A proposito delle spinte perché la nova legge urbanistica della Toscana venga “ammorbidita”, eviti di tradurre in regole quello che deve – seconda una qualificata lobby - rimanere una chiacchiera Greenreport, 3 dicembre 2013, con postilla
Qualunque gruppo di pressione si ingegna come meglio può in attività di lobbying. Gli ordini professionali non fanno eccezione. Tra i servizi che erogano ai loro affiliati contemplano la capacità di esercitare la pressione più efficace sulle autorità competenti per orientare la formazione e la messa in opera delle politiche pubbliche nella direzione più confacente ai timori, alle aspettative e alle opportunità dei loro affiliati così come alle loro concezioni o visioni del mondo e delle questioni oggetto di intervento pubblico. In ciò, nulla di illegittimo: al contrario, è il sale di un sistema politico-amministrativo sanamente pluralistico che non viva nel dogma illusorio di una rappresentanza politica autosufficiente.
Non c’è dunque da stupirsi, se anche gli ordini professionali intendono esercitare la loro pressione dentro e fuori le procedure di concertazione previste dall’ordinamento regionale, senza limitare la loro fatica a fasi predeterminate del procedimento legislativo bensì spaziando sull’intero arco temporale del suo svolgersi. Una consapevole e ben studiata azione di lobbying è un flusso di interventi di pressione, non una loro semplice sommatoria: per cui anche se alla fine di una faticosa riunione di concertazione, all’amministratore pubblico di turno potrà apparire di aver acquisito una qualche risultato finalmente pacifico, chi fa lobbying riterrà del tutto naturale continuare a proporre le proprie tesi e le proprie soluzioni fino quando il processo decisionale non abbia dato evidente riconoscimento di un qualche apprezzabile successo dell’azione pressoria esercitata.
E’ tuttavia evidente come il lobbying, per quanto legittimo e fisiologico nel processo legislativo, nulla abbia a che vedere con la democrazia partecipativa. Da un lato il lobbying punta al risultato specifico e puntuale, e soprattutto predefinito (l’emendamento a una legge, la delegittimazione parziale o totale di un progetto legislativo, il rinvio di una decisione politica). Non mira certo ad aprire una qualche discussione pubblica in vista di una definizione condivisa di interesse pubblico: vuole conseguire un risultato predefinito e preme allo scopo. Dall’altro, per essere efficace, l’azione di lobbying formula giudizi di valore proponendoli come giudizi di fatto. Qualunque innovazione modifichi un assetto di relazioni, competenze e poteri preesistenti alimenterà sempre un movimento contrario che ne dichiarerà il destino fallimentare pur in assenza di qualunque argomento e prova a conforto. Ma il lobbying sa anche bene che solo “sparando alto e nel mucchio” si ottiene attenzione dai media e che solo in questo modo si può tentare di influire su una classe politica quando questa sta ancora decidendo se e quali orientamenti assumere su una data tematica conflittuale e, a monte, se e come definire in proposito una qualche “visione politica”.
Un simile scenario si va profilando attorno alla legge toscana di aggiornamento delle norme sul governo del territorio. I comunicati stampa e gli articoli a corredo che capita di leggere in questi giorni sulla protesta degli ordini professionali versus la proposta di legge regionale ne sono una specifica ma palmare conferma. E’ vero che le pratiche legittimate di concertazione costituiscono ormai una costruzione tanto barocca da tollerare ulteriori inclusioni e coinvolgere anche gli ordini professionali competenti e non solo enti locali e categorie economiche e sociali. Ma, delle regole ancora vigenti, non se ne può far colpa a chi ha dovuto applicare una normativa preesistente al procedimento legislativo in questione.
In ogni caso, anche quando la “concertazione” (esperita o auspicata) è garantita essa si configura semplicemente come la legittimazione delle attività di lobbying, nel tentativo di farle uscire dai corridoi e di renderle palesi nelle aule della decisione politico-amministrativa. Ma con un vizio intrinseco: l’obbligo implicito di postulare che le posizioni delle organizzazioni concertanti siano sempre e comunque quelle dei loro formali mandatari, una coincidenza che empiricamente richiederebbe verifiche specifiche ma raramente possibili e tanto meno tollerate dalle organizzazioni in parola (anche se la questione della rappresentatività effettiva e dunque della legittimazione ad agire non può riguardare solo il mondo e le istituzioni della politica: specie quando si indicano numeri di partecipanti, di sottoscrittori di petizioni e di assemblee tanto importanti quanto inaccertabili).
