordinato e quello autonomo. Dopo avere riaffermato la centralità del reddito e della condizione operaia, insieme alla necessità di un'«auto-rappresentazione» dei movimenti sociali, l'assemblea ha ribadito la distanza con quella sinistra che ha introdotto nel mercato del lavoro italiano possenti dosi di lavoro flessibile senza prevedere garanzie sociali. «Sono misure che hanno condannato alla disperazione le nuovi generazioni che oggi chiedono una riforma radicale del Welfare» ricorda Domenico Pantaleo, segretario Flc-Cgil.

Per affrontare una simile richiesta sarà necessario un drastico cambiamento di mentalità, oltre che di paradigmi culturali. «Devo riconoscere che la domanda di un reddito di cittadinanza da parte dei movimenti pone ad un metalmeccanico un problema culturale - ammette Landini - ho sempre pensato che se uno non lavora e viene pagato è un problema. Oggi però mi rendo conto che la richiesta del reddito denuncia la mancanza di un diritto fondamentale e parla agli operai e a chi operaio non è».

La strada da fare è ancora lunga, ma in attesa di iniziare il viaggio c'è chi riscopre un linguaggio che solo l'altro ieri sembrava essere prerogativa esclusiva dei movimenti. Si torna così a denunciare la «società classista» in cui l'81,4 per cento dei laureati proviene dalle famiglie del ceto medio e il 10 per cento della popolazione possiede il 45 per cento delle risorse. Nessuno può ormai ignorare che il 30 per cento dei giovani fino a 24 anni vive con lo spettro della disoccupazione di lungo periodo, intervallata con brevi periodi di lavoro nero o intermittente. Senza considerare le prospettive di chi è vent'anni più anziano e già vive la crisi delle società dell'economia del terziario avanzato in cui l'occupazione tornerà a livelli accettabili solo nel 2015, lasciandosi alle spalle una moltitudine di inoccupati e di lavoratori autonomi sotto-pagati. «In questa prospettiva - ribadisce Francesco Raparelli, uno degli estensori dell'appello «Uniti contro la crisi» - il reddito di cittadinanza non è una forma assistenziale, ma è una garanzia fondamentale che operai, studenti e ricercatori possono usare per rifiutare il ricatto della precarietà». Un lungo calendario di date è stato preparato per tenere alto il «conflitto sociale» al quale tutti, sindacati compresi, aspirano in questo inizio di autunno. Il 30 ottobre gli studenti medi e universitari aderiranno alla manifestazione promossa dai precari della scuola a Napoli, il 17 novembre ci sarà la giornata mondiale dedicata agli studenti e infine l'11 dicembre quando «uniti contro la crisi» tornerà a chiedere alla Cgil di proclamare lo «sciopero generale e generalizzato».

Morto qualcuno ne arriva un altro, meglio ancora se di fianco al cadavere e con la vedova che ridacchia compiaciuta accompagnandosi al nuovo venuto, con tanto di vestitino sexy all’ultima moda.

Fra la terra cronicamente smossa degli svincoli autostradali di Santhià giace freddo e rigido il corpo inanimato del sedicente Glam Mall (almeno quello era l’ultimo nome conosciuto prima della dipartita) chiuso fra la statale verso Biella e un po’ di capannoni che se non altro pare servano a qualcosa, oltre che da pista atterraggio corvi che neanche negli incubi di Edgar Allan Poe.

Sta lì, la salma scomposta del Glam Mall, da diversi anni, col suo inutile cordoncino ombelicale semi-attaccato all’autostrada, le porte aperte ad aspettare le carte di credito delle mogli di evasori suburbani che non arriveranno mai più. Nevermore.

Ma il pimpante progettista di tanti giorni perduti non si sente affatto vedovo inconsolabile: l’universo è grande, e anche la provincia di Torino a ben guardare non scherza, se si ragiona in termini strettamente di metro cubo. Basta scavalcare il ponte sulla Dora e avvicinarsi all’area metropolitana del capoluogo per trovare tanti metri quadrati dove sognare tanti metri cubi in più. Poi basta il tocco magico di un sindaco entusiasta (forse a suo tempo era entusiasta anche quello di Santhià per il Glam Mall, ma soprassediamo) e un nome fantasioso: Laguna Verde.

Cocktail vincente, il cui profumo irresistibile oltre a far dimenticare il caro estinto attira anche nuovi elegantoni al party. Nientepopodimeno che Giorgio Armani, ci informa una nota Ansa del 1 ottobre 2010:

Un megastore del 'lusso', capofila Armani, con all'interno le principali griffe del settore moda.

É la proposta a cui sta lavorando il Comune di Settimo Torinese nell'ambito di 'Laguna verde'. Lo ha anticipato oggi Aldo Corgiat, sindaco di Settimo. Il progetto e' di un 'fashion mall', che dovrebbe svilupparsi su una superficie di 40-60 mila metri quadrati. Entro la fine dell'anno, Armani dovrebbe presentare al Comune di Settimo Torinese la domanda per ottenere le autorizzazioni necessarie per avviare i lavori.



Evidentemente, là dove è fallito miseramente il “ glamour” di Santhià, qui a cavallo della Padana Superiore una manciata di chilometri più a ovest (saranno venti minuti semafori rossi compresi) dovrebbe trionfare il “ fashion” sponsorizzato da un altro sindaco, magari nei colori corvini marchio di fabbrica dello stilista evocato, nonché colore politico di gran voga su varie sfumature.

Magari il fashion ha qualche asso nella manica in più, perché invece della fabbrica di mangimi dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) avere di fronte qualcuno dei grattacieli stortignaccoli che si sono visti nel rendering dell’architetto presentato in pompa magna qualche anno fa?

Personalmente, come ribadisco spesso, non ho nulla contro la distribuzione moderna, o la riqualificazione urbana, o l’innovazione in generale. Sospetto invece dell’odore di patacca, anche quando è vago. E qui pare un pochino più che vago, anche senza parlare di concorrenza territoriale caricaturale, densificazione impanata alla milanese, e via discorrendo.

Per non farla troppo lunga, a chi si fosse perso le puntate precedenti, e si stesse chiedendo di cosa vado cianciando, consiglio vivamente di scorrere almeno i vecchi articoli sul Glam Mall e Laguna Verde.

INVIATO A LAS VEGAS (NEVADA)La guardia armata mi controlla l'invito prima di lasciar passare la mia auto nel Red Rock Country Club, questa città privata (o gated comunity, comunità fortificata, come si dice qui) che, all'estrema periferia occidentale di Las Vegas, si adagia alle pendici delle lunari Spring Mountains che culminano a 3.600 metri.

E fortificata lo è davvero, con la sua cinta muraria, le garitte, le guardie armate, i pesanti cancelli d'acciaio che si aprono solo con il giusto codice. Fortificata e opulenta, come si vede dal verde dei campi da golf e dalle piscinette private il cui spreco d'acqua grida vendetta al cielo nel bruciante deserto di sabbia, pietre e sterpi che scavalla Nevada e California meridionali.

È qui, in una delle ville seriali di quest'enclave privata, che alle dieci del mattino si tiene un ricevimento «privato» in onore della candidata repubblicana al Senato degli Stati uniti, Sharron Angle. Ho visto l'annuncio della riunione nel quartier generale della campagna di Angle. Ho preso il numero di telefono e chiamato una delle organizzatrici, Myrna Adad, presentandomi come giornalista di un quotidiano nazionale italiano, desideroso di capire meglio il messaggio di Sharron Angle. Myrna Adad m'inserisce tra gli invitati («il contributo minimo è di 15 dollari», avverte).

«Negli Usa vige la Sharia»

Entro in un patio dall'architettura vagamente spagnolesca, mi faccio appiccicare alla giacca un adesivo con il mio nome (pronunciato con circa sei erre, alla messicana) ed entro nel giardinetto, con piscina ovoidale alimentata da un ruscelletto, dove vari anziani siedono all'ombra degli alberi o fanno la fila davanti a un buffet: una delle regole più ferree delle campagne elettorali Usa è che i meeting e i comizi seri si tengono sempre davanti a qualcosa da mangiare: può essere un breakfast alle sette del mattino (cui ho assistito nella mensa di qualche fabbrica) o un pranzo mattiniero (early lunch), oppure una cena per raccogliere fondi. Senza almeno uno snack non si fa politica da queste parti.

Sharon Angle è sì la candidata repubblicana al Senato, ma assai particolare, perché è esponente del Tea Party, il movimento spontaneo di ultraconservatori, antistatalisti feroci, che si è coagulato l'anno scorso contro la riforma sanitaria portata avanti dal presidente Barack Obama, e che quest'anno in parecchi stati ha preso il sopravvento nel partito repubblicano, sopraffacendo i repubblicani «moderati». Di questo movimento e del suo oltranzismo Angle è un'esponente rappresentativa: secondo lei vi sono almeno già due città negli Usa in cui «vige la Sharia»; la riforma sanitaria (health care) è da lei sempre nominata solo come Obamacare; durante le primarie ha dichiarato di voler abolire non solo la mutua (Social security), ma anche il ministero federale dell'istruzione e l'agenzia per i veterani (anche se poi ha dovuto diluire e di parecchio il suo messaggio).

La sua candidatura ha attirato l'attenzione nazionale e internazionale (incontro a Las Vegas giornalisti francesi, spagnoli, tedeschi - non italiani però) perché affronta uno dei più potenti politici democratici, il presidente del Senato Harry Reid che cerca il suo quinto mandato, e quindi si è già fatto 24 anni di senato a Washington: con la rete di relazioni e finanziatori accumulati in 25 anni di parlamento e di commissioni senatoriali, Reid dovrebbe vincere alla grande, ma così non è, e tutti i sondaggi danno i due praticamente alla pari.

Il Tea Party rappresenta perciò il nuovo corpo misterioso nella politica Usa: di ultraconservatori c'è una lunga e non rispettabile tradizione nella storia americana, ma ora è la prima volta che questa componente assume il controllo del Partito repubblicano dall'esterno, un «Terzo partito» che cresce all'interno di uno dei due.

