Corriere della Sera 30 dicembre 2012 (f.b.)
«Li nobili et citadini veneti inrichiti volevano trionfare et vivere et atendere a darse piacere et delectatione et verdure in la terraferma et altri spassi, abbandonando la navigatione (…) et facevano palagi et spendevano denari assai». Forse nessuno ha raccontato meglio di Gerolamo Priuli, nei Diarii del 1509, le ragioni che diedero vita alla rete di ville meravigliose sparse per il Veneto.
Un patrimonio straordinario. Unico al mondo. E forse nessuno è riuscito a misurare l'aggressione al territorio intorno a quelle ville quanto una ricerca in via di pubblicazione condotta da un docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali dell'Università di Padova, Tiziano Tempesta. Che con l'aiuto di un laureando dalla cocciuta e generosa pazienza, Luca Checchin, ha monitorato una ad una le 3.782 ville della regione, per l'86% private, per il 62% costruite tra il Seicento e il Settecento, censite dall'Istituto Regionale Ville Venete nel 92% dei comuni della regione. Andando a controllare che cosa è successo negli immediati dintorni, nel raggio di 250 metri.
Un lavoro capillare. Mosso proprio dalla lettura di come Andrea Palladio, cioè colui che ha dato il nome a quel tipo di residenze, intendeva la villa. Immersa nella campagna. Arricchita dall'«arte dell'agricoltura». Un luogo «dove finalmente l'animo stanco delle agitazioni della Città, prenderà ristauro e consolazione, e quietamente potrà attendere agli studi e alla contemplazione». Cosa resta, di quell'idea palladiana dello spazio? Poco. Sia chiaro, restano le ville. Che negli ultimi decenni, anche grazie all'Istituto già citato, sono state in buona parte salvate dal degrado e restituite all'antica bellezza da centinaia di restauri. Troppo spesso, però, come hanno denunciato mille volte tanti studiosi come Salvatore Settis, «la tutela d'un tesoro monumentale si è fermata un centimetro oltre la recinzione, come se il valore di quel tesoro non fosse anche l'essere inserito in un determinato spazio». Si pensi alle collocazioni all'interno di elegantissime anse del Brenta di villa Foscari, detta la Malcontenta, o di Villa Pisani a Stra. Due capolavori architettonici che, collocati in luoghi diversi e assediati da condomini, ipermercati o capannoni, sarebbero irrimediabilmente diversi.
Bene, la ricerca di Tempesta dimostra una volta per tutte, numeri alla mano, a dispetto di chi per un malinteso amor patrio lo nega, che il prezzo pagato all'ubriacatura industriale del Veneto, negli anni in cui veniva esaltato lo spontaneismo anarchico che non doveva essere intralciato da alcuna regola, è stato spaventoso. Nonostante il 48% delle ville sia tutelato da normative nazionali o regionali, «solo in pochi casi la tutela del fabbricato si è estesa anche al contesto paesaggistico in cui esso si trova». Di più: se già il territorio veneto è per il 14,3% «occupato da superfici artificiali», cioè cementificato (una percentuale stratosferica se pensiamo che la regione per il 43,6% è collinare o montuosa), «la superficie artificializzata attorno alle ville è mediamente notevolmente superiore a quella della regione». Quanto «notevolmente superiore»? «L'incidenza attorno alle ville è mediamente pari a 3,4 volte quella dei comuni della regione». Una pazzia.
Puoi vederlo nelle fotografie di villa Trissino Giustiniani a Montecchio Maggiore, davanti a cui troneggiano enormi silos. Di villa Contarini Crescente alla periferia di Padova, che si staglia su giganteschi capannoni. Di villa Franchini a Villorba, che confina direttamente con una delle 1.077 aree industriali (addirittura 14 in media a Comune) della provincia di Treviso, che ospita un quinto del patrimonio di residenze di cui parliamo. Tutte scelte sventurate di tanti decenni fa come gli stabilimenti chimici della Mira Lanza tirati su in faccia a Villa dei Leoni? Magari. L'occupazione delle aree rimaste miracolosamente integre intorno alle ville va avanti, sia pure in modo meno aggressivo di ieri, un po' ovunque. E solo una durissima battaglia degli ambientalisti e degli abitanti ha bloccato ad esempio una nuova e massiccia cementificazione della campagna adiacente alla stupenda Villa Emo di Vedelago.
Spiega lo studio «Il paesaggio delle ville venete tra tutela e degrado» del professore padovano che certo, «sono le modalità stesse di diffusione delle ville nel territorio che possono aver favorito l'agglomerazione degli insediamenti residenziali nei loro pressi». Fatto sta che «considerando la fascia più prossima», cioè quella nel raggio di 250 metri, solo nel caso del 35,3% delle ville la percentuale di aree occupate da villini o condomini «è minore del 20%. All'opposto, nel 35,9% tale percentuale è superiore al 40%». Né sembra «emergere una sostanziale diversità tra le ville sottoposte a tutela e quelle che non lo sono». Anzi, «tendenzialmente in queste ultime la situazione pare essere sia pure lievemente migliore».
Tre anni fa un'inchiesta de «Il giornale dell'arte» firmata da Edek Osser, intitolata «Così l'Italia ha massacrato Palladio» e rilanciata anche da «The Art Newspaper» nel bel mezzo del cinquecentenario palladiano, sollevò un putiferio. Denunciando «una colata di cemento senza regole e controlli» e riprendendo le parole dello studioso Francesco Vallerani, addolorato nel vedere «da un lato un territorio costellato da straordinarie meraviglie architettoniche e paesaggistiche, dall'altro il disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio». Molti, a partire dal governatore Giancarlo Galan, la presero come un'accusa esagerata. Una forzatura. Una specie di congiura mediatica contro il Veneto e i veneti.
Spiega oggi Tempesta che, a proposito di capannoni, «in 111 ville (pari al 2,9%) più del 30% del territorio posto nel raggio di 250 m. è occupato da insediamenti produttivi, e per altre 159 (4,2%) tale percentuale è compresa tra il 20 ed il 30%. Anche in questo caso non emergono differenze sostanziali tra ville tutelate e non». Peggio ancora: «Ad un esame più approfondito si è potuto constatare che non sono poche le ville inserite in zone industriali. Se si considerano le aree urbanizzate nel loro complesso si può constatare che solo il 21,9% delle ville venete si può considerare a pieno titolo inserito in un contesto paesaggistico pienamente agricolo presentando nelle vicinanze una percentuale di superficie edificata minore del 20%. In più delle metà dei casi la percentuale è oramai superiore al 40%». Ecco la sfida di domani: ripulire, risanare, risistemare, recuperare la bellezza. Riportando i capannoni il più possibile lontani da quei tesori che il mondo ci invidia.
Alla fine di novembre il Ministero per i Beni culturali aveva dichiarato che l’area di Marghera su cui avrebbe dovuto sorgere il Palais Lumière era sottoposta al vincolo della legge per cui non si può costruire a trecento metri dal mare. Ora, in un paese normale basterebbe questo a far desistere chi volesse innalzare proprio in quella fascia, e in vista di Venezia, l’edificio più alto di quello stesso paese (250 metri). Ma financo in Italia la cosa diventava pressoché impossibile, perché se anche la soprintendenza di Venezia avesse concesso l’autorizzazione, in deroga al vincolo, associazioni come Italia Nostra l’avrebbero tosto impugnata, facendo impantanare il tutto in tribunale per decenni. E il novantenne Pierre Cardin ha più volte chiarito di avere, comprensibilmente, fretta.
Né questa ovvia prospettiva, né l’appello di quattrocento intellettuali al presidente Napolitano (il quale, peraltro, non ha ritenuto di rispondere in alcun modo) hanno minimamente spaventato il sindaco PD di Venezia, l’avvocato Giorgio Orsoni, che il 22 dicembre ha firmato l’accordo con Cardin, entrando in tal modo nella storia della Serenissima «come un seguace non dei Dogi, ma dei barbari» (così Salvatore Settis, ieri su “Repubblica”).
Ma il sindaco non sente ragioni, ed è tranquillissimo, anche perché è convinto che i gruppi del Consiglio comunale ratificheranno compatti il progetto. Tanta tranquillità non è condivisa, per esempio, nella Parigi dello stesso Cardin, dove l’autorevolissima Accademia di Iscrizioni e Belle Lettere ha approvato una dura mozione in cui si legge che «a proposito della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano, oggetto di studio di molti dei suoi membri e bene comune della civiltà europea, l’Accademia è vivamente preoccupata per le minacce che pendono su Venezia e la sua Laguna», e che «spera che il Palais Lumière non venga mai costruito proprio a causa della sua altezza smisurata».
La babelica Torre di Cardin, tuttavia, non sembra poter essere arrestata né dalla forza della legge, né da quelle della cultura e del buon senso: ma forse, con provvidenziale paradosso, potrebbe esserlo da quella del denaro. Cardin ci teneva ad apparire come lo zio d’America che tornava in patria con le tasche gonfie di quattrini: lo stilista ha dichiarato formalmente che avrebbe investito un miliardo e mezzo di euro nella Torre, senza contare i milioni promessi per il risanamento dell’area industriale, e quelli con cui avrebbe patrocinato rassegne artistiche. E si capisce che una buona parte dei cittadini di Marghera, abbandonati da decenni a se stessi, abbia salutato con cieco favore questa specie di emiro nostrano che prometteva una magica fontana di lavoro e benessere alta duecentocinquanta metri.
E, invece, ecco il colpo di scena: la banca non fa credito al paperone Cardin, che non riesce così a trovare, entro il 31 dicembre, i venti milioni di euro da dare al Comune per comprare i terreni su cui dovrà sorgere la Torre. E così il sedotto e abbandonato Orsoni si sfoga con la “Nuova Venezia”: «Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Ma Cardin si è rivelato una delusione». La pochade appare davvero grottesca. Forse nessuno, nemmeno Orsoni, credeva davvero che potesse sorgere un simile, inaudito mastodonte: ma i primi milioni di Cardin (pochi, maledetti e, soprattutto, subito) servivano a far rientrare il bilancio nel Patto di stabilità. Insomma, una politica fast food incurante di ipotecare il domani pur di sfangarla, in qualche modo, oggi.
A Venezia, patria di sublimi cortigiane, anche la prostituzione era un’arte: ma oggi non si riesce nemmeno più a scegliere un cliente solvibile.
Con una scarna relazione (quattro pagine su un documento di circa mille) e sommari elaborati grafici, la parte dedicata al “sistema della mobilità a rete” del Documento di Piano del PGT adottato dalla Giunta Moratti aveva cambiato in modo sostanziale la pianificazione dei trasporti, approvata dal consiglio Comunale con il PUM del 2000 ed il successivo aggiornamento del 2006, strumenti che, per quanto se ne sappia, non sono stati mai revocati. Venivano, infatti, introdotte nuove linee di metropolitana, inserito un nuovo tracciato ferroviario, aboliti il secondo passante, la M6 e la diramazione per via Mecenate della linea M4. Nella successiva fase di osservazioni alcuni chiesero una revisione di queste scelte argomentando sulla base della consolidata tradizione milanese -ma anche provinciale e regionale- di pianificazione dei trasporti.
Queste osservazioni non furono accolte nemmeno nella seconda lettura decisa dalla Giunta Pisapia. L’Amministrazione, in sede di controdeduzioni, affermò di avere in corso di redazione un nuovo Piano della Mobilità che avrebbe fatto definitiva chiarezza sulla rete. I testi dedicati alle infrastrutture furono integrati, tuttavia il PGT oggi definitivamente approvato presenta la stessa rete di trasporto pubblico di quello adottato ed una rete stradale decisamente peggiorata: il che non fa ben sperare. È mia convinzione che la motivazione profonda di questo ribaltamento della politica dei trasporti dipenda da una carente concezione dell’assetto urbanistico di grande scala e del ruolo di Milano nella sua area urbana.
Infatti, le reti di trasporto non sono infrastrutture “neutrali”, necessarie e buone per tutte le città. Al contrario, ogni schema di rete incorpora una precisa strategia di sviluppo della città e, viceversa, non c’è strategia di sviluppo di un’area urbana che non richieda una specifica configurazione di rete. Se consideriamo la configurazione della rete, l’idea di città sottostante il PGT, fin dalla sua prima formulazione, è opposta all’idea di città da sempre presente nella cultura milanese. Da molto tempo, almeno dai dibattiti tra Carlo Cattaneo e Cesare Cantù su Milano, il comune sentire di tutti gli urbanisti milanesi è che Milano non finisca ai suoi confini, ma che la vasta regione urbana insediata al suo intorno sia tutt’uno con essa; e perciò ne condivida - anzi, ne debba condividere - la vita urbana e l’accessibilità alle funzioni. Gli urbanisti si sono poi divisi in varie scuole di pensiero, ma le differenze tra di loro (peraltro molto affievolite nel corso del tempo) sono cosa da poco rispetto al concetto fondamentale.
Il comune sentire è che tutti abbiano diritto di essere milanesi (ovvero condividere vantaggi, grandi servizi, opportunità, mercato del lavoro) e che l’obiettivo degli urbanisti sia quello di rendere quest’integrazione sempre più reale, efficace e meno congestiva. Milano ed il suo intorno possono divenire funzionalmente una sola città, per acquisire la massa critica di una città mondiale. La tradizione della pianificazione milanese, non solo comunale ma anche regionale, provinciale, soprattutto nei trasporti, ha sempre traguardato (anche se con modi diversi e talvolta con contraddizioni) l’obiettivo cattaneiano di ‘fare città’ di tutta l’area milanese. Ebbene, nonostante le molte pagine dedicate alla “nuova visione della città”, invero a livello prevalentemente microurbanistico, e quelle dedicate a “Milano metropoli a rete”, e nonostante che si faccia esplicito riferimento all’area urbana di sette milioni d’abitanti, la strategia macrourbanistica nel PGT sembra muoversi in direzione opposta.
Il problema del PGT non è che non s’interessi o che non preveda interventi per il territorio esterno a Milano (ove non ha il potere d’intervenire), ma che non incorpori né un’attiva visione strategica della città nel sistema regionale in cui si colloca, né una visione di Milano inserita in quel sistema. Le diverse strategie macro provocano riflessi ben differenti all’interno della città e le infrastrutture programmate in Milano, ove confluiscono tutte le reti, possono consentire o negare sviluppi a livello di tutta la regione. La rete del PGT piega i tracciati delle metropolitane e delle metrotranvie al servizio prevalente degli spostamenti interni alla città, amputa le linee metropolitane, nega l’estensione dell’accessibilità ferroviaria a tutta la regione (tramite il secondo passante) concentrando l’investimento nel miglioramento dell’interscambio tra le linee regionali (attuali) ed i servizi di lunga distanza e Alta Velocità.
La mancanza di una chiara visione macrourbanistica indebolisce anche il concetto di “densificazione” che è stato assunto come obiettivo strategico in entrambe le formulazioni del PGT. Infatti, se va riconosciuto il merito di aver messo l’accento sulla necessaria densità degli insediamenti ai fini di una politica dei trasporti meno congestiva, questa va applicata ai nodi della grande rete regionale, non alla città di Milano a livello microurbanistico. È ben diversa la strategia di collocare i grandi servizi ed i grandi attrattori di traffico sui nodi della grande rete estesa a tutta la regione Lombardia da quella di prescrivere una volumetria maggiore intorno alle fermate del tram, come nella tavola S.03 del Piano dei Servizi. Altrimenti si finisce per “densificare” le periferie generando domanda di nuove infrastrutture, come traspare dalla previsione delle nuove linee “metropolitane” periferiche. [...]
(per leggere integralmente questa lunga sezione dell’articolo di Giorgio Goggi sulla mobilità, si può scaricare il pdf alla fine degli estratti)
L’edilizia sociale
Anche nel campo dell’edilizia sociale il PGT sembra voler negare la tradizione milanese.
L’edilizia sociale (un tempo assai più opportunamente denominata economica e popolare) è sempre stata un vanto dell’urbanistica del capoluogo lombardo: dai primi del ‘900 - quando i quartieri IACP di Milano erano all’avanguardia dell’abitare civile -, alla storia delle cooperative edilizie, fino alla 167 al Garibaldi. Il PGT, invece, rinuncia ad applicare la legge 167, rinuncia ad individuare in azzonamento nuove aree vincolate all’edilizia sociale, disperde le sue - invero modeste - previsioni di edilizia sociale in un ventaglio di indici di volumetria aggiuntiva (“obbligatoria” ma trasformabile in edilizia convenzionata o monetizzabile) applicati agli Ambiti di Trasformazione e nelle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.
Ai tempi dell’assessore Masseroli, il Comune si difendeva dicendo di volere, in questo modo, evitare la creazione di “ghetti”. Ma non è ineluttabile che un quartiere di edilizia residenziale pubblica diventi un “ghetto”. Al contrario la storia dell’urbanistica milanese è prevalentemente caratterizzata da quartieri di edilizia popolare che non sono affatto diventati ghetti, ma hanno favorito l’integrazione sociale ed il progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei loro abitanti. Quartieri che si sono assimilati alla città e che nessuno oggi chiamerebbe di “case popolari”. Vi sono, invece, casi di quartieri privati nei quali sta accadendo proprio ciò che si paventa per i quartieri di edilizia pubblica.
Ora però in Lombardia, ed in particolare a Milano, la carenza di edilizia sociale ha ormai le caratteristiche di un’emergenza: il grado di soddisfacimento della domanda di edilizia residenziale pubblica a Milano risultava essere di circa il 30% nel 2007 (1), il dato del 2012 è sicuramente peggiore. Spetta agli strumenti urbanistici comunali mettere a disposizione le aree necessarie per la realizzazione di questi interventi. Infatti, la legge 167/62, art. 1 e art. 3, obbliga tutti comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti a determinare il fabbisogno di edilizia “economica e popolare” e a destinare aree sufficienti per soddisfarne almeno il 40%. Legge che non è mai stata abrogata; ma il Comune di Milano ha scelto di considerare la legge come non più in vigore, di non determinare il fabbisogno e di non individuare alcuna area destinata all’edilizia sociale.
Nel PGT la realizzazione dell’edilizia sociale viene, infatti, resa obbligatoria tramite la concessione di un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq applicato agli ambiti di trasformazione ed alle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq. Questo indice è poi articolato in: 0,20 mq/mq di edilizia convenzionata agevolata o in locazione con patto di futura vendita; 0,10 mq/mq per edilizia in locazione a canone moderato, concordato o convenzionato o residenze universitarie; 0,05 mq/mq per edilizia in locazione a canone sociale (sostituibile con convenzionata tramite monetizzazione). E’ poi previsto un indice di 0,15 mq/mq di edilizia sociale nelle aree da “densificare” in quanto vicine a linee di trasporto pubblico, peraltro sostituibile con diritti edificatori “perequati” trasferiti da aree vincolate.