Orbene, ciò che si può adesso auspicare è che il parlamento regionale assuma la propria piena centralità rappresentativa generale e non si lasci invischiare nel gioco delle pressioni contrapposte e dei loro riflessi mediatici. E che valuti con piena e coerente consapevolezza le ragioni che hanno indotto il governo della Toscana a por mano a una legge di sistema sulle regole non negoziabili che debbono disciplinare i destini e l’uso collettivo del comune patrimonio territoriale. Sono le ragioni che, tra tanti, ho cercato di riassumere su queste colonne nei mesi scorsi e che i Comuni toscani hanno contribuito in misura determinante a scrivere con l’ausilio della loro Associazione proprio in nome della loro responsabilità di rappresentanti generali della comunità toscana condividendo il disegno del governo regionale.
Ragioni che si chiamano – tra le altre – contrasto al consumo di suolo; correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge; informazione e partecipazione delle popolazioni che abitano e vivono le diverse realtà territoriali; monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e valutazione della sua efficacia; assunzione definitoria e operativa della nozione i patrimonio territoriale come fondamento normativo e strategico delle strumentazioni di governo; pianificazione di area vasta per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a scala translocale; raccordo funzionale tra pianificazione territoriale e urbanistica e politiche per la casa incentrate su una nuova dotazione di alloggi sociali; prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. Ciascuno di questi lemmi trova nella nuova legge una declinazione normativa che fa tesoro dell’esperienza compiuta dalla legge 1, in parte consolidando e rafforzando, in parte innovando per garantire effettività ai suoi principi e al perseguimento dei suoi obiettivi.
Troppo spesso la legge vigente è apparsa, per l’appunto, un manifesto accademico, non capace di intercettare, proprio sul piano della cultura amministrativa, i rudi interrogativi di chi premeva sugli uffici tecnici dei Comuni per sapere se e quanto “murare”. Massimo Severo Giannini e i suoi allievi parlavano, oltre mezzo secolo fa, di copertura amministrativa delle leggi. Ebbene la legge 1 quella copertura se l’è dovuta conquistare sul campo, più che nella sua stessa strumentazione normativa. E ha fatto fatica. Molta fatica nel perseguire tale obiettivo.
Al di là dell’insano connubio tra oneri di urbanizzazione e ordinaria finanza locale; al di là delle difficoltà municipali di prospettazione strategica; al di là dell’incultura e della fragilità di un ceto edilizio-imprenditoriale sovente inconsapevole, quando non rapace, dell’irriproducibile materia prima con cui ha a che fare; al di là di una nozione di sviluppo non solo alternativa alla “decrescita felice” ma anche, e più semplicemente, a caccia di occasioni congiunturali di occupazione territorialmente… pur che sia (quante aree artigianali-industriali sono divenute concessionarie di automobili?); al di là di un mercato immobiliare che ha a lungo perseverato nelle pratiche espulsive dagli insediamenti urbani più antichi verso nuove consunzioni del territorio rurale, trasformando i centri storici in meri luoghi di loisir commerciale da fine settimana; al di là di un’affannosa ricerca di aree produttive tutte le volte che un (raro) investitore straniero si affaccia sullo scenario toscano, quasi che la pianificazione territoriale dei Comuni debba certificare la propria insussistenza; al di là delle pulsioni sui territori costieri e insulari e del loro impervio contenimento; al di là dei tantissimi sindaci virtuosi che si sono misurati con una legge complicata, che richiedeva loro una visione del territorio, del paesaggio e dei valori comuni quanto mai difficile a scala municipale; ebbene, al di là di tutto questo universo di temi, vicende e problemi, la legge 1 non ha fallito, semplicemente non è uscita dal rodaggio. Una sorta di adolescente che rinvia le responsabilità dell’età adulta.
A cominciare da un quesito cruciale per il territorio toscano e per il suo paesaggio, che rozzamente possiamo riassumere così: dove comincia e finisce la “città”? Dove comincia la “campagna”? C’è una linea che abbia il coraggio culturale e strategico di una simile demarcazione per stabilire nuove e ordinate connessioni? Dove e come tracciarla? E’ una scelta normativa essenziale, perché senza quella linea non c’è “Toscana” e non c’è paesaggio e non c’è sviluppo. C’è un’ibridazione con altri paesaggi sociali tra i quali quello toscano deve poter non trascolorare e mantenere la piena riconoscibilità delle proprie città e delle proprie campagne. E’ questo il genere di sfide che il legislatore toscano è chiamato a non rimuovere né ad affidare a frammentarie transazioni, se vuole ribadire il senso stesso della sua autorità istituzionale.