Mentre aspettiamo che arrivi la candidata, pilucco uva: dai discorsi che ascolto intorno a me, mi sento un infiltrato, come dietro le linee nemiche, stando bene attento a non smascherarmi: sapessero cosa è il manifesto, gli prenderebbe un accidente. Parlo con l'anziana, segaligna, Myrna Abad: «Ci vuole una svolta», mi dice. «Il paese sta andando male, bisogna restaurare i veri valori conservatori. Io faccio parte delle Ladies repubblicane e alle primarie ho scelto Sharron perché lei era la candidata più conservatrice tra quelli in lizza. Dobbiamo ripristinare l'eccezionalismo americano», quell'idea per cui l'America è un paese eccezionale - imparagonabile con qualunque altro stato umano, cui dio ha affidato una missione speciale: come ripeterà fra un po' Sharron Angle citando la frase biblica del presidente Ronald Reagan (1980-1988), «L'America è la città splendente in cima alla collina».

È curioso che a invocare «l'eccezionalismo americano» sia una signora di origine libanese: suo marito è scappato in Siria, poi nelle Filippine e infine si sono stabiliti in America.

D'altronde guardo gli adesivi con i nomi attorno a me: questo ricevimento è organizzato a casa della signora Suzanna Luna, dal pesante accento ispanico. E poi abbondano nomi come Pilar, Maria Rosa, cognomi come Marquez, Torres, Ramires, o asiatici come Huang, o ancora parecchi nomi ispanici come Orlando Pinedo o Daniel Soriano su volti inconfondibilmente cinesi (i chinos emigrati in America latina a fine ottocento e completamente ispanizzati).

Ricchi, vecchi e cattivi

Naturalmente non c'è un nero manco a pagarlo oro. In tutti i vari meeting per Sharron Angle cui ho assistito, ho visto un solo nero: sulla cinquantina, grassoccio, faceva il «sharronetto» (cioè ballava con le sharronettes, le mature majorettes che ballano e agitano le bandierine ai comizi). E fa impressione l'età media che è sopra i 60, nel senso che i pochi tra i 45 e i 50 sono largamente compensati dai molti tra i 70 e i 75. Qui, in questa città privata l'origine sociale si coglie dalle scarpe delle signore che alle 10 del mattino sono per lo più da sera, scarpine dorate su zatteroni alla Prada, o scarpine rosse su tacchi a spillo. L'agiatezza è inversamente proporzionale alla lunghezza e alla vistosità delle unghie. Ma anche nei comizi pubblici, la platea è sempre molto terza età. Nessuno mi aveva detto che il Tea party è un movimento di anziani. Chiedo a Myrna come mai lei e suo marito sono finiti in Nevada e allora capisco in che consiste l'eccezionalismo americano: «Qui non si pagano tasse non solo sul reddito (sono 13 gli Stati usa in cui il reddito non è imponibile, ndr), ma neanche sull'eredità».

Sempre intorno alle tasse gira l'ultraconservatorismo, non a caso il movimento si chiama Tea Party. Si riferisce al Boston Tea Party del 1773, quando i buoni cittadini del Massachusetts distrussero i sacchi di tè pur di non pagare le tasse all'importazione; anche se nel suo Manuale da campo di controinsurrezione (2007) il generale David Petraeus (oggi comandante in capo della forza internazionale in Afghanistan) usa proprio quest'episodio per mostrare che una narrativa utile a veicolare un'ideologia può essere basata su dati di fatto falsi: infatti all'epoca i cittadini inglesi pagavano più tasse dei loro coloni americani.

Tagliare, tagliare, tagliare

Finalmente arriva Sharron, in un tailleur rosso. Con i suoi sostenitori è molto più rilassata e gentile di quanto apparirà due giorni dopo nel faccia a faccia tv con l'avversario Reid, dove ostenterà un'aggressività cattiva, pur impappinandosi nell'economia politica. La sua è la classica ricetta liberista al cui confronto Reagan avrebbe fatto la figura di pericoloso sinistrorso. Il suo programma è di una semplicità elementare: «Cut back, pay back, take back», inteso come «taglia (le spese statali), rimborsa (il debito pubblico), fai ripartire (l'economia). Insomma una ricetta di ordinaria ferocia. Solo qui - con tutti questi anziani in blazer, panama, signore con cappellini - la spietatezza di presenta mite, ma non per questo meno letale: il ricevimento si conclude con l'estrazione di una riffa (i premi vanno da una borsa firmata a un cestino di salumeria italiana) e con una interminabile serie di foto della varie signore con la candidata.

Il karma degli ultrà

Tre giorni dopo entro nel grande Casinò Orleans: al primo piano nella Sala B Mardi Gras si tiene un concerto finanziato dagli Amici di Sharron Angle (fuori c'è scritto «Party privato, la stampa non è ammessa», ma ormai per gli attivisti di Angle la mia è una faccia familiare). Anche qui, stessa età media e, soprattutto, stessa bonarietà vendicativa. Il cantante di musica country fa cantare al pubblico il ritornello: «Obama, Obama, un solo, un solo, un solo mandato». Un altro canta il Democratic Blues: «Ho perso il lavoro. Ho perso la casa, ho perso l'auto, posso solo cantare i democratic blues».

Una riprova di questa micidiale affabilità Angle la offre nel dibattito televisivo con Reid: richiesta se c'è almeno una cura o un esame che lei renderebbe obbligatori per le assicurazioni sanitarie, svicola e si affida all'efficienza del libero mercato: che muoiano se non possono pagarsi l'assicurazione. In questo senso hanno torto i fratelli Cohen nel film «Non è una terra per vecchi», quella di un mondo totalmente hobbesiano, sanguinolento. Angle dimostra invece che proprio l'inumana, vendicativa crudeltà sociale è «terra di vecchi».

Lo conferma un lungo articolo sul supplemento culturale del Wall Street Journal (organo semi ufficiale della destra Usa), in cui l'autore sostiene che quel che caratterizza il Tea Party non è tanto l'ispirazione libertaria (comune a molti movimenti attraverso tutto lo spettro politico Usa), quanto - tenetevi forte - «il karma». Per karma l'autore intende l'idea che una cattiva azione prima o poi sarà premiata e una buona azione sarà punita. Da questo punto di vista, l'obiettivo dello stato sociale e della sinistra è di proteggere dalle conseguenze del suo karma chi agisce male, è quindi d'impedire al karma di agire. L'obiettivo dei Tea Party è di permettere di nuovo al karma di funzionare. Ma una società che funziona in base al karma l'abbiamo già vista, ed è quella dei bramini e degli intoccabili, dei puri e dei paria, dove i primi sono moralmente giustificati nel restare indifferenti davanti ai secondi che muoiono sui marciapiedi davanti a loro.

postilla

L’argomento era già stato toccato su queste pagine, direttamente nella recensione al lungo reportage sociologico territoriale Alla ricerca dell’Utopia Bianca,indirettamente in tanti articoli, postille, occhielli, fino alla nausea insomma. Ovvero che ambienti come quello raccontato da Marco D’Eramo non sono affatto misteriosi contesti esotici, ma cose che abbiamo sulla porta di casa nostra, magari anche dentro al tinello. Slogan semplicissimi ma efficaci, perché colpiscono in punti molto sensibili, e attorno l’ambiente fortificato della villettopoli rancorosa che alimenta la chiusura nel familiare, nel particolare, nella regressione. Ma anche un pensiero “progressista” che se continua a ritrarsi dal confronto alla pari, se reagisce a questo tipo di chiusura solo con l’arretramento alla nostalgia del bel tempo che fu, non va da nessuna parte. La conservazione ha i suoi professionisti, che sono e sono sempre stati di destra: e il mercato preferisce sempre l’autentico all’imitazione (f.b.)

Un'altra politica è possibile. Fuori dai palazzi, dalle palazzine e dagli strapuntini del potere. Una politica fatta di contenuti che consenta di scegliere tra diverse idee del mondo e delle relazioni tra le persone. Una politica che cammini sulle gambe di donne e uomini, non imposta da caste politiche ed economiche a chi non ha firmato deleghe in bianco, è tutta da costruire. Non è facile, bisognerebbe ribaltare una pratica autoritaria ed estraniante cresciuta in anni di cattiva politica in cui si mescolano e si perdono le differenze tra destra e sinistra.

Si può uscire dalla berlusconizzazione della cultura e della vita di tutti i giorni? Si può tornare a parlare di politica, della crisi che sta devastando la maggioranza della popolazione? Si può pensare a una via d'uscita che ricostruisca i legami sociali e tra le persone individuando una prospettiva e un percorso comuni?

Sabato le strade di Roma hanno mostrato un'altra Italia e, soprattutto, un'altra politica. Una piazza determinata, multicolore e non solo per tutte le tonalità del rosso. Operai, che esistono anche se per tanti soloni è stata una scoperta, o una riscoperta; lavoratori, precari, studenti, disoccupati, migranti, frammenti di quel che è stata la sinistra italiana, movimenti, intellettuali, popolo.

È la prima volta da anni, forse dal luglio del 2001 a Genova e dal 23 marzo del 2002 (il Circo Massimo con Sergio Cofferati), che riparte una speranza insieme alle gambe per camminare. Può non finire come a Genova, quando Fini era l'orco mentre adesso tutti ne parlano con rispetto, pronti a pagargli l'affitto di casa.

Si può non consegnare le armi alla guerra trionfante, come capitò dopo i cento fiori di Firenze prematuramente appassiti sotto il fuoco nemico

Si può cambiare, ma solo riappropriandosi della politica finita da troppo tempo in cattive mani. La manifestazione della e con la Fiom parla di diritti per tutti, di eguaglianza da ricostruire, di democrazia senza aggettivi, di solidarietà, di contratti, di reddito di cittadinanza. Parla di come ridare dignità al lavoro e a chi lavora dopo anni di svalorizzazione.

È o non è a partire da queste cose che si deve tornare a distinguere tra strade, modelli di società, se si preferisce tra destra e sinistra? Se invece si crede ancora che solo dalle alleanze tra i partiti e i sub-partiti meno diversi, tra i meno «berlusconiani» possa nascere un'alternativa a Berlusconi, allora ha ragione Casini: la piazza della Fiom non è compatibile con «una certa idea di alternativa». Del resto, l'alternativa accennata da quella piazza difficilmente prevede un ruolo centrale e governante per l'onorevole Casini, così come per tanti altri, più o meno onorevoli di lui.