Come si vede, alla parte di edilizia sociale assimilabile a quella residenziale pubblica (una volta detta “sovvenzionata”) è destinato solo un indice di 0,05 mq/mq, sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito. Viene spontaneo chiedersi se questa complessa articolazione degli indici obbligatori di edilizia sociale possa giungere al soddisfacimento di una quota consistente del fabbisogno di abitazioni. Occorre dire che l’unica quota di edilizia sociale di cui abbiamo una qualche sicurezza è quella inserita negli Ambiti di Trasformazione Urbana, perché gli altri tipi d’intervento dipendono da scelte private, non sono definiti in azzonamento, e la loro attivazione è meramente eventuale, legata al ciclo economico dell’edilizia.
Il sistema delle quote di edilizia sociale inserite negli Ambiti di Trasformazione o nelle aree d’intervento superiori a 10.000 mq nasconde un’altra insidia, quella di legare l’edilizia sociale al ciclo economico dell’edilizia. Viene così snaturata la funzione dell’edilizia sociale, che è sempre stata eminentemente anticiclica, legandola ai momenti espansivi del mercato. Il meccanismo di legare la realizzazione dell’edilizia sociale a quella dell’edilizia privata è esposto alla variabilità del mercato immobiliare. Non è nemmeno detto che i privati, in periodo di crisi, rinuncino a realizzare i loro interventi per non dover subire il peso economico dell’edilizia sociale. Perciò questo meccanismo non può dare la necessaria sicurezza di risolvere l’attuale emergenza sociale. Il rischio è che si finisca per produrre prevalentemente edilizia convenzionata con prezzi più o meno calmierati, tagliando la fascia di maggior bisogno, ossia quella che è tutelata dall’edilizia pubblica.
Piano dei Servizi
Nel Piano dei Servizi il Comune dichiara di non voler “stabilire in maniera rigida quali saranno i servizi che andranno attivati nel futuro e dove questi servizi saranno localizzati”; e difatti nessuna area per servizi pubblici viene vincolata, ad eccezione di quelle destinate a verde ed infrastrutture. Tutti gli altri servizi saranno direttamente realizzati dagli attuatori degli ambiti di trasformazione e dei piani attuativi o deriveranno comunque dalle cessioni ivi ottenute. Ora, una cosa è la critica alla pianificazione tradizionale, che ha generato l’annoso problema dei vincoli, e tutt’altra cosa è rinunciare del tutto a prevedere nuovi servizi e ad individuarne la localizzazione.
Quest’omissione assume maggiore rilevanza quando, di contro, il piano viene dimensionato per un significativo incremento della popolazione residente (ancorché minore di quello calcolato nelle proiezioni demografiche del PGT adottato, peraltro riportate invariate). I piccoli servizi di quartiere possono essere realizzati dagli operatori nei piani attuativi, ma che fare per le università (2), gli ospedali, i plessi scolastici, gli istituti di ricerca, i centri sportivi, che richiedono grandi superfici? In questo modo il Comune, per tutto quanto non previsto oggi negli ambiti di trasformazione, rinuncia totalmente alla strategia di localizzazione dei servizi, che è parte integrante e fondamentale della strategia di sviluppo urbano. E che è anche il contenuto prevalente della pianificazione urbanistica, se consideriamo le leggi che l’hanno istituita: un obbligo che non potrebbe essere eluso.
Dal momento che il resto del territorio è azzonato senza vincolo di destinazione d’uso, il rischio è che i servizi di cui la città avrà necessità nel futuro saranno localizzati in aree di risulta, o nei parchi di cintura. Di contro, si corre il rischio che le proposte di realizzazione di servizi da parte di privati confluiscano nella realizzazione di quegli interventi che siano maggiormente remunerativi, con il che si assisterebbe allo straordinario proliferare di palestre e centri benessere. Nella storia urbanistica di Milano sono molte le occasioni perse per non aver voluto o potuto apporre tempestivamente un vincolo su aree ritenute strategiche per il futuro della città (dal carcere di S. Vittore, alle aree di P.ta Vittoria che erano state destinate alla nuova sede dell’università Statale). Tutto ciò sembra essere stato dimenticato.
Piano delle Regole
Il Piano delle Regole è incentrato su due concetti: la perequazione e la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Tralasciando per brevità il tema della perequazione, che è il più critico del PGT, e che merita una trattazione a parte (3), vale la pena di commentare la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Questa non avrebbe controindicazioni se dalla città fosse totalmente scomparsa la produzione industriale, che non è sempre compatibile con la città residenziale. Fortunatamente non è così e non possiamo certo augurarci che questo avvenga. La cultura di Milano è da sempre quella di una città produttiva. La presenza della produzione industriale a Milano non può essere né negata, né tantomeno trascurata, perché avrà sempre un ruolo strategico, anche se si tratterà di produzione industriale ben diversa da quella del secolo scorso, ed evidentemente minoritaria nei confronti della città dei servizi. Gli eccessi del passato, in termini di vincoli industriali, non possono certo giustificare l’abbandono di qualsiasi prospettiva di produzione.
Visto l’alto valore delle aree a destinazione residenziale, non basta dire che le destinazioni sono libere: le industrie difficilmente potranno permettersi di pagare il costo di aree che possono avere altra, più remunerativa, destinazione. Per la produzione è stato poi inserito un premio di volumetria, anche trasferibile, di 0,2 mq/mq; ma giudico improbabile che questo meccanismo possa superare la differenza di valore tra le aree residenziali e quelle produttive. Anche su questo tema il Comune si è impegnato con il Sindacato a “sostenere le aree con le attività produttive esistenti” e a “incentivare il recupero degli insediamenti produttivi esistenti”. Ma di che cosa vivranno i milanesi nel 2030?
La crisi economica che stiamo vivendo ci ha mostrato come la finanza e le attività terziarie e direzionali non siano sufficienti, da sole, a garantire una solida prosperità. Ma nel PGT manca persino l’indicazione di una qualche direzione di sviluppo produttivo. Sembra insomma che si sia dimenticata la funzione dei piani generali, che è anche quella di costituire una riserva di aree (per l’edilizia sociale, per la produzione, per i servizi) in funzione dello sviluppo futuro. Non a caso il piano delle regole e quello dei servizi non hanno scadenze temporali di validità, come non ne aveva il PRG. Qui si torna, pur in altro contesto, alla carenza di visione già più volte sottolineata.
(1) Dati dell’“Osservatorio regionale sulla condizione abitativa”.
(2) A Milano almeno 20.000 mq di funzioni universitarie sono ospitate in strutture inadeguate, costruite per altri usi.
(3) Si veda G. Goggi “Perequazione sconfinata alla milanese i motivi per rimediare a una situazione incerta e pericolosa” su Edilizia e Territorio on line, 30.8.2012
Corriere della Sera Milano, 29 dicembre 2012, postilla (f.b.)
Nei numeri su Milano del censimento 2011 pubblicati qualche giorno fa sulla Gazzetta Ufficiale c'è un aspetto che mette a disagio. La città è tornata ad avere lo stesso numero di abitanti del 1951: se avevamo bisogno di un dato simbolico che certificasse quanto siamo fermi nel mondo che corre, eccolo qui. Le cose ovviamente non stanno solo così. I demografi spiegano che tutto, sempre, è in movimento e quindi anche il milione e duecentoquarantamila residenti fotografato dal censimento 2011 è assai diverso dal milione e duecentomila del 1951. Molto è successo, dal baby boom all'arrivo degli immigrati, eppure siamo ancora lì, al «milione e qualcosa» che solo per un periodo, all'inizio degli anni Settanta, Milano si era davvero scrollata di dosso (1.732.000).
Il risultato del 2011 impone agli amministratori una riflessione più vasta dei rari commenti — sarà stato per i giorni di festa — che hanno accompagnato la pubblicazione dei dati statistici. Non è sufficiente la soddisfazione dell'assessore allo Sviluppo economico Cristina Tajani che, tra i numeri, nota il contributo degli immigrati, determinate per arrestare la decrescita verticale dei milanesi. L'assessore tocca un punto centrale, la presenza dei «nuovi cittadini» nella vita della metropoli. Ma ne lascia senza risposta un altro: perché Milano non attragga più italiani, anzi ne abbia fatti «scappare», negli anni, un grande numero (mezzo milione in meno dal 1971 ad oggi). Non è sufficiente nemmeno la preoccupazione dell'ex vicesindaco Riccardo De Corato che vede come sempre nella crescita degli stranieri (oggi sono il 14,2 per cento degli abitanti) una minaccia per la sicurezza e la coesione sociale.
I dati della città, così simbolicamente bloccati, interrogano la politica su campi più vasti e nuovi: nel 2021, quando si svolgerà il prossimo censimento, che città ci proponiamo di essere? Per quei tempi dovremmo aver finalmente finito di «misurare» Milano all'interno dei suoi confini comunali, ormai sempre più angusti. L'imminente città metropolitana, un'area da oltre 4 milioni di abitanti, conferirà ai temi (e alle soluzioni proposte) una dimensione, si spera, più innovativa. Mario Monti ha dedicato una parte del suo discorso di fine mandato al ruolo delle donne («una vera politica di pari opportunità genera un punto di Pil in più») e ai rari bambini («quel deficit di nascite che caratterizza il nostro Paese ha una serie di conseguenze economiche, sociali e psicologiche»). Ora, nelle politiche per la città dei prossimi dieci anni, quale posto troverà il dato del censimento che fa di Milano una metropoli nettamente femminile (quasi centomila donne in più degli uomini)? E quale peso avrà il fatto che la ripresa delle nascite — che la città aveva guidato con un piccolo boom ottimista nel 2007 — si sia ormai drasticamente arrestata sotto i colpi della crisi? Temi impegnativi, insomma, che meritano discussioni e visioni che vadano oltre il day by day che spesso ci prende.
Postilla
Su queste pagine del sito da molto tempo ci si chiede, a proposito di Milano ma ovviamente non solo, sino a che punto la politica riesca a cogliere il respiro di una sfida strategica per il futuro. Si è detto tante volte degli aspetti ambientali, climatici, energetici, di rapporto tra forme insediative e mobilità; tutte cose a cui troppo spesso si risponde a pezzi e bocconi, apparentemente lasciando al caso o a miracolistiche mani invisibili il compito di formulare una sintesi. Questo articolo, scritto da un giornalista attento ma certo non particolarmente specializzato, mette in luce un altro lato della medaglia, quello più squisitamente sociale, e immediatamente dopo economico: che città vogliamo? Quella del centrodestra si era più o meno esplicitata nei lustri, dalle prime sparate degli anni ’90 ai surreali metri cubi salvifici del garrulo assessore Masseroli, ammorbiditi (si fa per dire) dalle promesse di capitalismo compassionevole del social housing. Ad ascoltare le critiche, molto aspre ma a quanto pare assai motivate e documentate, proposte da questo sito a proposito del Piano di governo del territorio, le modifiche tecniche apportate sinora dalla nuova giunta lasciano tutto in sostanza allo stato precedente. E la questione di quale città vogliamo perfettamente inevasa (f.b.)
il manifesto del 27 dicembre 2012: due voci di una sinistra divisa verso le elezioni di febbraio, e il dopo.
Due ragioni alternative
di Guido Viale
Due sono le ragioni - per me e per altre decine di amici e compagni che ho incontrato negli ultimi mesi, ma verosimilmente anche per decine di migliaia di persone che si sono entusiasmate e poi spese per proporre e sostenere la presentazione di una lista di cittadinanza radicalmente alternativa all'agenda Monti - che ci hanno portato a questo passo, pur consapevoli del fatto che si trattava e si tratta di una scelta rischiosa.
Bersani però oscilla fra la promessa di continuare con il rigore, soprattuttodi fronte agli interlocutori internazionali, e quella di aggiungere equità. Ledue cose possono andare insieme?
Bersani ha collegato il Pd alla sinistra europea di Hollande e della Spd, chesperiamo vinca in Germania. Oggi la dialettica europea è cambiata rispetto a unanno fa, quando Monti tornava da Bruxelles con 'i compiti da fare'. Oggi, lasinistra europea si può 'dare i compiti'. La prima cura per uscire dalla crisiè creare lavoro. È il patto già enunciato a Parigi da Bersani, Hollande eGabriel, che rinnoveranno a febbraio a Torino. Stando attenti a non ripeteregli errori degli anni 90, quando fu la sinistra al governo in tutta Europa adaccettare l'idea blairiana del liberismo mitigato.
Sull'Unità Reichlin parla proprio di europeismo come discrimine fra destra esinistra. Ma, appunto, basta parlare di europeismo senza aggettivi?
Reichlin infatti critica l'europeismo che ignora il lavoro e il Mezzogiorno. IlPd è impegnato ad affermare la nostra ipotesi di Europa. Ora saranno glielettori a scegliere. Con questo voto dobbiamo battere definitivamente ilberlusconismo: che è la vera posta in gioco del voto di febbraio.
Un altro paradigma del montismo è il decisionismo, un mito anche del Pdveltroniano, «la democrazia che decide». Quello dei tecnici è stato il governodei voti di fiducia.
È il mito del trentennio passato, l'uomo solo al comando. L'Italia è stata uncaso di scuola: con un comico e un tecnico. I risultati sono noti: Berlusconifallisce proprio sull'incapacità di decidere, non riusciva a scrivere undecreto neanche sotto dettatura del Fondo monetario. E il bilancio delleriforme di Monti è modestissimo. Alzare le tasse e introdurre una tassa sullacasa è quello che hanno fatto anche gli altri governi. Sulle riforme invece hadimostrato un indecisionismo sconcertante. È la conferma che l'uomo solo alcomando non ce la fa, la crisi ci riporta al bivio tra destra e sinistra.
Appunto: l'alleanza con Monti, cui sembra destinato il Pd dopo il voto, non èin contraddizione con quanto dice?
Prima di ragionare di alleanze dobbiamo uscire definitivamente dalla secondaRepubblica, su tre punti: chiudere definitivamente il berlusconismo; superarela divisione fra sinistra riformista e radicale, per ricostruire una sinistraforte e unitaria; infine, riconquistare fiducia dei cittadini.
Ma Bersani, almeno finché Monti non era 'salito in politica', parlava dellanecessità politica di un'alleanza con lui, al netto dei numeri.
Per questo chiediamo di dare più forza al Pd, per ridimensionare l'incognitaMonti.
Quando parla di unità a sinistra si riferisce all'alleanza Pd-Sel, o ancheall'area arancione?
Quella arancione è un'area a cui dobbiamo guardare con rispetto. La sinistraunita è la migliore garanzia che non si ritorni nel passato, berlusconiano emontiano.
Dopo un ministro latitante, Lorenzo Ornaghi, il peggiore di una storia quarantennale,un'Agenda che assomiglia a un brodino di dado (vecchio) a fronte di un ministero per i Beni e le attività culturali vicino al collasso, all'immobilità e quindi all'impotenza contro speculatori, tombaroli, privatizzatori sciolti e a pacchetti, lottizzatori legali e abusivi, piazzisti di pale eoliche tanto inutili quanto devastanti (magari su vigneti e oliveti di pregio) e di distese di panelli fotovoltaici messe a tappezzare campi prima coltivati. Con tutto lo spettacolo dal vivo che boccheggia, riduce programmazione e spesso qualità, ricerca e avanguardia. Tutto qui lo sforzo del professor Monti e dei suoi collaboratori per un «motore» strategico come la cultura? Una paginetta palliduccia, con appena 14 righe dedicate ai beni culturali (retoricamente definito patrimonio «che non ha eguali al mondo») e le altre 17 al turismo. Che per l'Agenda sembra davvero l'unica ragione di conservazione di un complesso che vanta oltre 4.000 musei, 95.000 fra chiese e cappelle, 2.000 siti e aree archeologiche, 40.000 fra torri e castelli, migliaia di biblioteche antiche e di archivi plurisecolari, di palazzi civici ed ecclesiastici inseriti in oltre 20.000 centri storici dei quali almeno mille di una bellezza stordente, con 800 teatri storici e tanto altro ancora. Spesso ben restaurato in anni che parevano infelici e che ora ci sembrano persino felici, inserito in paesaggi mirabili, «fatti a mano» per secoli. Quella che Goethe, ammirato, chiamò, riprendendo Averroè, «una seconda natura» (la natura naturata) costruita da artisti, artigiani, artieri geniali e di gusto. Eppure il presidente della Repubblica Napolitano, agli Stati generali della cultura, aveva detto cose ben più forti e profonde esortando a desistere dai tagli e a darsi una politica perla cultura, perla ricerca, secondo l'art. 9 della Costituzione. Nell'Agenda Monti viene vantato l'avvio del progetto Pompei che - come ha giustamente rilevato Maria Pia Guermandi su Eddyburg- è tutto finanziato dalla Ue e dall'aprile scorso non ha mosso ancora un sol passo. Con quella Soprintendenza speciale di fatto commissariata.
Per i grandi musei statali la ricetta-Monti è la «partnership pubblico-privato», con lo Stato esangue che non ha euro da investire e chiede ai privati di sostituirlo cedendo loro, a quanto si può capire, la gestione e la regia tecnico-scientifica. Saremmo l'unico Paese sviluppato in cui i privati entrano nei musei statali non per dare soldi ma soprattutto per prenderne. «I privati dentro la gestione di un museo pubblico?», mi chiese stupito un importante storico dell'arte americano allorché Ornaghi lanciò la Grande Brera privatizzata. «Ma è come mettere la volpe nel pollaio...». E la storica dell'arte Jennifer Montagu, inglese, bollò l'operazione Brera (con l'Accademia di Belle Arti allontanata dal palazzo piermariniano) come «decisione vergognosa e disastrosa». Per contro l'ex ambasciatore Sergio Romano definiva «giacobini» i tanti intellettuali che - a partire da Catherine Loisel conservateur en chef del Louvre - si opponevano a quel progetto. Perché difensori del primato dell'interesse generale su quelli privati?