E’ un compito grave ma urgente, anche perché la proposta toscana fa da apripista a una di quelle riforme strutturali che l’Italia da troppi decenni rinvia lasciandone l’intero gravame sulle spalle delle regioni. Per cui il Consiglio regionale ha l’occasione per aprire un nuovo orizzonte normativo di rilievo nazionale, in sintonia con la più evoluta legislazione.
Ancora sul pasticcio governativo di una riforma degli enti locali che sta sprecando l'ennesima occasione di far qualcosa di buono su un tema cruciale. Il manifesto, 3 dicembre 2013
Le città metropolitane furono previste dalla legge 142 del 1990 per dare un indispensabile governo unitario alle conurbazioni cresciute a ridosso delle grandi città, dando vita ad un continuum urbano che ha oltrepassato persino i confini delle province, rendendo inadeguati al governo di queste aree tanto il comune capoluogo che la stessa provincia. La legge del 1990 attribuì alle regioni il potere di delimitarne i confini, nel logico presupposto che non potessero coincidere con quelli provinciali, perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di nessun nuovo ente metropolitano. Tuttavia, l'inerzia delle regioni (che non hanno interesse a far nascere enti che metterebbero in ombra esse stesse) e del governo (che, incomprensibilmente, non ha mai attivato i propri poteri sostitutivi per scavalcare l'inerzia regionale) ha di fatto bloccato la nascita delle città metropolitane.
È per queste ragioni che il governo ha creduto bene, con il decreto legge 95 del 2012, di abrogare la precedente normativa (poi trasfusa nel testo unico del 2000) e di introdurne una che si supponeva di immediata applicazione, ma che è stata annullata dalla Corte costituzionale.
Si è così giunti al paradosso: le città metropolitane che, secondo l'art. 114 della Costituzione, «costituiscono» la Repubblica, non hanno allo stato alcuna disciplina. Ma ancora più paradossale è la pseudo-soluzione a questo grande pasticcio contenuta nel disegno di legge Delrio - attualmente all'esame della Camera, che lo sta profondamente cambiando, perché la sua approvazione nel testo originario darebbe il colpo esiziale ad ogni prospettiva di buon governo delle città metropolitane.
Questo disegno di legge, nonostante le molte modifiche, prevede ancora: 1) che le città metropolitane coincidano con le province (vanificando così la ragione stessa della loro esistenza: tanto vale, a questo punto, tenersi le province); 2) che se un terzo dei comuni non aderiscano alla città metropolitana, vi sia un'assurda duplicazione di enti perché solo per questi comuni resterebbe in piedi la provincia; 3) che non vi sia elezione diretta degli organi da parte dei cittadini: gli statuti potranno anche prevedere l'elezione degli organi della città metropolitana da parte dei cittadini, ma a condizione che si disarticoli il comune capoluogo; 4) che il sindaco metropolitano sia dunque quello del capoluogo e che il «consiglio metropolitano» (l'organo di «indirizzo e controllo», ma con funzioni anche di gestione, in quanto il sindaco metropolitano potrà attribuire specifiche deleghe ai consiglieri) sia composto da soli professionisti della politica (cioè sindaci e consiglieri dei comuni eletti dai consiglieri dei comuni che compongono la città metropolitana). Questo anche perché sia il sindaco che i consiglieri della città metropolitana (ossia del più grande ente territoriale dopo la regione) dovrebbero svolgere il loro incarico (che comporta enormi responsabilità) a titolo gratuito.
Inoltre, in questo modo non solo si inibirebbe una delle poche cose buone della legge sui sindaci del 1993 - cioè la possibilità di scegliere personalità esterne instaurando un rapporto proficuo con le competenze della società civile - ma si creerebbe un ente che già sulla carta non potrà far valere l'interesse dell'area vasta (ossia della città metropolitana), in quanto ogni eletto nel consiglio (e quindi anche i delegati, ossia gli assessori) sarà naturalmente spinto a far prevalere gli interessi della piccola comunità di abitanti che lo ha eletto direttamente e in cui svolge le funzioni di consigliere.
La razionalizzazione del sistema degli enti locali è una delle priorità nazionali e l'istituzione delle città metropolitane è certamente uno strumento essenziale. Ma per fare ciò che serve (scrivere una buona legge) occorrerebbe che ciò che resta della classe dirigente di questo paese comprendesse che la politica deve tornare a occuparsi della soluzione dei problemi concreti dei cittadini, smettendola di confonderla con l'arte di confezionare prodotti (quali che siano) per venderseli mediaticamente, tenendo presente che chi ben comincia è «solo» alla metà dell'opera; figuriamoci quando si comincia male. Ma sarà possibile in questo paese, almeno una volta, cominciare presto e bene?