Gli uomini e le donne di piazza San Giovanni sono un punto di partenza per qualsiasi speranza di cambiamento. Attenzione a non fare errori, però: non sono disposti a farsi da parte perché sono stufi di fare le comparse in un film di quart'ordine. C'è più bisogno di cervello e di gambe che di un leader.

Se si sottoponesse il Paese a un check-up (e i media e i giornali che si occupano di informazione lo stanno facendo) emergerebbe uno stato grave di astenia quando non di declino: le istituzioni sono sottoposte a un logorio pressante che dura da anni mentre la società è lasciata a se stessa ad affrontare una delle crisi economiche più gravi e di lunga durata del dopo-guerra. Uno scenario che dovrebbe grandemente impensierire chi governa, se non per senso di responsabilità (una moneta rarissima) almeno per un ragionevole calcolo elettorale, pensando cioè a come restare in sella. Il capo del Pdl e della maggioranza si è in effetti reso conto di non vivere nel paese di Pangloss dove tutto va per il meglio. La verità, che piace sempre poco a chi ama il potere incontrastato, deve essere trapelata tra le file dei suoi collaboratori se è vero che il leader ha parlato di stato di "balcanizzazione" del suo partito e si è trovato di fronte a dati molto preoccupanti sulla caduta di consenso alla sua persona. Certo, non è lo stato del paese che lo preoccupa direttamente, tuttavia l´attenzione per la salute della maggioranza è una forma indiretta di interesse. Data questa attenzione ci si aspetterebbe che la strategia di riconquista del consenso prevedesse interventi sulle "cose", uno straccio di idea su come affrontare questa crisi in modo che i sacrifici siano distribuiti in proporzione ai redditi, e su quale sia il punto di riferimento da seguire per risollevare l´economia del paese. E invece, il tycoon risfodera la sua strategia originaria, quella che lo ha caratterizzato fin dai tempi della sua "discesa in campo": ideare nuove forme di aggressività ideologica, creare a latere del suo partito delle casematte che abbiano mano libera di dire e fare quello che un partito che sta a Palazzo Chigi non può dire e fare.

Berlusconi non crea nulla di nuovo, ma adatta al suo caso quello che è stato creato altrove. Nelle strategie politiche il copyright non esiste e nemmeno la pirateria come ovvio perché in questo campo le iniziative sono vincenti proprio perché possono essere estese dovunque, diventare una matrice di successo. I Tea Party sono la nuova fonte di ispirazione del populismo di targa meneghina. Un populismo nuovo quello ideato dai fondamentalisti repubblicani americani, perché si identifica non con un leader, ma con un nemico. Il nemico dei Tea Party è il Barack Obama ancor prima del Partito democratico; il loro scopo è di portare i loro candidati in Congresso in numero sufficiente per riuscire a radicalizzare la lotta politica contro la Casa Bianca e bloccare ogni proposta di riforma che viene dalla Casa Bianca. La strategia è quella del sabotaggio, la tattica è quella della guerriglia.

I Tea Party hanno una caratteristica che si presta bene a fare quello che il giornale della famiglia Berlusconi ha dimostrato di saper fare bene: disseminare dubbi senza mai tirare fuori le prove, lasciare che il dubbio si diffonda perché non c´è nulla di più difficile da scalfire di una diceria dilagante. La diceria ha il potere di diventare "un fatto" senza uno straccio di prova. È sufficiente farla circolare in forma di dubbio: l´esito verrà da sé. I blog dei Tea Party hanno disseminato vari assurdi dubbi sul Presidente Obama: per esempio, che non sia americano, che sia musulmano, e che sia (ultima invenzione) l´esponente di un movimento mondiale di anti-colonialismo venuto dal Kenya a rappresentare tutti i movimenti post-coloniali della terra (e pensare che gli Stati Uniti sono stati i primi anti-colonialisti della storia moderna!). Le incongruenze e le assurdità sono la moneta corrente di questa nuova forma di populismo delle casematte, un populismo che si dirama dalla periferia, che è localistico per radicamento e inafferrabile poiché è da nessuna parte e dovunque, proprio come i bloggers. L´elemento unitario è nel nemico, non in un leader: è questa la grande novità dei Tea Party. Una novità pericolosa per la democrazia perché è evidente che questa strategia della diceria disseminata è fatta per creare forme identitarie di consenso, forme quasi religiose di identificazione con una causa - quella contro. Per chi è parte di questo progetto la fede viene prima della ragione e non c´è possibilità di compromesso sulle opinioni: «Obama è musulmano», e su questo non c´è proprio nulla da discutere.

Immaginiamo che cosa potrebbe voler dire usare questa strategia per ridare ossigeno al consenso del premier. Potrebbe voler dire competere con il suo alleato più fedele, la Lega, su temi di grande presa diretta sul "popolo". Perché si tratterebbe di mettere in atto una politica di rastrellamento di consensi ritagliata su un bacino di persone che è simile a quello della Lega almeno per la disposizione alla credulità e al fideismo, due condizioni senza le quali non si ha politica identitaria. A latere del Pdl, sempre più un partito di incardinati nelle istituzioni e quindi "conservatori" per necessità di sopravvivenza, i Tea Party del premier sarebbero come casematte fondamentaliste, capaci di infiltrare dicerie, usare un linguaggio di attacco, praticare ripulsa per ogni forma anche blanda di ragionamento ragionato con lo scopo di mobilitare consensi.

Democrazia di mobilitazione potrebbe essere il termine rappresentativo di questa nuova strategia politica. In un pubblico abituato alle masticazioni delle informazioni ad usum Caesaris, i Tea Party modello Berlusconi potrebbero trovare un facile radicamento. Ci si deve dunque aspettare il peggio: più radicalismo, più polarizzazione ideologica (ma di un´ideologia senza la nobiltà delle idee). Un populismo che si diramerà da centri di diffusione locali e periferici e quindi più facilmente manipolabile da un centro nemmeno tanto occulto.

Parte ufficialmente il progetto della Città della Salute. Dopo un lavoro preparatorio durato mesi, la pubblicazione del bando unico di gara è il primo atto concreto verso la costruzione del polo unico che riunirà l’ospedale Sacco, l’istituto neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei Tumori. Un’idea che sta particolarmente a cuore al governatore Roberto Formigoni. Costo previsto dell’opera, 520 milioni di euro, di cui più della metà arriveranno dalle casse della Regione. Il resto, li metterà il concessionario che vincerà la gara, che potrà ammortizzare la spesa in base agli anni di durata della concessione o attraverso un leasing. La gara seguirà una procedura accelerata. Non servirà solo per scegliere il progetto, ma anche il costruttore. La proclamazione del vincitore è prevista nella primavera del 2011. I lavori inizieranno in ottobre per terminare entri il giugno 2015.

«Non si tratta di un semplice trasloco - anticipa il presidente del consorzio Luigi Roth - ma di gettare le basi di qualcosa di avveniristico verso le frontiere della nuova medicina molecolare». Un progetto ambizioso tutto pubblico che suona come una sfida al Cerba, il centro europeo di ricerca biomedica avanzata, guidato dal celebre oncologo Umberto Veronesi, che sarà un istituto privato non profit e nascerà, invece, in un’area di 62 ettari all’interno del Parco Sud. «La nostra è una iniziativa pubblica, nobile e intelligente - aggiunge con orgoglio Roth - che mette in campo solo risorse pubbliche. Il Cerba farà la sua storia». La Città della Salute, della ricerca e della didattica, sorgerà in un’unica area, nella periferia Nord Ovest. Come una città nella città. In grado di ospitare migliaia di pazienti con i loro parenti. Oltre 1400 posti letto, un centinaio in più di quelli attualmente disponibili, 220.000 metri quadri di superficie lorda di pavimento per le funzioni di ricerca e cura.

Di cui 180mila per la degenza, diagnosi e cura, ricerca e didattica e 40mila per le attività ricreative e compatibili. Altri 70mila metri quadri saranno destinati alle funzioni accessorie. Un progetto che basa i suoi fondamenti sul cambiamento di paradigma della medicina contemporanea. La valorizzazione delle «eccellenze» già presenti nei settori dell’oncologia, neurologia e infettivologia, attraverso la creazione di alcune aree comuni di lavoro. Prevista l’istituzione di un sistema unico integrato di contenuti medico scientifici e la creazione di un terzo polo universitario. Un approccio del tutto nuovo al tema della salute. «La Città della Salute è innovativa perché integra molte componenti diverse. La cura è strettamente connessa con la ricerca e progredisce giorno per giorno sul campo. Inoltre, la presenza dell’università e di un sistema didattico offre la possibilità ai giovani e ai ricercatori di essere formati sugli standard più elevati. Il progetto prevede quattro grandi rami, cui corrispondono quattro funzioni: sanitaria, complementare, infrastrutturale e ambientale».

postilla (lunghetta ma quanno ce vo’, ce vo’)

Il parallelo col Centro Ricerche Biomediche Avanzate del professor Veronesi (professore in Oncologia, Fisica nucleare e Urbanistica, of course ) appare più che mai adeguato nel caso specifico di questa trovata umanitaria della Città della Salute: in entrambi i casi si usa la leva della ricerca, della medicina, del progresso umano in generale, per fare esattamente il contrario. Ovvero, indipendentemente da quanto accadrà poi dentro i padiglioni delle nuove strutture, peggiorare, e di parecchio, l’ambiente complessivo della città dove per adesso si svolge ancora la maggior parte della nostra vita. E che quindi dovrebbe essere qualcosa di più di una specie di tabula rasa da riempire di metri cubi scientificamente eccellenti.

Col Cerba la nuova Cisal condivide il fatto di colmare un’area verde di interposizione fra zone edificate, e qui si potrebbe osservare nello specifico che forse (molto forse) la situazione è diversa da quella di vera e propria greenbelt metropolitana delle aree umanitariamente regalate a Veronesi dal filantropo Ligresti. Ma guardiamo un po’ meglio dal solito osservatorio GoogleEarth questa fettina di metropoli nord-occidentale, perfettamente allineata sull’asse di sviluppo del Documento di Inquadramento delle Politiche Urbanistiche Comunali.