Cosi va l'Italia e ancor peggio andrebbe se dovesse prevalere l'idea che un patrimonio «che non ha eguali al mondo» (Monti dixit) fosse trattato come un «giacimento», una «macchina da soldi», e non come un valore strategico «in sé e per sé» (sia o no redditizio). Anche per il Pd c'è però un insegnamento. in questo mediocre capitoletto dell'Agenda Monti: ribalti il discorso e sulla cultura imposti un'orgogliosa strategia alternativa, ridia slancio e fiducia ai tanti operatori culturali (pubblici e privati) capaci, meritevoli, coraggiosi e però frustrati, preveda incentivi per i privati che vogliono essere sponsor e mecenati, restituisca entusiasmo ai milioni di italiani (e di stranieri) che amano il Belpaese, la sua arte, la sua musica, il suo teatro, le sue città, i suoi inarrivabili e minacciati paesaggi. Dica forte e chiaro che la Bellezza è un bene sociale che riguarda tutti.
Continuano, inascoltati, i gridi di dolore per l'ennesimo scempio che i mercanti parassiti compiono sul gioiello dell'umanità, con la complicità delle massime autorità della Repubblica. La Repubblica, 28 dicembre 2012
La direzione regionale dei Beni Culturali, su parere dell’Ufficio legislativo del Ministero, ha dichiarato (27 novembre) che l’area è sottoposta ex lege a vincolo paesaggistico a tutela dell’ecosistema lagunare, ma secondo Orsoni il Consiglio comunale ratificherà comunque l’accordo, e per la cessione dei suoli Cardin verserà 40 milioni, indispensabili per «affrontare le imposizioni del patto di stabilità». Invano Italia Nostra stigmatizza le «distorsioni della prassi amministrativa » di un Comune che si arroga i poteri di autorizzazione paesaggistica, mentre le professionalità utilizzate (due geometri e un perito industriale) sono palesemente inadeguate. Intanto, le banche francesi rifiutano a Cardin il prestito di 40 milioni, e mentre lui giocando al ribasso propone di versare “a fondo perduto” solo il 3% (1.200.000 euro), il cardinal nepote Basilicati dichiara che il documento firmato «è solo una bozza».
In tanta confusione, qualche punto è chiaro: primo, i dati sull’inquinamento sono truccati. Nel documento Cardin presentato in Conferenza dei servizi, si vanta una bonifica delle aree destinate al grattacielo (ad opera della Provincia) che non è mai avvenuta, si parla a vanvera di valori nei limiti tabellari di legge, senza precisare che si tratta di valori previsti per le aree industriali e non per quelle residenziali, e si ignora che le fondamenta dovrebbero attraversare tre falde acquifere; intanto la stessa Direzione Ambiente del Comune assicura che farà rispettare le norme contro il dissesto idrogeologico, cioè condanna il progetto senza appello. Secondo: se non avrà i permessi, Cardin minaccia di trasferire in Cina il suo palazzo, con ciò mostrando con quanta attenzione a Venezia esso sia stato concepito, se può indifferentemente stare anche a Shanghai. Terzo: mentre un ex sindaco di Venezia dichiara cinicamente che «il progetto è orribile, ma a caval donato non si guarda in bocca», Cardin monetizza la vista su Venezia, mettendo in vendita a prezzi altissimi gli appartamenti dei piani alti, destinati ai ricchi, «perché ci saranno sempre ricchi e poveri ». Insomma, il suo “dono” è quello che Manzoni chiamerebbe “carità pelosa”, fatta non per amore del prossimo ma per proprio interesse. Ma mentre il ministro dell’Ambiente Clini ed altri notabili esultano per l’imminente disastro, una dura mozione della massima accademia francese di scienze umane (Académie des Inscriptions et Belles Lettres) «esprime viva inquietudine per le minacce che pesano su Venezia e la laguna. Deplora che navi di grande tonnellaggio continuino a entrare nel bacino di San Marco, sfidando la fragilità di un sito unico al mondo e mettendolo alla mercé di possibili incidenti. Si stupisce che possano esser presi in considerazione progetti architettonici offensivi e assurdi, e osa sperare che il “Palais Lumière” previsto a Marghera, a causa della sua smisuratezza, non venga mai realizzato. Unisce la sua voce a chi disapprova queste iniziative e chiede che vengano respinte ». Dalla Francia viene dunque un forte monito e una lezione di civiltà, coerente con la recente decisione, dopo un referendum popolare, di bloccare il progetto (non di un neolaureato, ma dell’archistar Jean Nouvel) di costruire cinque grattacieli sull’isola Seguin, già sede di stabilimenti Renault (sulla Senna, a 8 km dalla torre Eiffel), riducendolo a un solo edificio, e più basso.
Ma perché Cardin, se davvero vuol dar lavoro ai veneti, non può edificare, nei 200.000 metri quadrati che avrebbe a disposizione, cinque torri da 50 metri, con la stessa volumetria totale? Perché l’inquinamento dell’area viene trattato con tanta leggerezza, proprio mentre il patriarca di Venezia Moraglia dichiara che «non è accettabile contrapporre il lavoro alla salute o all’ambiente, come si è fatto a Taranto»? Perché si favoleggia di “risanare Porto Marghera”, quando l’area interessata è di soli 20 ettari su 2.200? Perché i notabili della città fomentano la frattura fra i contrari al progetto e chi con l’acqua alla gola (letteralmente) è pronto a svendere tutto? Perché non rispondere nel merito e passare agli insulti? Tra le non poche finezze di Basilicati c’è infatti anche questa: secondo lui, chi ha firmato contro l’ecomostro (come Dario Fo, Stefano Rodotà, Carlo Ginzburg, Vittorio Gregotti) «usa il nome di Cardin per finire sui giornali». E lo zio Pietro, di rincalzo: «il mio palazzo sarà un faro che illuminerà la città, per giunta gratis».
Questi segnali di degrado civile, particolarmente intensi a Venezia, si avvertono in tutta Italia sotto il giogo del “patto di stabilità”. Costringendo i Comuni agli stessi introiti che avevano prima dei drastici tagli dei contributi statali (nel caso di Venezia, anche della Legge Speciale), queste norme inique spingono dappertutto verso la svendita e la privatizzazione dei patrimoni pubblici. Anzi, secondo una fresca intesa tra Demanio e Confindustria, immobili pubblici «di particolare pregio» possono essere venduti «anche per utilizzi industriali» (Corriere della Sera,
20 dicembre). Abbiamo dunque dimenticato che i beni pubblici sono il portafoglio proprietario dello Stato-comunità, sono la garanzia della sovranità e dei diritti costituzionali dei cittadini, lo «strumento privilegiato delle grandi libertà pubbliche» (Gaudemet)? Il mostro della Laguna succhia a Roma i suoi veleni, e la sua vittima non è Orsoni, è Venezia. La vittima di una “stabilità” cieca che ignora i diritti è la nostra Costituzione. La vittima è l’Italia, che si pretende di salvare condannandola a mettersi in vendita, in balia di avventurieri e nepotismi. Le vittime siamo noi, i cittadini.
La condizione urbana oggi è radicalmente diversa da quella che abbiamo conosciuto, studiato e interpretato. Quanto ha a che fare con la nostra idea di città? Ecco un utile colpo di sonda su qualcosa che gli astratti obiettivi quantitativi delle agenzie internazionali(come "aumentare i tassi di urbanizzazione") non aiutano a comprendere nè a governare). Il Fatto quotidiano Emilia, 27 dicembre 2012
Durante il Festival di Internazionale di quest’anno mi è capitato di vedere una mostra molto interessante. Si tratta di Urban Survivors. Un progetto di Medici Senza Frontiere in collaborazione con l’agenzia fotografica NOOR e il supporto concreto di foto-reporter straordinari: Pep Bonet, Stanley Greene, Alixandra Fazzina, Jon Lowenstein, Francesco Zizola per sensibilizzare l’opinione pubblica su cosa significa, oggi, sopravvivere nelle baraccopoli. “Negli ultimi secoli si è assistito ad un’urbanizzazione della popolazione senza precedenti. Nel 2007 le Nazioni Unite hanno stimato che più del 50% della popolazione mondiale viveva nelle città e non più nei villaggi e nelle campagne. Per il 2030 si prevede che l’80% dell’umanità sarà urbanizzata.
Insieme alla rapida urbanizzazione, negli ultimi quindici anni è stata senza precedenti anche la crescita dei cosiddetti slum o baraccopoli. Nel 1990, le persone che abitavano in slum erano 715 milioni e nel 2007 hanno superato il miliardo. I bisogni umanitari delle persone che vivono negli slum sono diventati sempre maggiori e complessi, e gli interventi sono ancora orientati verso un metodo di sostegno tradizionale, come ad esempio l’allestimento di campi e la fornitura di assistenza primaria in contesti rurali, dove le strutture sanitarie sono scarse.” Per questo i cinque bravi fotografi sono entrati e hanno documentato differenti slum e le condizioni di vita all’interno di essi. Stanley Greene ha lavorato nella baraccopoli di Dhaka, in Bangladesh, tra malnutrizione infantile, assenza di servizi igienico-sanitari, vulnerabilità alle catastrofi naturali; Jon Lowenstein a Martissant (Port-au-Prince) in uno degli slum più violenti della capitale haitiana, flagellato anche dalla recente epidemia di colera; Pep Bonet in uno slum di Johannesburg, dove la pandemia dell’AIDS si unisce alla tubercolosi multiresistente, in un ambiente in cui le tensioni sono altissime e dove hanno trovato rifugio i migranti in fuga dallo Zimbabwe; Alixandra Fazzina ha seguito le attività di MSF per assistere le persone affette da tubercolosi e HIV/AIDS in uno slum diKarachi, in Pakistan;Francesco Zizola è stato a Kibera, la baraccopoli più popolata di Nairobi, la capitale del Kenya, per raccontare le storie di chi ogni giorno combatte la sua lotta contro l’AIDS e la tubercolosi.
Un lavoro davvero importante e socialmente utile che mi ha fatto pensare a quello, altrettanto impegnato, del reporter statunitense Robert Neuwirth che, come racconta in Città ombra (Fusi orari), per due anni ha abitato in una favela di Rio de Janeiro, una bidonville di Nairobi, una baraccopoli di Mumbai e una periferia abusiva di Istanbul. La tesi di Neuwirth, apparentemente, è molto diversa da quella del progetto Urban Survivors. Il giornalista, infatti, si aspettava di trovare crimine e violenza, ha scoperto invece comunità compatte, solide, industriose e autosufficienti. Il suo è uno sguardo rivoluzionario e illuminante sulle grandi città, sulla loro storia spesso sconosciuta e sul loro futuro. Analizzando meglio i due progetti in realtà ci si rende conto che le analogie sono molte di più delle differenze. C’è una grande umanità negli scatti dei cinque fotografi, come nella penna di Neuwirth. Entrambi i lavori sono accomunati da una grande umanità, l’approccio giusto per farci riflettere su questo fenomeno contemporaneo.
Io stesso questa estate, insieme al fotografo Gianluca D’Ottavio, ho svolto un servizio, apparso su Il Reportage, alla ricerca dei gecekondu (le case abusive) di Istanbul, trovando una realtà variegata e in continua trasformazione. Si stima che a Istanbul circa un milione di abitanti vivano in gecekondu, ma le comunità abusive di oggi, dal punto di vista architettonico, sono ormai difficilmente distinguibili dai quartieri residenziali che la municipalità, con il benestare del governo, continua a costruire in un radicale progetto di trasformazione urbana che cancella molte delle particolarità di queste realtà marginali. Il sottile confine fra splendore e degrado produce nella megalopoli turca un contrasto abbagliante. Un contrasto a volte molto difficile da capire e da descrivere. Forse, come scrive esaustivamente Salvatore Bandinu nel suo Sotto i ponti di Yama (Arkadia Editore), reportage molto convincente della realtà degradata di Calcutta (o di Kolkata, come dir si voglia) nei supplizi e nei rantoli dei dannati della terra non va identificata una precisa volontà divina, ma una specifica, responsabile e scellerata scelta umana che sa tanto di potere, occidentalizzazione, globalizzazione.
Il manifesto, 27 dicembre 2012
Ecco il passaggio fondamentale del documento: «La prossima legislatura dovrà affrontare, da subito, il tema di come rendere le decisioni più efficaci e rapide, come riformare il bicameralismo e ridurre i membri del Parlamento. Il primo atto del nuovo Parlamento deve essere la riforma della legge elettorale, così da restituire ai cittadini la scelta effettiva dei governi e dei componenti delle Camere». Poche generiche righe addolcite da un po' di demagogia accattivante. Che senso ha infatti dire che le decisioni devono essere più efficaci e rapide. C'è qualcuno che le vorrebbe inadeguate e lente? Se si vuole uscire dalla pura petizione di principio il problema mi sembra quello di indicare in che modo si vuole raggiungere l'obiettivo di una maggiore capacità decisionale. È qui che si misura le distanze tra innovazione e progresso (ma anche quella tra destra e sinistra).
Per circa un ventennio ha dominato l'idea che alla decisione si dovesse sacrificare tanto la forma quanto la sostanza della democrazia rappresentativa. Le procedure parlamentari e i diritti costituzionali come impaccio. Il Parlamento ridotto a camera di registrazione della volontà espressa al di fuori di esso, il circuito decisionale che è venuto sostanzialmente a coincidere con la volontà dei leader politici, la dialettica politica che ha reso muta l'opposizione per sublimarsi in una lotta fratricida all'interno di maggioranze sempre più litigiose e divise. Tutto ciò ha accresciuto il peso dei Governi sbilanciando l'equilibrio dei poteri, senza peraltro rendere più appropriate - almeno sul piano costituzionale - le sue decisioni. In questo il governo Monti ha rappresentato il massimo della conservazione. Proseguendo sulla strada della concentrazione dei poteri in capo all'esecutivo, tacitando il Parlamento, adottando quasi tutti gli atti normativi con procedure d'urgenza. Sarebbe ora di prendere atto del fallimento delle strategie decisioniste per porsi finalmente il problema di come rendere la nostra democrazia più efficiente nel nome della costituzione. Restituendo un ruolo all'organo della rappresentanza popolare: nel nostro ordinamento solo il Parlamento può «rendere le decisioni più efficaci e rapide». Da qui passa la divisione tra conservatori e innovatori. Monti, per gli atti che ha compiuto sino ad ora, non sembra mostrarsi sensibile alle ragioni dell'innovazione, c'è qualcuno a sinistra che le vuole sostenere?
La richiesta di riformare il bicameralismo non appare granché originale. In Assemblea costituente fu formulata la proposta più innovativa, quella del monocameralismo. Dopo di allora i progetti di modifica del sistema bicamerale sono stati infiniti senza mai giungere a una revisione dell'assetto parlamentare. Se si vuole passare dagli slogan ad effetto alla determinazione di una prospettiva concreta di cambiamento diventa necessario, da un lato, interrogarsi sulle resistenze che sino ad ora hanno impedito di differenziare le funzioni esercitate paritariamente dalle due camere, dall'altro, proporre un modello realmente innovativo.
Se si volesse cambiare, nel solco della trasformazione genericamente auspicata dalla stessa agenda Monti, per attuare quel «federalismo responsabile e solidale che non scada nel particolarismo e nel folclore», si dovrebbe avere il coraggio di sostenere riforme profonde come l'introduzione di una Camera di rappresentanza delle regioni, concentrando la rappresentanza popolare, invece, nella sola Camera dei deputati. Troppo ardito per il moderato Monti, ma per la sinistra sarebbe una sfida che le permetterebbe di uscire dalla retorica federalista dominante negli ultimi anni, innovando finalmente un assetto istituzionale (il bicameralismo perfetto) che non le è mai stato congeniale, lasciando ai conservatori - Berlusconi, Lega, Monti - il piccolo cabotaggio in difesa dello stato di cose presenti.
La riduzione dei membri del Parlamento è diventata il mantra ripetuto come una monotona cantilena da tutti gli esponenti politici, e recitato dai numerosi sacerdoti dell'antipolitica. Anche in questo caso, per passare dalle vuote parole ai propositi politici concreti, bisognerebbe andare più a fondo, chiedendosi a quale fine ridurre il numero dei parlamentari. Secondo alcuni un minor numero di parlamentari rappresenta in fondo null'altro che una conseguenza della perdita di peso della rappresentanza politica: ad un Parlamento svuotato di funzioni non servono certo tanti componenti. Nella logica liberale e tecnocratica, cui s'ispira con orgoglio Mario Monti, pochi parlamentari appaiono funzionali al ritorno di una oligarchia governante. Una proposta, dunque, che appare non tanto conservatrice quanto regressiva.
Ben diverso sarebbe immaginare di ridurre il numero dei parlamentari al fine opposto di ridare dignità e forza al Parlamento. È vero che, nell'ambito di un riassetto complessivo dei lavori parlamentari può essere ridotto il numero dei componenti, ma si tratta anzitutto di ripensare le modalità di esercizio del libero mandato. In tale diversa prospettiva, un numero non troppo esteso di rappresentanti della nazione è auspicabile perché può accrescerne autorevolezza e ruolo. Ma un numero che deve essere comunque sufficiente perché nel Parlamento non ci si deve tanto limitare a votare o a discussioni generali da svolgersi in Assemblea, bensì è necessario garantire l'approfondimento istruttorio e il confronto nelle Commissioni, ove si svolge il lavoro più impegnativo, anche se meno visibile, di un organo politico-rappresentativo. Se si vuole essere realmente innovatori, anche in questo caso, si tratta di ripensare dalla fondamenta il sistema della rappresentanza, alla sinistra spetterebbe di farsi carico della visione complessiva che assegna alle singole proposte un loro senso storico.
L'ultima indicazione di riforma istituzionale proposta dall'Agenda Monti è poi il massimo dell'indeterminatezza, non esente da una buona dose di ipocrisia. Il primo atto del nuovo Parlamento - si legge - deve essere la riforma della legge elettorale.
Non basta dire che è necessario restituire ai cittadini il potere di scelta, si deve indicare se si vuole conservare un sistema maggioritario che ha innescato la progressiva perdita del valore della rappresentanza sino a ridurre al lumicino il sistema democratico parlamentare ovvero se si vuole innovare restituendo al popolo non solo il voto, né solo la scelta di chi deve governare, ma anche il potere di disporre di propri rappresentanti nelle istituzioni. Nulla vuol dire riformare il sistema elettorale, tutto è nell'indicazione di quale sistema si vuole adottare. Qui passa il discrimine tra i conservatori e gli innovatori. Monti da che parte sta? E la sinistra?