Riferimenti
Sull'argomento (città metropolitane, province, governo d'area vasta) su eddyburg c'è molto materiale. Vedi in particolare i documenti prodotti per il secondo Seminario di eddyburg, raccolti nella cartella Scuola di eddyburg, e l'eddytoriale n. 159 Lucertole e coccodrilli
Saskia Sassen ce l’aveva raccontato: è un effetto perverso della globalizzazione al servizio del turbocapitalismo: rafforzare l’infrastuttura globale” e abbandonare il resto al degrado a al dominio della motorizzazione individualeUn'analisi di Legambiente, ma pochi i governanti che si oppongono; cominciano però le proteste dei governati. Il Fatto quotidiano, 2 dicembre 2013
Sulle ferrovie è sempre più un'Italia a due velocità. Da una parte il trasporto locale è in fibrillazione per le annunciate soppressioni. Legambiente accusa: "Priorità solo all'alta velocità". Trenitalia e Ntv pagheranno il 15% in meno per la rete, mentre Moretti vuole tassare i pendolari. Intanto è sempre più alto il rischio di procedura di infrazione alla Corte Ue: "Passeggeri poco tutelati"
I nuovi orari arriveranno solo il 15 dicembre, ma il trasporto ferroviario locale vive settimane di fibrillazione per le annunciate soppressioni di corse e tratte: nuove cancellazioni all’orizzonte in 10 Regioni stanno provocando proteste tra i pendolari e sono oggetto di interrogazioni e interpellanze parlamentari. Il fenomeno dura da anni: secondo Legambiente, in 13 Regioni tra il 2011 e il 2012 si è assistito ad un taglio di treni e corse in media del 5% ogni anno, che ha toccato punte del 15% in Puglia. Ferrovie dello Stato annuncia l’arrivo di nuove carrozze destinate alle tratte locali, ma da sempre più parti si punta il dito contro l’alta velocità: “Si dà priorità ai treni veloci, investendo e migliorando i tratti extra-urbani della rete – spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – per quelli urbani, invece, i fondi latitano e ritardi e disagi aumentano”. Il tutto mentre il governo fa uno sconto del 15% sul canone per l’uso dell’infrastruttura per l’Alta Velocità a Trenitalia e Ntv e l’Europa pressa l’Italia perché si adegui alle direttive comunitarie sui diritti dei passeggeri: Roma è a rischio deferimento davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Gli ultimi tagli alle tratte locali
A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. Il Piemonte ha annunciato nuovi tagli per risparmiare 5 milioni: a meno di ripensamenti, dal 14 dicembre cesseranno il servizio 18 treni che collegano la regione con la Liguria, creando disagi a oltre 2mila pendolari. Esemplare, poi, la vicenda degli interregionali Milano-Venezia. A luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali e creando disagi a circa 10 mila utenti. “Ora la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona – spiega Dario Balotta, responsabile trasporti Legambiente della Lombardia – e non garantendo le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i 4mila pendolari giornalieri tra le due regioni saranno costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costa dal doppio al triplo di un interregionale. Un vero favore all’Alta velocità”. A settembre, invece, era toccato alla Calabria: 14 i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dalFriuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera. “Durante il periodo natalizio il servizio sarà assicurato”, ha fatto sapere il sottosegretario ai Trasporti, Erasmo D’Angelis. Ma per l’anno nuovo non c’è certezza.
Ma il ministero fa lo sconto a Trenitalia e Ntv
Fino al 15% di corse tagliate in un solo anno
L’Italia a due velocità
“Le risorse nazionali per il trasporto ferroviario, erogate dallo Stato alle Regioni, sono diminuite a partire dal 2010 – spiega ancora Zanchini – e a subirne le conseguenze sono i treni locali e gli intercity”. Il risultato è un Paese a due marce: da un lato i pendolari costretti a viaggiare nell’inferno delle tratte locali in treni lenti, sporchi e sovraffollati; dall’altro i passeggeri dell’Alta Velocità, coccolati da standard di qualità elevati e in costante miglioramento. “Per far capire la differenza – si legge ancora su Pendolaria 2012 – tra Roma e Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17 mentre nel 2012 sono ben 76 le corse di Frecciarossa, a cui si sommano le 8 Italo. Sull’Aalta velocità l’aumento dell’offerta in 5 anni è pari a +395%”. Poi c’è il trasporto pubblico locale: “Nello stesso periodo a Genova i treni che attraversano la città da Voltri a Nervi sono passati da 51 a 35, su una linea percorsa ogni giorno da 25mila pendolari con ulteriori tagli effettuati anche quest’anno. A Roma, i 65mila pendolari della linea Fiumicino Aeroporto-Fara Sabina hanno visto cancellare 4 treni, quando la linea è progettata per 50mila viaggiatori al giorno”.