All’estremo ovest i padiglioni della Fiera, attorno ai quali si sta completando la colmata stradale e edilizia gestita per anni dal medesimo Luigi Roth che ora vuole gettare le basi della medicina molecolare. Spostandosi a est, praticamente senza soluzione di continuità, si entra nel leggendario territorio delle aree Expo, per ora piene solo di tragicomici scontri di potere fra tutto e tutti, ma sappiamo tutti cosa ci si aspetta, in fondo, da quel “vuoto”. Di nuovo un salterello a est, appena oltre la biforcazione fra le due autostrade A4 e Autolaghi con lo svincolo Certosa, ed ecco i vecchi padiglioni dell’Ospedale Sacco, con lo spazio “vuoto” allineato sul tracciato dell’A4 di fronte al quartiere di Quarto Oggiaro.

Si aggiunga, volendo esagerare, che il garrulo assessore meneghino e ciellino Masseroli, per la fascia appena a sud dello svincolo Certosa, vantava pochissimi giorni fa previsioni in grado di farne un nuovo “Canary Wharf” con cubature da mettere i brividi a mezza Europa.

Come osserverebbe il vecchio Peppino De Filippo: …. E ho detto tutto!!

Anzi forse no, perché qualcosa di fondamentale l’ha già detta anche il presidente medico-molecolare Roth: la Città della Salute “integra molte funzioni diverse ”. Appunto. Per non dire dei fantastici “vuoti” che il previsto trasferimento di attività e personale aprirà altrove … ad libitum (f.b.)



Sul Cerbasi veda l’articolo scritto a suo tempo, Su come la medicina urbana nei paesi civili abbia approcci appunto un po’ più civili, si veda invece questo articolo dal Baltimore Sunriportato su Mall

14 ottobre

Stop a Veneto City e Quadrante

di Alberto Vitucci

Stop a Veneto city e al Quadrante di Tessera. «Numero chiuso» per le barche in laguna e limiti rigidi alle nuove darsene. Parere negativo a «ulteriori insediamenti» soprattutto nelle aree a rischio di allagamento. Un parere che potrebbe modificare l’intera politica urbanistica regionale, quello votato all’unanimità dalla Salvaguardia.

Tre pagine di prescrizioni votate all’unanimità al Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) che ne modificano l’impianto e andranno ora all’esame della commissione Urbanistica regionale con il parere favorevole delle Soprintendenze. Le prescrizioni votate sono 23. Tra le più importanti le indicazioni sui nuovi insediamenti produttivi. Viene vietata «l’urbanizzazione e l’edificazione di aree a grave rischio di allagamento», con l’invito ad approvare in fretta il Piano di Assetto idrogeologico (Pat). Dovrà anche essere «contenuto al massimo» l’ulteriore consumo di suolo, e lo svuotamento dei centri abitati per il decentramento delle funzioni. Priorità assoluta va data alle aree dismesse, «in particolare Porto Marghera attivando bonifiche e riusi compatibili».

Un secco «no» anche per il Quadrante, lo sviluppo immobiliare della cosiddetta «Tessera city», Piano approvato dalle giunte Galan e Cacciari che prevede un milione di metri cubi di nuovi edifici commerciali in gronda lagunare. Aree secondo i tecnici «ad alto rischio allagamento». «Nel polo produttivo di rilievo metropolitano regionale», si legge al punto 15, «venga prescrittivamente vietata la previsione negli strumenti urbanistici di nuove aree insediative, utilizzando le ampie aree disponibili negli ambiti aeroportuale e dell’Aev di Dese, già previste nel Piano regolatore vigente».

Uno stop arriva anche alla costruzione di nuove strade. Si potrebbe dimezzare il traffico dei pendolari e rendere più sicura la circolazione sulla Romea, scrive la Salvaguardia, completando ad esempio la linea ferroviaria regionale (Sfmr) per Chioggia e il tratto da Piove di Sacco a Chioggia. Infine un invito a «riconsiderare la scelta di nuove infrastrutture stradali lungo l’asse a sud del Naviglio Brenta». Prevedendo invece nuove fermate dell’Sfmr a Chirignago, Dese e Pili.

Il Piano della Provincia - testo approvato dalla giunta Zoggia poi in parte rivisto dalla giunta Zaccariotto - è stato pesantemente emendato anche nei primi articoli che riguardano la laguna. Le prescrizioni parlano di vietare il transito sui bassi fondali lagunari dei lancioni Gran Turismo e delle imbarcazioni con larghezza superiore a due metri e 30. Ma soprattutto viene istituita una «soglia limite del massimo numero di posti di ormeggio per barche compatibile con la tutela della laguna. Dovrà anche venire esclusa dal Polo nautico «l’ambito prospiciente il mare al Lido e Murano». Gli accessi e le darsene della gronda lagunare interna - verso la terraferma - dovranno essere riservati alle tipiche imbarcazioni lagunari. Dovrà essere infine recuperato, si legge nel dispositivo finale votato dalla commissione, il Palav, Piano di area della laguna veneta. Strumento urbanistico spesso ignorato, di cui qualcuno chiedeva l’abolizione perché «troppo restrittivo» nella tutela della laguna. Quanto alla Tav, la Salvaguardia boccia l’ipotesi del passaggio sotto i fiumi e il parco invitando a considerare le altre due ipotesi previste dal Piano regionale dei Trasporti: i Bivi o l’asse ferroviario Venezia Trieste.

15 ottobre

Dopo Quadrante di Tessera e Veneto City, nel mirino la linea su cui Zaia e Tondo si sono accordati a Trieste

La Salvaguardia: anche la Tav va bloccata

Un altro altolà, questa volta per il tracciato «balneare» dell’Alta Velocità

VENEZIA. L’Alta Velocità corre su un binario vietato. L’accordo ieri tra i presidenti di Veneto e Friuli per il tracciato «balneare» della Tav è in rotta di collisione con il parere espresso proprio nelle stesse ore dalla Commissione di Salvaguardia. Organo previsto dalla Legge Speciale - e presieduto dal presidente della Regione Luca Zaia - che in molti vorrebbero abolire. Ma che ha sfornato pareri a volte contestati ma sempre rispettati dalla Regione.

Stavolta il documento sfornato dalla commissione e approvato al’unanimità non lascia spazio a interpretazioni. Si tratta di 23 prescrizioni tassative per l’entrata in vigore del Ptcp, il Piano territoriale di coordinamento provinciale approvato dalla Provincia. Una sorta di grande Piano regolatore del territorio e dei suoi usi futuri. Al punto 22, dove si parla di Tav, l’indicazione non lascia spazio a interpretazioni diverse. «Va stralciata», si legge nel documento finale, «l’ipotesi di tracciato ferroviario Alta Capacità-Alta Velocità lungo il margine della gronda lagunare, fascia di altissima fragilità e vulnerabilità ambientale e paesaggistica tutelata dal Palav». Nel territorio della provincia di Venezia, dunque, quel tracciato non si deve fare. Mentre vanno valutate «le altre due ipotesi della proposta del Piano regionale dei Trasporti del 2004, come il percorso ferroviario dei Bivi o preferibilmente con fermata passante interna, lungo la linea ferroviaria venezia-Trieste. Un sasso lanciato nel mare delle alleanze in Regione. Già la settimana prossima, in commissione Urbanistica, il documento sarà esaminato dalle forze politiche. Le opinioni sono molto diverse, anche all’interno della stessa maggioranza Pdl-Lega, dove non tutti vedono con favore il tracciato che potrebbe portare problemi al veneto Orientale. «Un errore», dice senza mezzi termini la segretaria regionale del Pd Rosanna Filippin. Il presidente del Porto Paolo Costa plaude, il governatore Zaia si dice favorevole a una stazione che serva tutte le spiagge. Quanto al tracciato che molti sindaci non vogliono, Zaia promette che «ci sarà un confronto con gli enti locali, ma che l’opera si dovrà fare». Resta da vedere, appunto, quale sia il tracciato migliore. Secondo la Salvaguardia, una volta tanto unanime, quello di gronda è un percorso che potrebbe produrre «danni ambientali». A votare il testo esponenti di aree politiche e tecniche molto diverse. «Forse perché l’elaborazione è stata fatta in positivo, proponendo soluzioni», spiega Stefano Boato, docente Iuav, ambientalista storico rappresentante in Salvaguardia del ministero per l’Ambiente, «si indica come riqualifcare il territorio con interventi per uno sviluppo compatibile. Evitando il consumo di suolo e nuove strade inutili».

Un parere destinato a tener banco nell’agenda politica delle prossime settimane. Anche perché - fanno notare i tecnici - le prescrizioni per le future opere che interesseranno il territorio della provincia veneziana sono state approvate con il voto favorevole delle Soprintendenze. Più difficile sarà dunque presentare progetti di segno diverso, sapendo quali siano le linee di tendenze degli organi di tutela del ministero dei Beni culturali. Oltre al «no» all’attuale tracciato della Tav la Salvaguardia ha anche invitato la Regione a fare presto per il completamento dell’Sfmr, la ferrovia metropolitana regionale, istituendo le nuove linee per Chioggia e Piove di Sacco.

15 ottobre

Riviera divisa sull’alt a Veneto City

di Filippo De Gaspari

DOLO. «Veneto City a rischio idraulico? Non se il progetto terrà conto di opere anti-allagamento». L’altolà della Salvaguardia, che rileva rischi di tipo idrogeologico nell’area interessata dal mega insediamento, non preoccupa i sindaci di Riviera e Miranese, che anzi provano a capovolgere la questione: e se invece li risolvesse? Da Dolo il sindaco Maddalena Gottardo sposa anche in questo caso la tesi dell’opportunità. «Quelle degli allagamenti sono questioni che hanno già superato l’ostacolo della Valutazione ambientale strategica - afferma - è chiaro che Veneto City non arriverà senza opere idrauliche contestuali in grado di migliorare la tenuta del territorio. Credo anzi che da questo punto di vista il polo potrebbe portare dei vantaggi, con nuove opere in grado di salvare il paese dall’acqua. Personalmente mi preoccupano più gli aspetti legati alla viabilità». Anche per il sindaco di Pianiga Massimo Calzavara il pronunciamento della Salvaguardia non mette in discussione il progetto. «Anche se - precisa - il nostro parere resta vincolato a quello degli enti tecnici. Se ci dicono che tutto è in regola bene, altrimenti faremo i nostri approfondimenti. Resto convito che Veneto City possa essere un’opportunità per Pianiga, ma deve avere le carte in regola, con l’ok di tutti gli enti interessati. Personalmente mantengo alcune perplessità, ma se i miei dubbi venissero fugati sono pronto a firmare anche tra 10 giorni». A Mirano il sindaco Roberto Cappelletto si chiama ancora una volta fuori dalla questione. «La nostra posizione non cambia - afferma - Veneto City è un affare che non ci riguarda se non per le implicazioni viabilistiche che potrebbe avere per il nostro territorio. Su questo aspetto erigeremo una muraglia cinese per non essere invasi dal traffico, ma il pronunciamento della Salvaguardia non cambia di una virgola la nostra posizione, perché non ci sarà un metro quadrato di Veneto City nel nostro comune». Soddisfatti del parere unanime dei tecnici della Salvaguardia, manco a dirlo, sono invece i Comitati ambiente e territorio: «E’ un’uscita positiva che riconosce ragioni che portiamo avanti da anni - spiega il rappresentante Mattia Donadel - e stavolta è un pronunciamento che pesa, perché fatto da esperti. Resta da capire ora quanto ne terrà conto la Regione e in questo, purtroppo, i dubbi non ci mancano».