Appunti per chi si candida a governare - si spera con qualche radicale diversità dagli ultimi e dai penultimi. L'Unità, 24 dicembre
Ad ogni pioggia appena più forte mezza Italia viene giù facendo vittime e sottraendo ai nostri paesaggi parti bellissime. Ma la legge sulle Autorità di Distretto, voluta dalla UE, giace nei cassetti. Né fa passi avanti un piano (anche del lavoro, segretario Bersani, anche del lavoro!) per la “ricostruzione” di colline e montagne che franano, smottano, colano a valle. Poi c’è il flagello degli incendi a “cuocere” insieme boschi e terreni con incendiari prezzolati dagli inesausti speculatori. Ma i Vigili del Fuoco, amati dagli italiani per solerzia e cortesia, hanno mezzi e remunerazioni indecenti. Nei centri storici – finora per lo più conservati – si stanno insinuando politiche di demolizione/sostituzione, laddove gli edifici non sono vincolati dalle deboli Soprintendenze (a Roma dentro la medioevale, centralissima Tor Sanguigna hanno lasciato infilare una pizzeria). Il consumo di suolo divora zone agricole. Si invoca tanta edilizia, i Comuni tamponano le falle dei bilanci ordinari con gli oneri di urbanizzazione, e la gente muore, a Palermo o a Ischia, sotto il cemento abusivo.
Il dolente catalogo potrebbe continuare. Tanto sono stati inetti, volti a privatizzare il patrimonio pubblico, ministri come Urbani, Bondi, Galan e, de profundis, Ornaghi, che il prossimo governo dovrà “ricostruire” – attorno all’articolo 9 della Costituzione, sempre sottolineato da Napolitano – il Ministero creato nel 1974-75, con giustificate ambizioni, da Giovanni Spadolini “per i Beni Culturali e Ambientali”, dovrà ridurre un corpo centrale rigonfio, ridare ruolo e personale tecnico alle Soprintendenze territoriali di settore. Per quelle ai Beni architettonici, le pratiche edilizie sono diventate talmente tante che ogni funzionario dovrebbe essere sbrigarne almeno 5 al giorno (andando però sul cantiere rigorosamente in bus o in tram), col picco di 79 pratiche giornaliere per ogni tecnico a Milano. Una impotenza grottesca. Così trionfano affaristi, speculatori, abusivi di tutta Italia.
Ecco perché alla Camera e al Senato la rappresentanza di parlamentari dotati di cultura paesaggistica, ambientale, urbanistica, storico-artistica non può, non deve ridursi, ma anzi essere potenziata. Soprattutto nel Partito Democratico. I Verdi vengono dalla crisi infinita consumatasi con Pecoraro Scanio e tendono a sciogliersi, come l’IdV, negli Arancioni. Ben venga da loro un forte impegno per la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, ricchezza d’Italia tanto declamata a parole quanto intaccata o minacciata di essere trattata come “il nostro petrolio” (frase storica del ministro Mario Pedini, Loggia P2). Ma il cuore della ripresa, della ricostruzione morale, culturale, ambientale sarà il Pd. “Rifare l’Italia”, incitava Filippo Turati subito dopo la guerra mondiale esortando con illuminata passione al rimboschimento della montagna, contro il disastro delle alluvioni. Ci sono uomini e donne giovani, o giovani mature, nell’area del Pd, che gli anziani come me hanno visto crescere al fuoco delle lotte per la tutela del Belpaese, dotate degli strumenti necessari. Sarebbe grave se il partito dei progressisti ne sottovalutasse ruolo e importanza.
zoning, e dei suoi limiti. Corriere della Sera Milano, 24 dicembre 2012, postilla (f.b.)
Saracinesche chiuse in via Bramante. Proprio qui dove, negli anni Novanta, arrivarono i primi grossisti cinesi, si registra qualche defezione. Chi conosce il quartiere è pronto a scommettere che «i commercianti hanno capito l'antifona». Tra due mesi, a fine febbraio, s'accenderanno le telecamere della «Ztl commerciale». In ritardo sulle tabelle di marcia, ma necessarie per garantire il rispetto degli orari di carico-scarico merci dalle 10 alle 12.30 e bloccare l'accesso all'isola pedonale di via Sarpi dalle laterali Montello, Procaccini, Canonica ed Elvezia.
Sono cambiati i toni, ma non i contenuti del dibattito in corso da anni in via Sarpi tra il nucleo storico di residenti e negozianti al dettaglio, che resiste alla trasformazione della via in una Gerrard Street londinese, e i grossisti anche italiani. «La multiculturalità in un quartiere che rimanga a vocazione residenziale è una ricchezza, non certo che qui rimangano solo i cinesi», dice Pier Franco Lionetto, presidente di ViviSarpi. «Le telecamere sono percepite anche dai nostri clienti come un problema. Non siamo pronti, non abbiamo i parcheggi e i servizi. Invece viviamo di riflesso il disagio del cantiere per il metro, al Monumentale», rimbalza Remo Vaccaro, dell'associazione di via Ales. Sono passati cinque anni dalla rivolta di Chinatown, quando per una multa in via Sarpi si scatenò il caos.
E c'è chi invita a non arrivare ad una nuova «guerra dei carrelli». «L'accensione delle telecamere è inevitabile, perché se ho un'area Ztl non posso scaricare il traffico determinato dalla presenza dei grossisti nelle aree limitrofe — dice il presidente di zona 1, Fabio Arrigoni —. Ma è urgente aprire un tavolo vero con i grossisti, perché bisogna trovare una soluzione e studiare anche se necessario incentivi». Il Pgt dice con chiarezza che l'attività di grossisti è «incompatibile con i nuclei di antica formazione». Ma «chi è già qui non può essere allontanato sventolando il Pgt». Ieri, nella domenica prenatalizia, via Sarpi era affollata: «Che questo quartiere non abbia una vocazione per l'ingrosso lo pensano anche molti cinesi — conclude Francesco Novetti, presidente di Sarpi doc, che raggruppa i dettaglianti —. Nessuno viene deportato, ma è giusto disincentivare i grossisti. Invece di dilazionare sull'accensione delle telecamere, si studi in fretta un piano di delocalizzazione».
Postilla
Forse è un gran bene, che qui ci sia lo zampino benevolo di una comunità economicamente (anche politicamente, si è scoperto) forte come quella dei grossisti di origine cinese, perché almeno si conferisce il giusto rilievo anche mediatico a una questione generale: che vogliamo farne delle nostre città, dal punto di vista del metodo? Il Grosso Guaio a Chinatown insieme a tante altre cose è stato ereditato dall’attuale amministrazione come strascico della trascuratezza precedente del centrodestra cronico milanese-lombardo. Il solito laissez faire che alla fine non lasciava faire nulla a nessuno, perché la pubblica amministrazione sta lì proprio a costruire equilibri, non a fare il sindacato delle cordate via via vincenti. Come accaduto col citato Pgt e la sua revisione, forse c’è o c’è ancora un profilo culturale troppo modesto di fronte a sfide di innovazione invece molto avanzate. C’è un quartiere cosiddetto mixed-use che pare un po’ troppo mixed per i gusti della media di chi ci abita o sta nelle vicinanze. Si tratta della vetusta faccenda che a cavallo fra XIX e XX secolo venne risolta con l’invenzione urbanistica delle zone omogenee, a tutelare qualità della vita e conseguenti valori immobiliari. Si è poi capito col tempo che però quelle zone dovevano essere non troppo omogenee, e mescolarsi armoniosamente nel tessuto urbano e metropolitano. Si è anche capito, col tempo, che l’urbanistica degli indici e norme tecniche doveva affiancarsi ad altre politiche urbane, e a volte (quasi sempre) a un ragionamento a dimensione metropolitana, come nel caso dello stretto intreccio fra questioni insediative e della mobilità. Guarda caso, fra le critiche più feroci alla politica urbanistica della nuova giunta c’è proprio la schizofrenia apparente fra trasporti e città. Speriamo che non debba intervenire ancora il consolato della Repubblica Popolare Cinese, stavolta a chiedere una variante al Pgt favorevole ad alcuni propri concittadini, manco fosse una versione postmoderna e globalizzata di Ligresti (f.b.)
C’è chi ancora lavora sul tema di fondo della questione urbana e scrive:«Bisognerebbe mettere da parte il lessico alla moda, come governance, stakeholder, spin-off, smart city, spending review, e tornare a parole semplici ma più profonde, come rendita, che riemerge dopo un lungo silenzio, ingegno, che è tipicamente italiano, e lavoro». Uno scritto del 15 dicembre 2012. Un regalo per i nostri lettori. In calce alcuni link utili
Relazione al convegno L’ economia delle città, Roma 15 dicembre 2012, organizzato daalla Fondazione Italianieuropei, dal Centro per la riforma dello Stato e dall’associazione Romano Viviani.
Soprattutto noi italiani dovremmo prestare attenzione al significato originario di oikonomia, poiché le cose migliori le abbiamo fatte quando i produttori sono stati legati a un luogo, dai comuni alle signorie, sino ai tempi nostri. Anche il miracolo economico è stato grande crescita urbana, il triangolo industriale prima di tutto e poi l’invenzione dei distretti industriali ammirati nel mondo. Oggi sono insidiati dalla manifattura dei paesi emergenti, ma rimangono pur sempre un'invenzione nel territorio.
Questa peculiare forma di organizzazione produttiva ebbe il merito di trasformare l’antico gusto artigianale e la coesione sociale in fattori propulsivi della produzione industriale. Può dare ancora molto se sapremo difenderla e rinnovarla, ma certo non sarà più l'energia propulsiva dell’innovazione italiana. L’indebolimento di questo modello rende nudo il Paese di fronte alla sfida competitiva. E’ come se in Germania venisse a mancare il sistema renano, in Francia l’interventismo statale, in Gran Bretagna la forza finanziaria.
Ecco la svolta da compiere. Quello che siamo riusciti a fare di originale con i distretti industriali, dovremmo realizzarlo con la città come grande fabbrica postmoderna dell’innovazione. La vecchia industria aveva una certa indifferenza per il territorio; oggi invece la qualità dei luoghi diventa fattore decisivo per l’agglomerazione delle competenze. Nel distretto industriale la trasmissione delle competenze si realizzava in virtù dell’identità culturale e di legami sociali forti. Il lavoratore creativo, al contrario, ama le differenze, le relazioni aperte, i legami sociali deboli tipici dell’ambiente urbano.
Si è discusso qui della necessità di nuove leggi, però bisognerebbe andarci cauti, perché sono di più quelle che dovremmo cancellare rispetto a quelle da approvare. Invece di emanare norme a raffica, bisognerebbe elaborare politiche nazionali, ovvero programmi complessi per le città, come si fa oggi in diversi paesi europei - in Francia, Germania, Olanda e Gran Bretagna – per raggiungere obiettivi concreti per la casa, i trasporti, l'organizzazione culturale e inclusione sociale. Anche da noi c’è bisogno di un impegno nuovo dello Stato nelle politiche urbane, una strategia per creare i capoluoghi dell'innovazione italiana.
Il riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva degli anni Novanta. E certi difetti iniziali di quella stagione, ad esempio le politiche urbanistiche, alla lunga si sono aggravati. Oggi, certo, non mancano le iniziative di brillanti amministratori, ma l’agenda è la stessa di venti anni fa, con l’aggiunta delle politiche di sicurezza. Se finisce la Seconda Repubblica anche le sue politiche urbane andrebbero ripensate con un’altra impostazione, con un’altra cultura.
Il nuovo riformismo passa anche da una nuova terapia del linguaggio: bisognerebbe mettere da parte il lessico alla moda, come governance, stakeholder, spin-off, smart city, spending review. Questi termini anglofoni spesso coprono un vuoto di idee, dando l’impressione che si stiano dicendo cose nuove. Dovremmo tornare a parole semplici ma più profonde, come rendita, che riemerge dopo un lungo silenzio, ingegno, che è tipicamente italiano, e lavoro.
La prima di queste tre parole condiziona le altre, perché nei momenti migliori della storia nazionale la rendita ha avuto il significato positivo di patrimonio come bene ricevuto in eredità che ogni generazione deve accrescere per la fortuna delle generazioni successive, proprio tramite l’ingegno e il lavoro. Nei momenti di decadenza, invece, la rendita diventa appropriazione senza crescita che impedisce sia l’ingegno sia il lavoro: questa è la crisi italiana di oggi, la trappola della rendita.
Per uscirne dobbiamo ribaltare il paradosso che tante analisi hanno messo in evidenza. Il valore del capitale fisico delle città non è mai cresciuto così tanto, ma alla fine del ciclo immobiliare le città si ritrovano povere di infrastrutture e con i bilanci disastrati. Dove è andata a finire tutta questa ricchezza? Come si spiega questo paradosso tra ricchezza immobiliare e povertà urbana? I plusvalori sono stati acquisiti in gran parte dai proprietari senza alcun merito, non essendo determinati dai loro investimenti, ma da pure rendite di posizione. Nell’intreccio sempre più perverso di economia di carta e di mattone queste valorizzazioni immobiliari sono state succhiate dal tessuto urbano e collocate nel circuito finanziario globalizzato. Le banche che hanno gonfiato i valori nella fase dell'euforia adesso pagano la crisi come sofferenza nei propri assets e fanno mancare il credito alle imprese. Ieri hanno sostenuto troppo la rendita e di conseguenza oggi soffocano la ripresa produttiva.
I sindaci per sopperire ai deficit di infrastrutture e di bilanci hanno inventato la “zecca immobiliare”, cioè stampano carta moneta assegnando ulteriori diritti edificatori in cambio degli oneri di concessione. Ma lo scambio è ineguale, perché le infrastrutture necessarie per i nuovi quartieri costano molto di più degli oneri ricevuti e quindi aumentano il deficit e richiedono un nuovo intervento della zecca, in una spirale perversa e sempre più dannosa per l’interesse pubblico. Questa creazione di nuovi valori immobiliari prescinde dai criteri di adeguatezza, trasparenza e pianificazione, e viene legittimata solo dall'inconsapevolezza del dibattito pubblico circa le conseguenze fisiche ed economiche di tali decisioni.
La bolla immobiliare ha cambiato la geografia italiana espellendo i redditi bassi nell’hinterland e costruendo un enorme pulviscolo edilizio attorno alle grandi città italiane. Anche in questo caso, è rivelatore il linguaggio: noi le chiamiamo ancora con i nomi storici - Roma, Milano, Palermo, Napoli – ma oggi si riferiscono a oggetti geografici molto diversi, anzi a forme post-urbane. E' un triste primato aver realizzato nell'ultimo ventennio i casi più gravi di sprawl in Europa. Sull’area vasta, inoltre, il deficit strutturale è diventato ormai ancora più pesante a causa delle difficoltà di servire con adeguate opere pubbliche il rapido esodo di popolazione. Anzi la spesa pubblica ha aggravato il fenomeno finanziando soprattutto autostrade che favoriscono la dispersione urbanistica, producendo più traffico. E’ stata ignorata l’unica leva che poteva condensare il pulviscolo edilizio, almeno in parte, ovvero la ristrutturazione delle vecchie ferrovie regionali, come hanno fatto i francesi con la R.E.R. e i tedeschi con la S-Bahn. Per il nuovo governo di centrosinistra questo dovrebbe essere un programma prioritario. La realizzazione di una moderna rete ferroviaria regionale dovrebbe avere la stessa importanza che l’alta velocità ha avuto per trenta anni. Le risorse necessarie si possono trovare dalla rimodulazione dell’elenco delle opere nella Legge Obiettivo, la quale oggi quasi ignora le infrastrutture metropolitane su ferro.
L’insostenibile ascesa della rendita è la responsabile occulta di tanti problemi. Ad esempio, l'impoverimento del ceto medio dipende in gran parte dal boom immobiliare. Chi ha acquistato casa oggi si trova il doppio colpo dell’aumento del mutuo e dell’aumento dell’IMU. Trovare una casa in affitto significa spostarsi sempre più lontano dalla città e ai giovani precari spesso viene negata la casa in affitto perché non danno garanzie di uno stipendio fisso. Abbiamo chiesto ai giovani di adeguarsi alla flessibilità e in cambio hanno trovato un mercato delle locazioni sempre più rigido. Anche negli assetti politici e istituzionali si fanno sentire gli effetti perversi della rendita: la Città Metropolitana non è stata istituita perché avrebbe frenato la distribuzione di rendita che i piccoli comuni si sono trovati a gestire intorno alle grandi città. C’è una ragione strutturale che ha impedito quell’innovazione istituzionale.
Il peso degli interessi immobiliari, superiore rispetto a qualsiasi altro settore pubblico, ha in qualche modo distorto anche la vita dei partiti, assegnando il potere a notabili locali. Perfino i territori con tradizioni di buon governo sono stati influenzati dall’onda speculativa. I militanti di sinistra si sono trovati spesso di fronte al bivio se diventare come gli altri o essere irrilevanti nella scena politica. Ma forse il danno più grave è nel modello di sviluppo parassitario, perché i plusvalori della rendita sono di gran lunga superiori rispetto a quelli dei normali profitti industriali, senza neanche la difficoltà di organizzare un ciclo produttivo. L’acqua va dove trova la strada e le risorse disponibili sono attratte dagli usi speculativi a discapito degli usi produttivi.
Non bisogna, tuttavia, criminalizzare la rendita: è pur sempre l’espressione del valore di una città. A produrre l’effetto negativo è la cattiva ripartizione a favore dei proprietari, fenomeno tipicamente italiano, senza analogie in Europa. Se invece una quota consistente e adeguata tornasse al pubblico come investimento infrastrutturale, secondo la pianificazione comunale, la città diventerebbe più bella e quindi aumenterebbe la sua rendita. Da questo circuito virtuoso verrebbero vantaggi sia per la vita pubblica sia per le opportunità private.
Si tratta quindi di scrivere nuove regole della trasformazione urbana a favore della vita collettiva. In tale contesto si deve spingere l'imprenditoria ad abbandonare le pratiche speculative per dedicarsi solo alle innovazioni produttive. La crisi del ciclo rende necessario il ripensamento del modo di produzione dell’edilizia in Italia e non si può solo attendere, come pensa di fare l'establishment, che la crisi passi per ricominciare come prima.