La ricetta di Moretti: “Tassare i pendolari”
L’Ue: “Italia a rischio deferimento”
Ogni giorno ce n'è una nuova. Magari con la fine delle "larghe intese" sarà tutto diverso? <sarebbe bello poterlo sperare. Il Fatto quotidiano, 30 novembre 2013
I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia. Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze, a Roma o altrove ne hanno fatto ‘cosa loro’ – ma al servizio della società. In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell’uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell’integrazione e della dignità di tutti.
dell’arte che lavorano al Polo Museale Fiorentino e che aderiscono alla Cgil e alla Cisl: da oggi raccolgono firme nel piazzale degli Uffizi per protestare contro la privatizzazione della fruizione del Corridoio Vasariano, il meraviglioso ‘passaggio segreto’ dei granduchi che congiunge Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti passando attraverso gli Uffizi e sorvolando Ponte Vecchio.
I lavoratori del Polo Museale contestano la decisione della soprintendente Cristina Acidini (nota per aver acquistato il Crocifisso falsamente attribuito a Michelangelo e aver approntato un agile prezzario per la svendita del patrimonio storico e artistico che le è affidato) di affidare le visite guidate del Vasariano al concessionario: Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, presieduto da Gianni Letta. Essi fanno notare che all’interno del Polo ci sono forse più che sufficienti e che non ci sarebbe alcun bisogno di privatizzare. Questo è un problema più generale, e riguarda l’assurdo e colpevole sotto-utilizzo degli Ava (Addetti alla Vigilanza e Accoglienza): non di rado superqualificati giovani studiosi (con dottorati di ricerca e master assortiti) lasciati a vegetare sulle sedie dei musei di tutta Italia. La seconda denuncia dei lavoratori fiorentini riguarda le assurde tariffe annunciate dalla Acidini per il servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e (tenetevi forte) 16 il… gratuito!
Lasciamo dunque la parola al comunicato sindacale: «La Fp Cgil e la Cisl Fp hanno avanzato una controproposta che prevede l’offerta di visite guidate garantite dal personale ministeriale, ovvero dal personale interno alla Soprintendenza fiorentina, come già avvenuto in passato con grande successo. Una soluzione del genere eliminerebbe i costi aggiuntivi per l’utenza, che pagherebbe tutt’al più il solo biglietto di ingresso alla Galleria degli Uffizi. I lavoratori della Soprintendenza non rivendicano benefici economici per se stessi, desiderano piuttosto che i cittadini e i turisti siano esentati da un evitabile balzello. Rivendichiamo con slancio e passione la funzione pubblica del nostro lavoro. È nostro desiderio poter fornire un servizio pubblico, gratuito e qualificato, e poter raccontare il patrimonio che custodiamo. Reclamiamo l’applicazione dell’art. 3 della Costituzione, ovvero la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Crediamo che in un periodo di grave crisi economica sia un dovere delle amministrazioni pubbliche utilizzare al meglio il proprio personale e non esigere dalla cittadinanza e dai turisti oneri impropri».
Non si potrebbe davvero dire meglio. Ma non si sarebbe detto tutto, senza dare notizia della replica della Soprintendente: che è davvero illuminante. E ancor più per la forma che per i contenuti.
Cristina Acidini si è detta «perplessa», e ha sottolineato che «il possibile intervento di personale esterno all’Amministrazione coinvolgerebbe il concessionario, che già dal 1998 cura per nostro conto tutti i servizi aggiuntivi». Insomma, giù le mani dalla nostra amata Civita. E la cosa davvero importante da notare è che se la carta intestata del comunicato è del Ministero per i Beni Culturali, la firma è quella dell’ex giornalista dell’edizione toscana del Giornale che oggi cura la comunicazione della Soprintendente, ma essendo nell’organico di Civita.
E cioè: un dipendente di Civita difende gli interessi di Civita per bocca del soprintendente, e usando il simbolo del Mibac. Più che il pieno sviluppo della persona umana sembra il pieno sviluppo degli interessi privati attraverso la svendita del patrimonio pubblico.
Forse dopo ben quindici anni alla soprintendenza di Firenze farebbe bene cambiare il concessionario. O la soprintendente.