15 ottobre

E per Tessera City servono altre aree

di Alberto Vitucci

VENEZIA. «Stop a nuovi insediamenti, soprattutto nelle aree a rischio allagamenti». Anche sul fronte dei grandi progetti e del futuro sviluppo edilizio del territorio la commissione di Salvaguardia ha dato, approvando con rigide prescrizioni il nuovo Piano provinciale, indicazioni molto precise. Si entra anche nel merito dei contestati megaprogetti come Veneto city e Tessera city, nuove volumetrie in gronda lagunare per oltre un milione di metri cubi. Progetti già approvati dalle giunte Cacciari e Galan, adesso in fase di attesa delle autorizzazioni. Una strada che si fa più stretta, visti i vincoli imposti dalla Salvaguardia. Per il Quadrante di Tessera e il centro produttivo di Dolo-Arino (Veneto city), si prescrive di trovare altre aree disponibili. A cominciare dalle aree di Marghera, che andranno presto bonificate, e dall’Aev di Dese, già previste nel Prg vigente. Stop insomma al nuovo «consumo di territorio» che tanti disastri ambientali ha provocato negli ultimi decenni, con la moodifica del paesaggio per costruire capannoni ora in gran parte dismessi. Una speculazione che spesso più che favorire le aziende ha puntato sul costruire nuove edificazioni. Ora si cambia, e se le amministrazioni si adegueranno, come prevede la norma, alle indicazioni della Salvaguardia si punterà adesso sulla valorizzazione delle aree industriali dismesse. Un parere che stronca anche la possibilità di megadarsene alle bocche di porto e di trasformazione delle cavane in gronda lagunare, che andranno riservate a imbarcazioni tipiche.

Postilla

Le due pesanti urbanizzazioni erano state promosse l’una (Veneto City, nell’area della Riviera del Brenta) da un gruppo di “capitani coraggiosi” dell’immobiliaristica e l’altra (Quadrante Tessera, in margine alla Laguna e all’aeroporto) dai proprietari della società che gestisce l’aeroporto, dal Casino di Venezia e da un gruppo di finanziatori privati, ed era stato pesantemente sostenuto da Giancarlo Galan e Massimo Cacciari quando erano, rispettivamente, presidente del Veneto e sindaco di Venezia. Entrambe le proposte erano state riprese nel Piano territoriale regionale di coordinamento. Contro di esse erano state avanzate argomentate proteste dalle associazioni e dai comitati confluiti nella rete AltroVE (Rete per un altro Veneto), anche con la presentazione di osservazioni formali ai piani suddetti.

Il parere della Commissione di salvaguardia (un organo interistituzionale istituito dalla legge speciale per Venezia del 1973) esprime rigidissime prescrizioni per numerose altre previsioni devastanti, in particolare opere connesse alla realizzazione del MoSE e delle infrastrutture. Sebbene non sia vincolante ope legis , lo è certamente per l’essere stato approvato all'unanimità dai rappresentanti di istituzioni della Repubblica (ministeri, regione, provincia, comuni) e di organismi tecnici dello Stato.

Pubblicheremo appena possibile il documento integrale, o una descrizione completa del suo contenuto.

C'È FUTURO

di Valentino Parlato

La giornata di ieri a Roma promossa dalla Fiom è stata, a mio parere, una giornata decisiva. Un invito, o una sfida, al mondo dei partiti e anche degli intellettuali a uscire dalla palude e dalle dispute, di stile berlusconiano, contro Berlusconi. Gli operai metalmeccanici sono stati negli anni passati, e lo sono anche oggi, l'espressione più moderna e forte della classe operaia, quelli che ogni giorno hanno a che fare con le innovazioni e gli arbitrii del capitalismo nostrano. E, aggiungo, i progressi delle nostre società sono stati promossi dalle innovazioni industriali e dalla politica dei protagonisti di quelle innovazioni. Non è stato affatto casuale che all'apertura della enorme manifestazione di piazza San Giovanni abbiano parlato studenti, insegnanti, ricercatori. I metalmeccanici hanno coinvolto e portato a rappresentanza anche la cultura. Il nesso metalmeccanici e cultura è antico e, senza citare Marx, strutturale. Come a dire, ripetendo convinzioni di un passato migliore, la classe operaia promuove la cultura impegnata nell'antico intento di rivoluzionare la società.

Quella di ieri è stata una sfida a quel che resta in Italia delle culture e della politica di orientamento democratico. In Italia e anche in Europa (le vittorie elettorali delle varie destre incombono) si sta andando al peggio. La grande manifestazione di ieri, l'illuminato discorso di Maurizio Landini e anche il consenso di Guglielmo Epifani allo sciopero generale - seppur posticipato - hanno detto a tutti noi e ai vari partiti non berlusconiani (ma dal berlusconismo infettati) che si può dire no, che si può cambiare rotta. I partiti (piccoli) della sinistra radicale hanno aderito. Il Pd, che dovrebbe essere l'erede del dimenticato Pci, è rimasto incerto e diviso: ulteriore e grave segno della crisi italiana. Perché il Pd non ha aderito alla manifestazione dei metalmeccanici, lavoratori fondamentali dell'industria italiana e del progresso del nostro paese? Un interrogativo grave che pesa molto su di noi, ma che dovrebbe pesare anche su di loro.Non ci spero, ma sarei molto grato a Bersani se volesse dare una sua spiegazione al manifesto. Ma forse pensa che il manifesto (che una quarantina d'anni fa diede al Pci utili suggerimenti) sia peggio dei metalmeccanici, i quali, a suo avviso, sarebbero diventati o sono estremisti dannosi. Estremisti quelli che sono il maggiore sostegno del reddito nazionale?

Credo che, se non al manifesto, una spiegazione alla Fiom e alla Cgil Bersani dovrebbe pur darla. La grande manifestazione di ieri ha dimostrato che l'Italia è meno peggio di quanto gli attuali rassegnati dirigenti del Pd pensano. Dicano qualcosa e non solo qualche titolo scetticamente elogiativo dell'imponente manifestazione di ieri. Dicano se vogliono o no capire qualcosa e fare qualcosa per e con gli operai metalmeccanici. Una volta ci dicevamo che il Pci era il migliore rappresentante della classe operaia. Non aspettiamo una risposta, perché il Pd non sa che dire. In ogni modo martedì il manifesto pubblicherà il testo integrale del discorso di Landini in piazza San Giovanni.





UNA SPERANZA CAMMINA

INSIEME ALLA FIOM

di Loris Campetti

«Noi non diamo numeri, contateci voi». Bella trovata questa della Fiom, in polemica con i ministri che prevedevano tra le 20 e le 40 mila persone. Noi del manifesto ci siamo consultati e abbiamo concluso di non essere capaci di contare così tante persone, operai e studenti «uniti nella lotta», colf e migranti, anziani che hanno conquistato quei diritti che oggi si vorrebbero togliere ai figli e ai nipoti. C'è chi parla di un milione, ma vai a sapere. E, soprattutto, chissenefrega. Ieri nelle strade e nelle piazze di Roma ha camminato una speranza: cambiare si può. Speranza che non trova albergo nella «Politica» ma oggi ha un orgoglioso compagno di marcia: la Fiom.

«Meglio lottare danzando che vivere in ginocchio». Saranno quei burloni degli operai di Pomigliano che improvvisano una tammuriata in piazza della Repubblica? Invece no, sono le Chejan celen, «Zingare spericolate», ragazze e bambine inserite in un progetto di alfabetizzazione dei rom. Sono italiane da tre generazioni ma non hanno diritto a esserlo per la nostra legge. Ecco perché sfilano con i metalmeccanici e addirittura si esibiscono in bellissime danze al ritmo di musiche zigane, perché la Fiom ha messo al centro di una delle più straordinarie manifestazioni della storia d'Italia proprio i diritti. Quelli degli operai a lavorare con dignità, dei sindacati degni di questo nome a contrattare, degli studenti a studiare e degli insegnanti a insegnare, dei precari a riacciuffare per la coda un futuro oggi negato, dei migranti a essere considerati persone uguali alle altre persone. Tutti portatori di diritti sociali, civili, di cittadinanza. Diritti indivisibili, da difendere e spesso da riconquistare in un'Italia classista e ingiusta rifondata sui privilegi.

Trascina l'emozione della piazza Maurizio Landini, il nuovo segretario generale della Fiom, quando dice che di quel che sta succedendo a Roma e in Italia, di questa domanda collettiva di dignità, partecipazione, democrazia, bisogna ringraziare, prima e più che la Fiom, gli operai di Pomigliano e di Melfi che non hanno chinato la testa di fronte all'arrogante pretesa del padrone di scambiare lavoro ipotetico con diritti certi. I diritti, semmai, vanno estesi a tutti sennò si riducono a privilegi.