L’urbanistica contrattata non ce la poteva fare a reggere questa potenza di fuoco dell’immobiliare alleato con la finanza. Non solo per la debolezza della politica, ma anche per la crisi delle strutture pubbliche, sempre più impoverite di risorse e di professionalità. Era come andare in guerra con la pistola ad acqua. Il controllo della qualità tecnica è stato sostituito dalle procedure sempre più pesanti fino alla paralisi burocratica, mentre bisognerebbe fare esattamente l’opposto: alleggerire le procedure e restituire la regolazione a tecno-strutture pubbliche di prestigio e di alta professionalità. La rendita si governa con il sapere della rendita. La conoscenza pubblica del fenomeno è essenziale. Ci vogliono agenzie pubbliche che conoscano il mercato immobiliare meglio dei privati, che sappiano condizionarlo con la leva fiscale, con la programmazione e soprattutto facendo sapere ai cittadini come si alloca la ricchezza. Tra le migliori realizzazioni della Provincia di Roma c’è l’Osservatorio della rendita immobiliare, uno strumento molto efficace che fornisce dati precisi, molto utili per il fisco, per gli oneri concessori, per la pianificazione urbanistica.
Per trasformare la città ci vuole anche l’ingegno sociale, non solo individuale o tecnico, come qualità dell’organizzazione civile. Da quando siamo entrati nella civiltà della conoscenza costruiamo città più brutte di prima. Il paradosso lo vedranno meglio gli storici del futuro che saranno stupiti dalla nostra generazione e diranno: crearono l’intelligenza di internet ma costruirono orribili pulviscoli edilizi intorno alle loro belle città.
Prima il sapere della trasformazione era garantito da intellettuali organici - ce ne sono stati di grande valore tra gli urbanisti - poi sono venuti i tecnici di staff - già un po’ meno liberi - e alla fine tecnica e politica si sono separate nella reciproca indifferenza; l’attuale governo tecnico è l'esito emblematico di questo processo. Invece bisogna ricostruire una relazione profonda tra tecnica e politica. Alcuni elementi aiuterebbero, ad esempio: la qualità ed il prestigio dei tecnici che operano nelle strutture pubbliche, ma anche la libera ricerca universitaria impegnata organicamente sul laboratorio urbano, fuori dalle ristrettezze e dalle angustie dell’incarico professionale. E poi équipes di giovani ricercatori, architetti, economisti, archeologi, sociologi, disseminati nei quartieri a studiare a progettare a comunicare.
L’innovazione è un vettore composto da due direzioni: il salto cognitivo e la qualità della cittadinanza e c’è bisogno soprattutto di questa innovazione sociale quando si trasforma la città esistente. Per l’espansione sarebbe ancora sufficiente la vecchia cultura della pianificazione. Oggi la città va ripensata, si tratta di inventare funzioni nuove e luoghi profondamente segnati dai vecchi usi. E' quasi un gioco gestaltico che ci aiuta a vedere le cose in modo totalmente diverso, come immaginare un giardino pensile su un’autostrada urbana dismessa. Quest’invenzione funzionale, però, oggi è frenata dalla rigidità dell’offerta e procede a ondate, prima tutte case, poi tutti uffici, poi tutti ipermercati, adesso di nuovo case e si ricomincia. Bisognerebbe invece diversificare la domanda di funzioni utilizzando le competenze, la concertazione, i concorsi di idee, la promozione internazionale. La capacità di reinventare i luoghi e la biodiversità delle funzioni sono oggi i caratteri che fanno ricca la città. La vera identità urbana non è mai rivolta al passato, ma consiste proprio nello scoprire questi caratteri latenti della trasformazione urbana.
Infine, l’ingegno deve essere applicato all’organizzazione della vita collettiva. E’ incredibile il ritardo delle nostre città, siamo pieni di diavolerie tecnologiche a casa e in ufficio, ma nello spazio pubblico prevalgono sistemi obsoleti. Continuiamo a muoverci nel traffico come talpe in base a quello che abbiamo di fronte, mentre se conoscessimo in tempo reale che cosa succede in città si abbasserebbero i flussi di traffico. La città è anche un’enorme banca di dati che dovrebbero essere accessibili come i suoi luoghi. Si tratta di una conoscenza non solo utilizzata ma anche alimentata dai cittadini: è bastato che prendesse piede quel gioco in internet sulle vecchie foto di famiglia per ottenere un grande archivio di immagini sulla trasformazione urbana. Nei prossimi anni sarà decisivo questo software urbano - l'insieme di codici, di servizi, di modi d’uso dello spazio - e non è solo una sfida per i governi municipali, ma implica anche un salto cognitivo dell’ingegno sociale. Questo è possibile solo se i giovani entrano nel mondo del lavoro, nell’amministrazione pubblica, nella politica.
L’economia urbana può creare lavoro migliorando l’organizzazione della vita in città. Perché questo non rimanga una pia intenzione occorre una revisione critica delle politiche che abbiamo alle spalle. Ogni sindaco in questi venti anni ha raccontato una propria storia di sviluppo dalla new economy alla classe creativa e al marketing urbano, ma in realtà le città hanno partecipato al declino della produttività del Paese, spesso offrendo un rifugio alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale non solo attraverso l’immobiliare ma anche con le pessime privatizzazioni nelle utilities che hanno rafforzato i monopoli nei telefoni, nell’energia, negli aeroporti. Sotto la retorica della competizione tra le città si è consumata in realtà una perdita di produttività.
Sul lato del consumo, invece, c’è stata la vera innovazione urbana di questi anni, non solo nella morfologia, con gli ipermercati, ma anche negli stili di vita con la gentrification dei quartieri industriali e soprattutto con le iniziative culturali. Proprio da questa innovazione dei consumi è scaturita quell’immagine suadente di diverse città che è stata poi raccontata dai sindaci come innovazione produttiva, in omaggio alla retorica del tempo.
Ora la crisi svela l’equivoco e da un lato mette a nudo la debolezza dei sistemi produttivi urbani e dall’altro rallenta i consumi. Cade quindi l’illusione di creare ricchezza pattinando sull’onda della globalizzazione e dopo cinque anni di crisi mondiale siamo ormai nella fase della Grande Contrazione. Il circuito produzione-consumo, che prima era fortemente esogeno, oggi deve diventare un po' più endogeno, la “via sussidiaria” di cui parla Giulio Sapelli. Non basta più affidarsi alle reti lunghe, ma occorre creare anche occasioni per una relazione stretta tra produzione e consumo all’interno della città, migliorando i servizi della città. L’agenda delle cose da fare su questo è stata già scritta (la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, la riconversione ecologica degli edifici, il ciclo dei rifiuti, l’agricoltura periurbana di qualità, come anche la comunicazione digitale, la cura della persona, la scuola e l’educazione), e si dovrebbe passare a progetti più operativi.
Se questo non è un libro dei sogni implica un ribaltamento della logica dei beni pubblici seguita nel ventennio, ad esempio, i demani e le utilities. Nel vecchio paradigma esogeno questi beni dovevano essere venduti per rafforzare la concorrenza ed è stato l’obiettivo dominante con risultati modesti o controversi. Gli amministratori per venti anni si sono concentrati sugli assetti proprietari delle aziende e molto poco sulla qualità dei servizi, sui contenuti dei servizi. Nel nuovo paradigma endogeno questi beni dovrebbero essere utilizzati proprio come nuove opportunità sia nella produzione che nel consumo. Invece di svendere una caserma a prezzi stracciati forse sarebbe meglio arricchire la città utilizzandola per case in affitto per i giovani, per atelier delle imprese innovative e per strutture del nuovo welfare. La green economy non è una retorica ma una politica industriale. Bisognerebbe partire dal rafforzamento delle aziende che da sempre si occupano di acqua, energia e trasporti. Di certo andrebbero rivoltate come un guanto, eliminando le inefficienze, ma si dovrebbe partire da quelle strutture per farne dei soggetti promotori di politiche di risparmio energetico e per la mobilità sostenibile.
Anche nel settore privato bisognerebbe aiutare la crescita di nuovi gestori di questi servizi di interesse urbano e infine incentivare tutte quelle imprese che nei vari settori mostrano una nuova sensibilità alla cura del territorio, partendo dalle buone pratiche esposte alla recente biennale di Venezia.
Lo sviluppo non verrà dai tagli alla cieca, come quelli di prima, solo che adesso li chiamiamo spending rewiew. Da tanti anni si procede a sciabolate sui bilanci regionali e comunali, ma la spesa pubblica non è mai diminuita, si è solo diffuso un disordine nelle amministrazioni locali. C’è pericolo che i tagli diventino mentali, nel senso che a furia di cancellare si perda anche la voglia di immaginare nuove politiche.
Da più parti si invocano decisioni urgenti e severe ma vedo poca riflessione su che cosa significa “decidere”. Si dice anche che dobbiamo fare i compiti a casa e significa sostanzialmente che dobbiamo imparare il tedesco, che è una lingua concettuale. I tedeschi, infatti, per dire “decisione” dispongono di due parole: la prima Entscheidung, nel suono richiama il sibilo di una spada che taglia; la seconda. Entschlossenheit, sia nel significato sia nel tono indica il fruscio di un velo che cade. Quest'ultima è una decisione che fa venire alla luce una risorsa originaria troppo a lungo dimenticata, una decisione generativa di nuova vita a partire da un’eredità ricevuta. E’ la politica della città. La macroeconomia propone ormai solo decisioni che tagliano. L’economia urbana è il campo di questa decisione generativa. Per uscire dalla crisi l’Italia deve giocare la carta nascosta delle sue città.
Il fondamentale saggio di Walter Tocci sulla rendita urbana oggi, dell'agosto 2008, è in archivio.eddyburg.it, e precisamente qui.
Il nuovo Piano di governo del territorio di Milano è vigente. Il sindaco Pisapia e la sua giunta l’avevano sottoposto al Consiglio comunale, che l’ha approvato con un solo voto contrario, nel mese di maggio del 2012 ed ora è ufficialmente pubblicato e accessibile sul sito web del Comune. Il piano è il risultato di nuove controdeduzioni alle migliaia di osservazioni presentate dai cittadini al piano adottato nel 2010 dalla giunta Moratti. Il piano adottato era caratterizzato da intenti di estrema concentrazione insediativa e densificazione della città, dalla mancanza di ogni inquadramento territoriale rispetto all’area metropolitana e di qualsiasi indicazione sulle strategie competitive per la città - a parte quelle fondate sullo stimolo allo sviluppo edilizio -, da progetti di notevole intensificazione infrastrutturale sia su ferro che su gomma, strettamente limitati al territorio del capoluogo, dall’introduzione della cosiddetta perequazione urbanistica in forma tale da consentire il trasferimento dei diritti volumetrici generati da qualsiasi terreno verso qualsiasi altro punto della città, e infine dall’azzeramento convenzionale della superficie lorda di pavimento di tutti i servizi pubblici e privati, che sarebbero così tutti diventati generatori di nuovi ingenti diritti volumetrici.
Il Piano è, nel suo impianto sia analitico che progettuale, sostanzialmente sovrapponibile a quello adottato dalla precedente giunta Moratti, salvo alcune modifiche puntuali che possono essere così sintetizzate. Viene ridotto l’indice unico di edificabilità e vengono ridotte le quantità edilizie previste in alcune aree di trasformazione, mentre per altre, come gli scali ferroviari le decisioni vengono rinviate ai futuri accordi di programma. Le aree periurbane del parco sud, che prima generavano diritti volumetrici trasferibili per le porzioni che sarebbero state considerate non agricole, verranno definite nelle loro vocazioni e destinazioni (e dunque anche nella loro capacità di generare diritti edificatori) dai successivi Piani di cintura urbana elaborati su iniziativa del Parco, oggi presieduto dal presidente della Provincia (1). Sono state apportate anche altre modifiche alla normativa, di portata meno generale, che in questa sede, per brevità, si evita di descrivere analiticamente ed è infine stata cancellata qualche previsione viabilistica, come ad esempio il tunnel autostradale per Linate.
Dato il carattere puntuale, benché non irrilevante, delle modifiche apportate, è evidente che il Piano mantiene i difetti di fondo della versione originaria. In primo luogo resta privo sia della individuazione di efficaci strategie competitive per Milano, sia di qualsiasi respiro di dimensione metropolitana. Il piano Masseroli Moratti, come si è già accennato, ignorando completamente il tema delle strategie competitive nel campo dell’efficienza dell’ organizzazione territoriale, delle infrastrutture, dei servizi e della produzione, affidava il futuro di Milano alla espansione edilizia, facilitata con ogni mezzo, e sostenuta da un mirabolante programma di nuove linee di trasporto strettamente urbane. Una scelta dunque di densificazione della città fine a sé stessa, ed inevitabilmente in conflitto con gli interessi dell’hinterland. La strategia sembrava essere dunque quella di cavalcare la crisi, scaricandola da un lato sull’hinterland, e dall’altro sulla qualità della vita urbana.
Il piano della nuova giunta non sostituisce questa strategia con una diversa. Nessuna scelta chiara sulle principali grandi infrastrutture, a partire dall’aeroporto, nessuna analisi e nessun progetto specifico sui settori dell’economia, sia nel campo dei servizi che in quello della produzione, capaci di restituire qualche dinamicità all’economia milanese, e conferma, sia pure soggetta a verifica nel piano di settore, dell’ambizioso ed irrealistico piano di nuove linee urbane su ferro. Certo i volumi vengono un po’ ridotti, ma comunque ve ne saranno in abbondanza per decenni, vista la recessione in atto e la massa dell’invenduto e dell’inutilizzato.
Il piano urbanistico di Milano è dunque ridotto ai suoi minimi termini di puro strumento di gestione dei diritti edificatori. Ed è proprio in questo campo che continua a mostrare grandi difetti. In primo luogo quello della generale trasferibilità di tutti i diritti edificatori sull’intero territorio comunale: il che non potrà non determinare processi di notevole densificazione delle più appetibili aree centrali, già oggi molto congestionate e afflitte da cattiva qualità ambientale, dove tutti tenteranno di trasferire e realizzare i propri diritti volumetrici, ovunque originati. In secondo luogo grazie alla bizzarrissima norma che azzera il computo della superficie lorda di pavimento per tutti i nuovi servizi, pubblici e privati, definiti con estrema larghezza (dalla discoteca alla borsa valori, dalle fiere ai centri congressi, dai mercati rionali ai negozi di vicinato, dalle università alle cliniche, eccetera, eccetera) (2). Tali insediamenti, potranno perciò essere localizzati dovunque senza vincoli planivolumetrici e dunque con qualunque densità insediativa, pur essendo, di solito, i più potenti attrattori di traffico che si possano immaginare. Non dovrebbe sfuggire a nessuno, e tanto meno a dei giuristi, la totale illogicità di una simile impostazione. Non dovrebbe nemmeno sfuggire il rischio che tutti i gestori di servizi non strettamente pubblici (dal Policlinico al Politecnico, tanto per esemplificare con due nomi assonanti scelti a caso) siano indotti ad inventarsi necessità di trasferimento, per trasformare le rispettive attuali volumetrie ( anche fisicamente ricostruibili ) in residenza, uffici privati e commercio in modo da sfruttare poi la bizzarra ed inaudita norma sulla illimitata gratuità urbanistica delle nuove slp a servizi. Un piano sensato avrebbe dovuto spingere i gestori di grandi servizi a concentrarsi sulla propria missione, invece di offrire loro la scappatoia drogata del passaggio al mattone.
Il piano continua a distribuire edificabilità sulle grandi aree pubbliche in dismissione in misura rilevante, anche se un po’ ridotta rispetto a quello adottato e facendo slittare la definizione della parte più grossa, quella degli scali ferroviari, alla procedura separata dell’accordo di programma con le Ferrovie. La grande potenziale penetrazione di verde della Piazza d’armi viene così dimezzata, quella ancor più grande di Bovisa Farini Lugano è addirittura ridotta ad un quarto, soprattutto a causa della massiccia edificazione di Bovisa. Lo scalo di porta Romana lascerà al verde solo il 40%, e quello di porta Genova il 30% (3). Milano si gioca così, del tutto inutilmente vista la crisi del mercato immobiliare, la possibilità di usare in futuro le ultimissime aree non edificate per dotarsi di grandi parchi urbani e di penetrazione e connessione con le aree verdi esterne alla città.
La parte di pianificazione relativa ai servizi, benché pomposamente enucleata come un piano a sé, il Piano dei servizi appunto, è priva di ogni contenuto progettuale, che dunque verrà esercitato nelle forme oscure delle decisioni settoriali dei singoli assessorati e di centinaia di soggetti pubblici, semipubblici o privati, liberi ciascuno di muoversi a proprio piacimento, naturalmente anche alla luce dell’illogica normativa che azzera il computo della superficie lorda di pavimento (slp) di qualsiasi nuovo intervento. L’edilizia sociale, oltre ad essere caratterizzata da gradi di socialità indeterminati, è affidata alla buona volontà degli operatori. Sul versante dei parcheggi, la totale libertà di scelta del mix funzionale degli interventi e la “gratuità” della slp a servizi, potrà provocare gravi fenomeni di congestione.
La pianificazione delle tutele del patrimonio storico ed ambientale della città, genericissima ed inefficace nel piano adottato, tale è rimasta nel piano approvato, senza alcuna apprezzabile variazione (4). La parte computazionale del piano è approssimativa, inverificabile e in definitiva viziata d’errore. La relazione dichiara una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici, senza curarsi di precisare le modalità di calcolo, il che è di per sé insolito. In mancanza di dati dichiarati, e dunque induttivamente, sembra di poter arguire che essa sia stata ottenuta attribuendo ad ogni abitante insediabile un volume pari a circa 300 metri cubi convenzionali (5), corrispondenti di fatto, grazie ai generosissimi sconti applicati alla definizione della Superficie lorda di pavimento, alla bellezza di oltre 700 metri cubi vuoto per pieno a testa (6): più di sette volte tanto rispetto ai parametri della legislazione nazionale, disapplicata in Lombardia grazie alle leggi di Formigoni e Boni.
Presumibilmente il clamoroso sconto nel computo degli abitanti teorici cela l’ipotesi di destinazione di una parte delle volumetrie ad usi terziari, certo più che plausibile, ma non dichiarata nella computazione. Come se non bastasse, nel calcolo vengono dimenticati tutti i cantieri aperti e i volumi esistenti inutilizzati, e soprattutto viene sbadatamente dimenticato il possibile enorme aumento di capacità insediativa dovuto al riuso per funzioni urbane dei servizi esistenti, stimolati al trasferimento dalla già citata norma che azzera il peso insediativo dei nuovi insediamenti. In conclusione non è azzardato affermare che i veri abitanti teorici sono un grande multiplo intero del valore dichiarato: qualcosa come il triplo del dichiarato: non 182.873 ma almeno 500 - 600.000 abitanti (7), il che purtroppo ci riporta assai vicini alle quantità – obbiettivo dichiarate dalla giunta precedente. Sono quantità del tutto incompatibili con la realtà modesta di Milano demograficamente statica da decenni, foriere di un doppio risultato negativo: sviluppo lento ma ciononostante di cattiva qualità. Il cavallo non beve e dunque invece che dieci ci vorranno cinquant’anni e forse più a realizzare il piano, ma grazie alla imputrescibilità dei diritti immobiliari acquisiti Milano per molti decenni si godrà, oltre al piacere della stagnazione, anche quello dello sviluppo edilizio densificato. Un colmo di irrazionalità in cui ci si è volontariamente cacciati.