Lo sanno, quelli che hanno vissuto ieri in Campania momenti di spavento, d’essere esposti al rischio. Non ci vogliono pensare, ma lo sanno. Sanno che è pericolosa la loro terra, da sempre colpita dai terremoti. Sanno che sono pericolose, troppo spesso, le loro case fragili. E non serve a niente affidarsi alla buona sorte. È da tempo, spiega Emanuela Guidoboni che con Gianluca Valensise ha scritto un saggio monumentale sui terremoti avvenuti in Italia dall’Unità a oggi, che viene registrata una intensificazione di attività sismica. Tutto normale, per i sismologi. È la storia del nostro Paese. Meno a rischio del Giappone, dell’Armenia, del Cile o di alcune aree della Turchia, ma comunque da sempre colpito da tremendi scossoni: 34 terremoti devastanti più 86 «minori» dal 1861 ad oggi, per un totale di circa 200 mila morti e 1.560 Comuni (uno su cinque) bastonati più o meno duramente.
Spiega il rapporto Ance/Cresme del 2012 sullo stato del territorio italiano che una delle aree più soggette ai fenomeni sismici è appunto l’Appennino a cavallo tra la Campania e il Molise. Dove già fu durissima la batosta inflitta dalla natura nel 1980, quando venne sconvolta l’Irpinia e le aree circostanti. Stando al dossier, le abitazioni considerate a rischio in Molise sarebbero 158.812, in Basilicata 264.108, in Abruzzo 421.953, in Calabria 1.206.600, in Campania 2.148.364, in Sicilia 2.479.957. Da incubo. Più le scuole, più gli ospedali…
Il consiglio nazionale dei geologi conferma: « Il rischio sismico maggiore riguarda le regioni della fascia appenninica e del Sud Italia. Al primo posto c’è la Campania, in cui 5,3 milioni di persone vivono nei 489 Comuni a rischio sismico elevato. Seguono la Sicilia, con 4,7 milioni di persone in 356 Comuni a rischio e la Calabria, dove tutti i Comuni sono coinvolti, per un totale di circa 2 milioni di persone».
È una storia, purtroppo, vissuta sulla propria pelle da milioni di persone. Con conseguenze pesantissime non solo in termini di vite umane. Basti leggere un rapporto della Protezione Civile del 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale (…) Attualizzando tale valore si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno».
Una cifra spropositata. Che ad ogni nuovo terremoto, e Dio sa quanti ne abbiamo avuti (negli ultimi decenni, anzi, la loro frequenza è stata perfino più bassa rispetto ai primi trenta o quarant’anni del secolo scorso) ci spinge a ripetere la solita domanda: non avremmo risparmiato tante vite umane e tanti disastri se ci fossimo preoccupati di più della prevenzione, del rispetto delle regole antisismiche nell’edilizia, della buona manutenzione quotidiana? Tanto più che le conseguenze più tragiche non sono dovute solo alla forza distruttiva di questa o quella «botta» sismica.
Come ricordava l’anno scorso in un articolo il sismologo Max Wyss, Direttore della World Agency for Planetary Monitoring and Earthquake Risk Reduction, «sono i crolli degli edifici e non i terremoti a uccidere». Una forzatura? Non troppo. Per capirci: lo stesso identico terremoto della stessa identica potenza può essere vissuto con un brivido in cima al grattacielo di 55 piani Shinjuku Mitsui Building che a Tokyo nel 2009 oscillò senza danni fino a un metro e 80 centimetri sotto la spinta di un sisma del 9° grado della scala Richter e può creare migliaia e migliaia di morti in una città sgarrupata e costruita alla meno peggio senza alcun criterio di sicurezza.
Ed è questo a spaventare, quando c’è una scossa forte, gli abitanti di quella bruttissima megalopoli che copre i dintorni di Napoli fino a Caserta. Sanno di vivere in una immensa periferia di condomini tirati su troppo spesso con materiale di scarto nella scellerata convinzione che «se deve capitare, capita» e che comunque «ci penserà San Gennaro». Sanno che gran parte del patrimonio edilizio è vecchio. E quando ha meno di mezzo secolo è spesso ancora più fragile, con quel cemento armato di seconda categoria fornito troppo spesso da imprese legate alla camorra, degli edifici più antichi. Per non dire dell’«area rossa» vesuviana: al primo censimento del 1861 la popolazione era di 107.255 persone, quasi tutte concentrate sulla costa. Al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi sarebbero oltre 580 mila.