Chi è in piazza, come questi operai della Fiat, non vuole o non vuole più chinare la testa. Due cortei sterminati hanno raccontato tante cose a una Roma finalmente attenta e qua e là anche partecipe. La fatica di lavorare e vivere in una crisi spietata, gestita per di più da un governo spietato perché «servo», come sta scritto su tanti cartelli. Alcuni un po' scorretti. Servo «dei padroni», naturalmente, di «Marchionne cetnico, Bonanni maggiordomo» per dire che al servizio del modello sociale preteso dall'uomo miracoloso della Fiat di «servi» ce ne sono molti. Più che contro Berlusconi, la piazza rossa della Fiom è contro un modello sociale e politico in cui l'operaio è pura variabile dipendente, appendice della macchina a cui lavora e al tempo stesso combattente arruolato con la forza del ricatto in una guerra globale che non è di classe ma tra navi nemiche in cui stanno tutti insieme, padrone, manager e tute blu per combattere contro un'altra nave modellata allo stesso modo alla conquista, come l'altra, del dio mercato. Mors tua vita mea, siamo in guerra. Ne parliamo con gli operai dei «cantieri navali in lotta» che ci spiegano come la stratificazione della nave sia classista perché c'è chi rema e chi spartisce i dividendi, ma lo è già «al momento della sua costruzione»: alla stiva lavoratori immigrati senza diritti, ai primi piani dipendenti delle ditte appaltatrici e subappaltatrici e solo ai piani alti i «nostri» operai. Che però stanno massicciamente con la Fiom e non si fanno fottere perché sanno che il nemico è l'armatore e i suoi caporali. Questa piazza ragiona e grida contro un modello sociale che punta sulla guerra tra poveri, disoccupati e cassintegrati contro i migranti. Un modello sociale in cui la democrazia dev'essere «governante» ed è insieme un optional rinsecchito, fruibile solo per i ceti abbienti. Tutto il potere in mano a pochi, in politica come all'università, in fabbrica come nei quartieri. Non sopportano Berlusconi le centinaia di migliaia di lavoratori, studenti, pensionati che occupano la Capitale, e non glie lo mandano a dire. Ma temono, forse ancora più di Berlusconi, il partito del potere vero: quello di Marchionne, Marcegaglia e Montezemolo che «potranno anche essere alleati di qualcuno, ma non di questa piazza», dice un giovane di un centro sociale torinese.

È ovvio vedere sfilare Emergency che chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan, dato che la Fiom è per il ritiro. È ovvio che sfili Libera per chiede legalità perché la Fiom chiede legalità, anzi spiega che la frantumazione del ciclo produttivo con la moltiplicazione di appalti e subappalti è l'ascensore che favorisce l'appropriazione dell'economia da parte della criminalità. I migranti cercano casa, diritti e lavoro e sono ora sparsi ora concentrati negli spezzoni dei cortei. Nella Fiom vedono una casa. All'Ostiense lo spezzone Fiom di Reggio Emilia è tricolore non per bandiere rigidamente rosse ma grazie alla presenza di operai indigeni, africani e asiatici. Dal Veneto sono calati in massa sia gli operai di Landini che i giovani dei centri sociali, così come dalle Marche. L'orgoglio di essere Fiom, innanzitutto. Gridato da Melfi, da Pomigliano, da Mirafiori, dallo spezzone più incazzato che apre il corteo di piazza della Repubblica, quello Termini Imerese che in coro canta «sciuri, sciuri, sciuriti tutto l'anno, e Marchionne va a jettari u sangu». Precisa la segretaria della Fiom siciliana che «da noi gettare il sangue vuol dire faticare». E noi ci crediamo.

La pensionata di Macerata e la zingara spericolata, il pacifista trentino e il cassintegrato autorecluso all'Asinara, il No Tav della Valle di Susa e persino i venditori di fischietti chiedono una cosa: la riunificazione delle lotte che si incrocia con la riunificazione del lavoro chiesto dagli operai arrivati, ancora una volta e più numerosi e decisi di sempre, a Roma. «Basta con le escort e le case a Montecarlo», chiede un cartello. Inutile dire di cosa si debba occupare la politica, di lavoro, democrazia, diritti, legalità. «Di contratti, per dio», grida il pensionato abruzzese. Ma c'è anche chi chiede «10-100-1000 Same» portando in corteo uova finte.

Di miracoli ieri se ne sono visti molti, a Roma: i soggetti organizzati, chi si batte per l'acqua pubblica e i beni comuni, chi guida le battaglie contro il precariato, chi chiede un reddito di cittadinanza, chi vuole una scuola libera e pubblica chi chiede lavoro per sé e galera per i suoi padroni (le maschere dell'Eutelia), tutti questi pezzi di mondo hanno iniziato a camminare insieme. C'è addirittura chi parla dello «spirito di Genova». Inutile ricordare che anche la Fiom, nel G8 del 2001, c'era, insieme a chi gridava «un altro mondo è possibile».

Il secondo miracolo romano è che dal palco tutte queste domande e sensibilità sono state raccolte nell'intervento di Maurizio Landini, un operaio speciale che sa parlare alla sua gente e al popolo multicolore di piazza San Giovanni. «C'è una domanda di cambiamento a cui bisogna dare una risposta». Piace ai comunisti, i tantissimi di Rifondazione ma anche del Pdci, del Pcl, di Sinistra critica. Piace a Vendola e alla Sel, forse piace anche ai tre eroi che trascinano in corteo altrettante bandiere del Partito democratico. E il «nuovo modello di sviluppo» di Landini piace agli ambientalisti, con o senza bandiera verde.

Tutti chiedono la stessa cosa: le lotte devono andare avanti, fino allo sciopero generale. Meglio prima che dopo. Lo ricordano senza tregua al segretario generale Guglielmo Epifani al suo ultimo comizio da capo della Cgil.

Non sono eroi, sono però degli esempi. Coccolati da tutti, orgogliosi, rumorosi, determinati, allegri persino. Sono gli operai di Pomigliano, quelli dei No a Marchionne da cui è partito tutto questo casino che ha ridato una speranza al paese. Meglio, alle persone per bene. Coccolati sono anche i tre licenziati di Melfi che hanno vinto la causa ma che il padrone tiene fuori dalla fabbrica. C'è anche il manifesto in piazza, con i suoi circoli e i suoi giornalisti, i suoi stand e il suo grido di dolore. Siamo accolti molto bene in piazza, e persino dal palco c'è chi ricorda la resistenza di un giornale amico degli operai, un giornale senza padroni, senza partiti e senza soldi. Un giornale schierato, come e con questi chissà quanti italiani e migranti di buone speranze.

Qui di seguito è riportato il testo senza le note, le tabelle e la bibliografia. La versione completa, in formato .pdf, è scaricabile in calce.

1. L’obiettivo 30 ettari

Il contenimento dell’occupazione di suolo per fini urbani e il rafforzamento delle strategie di riqualificazione della città esistente sono da tempo entrati fra gli obiettivi della legislazione urbanistica e dei documenti di pianificazione a livello europeo e dei singoli stati membri. Come è noto, nella lotta all’inarrestabile espansione delle città, si è distinta soprattutto la Germania con una vasta gamma di strumenti diversi: oltre a quelli di esclusiva natura legislativa si sono messi a punto strumenti di carattere fiscale ed economico, di comunicazione e di ricerca . Il carattere distintivo delle politiche tedesche è però la definizione di un obiettivo quantitativo rispetto al quale misurare l’efficacia delle strategie adottate. Questo approccio ha portato ad alcune innovazioni rilevanti nelle pratiche di pianificazione, arricchendo il discorso tradizionale con concetti nuovi di management e di comunicazione.

La necessità di invertire, o almeno mitigare, la tendenza all’espansione urbana è stata riconosciuta, per la prima volta, dal governo tedesco nel 1985 nell’ambito della formulazione dei principi di tutela del suolo. Solo tredici anni dopo l’allora ministro per l’ambiente Angela Merkel (CDU) si era però posto l’obbiettivo di disgiungere in modo duraturo lo sviluppo economico dall’occupazione di suolo. Fu allora fissata la soglia di 30 ettari al giorno (pari a un quarto della tendenza allora in atto), alla quale limitare l’aumento di aree per insediamenti e mobilità entro il 2020.

Successivamente, l’obiettivo 30 ettari è stato ripreso dai governi rosso-verdi all’interno della strategia per uno sviluppo sostenibile (Bundesregierung, 2002) e da tutti gli altri governi che si sono succeduti . Nonostante si tratti di un obiettivo piuttosto impegnativo, da subito molte voci autorevoli lo hanno considerato soltanto una meta intermedia e si sono espressi a favore di una crescita zero nel lungo periodo (Consiglio degli esperti per le problematiche ambientali, Consiglio per lo sviluppo sostenibile, Enquete-Kommission).

Ancora più rigorose erano le richieste delle associazioni ambientaliste BUND, DNR e NABU. Le associazioni chiedevano già dieci anni fa una progressiva riduzione delle aree fino a zero ettari nel 2010 (NABU, 2002). L’alleanza per la tutela dell’ambiente e della natura, invece, reclamava la necessità di trovare strumenti per realizzare “un’economia di rotazione”: per ogni nuova occupazione di suolo si sarebbe dovuta naturalizzare una superficie equivalente da un’altra parte (BUND, 2004).

Anche a livello dei singoli Länder è stato riconosciuto il problema della progressiva occupazione di suolo e sono state prese misure per la sua riduzione. Hanno funzionato come battistrada la Baviera con il “patto per il risparmio delle aree” e il Baden-Württemberg attraverso la tutela degli spazi aperti e dei suoli agricoli.

Come è dunque evidente, in Germania lo sforzo sul piano legislativo e programmatico, a tutti i livelli di governo, è stato notevole e va ben oltre lo slogan dei 30 ettari al giorno. I dati pubblicati nel marzo 2010 da parte dall’ufficio statistico federale inchiodano però le politiche alla loro efficacia: assolutamente deludente.

2. Le politiche sono efficaci?

Nel quadriennio dal 2005 al 2008 l’occupazione di suolo per fini urbani in Germania è aumentata del 3,3% circa, per una superficie pari a 1.516 kmq. Questo incremento equivale a una crescita di 104 ettari al giorno. Nei quattro anni precedenti (2001 – 2004) si attestava ancora a 115 ha. Se si può dunque registrare una flessione nella dinamica di occupazione di suolo, altrettanto evidente risulta la distanza dall’obiettivo 30 ettari.