La parte normativa presenta altrettante criticità. Senza volere entrare in questa sede nell’estremo dettaglio ci si limita ad osservare come alcune delle definizioni più delicate perché foriere di conseguenze radicalmente divergenti in termini di diritti volumetrici come, a titolo di esempi non esaustivi, la definizione e gli ambiti di applicazione degli indici fondiari e di quelli territoriali e le modalità di verifica della saturazione degli indici esistenti (8), o la definizione dei servizi su area pubblica (9), appaiono incertissime e dunque foriere di un enorme lasco interpretativo, lasciato all’umore interpretativo di questa o quella struttura del Comune o, peggio, al contenzioso giudiziario. Non sembra ci fosse bisogno di aggiungere ulteriori incertezze al già confusissimo mondo del diritto urbanistico italiano e soprattutto lombardo.
Il piano è divenuto definitivo attraverso procedure quanto meno discutibili. Non solo i cittadini, ma nemmeno i consiglieri comunali, hanno avuto a disposizione le tavole modificate, che sono state rese note solo dopo l’entrata in vigore del piano; la votazione delle controdeduzioni è avvenuta per grandi gruppi di osservazioni, senza permettere al consiglio una valutazione dei singoli aspetti, inclusi quelli più rilevanti. Nonostante tutto questo, il clima in cui è avvenuta l’approvazione è stato di allineamento di tutte le forze politiche del centro sinistra - ed oltre sul lato cosiddetto sinistro - e di astensione dal voto, parsa più che benevola, da quelle del centro destra. Solo voto contrario quello del rappresentante Cinque stelle. La Facoltà di architettura del Campus Leonardo ha organizzato due incontri a carattere celebrativo.
Tutto questo non cancella la sostanza culturale di ciò che è avvenuto e il contrasto tra il risultato conseguito e le speranze politiche generate dalla campagna elettorale di Pisapia, alla quale chi scrive ha, assieme a tanti altri, partecipato con entusiasmo. Al Sindaco è forse allora lecito chiedere quali prossimi passi vorrà compiere per ridurre i danni prodotti dall’affrettatissima approvazione del piano, decisa per ottemperare puntigliosamente alla scadenza temporale indicata da una delle grida dell’ormai ex presidente della Regione. Il precipitoso sboom immobiliare e la creazione della città metropolitana ci stanno dando l’occasione e in anzi dovrebbero imporci la necessità di rivedere profondamente le scelte del nuovo, vecchio PGT, d’altronde sempre modificabile per legge. Il sistema politico milanese, rinnovato nelle persone ma forse non nella struttura profonda, saprà e soprattutto vorrà finalmente utilizzare questa duplice grande occasione?
Altri articoli sull'argomento sono stati scritti nei giorni scorsi su eddyburg.it nell'articolo di Maria Cristina Gibelli e nell'eddytoriale 155. Altri più antichi sull'urbanistica milanese e sul PGT della giunta Moratti li trovate in archivio.eddyburg.it, e precisamente in questa cartella.
NOTE
(1) Documento di piano, Norme di attuazione, art. 4, comma 3, pag. 309
(2) Norme di attuazione del Piano delle regole, articolo 4, comma 6, lettera m., pag. 12, Norme di attuazione del Piano dei servizi, art. 4, comma 7, pag.10 e Relazione generale e catalogo dell’offerta dei servizi pagg 154-161.
(3) Documento di piano, Allegato 3, Schede di indirizzo per l’assetto del territorio e tabella dati quantitativi.
(4) Il carattere labile delle tutele relative al patrimonio edilizio esistente nei Naf (Nuclei di antica formazione) risulta chiaro dalla lettura dell’art 13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, pag 24.
(5) La valutazione è ricavata dal confronto aritmetico tra i dati esposti nella Relazione del documento di piano, pag. 272 e quelli contenuti nella Tabella dati quantitativi, contenuta nel già citato allegato 3 del Documento di piano.
(6) Il dato è desunto dai dati ufficiali pubblicati dal comune di Milano sul periodico “Milano statistica”, che consente il confronto tra volumi vuoto per pieno e superfici di pavimento nei permessi di costruire rilasciati, divisi per tipologie funzionali.
(7) Poiché il piano non fornisce alcuna quantificazione né dell’inutilizzato, nè dei servizi non pubblici che possono generare ingenti diritti edificatori, chi scrive è stato costretto ad usare propri data base per pervenire ad quantificazione, sia pure di larga massima.
(8) Si veda, come esempio di notevole indefinitezza, quanto prescritto dall’art. 4, comma 16, pag.13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole.
(9) Giuristi consultati affermano che poche definizioni sono così scivolose come quella di servizi localizzati su aree “pubbliche” per discernere tra quelle che generano o meno diritti edificatori. L’area di un’azienda ospedaliera è pubblica?
Il destino diun’area vitale per il futuro dell’area veneziana, costruita con l’investimentodel lavoro e dei finanziamenti pubblici, in corso di svendita da parte del Comune, appeso all’esile filo della legalità e della tutela delpaesaggio. La Nuova Venezia, 22 dicembre 2012
Ieri mattina in Regione è stato firmato l’accordo di programma tra le amministrazioni interessate al progetto. Un via libera di massima all’idea del Palais Lumière, che non significa approvazione definitiva. Accordo firmato ieri a palazzo Balbi dal presidente della Regione Luca Zaia, dal vicesindaco di Venezia Sandro Simionato, dal responsabile del procedimento, il dirigente dell’Urbanistica regionale Vincenzo Fabris e dei dirigenti delle Ferrovie che sarà ora pubblicato, e le osservazioni dovranno essere depositate entro i 20 giorni successivi. «Un passo avanti», commenta il sindaco Giorgio Orsoni, «anche se questo non significa che avremo in tempo i 40 milioni delle aree necessari per il Patto di Stabilità. Noi comunque abbiamo fatto il nostro dovere nei tempi previsti, adesso tocca al privato rispettare i patti». Una riunione che non è durata molto, quella di ieri mattina. Del resto i presenti erano quasi tutti d’accordo sulla necessità e l’urgenza di approvare quell’accordo.
Non c’erano i rappresentanti della Soprintendenza, perché la decisione degli uffici dell’Urbanistica è stata quella di ritenere che il progetto sia posizionato in un’area che non è sottoposta a vincolo paesaggistico. Opinione opposta quella del ministero per i Beni culturali, che ha chiesto che il progetto sia sottoposto alla procedura di valutazione paesaggistica. Tesi sollevata anche da Italia Nostra, che ha ribadito quanto già affermato negli esposti presentati alla Procura con una lettera inviata al ministro per i Beni culturali Lorenzo Ornaghi. «Il terreno non è compreso nella planimetria del vincolo Galasso del 1985», scrivono il presidente nazionale Marco Parini e la presidente della sezione veneziana Lidia Fersuoch, «ma occorre rispettare il Codice dei Beni culturali». Che all’articolo 152, ribadiscono, prevede che «nel caso di interventi per impianti civili che abbiano la vista sulla laguna (il bene da tutelare) la Regione e il ministero hanno facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le varianti idonnee ad assicurare la conservazione dei valori espressi dai beni protetti». Dunque, anche se il terreno dove dovrebbe sorgere il grattacielo, alto due volte e mezza il campanile di San Marco, non è vincolato, c’è da tutelare l’impatto visivo. Sul tema è tornato ieri anche il patriarca Francesco Moraglia. «Non è accettabile contrapporre il lavoro alla salute o all’ambiente, come si è fatto a Taranto», ha detto, «bisogna rilanciare una politica nuova, che non ci ponga di fronte a questi aut aut. E occorre governare bene questo tipo di interventi. Parliamo di atti che segneranno a lungo, nel bene e nel male, zone importanti della città. Bisogna fare attenzione non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche dei riflessi che questo avrà sulla città». Il Lumière può essere «un’occasione per il lavoro» aveva detto il patriarca nei giorni scorsi. Ieri ha precisato di non essersi dimostrato particolarmente entusiasta di questo tipo di insediamento. Ricordando come a Marghera oggi realtà costruite negli anni Sessanta «siano in preda a un particolare degrado e fatiscenza». Riflettere, dunque. Cosa che la politica per adesso ha fatto abbastanza poco, accelerando invece i tempi dell’iter per il grattacielo.
Forse, grazie a Italia Nostra e alla mobilitazione dei sapienti, una nuova fase nella vicenda della privatizzazione della città e della distruzione del suo destino. Le Autorità saranno piegate dalla ragione e dalla legge? Vedremo, con l'anno nuovo. La Nuova Venezia, 21 dicembre 2012
«La Torre Cardin? Una torre di Babele, massima espressione di quella concezione che vuole Venezia nuova Disneyland, svuotata di abitanti e produzione, città di cartapesta più che città storica. Occorre fermare i nuovi barbari, che di Venezia hanno fatto il massimo bersaglio». Lo storico dell’arte Salvatore Settis, ha esordito così davanti ai soci dell’Accademia delle Iscrizioni delle Lettere di Francia. Una lectio magistralis replicata all’Ateneo veneto e pubblicata quasi integralmente sulla Suddeutsche Zeitung. E un grido di allarme contro la realizzazione di quello che viene definito «un ecomostro». Quella di Settis è una delle centinaia di firme dell’appello «Cardinnograzie» (visibile sull’omonimo sito) inviato al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per fermare il grande progetto in riva alla laguna. Progetto che però, sostenuto dagli enti locali veneziani va avanti. Stamattina in Regione è convocata la prima Conferenza dei servizi che dovrebbe esaminare la documentazione. Un atto che prelude alla firma della convenzione tra Comune e lo stilista italo-francese, da cui il Comune dovrebbe ricavare 40 milioni di euro per la vendita dei terreni necessari alla costruzione delle infrastrutture dell’opera. Gli altri terreni sono di proprietà di privati, del gruppo Mevorach e di Damaso Zanardo con cui sono stati sottoscritti dei preliminari.
Ma c’è un nodo da sciogliere. Secondo il ministero dei Beni culturali il progetto va esaminato dalla Soprintendenza per via del vincolo paesaggistico. Vincolo che ne impedirebbe l’approvazione senza che ci sia stato il parere, appunto, della Soprintendenza. Tesi sostenuta anche dai legali di Italia Nostra, che hanno inviato nuova documentazione al ministero, alla Procura di Roma e ai carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico. «Esiste il Codice dei beni culturali e del Paesaggio, diventato legge nel 2004», dice il presidente nazionale di Italia Nostra, avvocato Marco Parini, «il terreno interessato dal Palais Lumiere è escluso dalla planimetria perché esterno alla laguna. Ma l’articolo 152 prevede che nel caso di interventi per impianti civili che abbiano vista sulle aree indicate (la laguna) “siano prescritte le distanze, le misure e le varianti ai progetti idonee ad assicurare la conservazione dei valori espressi dal bene protetto”». Dunque, scrive Parini al ministro Ornaghi, «l’impatto paesaggistico devastante, di giorno e di notte, del nuovo grattacielo impone cautela e rispetto della legge». Legge che secondo i tecnici dell’Urbanistica sarebbe invece rispettata. «Quelle aree non sono soggette ad alcun vincolo, perché lontane dal mare», dicono, «è la tesi che Comune, Provincia e Regione sosterranno già stamani. Per dimostrare che un grattacielo, anche se risulterà il più alto d’Italia con i suoi 250 metri, circa il triplo della collina dove sorge Asolo, non ha alcun bisogno del permesso della Soprintendenza. La battigia, sostengono, non può essere parificata alle aree industriale, dove fabbriche e molti edifici sono sorti senza i pareri della Soprintendenza. La politica spinge, i tecnici hanno idee diverse. E sulla vicenda è stato presentato alla Procura di Roma un dettagliato esposto che chiede di far luce sull’intera vicenda.
Un aspetto chiave della modernizzazione e qualità abitativa dei nostri centri urbani, di solito un po’ sottovalutato, in una prospettiva internazionale. Il manifesto, 21 dicembre 2012 (f.b.)
Quanto la qualità urbana sia funzione di un trasporto pubblico efficiente è qualcosa di cui chiunque ha fatto, prima o poi, esperienza: basta essersi trovati in città con una buona rete della metropolitana per aver capito come riesca a semplificare la vita un trasporto pubblico che consente di arrivare ovunque in tempi ragionevoli e di guadagnare così pezzi di giornata da dedicare al cinema, alle mostre, alla palestra e a quanto una città moderna offre come opportunità. Esiste cioè una soglia qualitativa del vivere in città che è commisurata all'estensione e all'efficienza della rete del trasporto pubblico tanto è vero che tra le città dove le persone preferiscono abitare, figurano quelle con reti dei trasporti pubblici integrate e sostenibili: Londra, Parigi, Vienna, Berlino, Barcellona, Madrid, Stoccolma, New York, Tokio, Hong Kong.
Difficile trovare in queste classifiche le città italiane e non c'è da stupirsene. Come può competere Roma che possiede solo 41,5 km di metropolitana con 2 linee e 52 stazioni comprese le ultime arrivate di Annibaliano, Libia e Conca d'Oro con Londra che vanta una rete della metropolitana di 460 km con 13 linee e 382 stazioni o con Parigi che ha una metropolitana di 200 km con 16 linee e 374 stazioni? Poco migliore è la situazione di Milano, la più europea delle città italiane, che ha solo 88 km di metropolitana con 3 linee e 94 stazioni. In sostanza le città italiane tanto celebrate per le loro bellezze architettoniche soffrono di un grave deficit del trasporto pubblico a cui bisognerebbe mettere mano per restituire ai cittadini (e non solo ai turisti) un patrimonio urbano e ambientale che non viene goduto come si dovrebbe e si potrebbe. Ma ripensare la mobilità e il trasporto pubblico non è uno scherzo e richiede uno sforzo collettivo per evitare di ripetere gli errori fatti nel passato e ritrovarsi in qualche anno a rimpiangere occasioni mancate come è stata quella della metropolitana, ancora oggi evocata tra le cause della cattiva modernizzazione del Belpaese.
Ci sarebbe da augurarsi una sterzata culturale per arrivare a considerare tram, autobus e auto elettriche tra i diritti base di una cittadinanza contemporanea proprio come avviene in quei contesti urbani dove il trasporto pubblico è già un bene comune e dove circolazione e accessibilità sono le parole chiave di una società democratica e multietnica che guarda positivamente al futuro. Non sempre però si pensa abbastanza a quanto possa incidere il trasporto pubblico nella vita quotidiana della gente anche la relazione tra i due è così forte tale da poter addirittura influenzare le scelte politiche.
Sentimenti di discriminazione
In occasione delle ultime elezioni presidenziali, l'istituto dei sondaggi Ipsos France ha tracciato un quadro delle intenzioni di voto sinistra/destra ripartito tra coloro che abitano nelle regioni metropolitane e coloro che abitano nelle periferie periurbane o nei piccoli centri rurali: lunghe distanze e cattivi collegamenti con i grandi centri urbani dove è maggiore l'offerta di servizi e di intrattenimento, innescano sentimenti di discriminazione che portano a riparare in posizioni conservatrici. In realtà questo dato socio-antropologico solo apparentemente è una novità dei tempi attuali; basterebbe fare qualche passo indietro e andare a rileggere le storie delle amministrazioni locali per trovare conferma del legame tra efficienza del trasporto pubblico e politica anche se evidentemente, le sfumature sono diverse.
Arriva a proposito il libro di Grazia Pagnotta Dentro Roma. Storia del trasporto pubblico nella capitale 1900-1945 (Donzelli, pp. 404, euro 27), un «viaggio» molto ben documentato nelle vicende della modernizzazione di Roma capitale rilette dal punto di vista dei tram, dei filobus e degli autobus che mette a nudo la centralità della rete del trasporto pubblico nella politica della città e degli equilibri urbani. Sullo sfondo di una città che improvvisamente cresce a dismisura, l'autrice ripercorre le tappe della costruzione del servizio dei trasporti pubblici restituendo un quadro di conflitti e di ritardi che hanno condizionato lo sviluppo della città e i rapporti con i suoi cittadini: per anni, ogni giorno, file di pendolari costretti a spostarsi dalle periferie al centro città in scomode vetture prive di ogni comfort hanno scritto la storia dei rapporti tra amministrazione pubblica e cittadini.
Navigazione a vista
Nodo irrisolto della vicenda romana è stato il processo di municipalizzazione della rete che ha richiesto circa trent'anni di lavoro politico - anni strategici per la modernizzazione della città - per riprendere il controllo, almeno parziale, delle linee date in concessione alla Società Romana Tramway e Omnibus (Srto) e sostituire alla visione utilitaristica della destra liberale giolittiana un'idea di città più democratica. Lasciata nelle mani della Srto, un consorzio aziendale creato dal Banco di Roma che a sua volta era il centro della finanza vaticana, la rete dei trasporti municipali romani era stata realizzata unicamente secondo criteri di convenienza economica e non come sarebbe dovuto essere, sulla base di un progetto e di una prefigurazione razionale dello sviluppo della città.
Anche se non sono mancate le proposte e gli studi urbanistici - il piano regolatore del Sanjust del 1909, la variante del 1924 che introduce le linee sotterranee dei tram e della metropolitana, il progetto della «Grande Roma» di Piacentini (1925), gli studi del 1929 del gruppo degli Urbanisti romani e del gruppo La Burbera guidati da Giovannoni - a Roma sembra essere mancata la volontà di creare una sinergia tra il sistema della mobilità e la crescita urbana, lasciando così che tutto si facesse mano mano, con la conseguenza che progetti che avrebbero potuto imprimere uno sviluppo realmente moderno della città, naufragassero nel nulla.