Certo, ci vogliono una montagna di quattrini e un sacco di anni per risanare una realtà a rischio come quella, che vede in lontananza un Vesuvio insolitamente quieto da oltre mezzo secolo. E certo non è facile cominciare oggi, in questi tempi di crisi. Ma occorre ben partire, con quest’opera di risanamento. Così come è indispensabile che domani, passato (speriamo) lo spavento, certi politici non ricomincino a cavalcare le peggiori (e suicide) richieste degli abusivi. Ricordiamo ancora un manifesto affisso tre anni fa ad Ischia: «Vota abusivo!». Ecco, spaventi come quelli di ieri dovrebbero servire a capire che occorre davvero voltare pagina.
La recente e tragica alluvione in Sardegna potrebbe forse avere anche qualche ricaduta positiva sulla politica: infatti il Ministero dei beni e delle attività culturali (Mibac) sta valutando di impugnare alla Corte Costituzionale la revisione del Piano paesaggistico della Sardegna (Pps), varata di recente dalla Giunta Cappellacci. Lo ha ribadito la direttrice regionale del Mibac, Maria Assunta Lorrai, intervenendo al convegno nazionale del Fondo ambiente italiano (Fai) “Sardegna Domani! Terra/Paesaggio/Occupazione/Futuro”, in corso di svolgimento al Teatro Massimo di Cagliari.
«A questo punto abbiamo chiesto all’amministrazione centrale di verificare la possibilità di una impugnativa costituzionale del piano. E ora il Ministero, ufficio legislativo e ministro, stanno valutando questa possibilità» ha informato Lorrai. Già ai primi di novembre era emersa l’intenzione da parte del Mibac di impugnare il nuovo Piano regionale, che ha fatto sollevare molte polemiche. Poi l’alluvione che ha portato manifestamente sul banco degli imputati il consumo di suolo e l’urbanizzazione selvaggia (lo ricordava anche ieri il Capo della Protezione civile Prefetto Gabrielli), che ha fornito altri elementi di riflessione, ed ora il convegno del Fai, un appuntamento pensato per discutere delle grandi potenzialità dell’isola e definire un nuovo modello di sviluppo estraneo alle logiche di cementificazione e speculazione edilizia, che pare “cascare a fagiolo”.
«Nel Piano paesaggistico della Sardegna approvato dalla Giunta regionale a ottobre si infrangono o si allentano le regole poste dalla legge Salvacoste nel 2004 e dal precedente Piano del 2006 - ha dichiarato Andrea Carandini, presidente del Fondo ambiente italiano (Fai) - Il Pps permette di resuscitare tutte le lottizzazioni precedenti il 2004. Si tratta di progetti edilizi vecchi di anni, figli di una mentalità speculativa che la coscienza dei sardi più sensibili ormai rifiuta perché inutili allo sviluppo generale della regione».
Carandini ovviamente ha accennato anche alla recente alluvione: «L’abbattimento o l’allentamento dei vincoli relativi al reticolato idrico, minore e maggiore, è di assoluta gravità. Le alluvioni di Capoterra, Villagrande e quelle dei giorni scorsi ne sono la riprova. L’invasione capillare dell’agro con costruzioni svincolate dall’uso agricolo, il Pps consente la costruzione di un manufatto con destinazione abitativa in un lotto minimo di un ettaro, è da rigettare non solo perché sottrae la terra alla sua destinazione naturale, ma perché manomette il territorio», ha concluso il presidente del Fai.
Recensione di due libri su una parola «abusata e tradita»: partecipazione. uno recente, Competenza e rappresentanza, a cura di Cristina Bianchetti e Alessandro Balducci (Donzelli), e uno antico, Architettura come partecipazione, di Giancarlo De Carlo del 1971, ( Quodlibet). Il manifesto, 27 novembre 2013
Non c'è parola più abusata e tradita riferita all'urbanistica e all'architettura che «partecipazione». Accade, infatti, che quanto più urgenti siano le risposte che i cittadini chiedono alle istituzioni perché vengano soddisfatti i loro bisogni, altrettanto deludente si dimostri il loro coinvolgimento nei programmi delle amministrazioni pubbliche. Gli esempi sarebbero infiniti e ormai è una costante il ripetersi del conflitto tra abitanti di una città o di un territorio e i loro rappresentanti istituzionali.
Dal nord al sud dell'Italia sono innumerevoli i casi nei quali l'assenza di politiche ambientali, industriali e sociali esasperano la soluzione dei problemi anche i più semplici: i processi inclusivi sembrano estranei alla cultura di qualsiasi soggetto decisionale, inoltre l'eccesso di burocrazia non ne agevola le soluzioni. In modo confuso si fa riferimento alle politiche di coesione europee, alle «buone pratiche» messe in atto in molte nazioni per agevolare la partecipazione dei cittadini al governo della città, ma è frustante vedere come da noi accade il contrario.