L’analisi della serie storica dei dati dimostra chiaramente le tendenze in atto: il territorio urbano è in continua crescita e ha ormai superato la soglia del 13% della superficie nazionale. Si espande anche il territorio naturale che ormai occupa un terzo esatto del territorio complessivo. Il perdente risulta essere, invece, il territorio agricolo, orientato a finire sotto la soglia del 50%. Il suolo occupato per fini urbani non può, però, essere equiparato al suolo impermeabilizzato. Il “suolo urbano” include, infatti, anche una notevole quantità di superficie non edificata e non impermeabilizzata. Si tratta, ovviamente, delle aree di pertinenza degli edifici non sempre e non necessariamente lastricate. Ma si tratta soprattutto delle superfici per usi ricreativi, parchi urbani e impianti sportivi che, secondo gli ultimi dati disponibili, ammontano all’8% della superficie urbana in Germania. Nell’arco temporale dal 2005 al 2008 hanno contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’occupazione di suolo: 45 ettari al giorno sul totale di 104.

Nell’insieme, la dinamica che sta alla base delle trasformazioni degli usi del suolo può essere letta studiando gli incrementi percentuali dei tre territori, quello urbano, quello agricolo e quello naturale. Dai tassi di crescita risulta chiaramente come essi siano sempre positivi, per quanto riguarda il territorio urbano, ma decrescenti negli ultimi tre quadrienni. Nel territorio agricolo sono costantemente negativi e di grandezza variabile, soprattutto in funzione dell’avanzamento del territorio naturale. Oltre che da parte dagli usi urbani, il territorio agricolo sembra dunque subire una pressione anche da parte del territorio naturale. Anche in Germania si avvertono dunque fenomeni di abbandono degli spazi dell’agricoltura, a partire da quelli meno accessibili e meno redditizi, e un conseguente avanzamento della superficie arbustiva e boscata.

Ciò che qui ci interessa di più sono però i fenomeni legati al consumo di suolo urbano. Come si è visto, la progressiva urbanizzazione continua con tassi molto elevati anche se, lentamente calanti. È difficile capire se ciò sia dovuto a una progressiva presa di conoscenza del problema, alle politiche messe in campo finora oppure se sia semplicemente riconducibile alle fasi del ciclo economico. Certo è che la tendenza in atto non basta a raggiungere l’obiettivo dei 30 ettari al giorno entro il 2020 .

È opinione diffusa che la difficoltà a contenere l’espansione urbana sia legata soprattutto alla tipologia insediativa della casetta unifamiliare, parte essenziale del sogno tedesco di progresso, che si vedrebbe minacciato da politiche di contenimento urbano. I dati recenti sembrano però smentire quest’ipotesi.Nel quadriennio dal 2005 al 2008, la crescita del suolo edificato per usi civili ammonta ad appena il 29% dell’incremento complessivo della superficie urbana (437 km2 su 1.516 km2) mentre risultano determinanti gli incrementi delle superfici per la ricreazione (656 km2) e per la mobilità (328 km2). Se nel quadriennio precedente (2001-2004) la superficie edificata, sia residenziale che produttiva, costituisce ancora più della metà dell’incremento complessivo e un ulteriore 20% deriva dalla costruzione di strade, dal 2005 al 2008 prevalgono gli usi di verde urbano (35%), di verde sportivo (7,8%), di superfici per la mobilità diverse dalle strade (interporti, porti, scali ferroviari, eccetera, pari al 16,1%). Insomma, nell’ultimo quadriennio il nuovo impegno di suolo per edifici e strade pesa appena il 38% sulla crescita complessiva delle superfici urbane, mentre aumenta notevolmente il fabbisogno di spazio per aree a verde attrezzato e per le funzioni della mobilità diverse dalle strade, raggruppabili nel termine di logistica. Ne emerge così una nuova e diversa struttura della crescita urbana.

3. Cooperare, gestire, comunicare

Da tempo la comunità scientifica è consapevole della necessità di sperimentare nuove strade di fronte ai cambiamenti strutturali in atto. In Germania, le linee di ricerca più fertili nel campo delle politiche urbanistiche di contenimento del consumo di suolo sono riconducibili ai concetti di cooperazione, management e comunicazione.

Alla cooperazione nei processi di piano spetta un ruolo particolare nella ricerca di maggiore efficacia delle politiche di riduzione del consumo di suolo. La cooperazione può riguardare ambiti istituzionalmente definiti (per esempio le regioni) oppure può essere limitata a insiemi di comuni, riuniti ad hoc, per affrontare problemi specifici. In Germania, la cooperazione intercomunale non è nuova e avviene, di norma, nella forma di associazioni fra comuni. Come anche in Italia, le associazioni vertono generalmente sulla fornitura di servizi di base ma possono essere investite anche dalle competenze di pianificazione urbanistica. La differenza fra cooperazione intercomunale e cooperazione regionale sta nel fatto che la prima è volontaria ed è limitata ad attori accomunati soltanto da fattori di vicinanza, mentre la seconda è istituzionalizzata e riguarda attori legati anche da aspetti funzionali (Fürst e Knieling in ARL, 2005). Essa trova la sua principale applicazione nella formazione del piano regionale. Il sistema di pianificazione assegna, in Germania, al piano regionale il ruolo di indirizzo della struttura insediativa che viene poi concretamente disegnata al livello locale (comunale o intercomunale) attraverso gli strumenti urbanistici di destinazione d’uso dei suoli. In questo quadro, la pianificazione regionale detiene un ruolo centrale nella promozione dello sviluppo insediativo sostenibile (BFN, 2006). Questa sua funzione è definita nella legge urbanistica federale (Par. 7, comma 2 e seguenti ROG) e nelle leggi dei singoli Länder. Al di là degli aspetti gerarchici formali, la formazione dei piani regionali è però basata, ogni volta con modalità differenti, sulla cooperazione fra regione e comuni. In tempi recenti, nel concreto svolgere dei giochi di piano, il ruolo degli enti si è inoltre arricchito di funzioni inedite di consulenza e mediazione (RSO, 2008). Il progressivo affermarsi di ruoli e competenze non codificati dalla legge ha dato un forte impulso alla cooperazione intercomunale informale. In molti casi, dove questa è orientata specificamente verso i problemi di contenimento del consumo di suolo, le politiche di sviluppo urbano sostenibile dimostrano un deciso miglioramento di performance . Come è però noto, ogni cooperazione comporta necessariamente dei costi transazionali che, a meno di incentivi specifici, sono accettabili soltanto in contesti di particolare pressione (Bleher, 2006). Ne consegue che la cooperazione intercomunale, in quanto volontaria, avviene solo laddove il problema del consumo di suolo è particolarmente sentito, vuoi per fattori esogeni, vuoi per fattori endogeni.

Nel caso della Germania, i principali fattori di pressione esogena sono la globalizzazione dell’economia che necessita azioni a livello regionale, l’orientamento sovracomunale delle politiche strutturali europee e i cambiamenti nella struttura socio-economica dei singoli Länder, soprattutto nella Germania dell’Est. Il primo fattore di pressione endogena che spinge alla cooperazione intercomunale è, invece, la difficile situazione finanziaria dei comuni; un secondo fattore è rappresentato dalla scarsità di aree disponibili nelle città capoluogo e l’indiscutibile appartenenza della maggior parte delle città ad aree metropolitane vaste (Fürst, 1999). Come ulteriore fattore endogeno possono essere citate le politiche di attrattività che vengono spesso promosse, a livello regionale, per attirare investimenti privati importanti. Se l’ambito di applicazione delle politiche sperimentali di contenimento urbano è quello intercomunale, gli strumenti si basano generalmente sui metodi di management dei suoli. Nella letteratura tedesca, con questo termine si intende la combinazione di strumenti giuridici e consensuali per la promozione di uno sviluppo insediativo rispettoso della risorsa suolo (Löhr e Wichmann, 2005). L’approccio prevede una maggiore sensibilità rispetto al patrimonio edilizio e urbanistico esistente, misure specifiche per l’attivazione di potenziali di spazio all’interno del perimetro urbanizzato e strumenti di tutela degli spazi aperti. Come nelle scienze di gestione aziendale, anche il management dei suoli è strutturato in fasi diverse (Einig, 2007):

- - analisi e valutazione delle riserve e dei potenziali edificatori;

stima dei fabbisogni futuri;

- concertazione di obiettivi ed elaborazione di scenari di sviluppo condivisi;

- valutazione dei diversi scenari;

- messa a punto di strumenti di attuazione;

- monitoraggio dello sviluppo insediativo.

Numerosi casi di studio hanno dimostrato che, generalmente, il potenziale edificatorio rilevabile nel patrimonio urbanistico esistente supera il fabbisogno di spazi programmabile nell’arco temporale della pianificazione urbanistica (10-15 anni). Gli studi hanno però anche messo in evidenza che lo “sviluppo urbano interno” (densificazione, riabilitazione, in generale trasformazione) non avviene spontaneamente e non si autoalimenta. La distribuzione spaziale, la frammentazione e la disponibilità dei potenziali edificatori, ma anche la moltitudine di attori da coinvolgere oppure le specifiche tendenze sociali sono altrettanti ostacoli alla trasformazione del patrimonio urbanistico esistente (RSO, 2008). Oltre a un nuovo strumentario tecnico è dunque necessaria la messa in rete degli attori e degli stake-holder dell’arena decisionale.

Fin dal 2004, nell’ambito dell’obiettivo 30 ettari è stato istituito il fondo di ricerca REFINA (Forschung für die Reduzierung der Flächeninanspruchnahme und ein nachhaltiges Flächenmanagement), dotato di 22 Mio. di Euro, con il quale sono stati finanziati progetti di ricerca nell’ambito della comunicazione ambientale: comunicazione fra istituzioni diverse, fra interessi confliggenti, fra linguaggi disciplinari distinti. Forme nuove di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alle strategie di uso sostenibile della risorsa suolo, ma anche forme di coinvolgimento diretto dei proprietari, di discussione con le famiglie in procinto di trasloco, di inclusione di investitori privati.

Come componenti delle politiche di sviluppo sostenibile gli strumenti di comunicazione vanno ben oltre a un ruolo soft di mero affiancamento degli strumenti giuridici e di incentivazione economica. Come si è visto, non basta modificare le leggi o introdurre nuove tasse per garantire l’efficacia di politiche così strettamente intrecciate con interessi economici e stili di vita come quelle di riduzione del consumo di suolo. Appropriate strategie comunicative sono indubbiamente di enorme importanza nell’implementazione e nell’accettazione della strumentazione hard, soprattutto se possono essere intese come processi di apprendimento sociale.