Sotto questo profilo, la vicenda della metropolitana è emblematica. La ricostruzione storica di Grazia Pagnotta non riesce infatti a fornire una spiegazione logica al perché la metropolitana, ridotta alla sola linea B, sia stata inaugurata soltanto dopo la guerra nel 1955, nonostante la riforma del 1930, la prima significativa che Roma capitale abbia conosciuto, fosse fondata sulla realizzazione di una rete sotterranea di ben quattro linee per colmare i disagi del «dimagrimento» delle linee in superficie, nonostante il piano regolatore del 1931 ne avesse recepito il disegno, nonostante Mussolini ne avesse approvato la realizzazione nel 1937 e le gallerie per collegare la stazione Termini al nuovo quartiere dell'E42 fossero già state scavate negli anni quaranta.
Le ragioni che hanno ostacolato la realizzazione della rete sotterranea sono imperscrutabili e nemmeno un sottosuolo pieno di memorie archeologiche sbandierate come «il problema» del caso romano, è riuscito a giustificare l'assenza della metropolitana: le conoscenze tecniche raggiunte agli inizi del secolo scorso - sono anni in cui l'ingegneria fa passi da gigante in tempi rapidissimi, realizzando opere straordinarie che ancora oggi lasciano stupefatti, basti pensare alle torri e ai ponti di Gustave Eiffel! - avrebbero permesso di scendere nel sottosuolo quanto serviva per non intaccare la quota archeologica. Così, mentre le più importanti città europee erano lanciate nell'impresa della metropolitana riconoscendo nella rete dei treni urbani la soluzione più idonea ad assorbire le difficoltà dei collegamenti creati dalla crescita urbana e dall'aumento demografico della popolazione, a Roma ci si è fermati alle buone intenzioni.
Strategie più articolate
Ora però, fatte salve le occasioni mancate potrebbe essere il momento di riprendere in esame la questione con spirito rinnovato: molte cose sono cambiate e per realizzare una città accessibile e di qualità potrebbe non essere più sufficiente colmare il gap della metropolitana. Le dimensioni urbane sono ben più vaste di quelle del passato, il numero degli abitanti è notevolmente aumentato, la loro distribuzione sul territorio è a macchia di leopardo e tutto questo complica parecchio il discorso. Se poi si aggiunge che ormai l'automobile non può più continuare ad essere il principale mezzo di trasporto urbano, è evidente che bisogna mettere in campo strategie più articolate capaci, da un lato di mettere insieme l'automobile con la bicicletta, gli autobus con i battelli, i tram con le navette, dall'altro di considerare i trasporti qualcosa che viaggia sotto ma anche sopra la terra.
È quanto emerge dal sostanzioso volume di Alessandra De Cesaris Il progetto del Suolo-Sottosuolo (Gangemi, pp. 304, euro 30) che attraverso il confronto tra i trasporti delle grandi città del mondo, sonda le tendenze e i modelli della mobilità più adeguati alle attuali condizioni dell'abitare contemporaneo senza dimenticare l'urgenza ambientale che richiede un risparmio e una salvaguardia del suolo. Insomma, sembra sia arrivato il momento di guardare al trasporto pubblico come a una delle chiavi per coniugare sostenibilità e responsabilità ambientale, per ristabilire relazioni tra parti distanti e separate della città, per costruire uno spirito di collettività adeguato alle nuove forme del lavoro, del consumo, dell'abitare che si profilano all'orizzonte, senza dimenticare che lo stesso modo di spostarsi è andato incontro ad una nuova rivoluzione.
Distanze calcolate in minuti
Se come ha felicemente sintetizzato il titolo di una recente mostra parigina dedicata ai trasporti sono i nostri movimenti a disegnare la città e i territori e a modificare il paesaggio urbano - Circuler. Comment nos mouvements façonnent les villes -, i cellulari, gli smartphone, i tablet permettono di fare diverse cose mentre si è in movimento, tranne il guidare. Ecco che le distanze non si calcolano più in chilometri ma in minuti di tempo e che l'essere trasportati è diventato un'aspirazione, quasi uno status symbol. Non tanto in Italia, quanto all'estero, nelle aristocratiche città europee, per essere à la page oggi si circola con i mezzi pubblici, tutt'al più con la bicicletta o con l'auto elettrica.
METROPOLITANA -Roma, Parigi e Londra, un confronto impietoso
Per rendersi conto dell'enorme divario che separa, sul piano del trasporto pubblico, le città italiane da quelle europee, basta confrontare i dati della metropolitana di Roma con quelli relativi alla rete del «métro» parigino e del «tube» londinese. Attingendo le cifre dalla inevitabile Wikipedia, si viene a sapere che Roma (1285 chilometri quadrati, due milioni e ottocentomila abitanti) ha in tutto due linee (41 km, 52 stazioni), contro le sedici linee della capitale francese (215 km, 301 stazioni per 762 chilometri quadrati e 6.260.000 abitanti, considerando l'agglomerato urbano e non solo il comune di Parigi) e le tredici linee della metropoli britannica, che vanta una rete di circa 460 chilometri interpuntata da 382 stazioni, per una superficie di 1572 chilometri quadrati e una popolazione di oltre otto milioni di abitanti.
Corriere della Sera, 20 dicembre 2012 (f.b.)
Le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti, Im.co e Sinergia, fanno pressing per la realizzazione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata che deve sorgere nel Parco Sud. L'opera è in progetto su terreni già di proprietà di Ligresti. Così l'ambizioso progetto della cittadella della scienza, che l'oncologo Umberto Veronesi aveva annunciato nella seconda metà del 2003, diventa uno degli asset strategici più importanti per gli istituti bancari per recuperare i soldi (la ristrutturazione del debito dovrebbe seguire la strada del concordato fallimentare, quindi con il consenso del Tribunale).
È quanto emerge da documenti riservati, inviati di recente al collegio dei curatori fallimentari. «Si invita cortesemente il collegio dei curatori — scrive Unicredit — a volere rappresentare alla prossima riunione l'interesse delle banche creditrici a proseguire l'iniziativa». Complessivamente in gioco ci sono quasi 330 milioni di euro. È la cifra che gli istituti di credito devono riavere in seguito al fallimento di Ligresti: la più esposta è proprio Unicredit (con il 57,5%), le altre sono la Banca Popolare di Milano, il Banco Popolare, la General Electric, il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Sai e la Banca Popolare di Sondrio. La questione nasce anche perché Salvatore Ligresti era riuscito ad avere prestiti importanti ipotecando per 120 milioni proprio l'area su cui dovrebbe sorgere il Cerba.
La realizzazione del progetto, però, al momento non è per nulla scontata. Una riunione fondamentale a tal proposito è fissata per domani: parteciperanno Regione Lombardia, Provincia, Comune di Milano, Parco Sud e Fondazione Cerba (i cui soci sono Enpam, Banca Intesa, Unicredit, Banca Popolare di Milano, Allianz, Generali, Unipol-Fonsai, Rcs, Pirelli). Il pallino è in mano al Comune, che deve decidere se bloccare la convenzione (alla luce della scadenza dei termini entro i quali il progetto avrebbe dovuto partire) oppure se concedere altro tempo. È una decisione delicata: da un lato c'è la realizzazione di un progetto scientifico di rilevanza internazionale, dall'altro il timore di possibili speculazioni immobiliari sul Parco Sud. E la preoccupazione di Palazzo Marino appare tutta concentrata proprio su questo secondo aspetto. In caso di un via libera del Comune, l'idea delle banche è di conferire l'area del Cerba a un fondo immobiliare gestito da Hines Italia di Manfredi Catella.
Nota
E' certamente inelegante ricordarlo e ribadirlo, ma sin dal primo momento L'avevamo detto (f.b.)
La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare la città e l’urbanistica.
Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune.
Da Milano, dal suo ‘nuovo’ Piano di Governo del Territorio, ci aspettavamo una decisa presa di distanza dal modello neoliberista e mercatistico che ha dominato nelle politiche urbanistiche lombarde: un modello che, dall’inizio degli anni ’90 in poi, ha progressivamente smantellato il sistema di pianificazione, nel silenzio, quando non con l’esplicito sostegno, di una parte della cultura tecnica e politica. Ci aspettavamo maggiore creatività e coraggio e, soprattutto, risposte innovative alle speranze e alle attese dei cittadini che avevano votato per il cambiamento.
Così non è stato.
A Milano, con il ‘nuovo’ PGT, si sta toccando con mano questa perdita di identità della sinistra.
Come noto, il PGT, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010 ma non ancora divenuto efficace allo scadere del mandato, era un piano meramente al servizio del mattone: prometteva infatti espansioni edilizie tali da poter accogliere in prospettiva 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Ma analisi attente delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio avevano evidenziato un ben maggiore sovradimensionamento delle opportunità edificatorie: per oltre 600.000 nuovi abitanti!
Fra i primi atti del nuovo governo municipale retto da Pisapia in materia urbanistica vi fu una decisione apparentemente coraggiosa: si decise di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, ripartendo dal riesame delle osservazioni che erano state respinte in blocco dal governo precedente. Un preludio necessario, pensavamo, per ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità; preliminare, pensavamo, a una profonda e radicale revisione del Piano. Ma il Piano non è stato cambiato in maniera sostanziale e si è persa una grande occasione: di provare a ripensare alle politiche urbanistiche milanesi in una dimensione davvero metropolitana e con una visione di respiro europeo.
Il riesame delle osservazioni non è infatti servito, come era possibile e legittimo, per riaprire la ‘questione urbana’ milanese, ma per dare un segnale di solo apparente discontinuità e per completare al più presto i lavori garantendosi una ossequienza formale alla tempistica prescritta dalla legge 12/2005; in pratica per non rischiare le procedure commissariali.
Ci chiediamo: perché, di fronte a sfide così rilevanti e troppo a lungo trascurate, si è scelta la strada del minor rischio? Non sarebbe stato più lungimirante, e un vero segnale di cambiamento, cestinare il Piano Moratti/Masseroli e dare forma a una nuova visione strategica per l’intera area metropolitana milanese, anche a costo di incorrere nelle sanzioni di legge per le amministrazioni inadempienti (una situazione in cui si trovano oggi del resto molti altri comuni lombardi)? Oltre tutto, in una fase di crisi manifesta del settore edilizio/immobiliare; con la prospettiva, sia pure incerta, di imminente istituzione delle Città Metropolitane e con l’accumularsi di scandali che hanno totalmente delegittimato il governo regionale?
Si è invece preferito produrre un piano soltanto blandamente modificato del quale non condividiamo né il metodo né il merito.
Approvato il 22 maggio 2012 in tutta fretta dal Consiglio Comunale un documento ancora in bozza, in cui venivano segnalate con i diversi colori le modifiche apportate al Piano Masseroli – peraltro difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - e senza tavole allegate (!), il Piano è stato pubblicato in versione completa sul BURL il 21 novembre 2012. Ma solo contestualmente alla pubblicazione, il PGT integrale è stato messo in rete, consentendoci finalmente di conoscerne i contenuti, di fatto sottraendo alla civitas il diritto alla informazione e al dibattito critico.
Dunque, è in primo luogo il metodo con cui si è arrivati alla pubblicazione del Piano a suscitare sconcerto: una frettolosa discussione in Consiglio Comunale su Bozze di Piano ‘secretate’(è grazie a Masseroli, proprio lui, che le Bozze sono state inserite in Internet e rese accessibili ai cittadini!) e senza tavole allegate; una approvazione con un solo voto contrario e l’assenza dall’aula dell’opposizione; la pubblicazione del PGT completo sul BURL, giusto in tempo per ottemperare alle scadenze imposte da un governo regionale già in caduta libera.
Strategia davvero discutibile: oltre a qualche evento di presentazione a carattere celebrativo e piuttosto retorico, che ha lasciato gran parte delle possibili questioni inevase, del PGT e dei suoi contenuti poco o nulla si è saputo; e dal recinto chiuso dei decisori e dei loro consulenti nulla è filtrato alla società civile e ai cittadini, salvo ostici e incompleti documenti di dettaglio per soli addetti ai lavori e incontri pubblici pilotati.
Il governo locale milanese ha una volta di più mostrato una modesta propensione all’ascolto e alla costruzione partecipata del piano, in un’epoca in cui tutte le grandi città europee hanno ormai fatto di queste procedure il fondamento della propria legittimazione.
Ma il nuovo Piano di Governo del Territorio ci lascia perplessi anche nel merito, e ci conferma una volta di più dell’intreccio, arduo da districare, fra politica, finanza e mattone che tanto ha nuociuto e continua a nuocere alla vivibilità urbana.
Sono davvero troppo modesti i cambiamenti rispetto alla versione Moratti/Masseroli. Qui segnalerò soltanto le criticità più rilevanti, rinviando agli articoli di approfondimento già pubblicati su eddyburg. E altri ne seguiranno.
Il nuovo PGT ha stabilito che il Parco Sud non potrà generare diritti edificatori trasferibili altrove e ha operato una riduzione dell’indice unico di edificabilità e delle quantità previste in alcune aree di trasformazione.
Ma quest’ultima misura a ben vedere più che un segnale di inversione di rotta (anche se la stampa ne ha enfatizzato la rilevanza) appare poco incisiva, data la drammatica crisi economica e del settore edilizio, e di solo buon senso a fronte di un mercato già carico di tensioni e di quote elevatissime di invenduto o sfitto. Inoltre, la indicazione ufficiale di una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici appare comunque molto elevata. Si tratta di un incremento del 13% rispetto alla popolazione attuale, in una città dal perimetro angusto e già molto densa. E alcune verifiche puntuali in corso, che pubblicheremo su questo sito, stanno evidenziando dati assai più preoccupanti: gli abitanti teorici potrebbero essere più del doppio. Comunque, una vera assurdità!
Su altri aspetti cruciali il Piano appare molto debole, se non rischiosissimo: è privo di qualsivoglia visione di ampio respiro proiettata sul futuro della regione urbana, chiuso in una dimensione tutta milanocentrica, muto sulla disponibilità di spazi pubblici e nuove funzioni pubbliche di rilievo, evasivo sulla drammatica ‘questione delle abitazioni’ che affligge gli strati più deboli della popolazione.
Sono quattro le domande che vogliamo porre alla amministrazione milanese.
E ancora, ha senso, per quanto riguarda il sistema della mobilità, avere ulteriormente rafforzato una progettualità tutta milanocentrica, anziché proiettata sulla regione urbana?
In conclusione
Le grandi promesse contenute nell’iniziale Documento di Indirizzo per il Governo del Territorio dell’ottobre 2011 si sono rivelate ingannevoli: “città come bene comune, concezione attiva della cittadinanza, metodo metropolitano, massimizzazione nell’housing sociale dell’affitto e, in particolare, della quota a canone sociale, mobilità dolce …” ecc. ecc…
Troppo invadente appare ancora oggi l’eredità del passato in cui Milano ha fatto da apripista e da cantiere sperimentale di tutte le controriforme urbanistiche lombarde: dalla radicale deregolamentazione volta a premiare gli interessi del mattone; alla semplificazione delle procedure al fine di sottrarre decisioni rilevanti al dibattito democratico in Consiglio Comunale; agli ampi premi concessi alla rendita fondiaria (volumetrie, monetizzazioni a prezzo di realizzo, oneri irrisori); alla propensione a evitare un diffuso e partecipato confronto con gli interessi deboli e le associazioni di base; alla opacità di procedure di elaborazione e approvazione degli atti di pianificazione sempre tese a sopire e sedare.
Preoccupante è stata la mancanza di informazione e confronto pubblico, come d’abitudine sostituita da retoriche occasioni celebrative piene di promesse anziché di contenuti.
Imbarazzante infine, come da troppi anni avviene, è stato il sostegno di parte della cultura urbanistica, e nel caso particolare del Politecnico di Milano che in passato aveva già avuto modo di distinguersi per autocensure quando non per aperto supporto alle strategie ‘innovative’ dell’urbanistica milanese.
Alla domanda di cambiamento delle regole del gioco, di coinvolgimento civico e di trasparenza, che ha costituito una delle leve potenti del successo elettorale di Pisapia si è risposto, per quanto riguarda la politica urbanistica, scegliendo la strada del minore attrito con gli interessi forti, del restyling, del business as usual.
Davvero, ci aspettavamo un’altra storia. Questo piano, che ha dovuto soggiacere a vincoli istituzionali rilevanti (veri o presunti), dovrà essere subito riconsiderato e rinvigorito per quanto riguarda beni comuni, funzioni pubbliche e apertura a una dimensione davvero metropolitana. D’altra parte, proprio la legge regionale lo consentirebbe, grazie alla sua filosofia di fondo che rende gli atti di pianificazione sempre modificabili: una flessibilità che nel breve periodo potrebbe tornare utile per porre rimedio ai difetti più vistosi di questo Piano.
Non ci resta che sperare infine che un eventuale e auspicabile futuro Presidente di una Giunta progressista al comando della Regione Lombardia si dimostri consapevole della immediata necessità di riscrivere la inaccettabile Legge di Governo del Territorio: che è tale solo nel titolo.
E basta restyling per favore!
La legge 12 ha già fatto troppi danni. Occorrerà mettervi mano e riformarla completamente!
Se Cultura potesse, se Politica sapesse; ma Politica non sa, e se sapeva ha dimenticato. L'Unità, 19 dicembre 2012
Sul crollo di Palermo e sui suoi poveri morti si allunga l’ombra di uno dei mille abusi edilizi, il Nell’ultimo venticinquennio sono più di un milione, secondo il rapporto del Centro ricerche economiche sociali di Mercato per l’edilizia (Cresme), gli abusi edilizi, tra nuove costruzioni e ampliamenti non autorizzati. Al di là della tragedia di Palermo, emerge un dato disperante: i ripetuti condoni edilizi gli ultimi tre imputabili a governi presieduto da Silvio Berlusconi hanno esaltato la sottocultura in base alla quale ciascuno può fare ciò che vuole. In casa propria come sulle aree ancora libere (anche se coperte da vincoli idrogeologici, anche se tutelate a parco, anche se a filo di arenile). Tanto un governo «sanerà» poi il malfatto. La regola in materia l’ha dettata lui, il ritornante Silvio: «Ciascuno è padrone a casa sua». Che è la negazione dello spirito comunitario, dell’interesse generale che prevale su quelli particolari, della Costituzione che tutela il paesaggio come bene comune dell’intero Paese. Il Pdl ha tentato la carta di un nuovo condono anche con la legge di stabilità. Cioè fino a ieri.
Nel solo 2010 si sono accertati, secondo i dati di Legambiente, 26.500 casi gravi di abusivismo edilizio, cioè di interi immobili costruiti senza alcuna autorizzazione, certificazione, licenza. Le regioni più devastate da questo fenomeno: Calabria, Campania e Lazio (la Sicilia viene subito dopo). Con la conseguente cementificazione senza fognature, ovviamente di circa 540 ettari di suoli liberi. La Calabria dove intere zone, come la piana di Scalea, risultano letteralmente sconvolte dal cemento vanta da sola 945 infrazioni, seguita dalla Campania che però detiene il primato delle persone denunciate: 1.586 su un totale di 9.290. Il Cresme sottolinea che si continua a costruire illegalmente «in un territorio ad alto rischio idrogeologico». Si ricordino le tragedie di Sarno, della fiumara di Soverato, della collina franata a Giampilieri di Messina, o a Ischia, con decine di morti e feriti ai quali ora si aggiungono le povere vittime di Palermo.
Dietro la colata di cemento abusivo c’è ormai quasi sempre la malavita organizzata: sta facendo risalire il fenomeno da sud a nord, «inquinando» le imprese venete e lombarde, sfibrandole con continui pagamenti di pizzo, o reinvestendo in proprio, con aziende di copertura, i profitti lucrati nel Mezzogiorno con una costellazione di attività illecite, a cominciare dall’edilizia. Il tutto con la complicità di colletti bianchi nel sistema finanziario e bancario, negli studi notarili e tecnici, nelle amministrazioni locali che chiudono gli occhi.
Qui molti altri articoli sull'abusivismo raccolti in eddyburg
Il manifesto, 19 dicembre 2012
la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2012, postilla (f.b.)
la Repubblica
Città della salute ecco il progetto di Renzo Piano
di Gabriele Cereda
DALL’AREA dismessa dell’ex Falck di Sesto San Giovanni alla Città della salute. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018. Il progetto è stato presentato ieri con l’architetto Renzo Piano, che firmerà il masterplan: «Sarà — ha detto — uno dei cantieri più belli della mia vita ». Il progetto, che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori di Milano, prevede un investimento di 450 milioni. Nascerà un polo sanitario di alto livello con seicento camere, immerso in un parco di 400mila metri quadrati. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018: è quello che si prospetta dopo che nella notte di domenica è stato raggiunto un accordo tra il Comune dell’hinterland e la proprietaria dell’area, Sesto Immobiliare, per la cessione dei terreni su cui nascerà la cittadella.
«Al centro di tutto c’è l’uomo» ha più volte sottolineato ieri, durante la presentazione in uno dei capannoni dell’ex fabbrica, l’architetto Renzo Piano accompagnato dal governatore Roberto Formigoni. Sua la firma sul masterplan di recupero: «Sarà - ha detto - uno dei cantieri più belli della mia vita». Il progetto che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori prevede un investimento di 450 milioni garantiti da Regione Lombardia (330 milioni), da fondi statali (40) e in parte da risorse esterne (80). Verranno costruiti 850 posti auto per i dipendenti e 650 per gli utenti. Confermati i posti letto attualmente attivati agli Irccs Besta e Tumori, rispettivamente 610 e 660, per un totale di circa seicento camere.
Gli spazi sono pensati per far «dialogare costantemente diagnostica e ricerca» ha spiegato Piano; e nei sotterranei «ci sarà la macchina pulsante, le sale operatorie e i centri diagnostici. Ai piani superiori, invece, il day hospital e la degenza». L’architetto ha voluto presentare il piano di recupero sotto le altissime volte del capannone T3, «la Pagoda» come l’hanno ribattezzato i sestesi, per via di quel profilo dall’aspetto orientale che spunta davanti agli automobilisti sulla tangenziale Nord. Immersi tra i ruderi dell’archeologia industriale, e sferzati da un vento gelido rotto da decine di quelle “stufe fungo” usate per riscaldare i dehors dei locali, gli invitati hanno visto il futuro dell’area immaginato da Piano, che armato di bacchetta e aiutato da disegni proiettati su un megaschermo spiegava l’operazione di recupero.
Nel dettaglio, l’ospedale sarà composto da cinque padiglioni di tre piani, alti solo 18 metri e immersi nel verde: «Tutto attorno si estenderà un parco di 400mila metri quadri, perché un grande ospedale è giusto che stia in mezzo al verde». Nel progetto figurano diecimila alberi: tigli, aceri, querce. Le stanze ospiteranno solo due pazienti e tutte avranno la zona pranzo affacciata direttamente sui giardini. C’è anche l’idea di lasciare spazio per un orto dove produrre ortaggi e frutta. Per il tetto, poi, si sta pensando a diverse soluzioni: una prevede di piantare graminacee in grado di ridurre le radiazioni solari, l’altra invece privilegia l’installazione di pannelli solari per abbassare il consumo energetico.
Accanto alla Città della salute verrà costruita la nuova stazione di Sesto e, sottolinea l’architetto, sarà una stazione a ponte, dove passeranno sia treni che metropolitana ». A unire il tutto, un viale lungo 120 metri. Entro gennaio 2013 è previsto l’avvio delle procedure di gara; a primavera 2014, conclusa la bonifica a carico dell’attuale proprietà, l’avvio del cantiere ed entro la fine del 2017 la conclusione dei lavori. Per arrivare al secondo semestre del 2018, quando il nuovo ospedale accoglierà i primi pazienti.
Corriere della Sera
Un ospedale nel verde Ecco la Città della salute disegnata Renzo Piano
di Simona Ravizza
La Città della salute — in progetto a Sesto San Giovanni per unire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta — sarà realizzata sulla base delle linee guida indicate dall'architetto Renzo Piano. Così su una delle più grandi aree industriali d'Europa, la ex Falck, è destinato a sorgere l'ospedale-modello ideato dall'archistar. Una struttura articolata solo su tre piani (più uno sotterraneo), alta non più di 18 metri, che tiene insieme il meglio degli ospedali dell'Ottocento costruiti a padiglioni e le realizzazioni del Novecento a monoblocchi. Un ruolo fondamentale lo giocheranno gli alberi: «Sono la metafora della guarigione, io ne ho previsti 10 mila — spiega Piano, 75 anni —. Tutto sarà pensato per mettere al centro il malato. Persino il tavolo delle stanze, dove il paziente mangia, non sarà collocato in un angolo contro il muro, ma in una sorta di bovindo affacciato sul verde esterno. E, in generale, l'altezza delle costruzioni non supererà quella degli alberi».
L'area in gioco, per dimensioni, vale 500 campi da calcio. Il progetto dell'ospedale-modello è lo stesso che Piano aveva presentato nel marzo 2001 al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della salute Umberto Veronesi. Adesso il sogno dell'architetto può diventare realtà. Nella gara d'appalto per la progettazione e la costruzione della Città della salute saranno recepite le indicazioni di Piano. «Sarò il custode e il guardiano della realizzazione dell'opera», sottolinea l'architetto che ieri ha illustrato le sue idee proprio nell'ex area Falck (il cui progetto complessivo di riqualificazione è firmato proprio da lui). «Sarà il cantiere — azzarda Piano — più bello della mia vita».
Presenti all'evento, sotto il suggestivo scheletro d'acciaio del vecchio laminatoio, anche il governatore Roberto Formigoni, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i presidenti dei due istituti Alberto Guglielmo (Besta) e Giovanni De Leo (Tumori). È l'occasione per fare il punto sull'avvio dei cantieri che prevedono un investimento da 450 milioni di euro (di cui 330 a carico della Regione Lombardia, 40 dallo Stato e 80 da privati). È imminente — come annuncia il sindaco di Sesto Monica Chittò — la firma della convenzione urbanistica con Sesto Immobiliare per il passaggio di proprietà dell'area, e di conseguenza l'intesa Sesto-Regione per la cessione a quest'ultima dell'area bonificata. L'avvio delle procedure di gara è previsto per gennaio. I tempi tecnici considerati nel cronoprogramma segnano come tappe il 2014 per la fine delle bonifiche ambientali e l'avvio del cantiere, il 2017 per la fine dei cantieri, il 2018 per il collaudo e il trasloco. In mezzo, però, ci sarà il cambio alla guida della Regione Lombardia, travolta dalle inchieste giudiziarie. L'ultima è di ieri.
Postilla
Su eddyburg basta cercare – e neppure senza troppa attenzione - nelle pagine milanesi per trovarne dozzine, di articoli che davano ormai in dirittura d’arrivo la vicenda della cosiddetta Città della Salute. A quest’ultimo riaffiorare della faccenda, guarnita dalla potenza comunicativa del workshop Renzo Piano (a cui la benedizione del discutibile Formigoni non fa proprio benissimo) si possono se non altro porre un paio di questioni, proprio a partire dalle ultime battute: le bonifiche ambientali e il cambio di guida alla Regione. Durante le primarie di quello che presumibilmente sarà lo schieramento al governo nella prossima legislatura, e che dovrebbe gestire la nascita delle cittadella, il fortissimo candidato Andrea Di Stefano ne ha più volte criticato la localizzazione nell’area dismessa industriale proprio per la questione bonifiche: costi spropositati, e incertezza sui risultati, col rischio o di trascinare la faccenda all’infinito, o anche peggio di non garantire affatto un contesto pulito per il cosiddetto fiore all’occhiello della sanità. Meglio, e questa è anche l’opinione di tanti, tantissimi operatori sanitari (ovvero più interessati alla salute che alle cittadelle), riorganizzare le sedi attuali riqualificando e ricostruendo. Il che si mescola anche ad alcune ottime ragioni pure in fase evolutiva, e che riguardano il territorio metropolitano: ha senso ed equilibrio continuare con la concorrenza fra cordate locali, il caso per caso, il vagare continuo, dei grandi poli di servizio, vuoi per la salute, vuoi per la ricerca, l’istruzione ecc. ecc. Proprio la prospettiva di un governo che teorizza meno l promozione degli interessi particolari, dovrebbe far riflettere, nel metodo se non nel merito specifico. Per adesso, dietro la scintillante comunicazione dello studio dell’archistar, c’è solo in trionfo di una serie di soggetti, e la sconfitta sostanziale della città, se non ancora della salute (f.b.)
Il sindaco di quella che fu chiamata Repubblica serenissima ritiene 40 milioni di euro un prezzo sufficiente per cedere a privati un’area su cui si gioca il futuro della città. Nessuno lo fermerà? Nessuno pagherà un “errore di valutazione”? Temiamo di no. E alla benedizione del Capo dello Stato si è aggiunta oggi quella del Patriarca. La Nuova Venezia, 18 dicembre 2012
Non ci raccontano chi ci guadagna e chi ci perde, altezze a parte: né a chi e a che cosa serve aggiungere metri cubi a metri cubi. E che cosa ciò comporta per la città e i suoi abitanti. E la chiamano informazione. La Repubblica, 18 dicembre 2012
Se non fosse un pezzo di storia della classe operaia, un simbolo unico di archeologia industriale, forse tutto sarebbe stato più semplice. L’isola Seguin, a ovest di Parigi, è stata a lungo la fabbrica modello di Renault. Da questo lembo di terra piantato in mezzo alla Senna, con un parco che ha ispirato pittori come Delacroix e Turner, sono incominciate a uscire le prime autovetture del marchio francese già alla fine degli anni Venti. Dopo che l’ultima catena di montaggio è stata chiusa nel 1992, l’isolotto è rimasto abbandonato, al centro di enormi appetiti immobiliari.
Nessuno è riuscito finora a far rinascere l’Ile Seguin, teatro di epiche lotte sindacali del Novecento francese. Gli abitanti di Boulogne-Billancourt, il quartiere di cui fanno parte gli ex stabilimenti ormai distrutti, parlano scherzosamente di una “maledizione” che nel tempo, tra conflitti burocratici e mobilitazioni di ambientalisti, ha fatto naufragare i piani di affaristi svizzeri, americani, e persino dell’imprenditore francese François Pinault che voleva costruire qui la sua fondazione per l’arte contemporanea ma ha poi deciso di ripiegare sulla più ospitale laguna di Venezia.
L’ultimo a farne le spese è stato Jean Nouvel. Incaricato nel 2009 di immaginare l’edificazione della zona, l’archistar francese non ha ricevuto una calorosa accoglienza. Il suo progetto originale è stato sottoposto a una serie di ricorsi amministrativi fino a essere definitivamente bocciato ieri da un referendum popolare. I residenti hanno infatti votato contro la prima ipotesi presentata da Nouvel, che prevedeva di erigere sull’isola prima cinque, poi quattro grattacieli, da lui definiti “castelli”, alti fino a 120 metri. Nella consultazione ha vinto invece una soluzione di compromesso immaginata sempre dall’architetto per cercare di chiudere le polemiche: una sola torre di 110 metri.
Non è una novità. Il dibattito sull’altezza dei palazzi caratterizza da sempre la Ville Lumière che, salvo rare eccezioni, predilige uno sviluppo urbanistico orizzontale. Ma è comunque uno smacco per uno dei più noti architetti francesi, premio Pritzker nel 2008. «L’importante è che sia rimasta una skyline ben definita e la forma a nave dell’isola», ha commentato Nouvel, incassando con eleganza il responso popolare. Circa metà degli abitanti di Boulogne-Billancourt ha partecipato al referendum, considerato un successo dal sindaco di destra, Pierre-Christophe Baguet, mentre gli oppositori sostengono che l’alto astensionismo non conferisce legittimità al risultato.
Questa volta però sembra davvero il momento di posare la prima pietra. «Ora finalmente possiamo costruire» ha detto il primo cittadino che ha indetto un po’ a sorpresa il referendum per mettere a tacere i gruppi di residenti contrari e chi lo accusa di voler «cementificare» i dodici ettari sulla Senna. Oltre a nuovi uffici, commerci, un parco pubblico, il piano urbanistico prevede di trasformare l’isola in una “Valle della Cultura”, con un polo artistico, una città della musica, una multisala di cinema e un’area dedicatalle arti circensi. Un pezzetto di terra è stato lasciato agli ex operai di Renault che, con un po’ di nostalgia, continuano a presidiare i luoghi di quella che un tempo era chiamata “usine-paquebot”, la fabbrica-nave dalla quale negli anni Sessanta uscivano fino a mille nuove automobili al giorno.
Non ci sarà un museo ma si potrà visitare un centro di documentazione con qualche reperto storico. Un piccolo tributo al passato che sopravviverà sotto al “castello” futurista voluto da Nouvel, lontano ricordo dell’isola che non c’è più.
L’Unità, 16 dicembre 2012 (f.b.)
Seguo il telegiornale con gli occhi sbarrati. Mia figlia Sara, otto anni, mi chiede cosa sia successo. Le parlo, con tutti il tatto possibile, di una scuola in America, di bambini più piccoli di lei uccisi da un ragazzo di vent’anni. «Non ho capito - mi ripete - Cos’è successo?» Ed è giusto che non capisca, perché questa strage non significa nulla, non ha senso, è un paesaggio assurdo che sovverte le leggi del quotidiano. È qualcosa che mina la ragionevolezza, che frustra la mia capacità di spiegarle il mondo, di renderglielo domestico, assennato, socievole.
Dovrei parlarle dell’ossessione tutta statunitense per la ricerca della felicità, vero e proprio diritto costituzionale. Costi quel che costi. E del suo naturale corollario, quello all’autodifesa, al diritto (il più inviolabile di quelli della carta costituzionale) a girare armato. Cercare la felicità restando vivi, difendendosi. Ma anche cercare la felicità a costo della vita degli altri. Già nelle ore successive alla strage la soluzione della lobby delle armi era chiara: la colpa è di una legislazione che proibisce agli insegnanti di essere armati. Ci vogliono più armi, non meno armi. Per difendersi. Per essere felici. Psicologi d’accatto, che tempesteranno gli show televisivi nei mesi a venire - in America come qui da noi - già giustificano l’assurdo: il killer era autistico, malato, psicopatico.
Certamente il rapporto con la madre era irrisolto. E poi, diciamocelo, che ci faceva la madre con quelle armi in casa? Cercare un senso a questa strage, con malcelate giustificazioni misogine che nauseano, è parte della cortina di fumo che nasconde l’evidenza: di ragazzi fragili, di psicopatici, di repressi o di chi diavolo volete voi, ne è pieno il mondo. Ma fingere di dimenticare che la psicologia di un uomo armato di un coltello è assai differente da quella di un uomo armato di un fucile mitragliatore è connivenza. Gli oggetti non sono innocenti, un’arma meno che mai. Se c’è una pistola, prima o poi sparerà. È stata creata per quello, non ha altre funzioni. Quei bambini morti stanno sulla coscienza di una nazione che non vuole superare il suo mito fondativo, che non vuole riconoscere quanto sia necessario perdere qualche diritto individuale per difendere quello collettivo.
Fa specie che queste stragi - esaltazioni della individualità - vengano perpetrate proprio in luoghi che celebrano la collettività: scuole, asili, centri commerciali, cinema. Queste vittime, questi inespressi postini, barbieri, operai, parrucchieri, premi nobel, sportivi, questi talenti che non conosceranno mai la felicità, sono un tributo all’egoismo e, peggio, la più cinica campagna pubblicitaria per l’acquisto di nuove armi. Per difendersi, ovviamente. Per essere felici, nel nome della paura. Da noi questo non succederà mai, mi viene detto. Se non è ancora accaduto, però, è perché esiste un sistema sanitario nazionale che cerca di aiutare i ragazzi fragili, quello che molti vorrebbero smantellare.
Se non è accaduto ancora è perché Cesare Beccaria ci ha spiegato l’insensatezza della pena di morte, quella che molti vorrebbero ripristinare. Se ancora non accade è perché resiste ancora una cultura della solidarietà che è sempre più compressa sotto i colpi di un individualismo egoista e becero. E su tutto, inutile girarci attorno, perché resiste una legislazione che difende prima di tutto la collettività dal singolo. Ma, sia ben chiaro, i nostri figli sappiamo ucciderli lo stesso. Tagliando gli investimenti sulla manutenzione ordinaria delle nostre scuole elementari o costruendo licei e studentati universitari irrispettosi delle norme antisismiche. Poi, al primo terremoto, alla prima strage di innocenti, possiamo sempre prendercela col destino. Felici di non essere americani.
Nota: per chi magari se lo fosse chiesto leggendo l'anomalo occhiello che ho scelto, trattasi di parafrasi della celebre battuta, pronunciata mi pare da Lee Van Cleef ne Il Buono, il Brutto, il Cattivo, e che in originale suona: "when a man with a gun meets a man with a winchester, the man with the gun is a dead man walking". Qualunque considerazione è liberamente lasciata al lettore (f.b.)