Il ricorso alla comunicazione è stato affrontato da due punti di vista diversi: elemento di processi partecipativi di agenda 21 locale da un lato, quadro di riferimento di strategie di marketing dell’abitare in città dall’altro. Da un lato, dunque, la comunicazione è servita per sensibilizzare l’opinione pubblica e per incentivare scelte e stili di vita responsabili. Dall’altra parte, invece, le strategia di comunicazione erano funzionali al marketing dell’abitare in città, promuovendo l’incremento di qualità della vita e delle localizzazioni urbane. Infatti, la tematica dell’abitazione include un importante potenziale di marketing (BMVBS/BBR 2007; in particolare sul tema del marketing dell’abitare in città Urban Task Force, 1999). Per attingere a questo potenziale è però necessario riconoscere e valorizzare le caratteristiche architettoniche e urbanistiche delle città, ma anche le loro risorse culturali, economiche e sociali. Solo successivamente è possibile individuare attori e partner per una nuova strategia di sviluppo insediativo sostenibile basato sulla sinergia fra utenti e investitori (Kriese 2009).

4. Conclusione

La ricerca e la sperimentazione di strumenti e politiche per la riduzione della crescita urbana si presenta, in Germania, come un campo scientifico particolarmente fertile. Ne sono testimoni le numerose pubblicazioni di istituti di ricerca e di istituzioni a tutti i livelli. Le dinamiche delle strutture insediative sembrano però non del tutto rispondenti agli sforzi normativi e agli obiettivi di governance: il rallentamento della crescita urbana è sensibile, ma come dimostrano i dati statistici non è ancora sufficiente per centrare l’obiettivo 30 ettari entro il 2020. In buona misura ciò è riconducibile a un’insufficiente sensibilizzazione della classe dirigente e dell’opinione pubblica.

C’è però un altro aspetto, finora non sufficientemente considerato dalla comunità scientifica. Nel caso di un’effettiva limitazione di nuovo suolo edificabile, quali sarebbero le conseguenze sui bilanci famigliari e sui costi collettivi? Quali sarebbero le implicazioni su sviluppo e occupazione? Che effetto avrebbe sugli squilibri territoriali fra comuni, fra regioni, fra Meridione e Settentrione? Quale effetto avrebbe sull’assetto istituzionale una necessaria limitazione delle autonomie locali? Si tratta di interrogativi ai quali la ricerca finora non è riuscita a rispondere con sufficiente chiarezza. Insieme alla sperimentazione di nuovi strumenti e all’elaborazione di nuovi modelli, forse è necessario partire proprio da qui: immaginare risposte semplici alle domande più difficili.

Di solito i comunicati di Confcommercio e Federalberghi sono vivaci come un requiem a Ognisanti. Ma in questi giorni gli esercenti de L'Aquila stanno sparando ad altezza uomo dichiarazioni che non risparmiano davvero nessuno. Nel mirino soprattutto i teologi della ricostruzione: il premier Berlusconi, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, il governatore Gianni Chiodi. E proprio a quest'ultimo è stato dedicato ieri il pensiero di giornata: “Ci vuole una bella faccia tosta a fare le affermazioni che ha rilasciato contro gli albergatori aquilani - dice in una nota Federalberghi -. E quindi ormai è ufficiale: Chiodi la faccia tosta ce l’ha eccome. Invece di chiedere scusa per non aver rispettato per lunghi mesi gli impegni, è arrivato imprudentemente all’insulto che restituiamo al mittente”.

Il Commissario alla ricostruzione aveva infatti definito 'disumani' gli albergatori che, esasperati dai mancati pagamenti a partire dal gennaio 2010, minacciano di negare ai terremotati pasti caldi e pulizia delle camere. In realtà ieri, primo giorno dello sciopero, in pochi hanno aderito alla protesta. "Ma figuratevi se ce la possiamo prendere con 'sti disgraziati - confida un associato -. Siamo pure noi nei guai fino al collo e cerchiamo di far capire a tutti che non siamo lagnosi ma proprio disperati. Lo scriva eh, disperati. Ci rimangono solo gli strozzini".

Una rabbia nera, che continua anche nella nota di Federalberghi: "Se c'è qualcuno che è 'disumano' non è tra gli albergatori aquilani che bisogna cercarlo, ma al Commissariato Straordinario. Da mesi avevamo avvertito che la corda si sarebbe spezzata. Già nel maggio 2009 a Roseto i primi colleghi segnalarono che non ricevevano un soldo e sospesero le erogazioni di servizi. Quindi le chiacchiere stanno a zero, caro Chiodi e se qualcuno di voi pensa che i costi dell'assistenza e della ricostruzione debbano essere sostenuti dal sistema delle imprese aquilane, avete sbagliato genere, numero e cosa". E, tanto per chiarire, Federalberghi Rieti ha avviato le procedure di messe in mora per la Protezione civile Abruzzo.

Come dire: i 2,6 milioni teoricamente pronti per saldare il conto e promessi ieri da Chiodi, sono briciole davanti ai 60 già anticipati e mai rimborsati. Ma il messaggio è diretto anche al governo di Roma e soprattutto al sottosegretario Bertolaso, che tra un mese lascerà la Protezione civile in mano all’ex prefetto cittadino Franco Gabrielli. “Speriamo bene” sospira Alessio Di Giannantonio, portavoce di quel Comitato 3e32 che ha avuto parecchi guai sin dai tempi delle riunioni (vietate) nelle tendopoli di Campomaggio per finire al celebre sequestro delle carriole. “Ora la strategia è cambiata - spiega Di Giannantonio -. Invece di litigare su dati e soluzioni si passa direttamente a cancellare la realtà. Basta vedere l’ultimo rapporto ufficiale della Sge, la Struttura per la gestione dell’emergenza guidata da Chiodi. Siccome L’Espresso aveva scritto che gli sfollati a L’Aquila sono ancora 50 mila, lui ha fatto la magia: solo 3.065 persone ora figurano senza sistemazione, cioè quelli in albergo e nelle caserme. Tutti gli altri sono a posto. Magari stanno in casette di legno o appoggiati dai parenti, vivono a cento chilometri dalla città o si stanno fumando i risparmi per pagarsi l’affitto, ma che importa”.

Polemiche strumentali, le ha definite Chiodi, è solo una diversa catalogazione. Per la precisione, gli sfollati aquilani sono ad oggi 55.362.

Titolo originale: Not so grim up north – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Stanno ovunque, addirittura sui cartelli “Non calpestate le aiuole”: più o meno 700 Soli delle Alpi, i simboli della Lega Nord di Umberto Bossi, appiccicati sulla scuola di Adro, piccolo centro nella valle del Po e ultimo episodio della infinita guerriglia tira e molla fra la Lega e il governo di Roma di cui fa parte.

Da quasi dieci anni, a partire dalla fine degli anni ‘90, il sogno leghista di liberare la “Padania” (Italia settentrionale) era liquidato come una bizzarria. Oggi non più. Dal 2008 il governo di Silvio si regge in parlamento sui voti della Lega. E per assicurarsene il sostegno il primo ministro nelle ultime settimane ha promesso di accelerare l’attuazione del “federalismo fiscale”, idea leghista non chiarissima di maggiore autonomia finanziaria.

Ma se il governo dovesse cadere l’anno prossimo a causa delle divisioni fra le sue componenti non leghiste, Bossi e i suoi fedeli sarebbero i primi ad avvantaggiarsene nelle elezioni. I sondaggi li mostrano in crescita nelle percentuali sin dalla consultazione del 2008.

Come accade a tanti altri partiti in tutta Europa, la posizione anti clandestini e anti-islam dei leghisti ottiene consenso. Appartiene al partito il ministro dell’interno Roberto Maroni, che ha attuato la discussa politica di respingimenti nel Mediterraneo prima che possano chiedere asilo politico. L’islamofobia abbonda nella Lega. Un altro ministro, Roberto Calderoli, tempo fa ha portato a passeggio un maiale sul terreno destinato alla costruzione di una moschea.

Ma tutta questa xenofobia in sostanza è solo un prodotto collaterale del tentativo di Bossi di costruire una identità condivisa fra quelli che cerca di unire. “Un metodo è quello di individuare nemici comuni” racconta Alessandro Trocino, coautore di un recente libro dedicato alla Lega. “Prima erano gli italiani del Sud, poi gli immigrati in genere, adesso in particolare i musulmani”.

Il messaggio di Bossi si dimostra sempre più efficace anche per l’elettorato tradizionale della sinistra. Un sostegno cruciale per la straordinaria affermazione alle elezioni del 2008. “Non siamo né di destra né di sinistra” commenta Ettore Albertoni, ex consigliere regionale della Lombardia, l’area attorno a Milano. Un’affermazione che ha qualche fondamento: molti elettori della Lega sono sia lavoratori che imprenditori: contadini proprietari, artigiani, esercenti.

Sarebbe davvero ironico se il prossimo anno, centocinquantei anniversario dell’unità d’Itaia, si rivelasse l’ annus mirabilis della Lega. Ma Giuseppe Berta, autore di uno studio sull’Italia settentrionale, spiega “Il partito ha raggiunto un culmine. E ciò significa che sta iniziando il calo”. Perché, continua, ha degli ineliminabili handicap. Dipende dal carisma di Bossi (rimasto intatto nonostante l’ictus del 2004 che gli ha lasciato qualche difficoltà di espressione). Gli elettori urbani sono disorientate dal suo populismo, dalle volgarità (recentemente ha definito i Romani “porci”) e dalle varie mitologie (la tradizione Celtico-padana). Il professor Berta sostiene che la Lega non è ancora riuscita a dotarsi di leaders in grado di gestire qualcosa di più grande di una cittadina. Ma no tutti sono della medesima opinione. Maroni è fra i ministri più popolari del governo. Luca Zaia, che ha abbandonato un a poltrona ministeriale in aprile, viene considerato un ottimo governatore del Veneto.

Molto dipende dall’ottenimento o meno del federalismo fiscale chiesto dalla Lega, e se ci si arriva a come si useranno i nuovi poteri. Trocino è convinto che a Bossi e ai suoi convenga, avere qualche promessa eternamente rinviata. “Ricordiamoci della battuta di Oscar Wilde: quando gli dei vogliono punirci, rispondono alle nostre preghiere”.

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