Temi quali quelli di sostenibilità o di recupero urbano che ovunque contemplano processi partecipativi, nella maggioranza dei nostri comuni si disperdono in lunghissimi iter procedurali tra il cattivo uso delle risorse finanziarie e l'obsolescenza dei progetti. Così non si fa che riprodurre altra «ingiustizia spaziale» oltre a quella già esistente. Riflettere sull'importanza della partecipazione implica però, come ben sappiamo, esaminare il rapporto della gente con la classe politica e verificarne la loro capacità di attuare programmi efficaci rispetto la questione urbana.
Soggetti autoreferenziali
Il saggio Competenza e rappresentanza (Donzelli, pp.VI-108, euro 24) a cura di Cristina Bianchetti e Alessandro Balducci, affronta l'argomento della partecipazione all'interno delle più vaste problematiche che hanno riguardato negli ultimi vent'anni le trasformazioni delle competenze tecniche, quindi il ruolo degli intellettuali o degli «esperti», nel loro difficile confronto con le istituzioni della politica e i cittadini. Il saggio prende spunto dalla lectio magistralis che Alessandro Pizzorno fece a Torino nel 2011 in occasione della XIV Conferenza della Società italiana degli urbanisti. Scrive Pizzorno che tre sono le vie che conducono i cittadini al potere politico: «una è fondata sul principio di proprietà, una sul principio di competenza, una sul principio di maggioranza».
La democrazia rappresentativa che si fonda sul principio di maggioranza numerica deve fare innanzitutto i conti con l'insoluta questione dell'uguaglianza economica tra gli individui. Questo è il primo «fraintendimento» di qualsiasi sistema politico perché non può mai rappresentare gli interessi «diversissimi da elettore a elettore». Poiché sono i membri del parlamento - gli «eletti del popolo» - a rappresentarli succede, come scrive Pizzorno, che le differenti domande dei cittadini «non possono presentarsi altro che come indeterminate e non sintetizzabili».
La nascita dei partiti politici se è vero che ha permesso di «socializzare alla vita politica una popolazione» d'altra parte ha fatto sì che la fedeltà ideologica invece della competenza li trasformasse in soggetti autoreferenziali diffidenti verso i tecnici. Oggi i politici di professione compongono per Pizzorno un «sistema rappresentativo per campioni» e l'istituzione elettorale è diventata una gara sportiva. «Il richiamo alla sovranità popolare - scrive il sociologo triestino - si presenta semplicemente come sotterfugio concettuale per giustificare la classe politica stessa».
È difficile stabilire quali spazi possano ancora esserci per «raddrizzare» il sistema della nostra democrazia rappresentativa che, in ogni caso si disegni, «esce storta» alla prova dell'incapacità dei governi di decidere sul futuro dei cittadini. Un'astratta concezione riformista della politica pensò che il principio di maggioranza potesse garantire sulla qualità delle competenze, quindi dei programmi e delle scelte, ma così purtroppo non è successo. A partire dalle vicende di Tangentopoli, con la crisi dei partiti e la «disarticolazione» della politica, si sono prodotte le più devastanti modificazioni della città che hanno visto gli urbanisti assecondare le richieste dei politici che dal dopoguerra sono spesso stati scelti in base al criterio di «premiare coloro che avevano portato maggiore aiuto al partito» (Pizzorno). Purtroppo come scrive Alessandro Balducci nella sua incisiva postfazione: «una parte non irrilevante della produzione mediocre dell'urbanistica italiana dagli anni sessanta fino a tutti gli anni ottanta si spiega anche così».
In quella stagione della storia recente del nostro paese poche sono state le esperienze di coinvolgimento dei cittadini nella progettazione urbanistica. In assoluto, tra le più rilevanti, dobbiamo ricordare quelle di Giancarlo de Carlo a Rimini e a Terni. Gli scritti dell'architetto genovese su quelle esperienze sono ora riproposti nel saggio L'architettura della partecipazione (Quodlibet, pp.144, euro 14). Il titolo riprende quello della conferenza che De Carlo tenne nel 1971 al Royal Australian Institute of Architects di Melbourne, chiamato per ultimo dopo Jim M. Richards e Peter Blake a rispondere alla domanda su come si sarebbe contrassegnata l'architettura degli anni '70. Per scoprirne la straordinaria attualità, sebbene siano trascorsi molti anni, sarebbe utile partire proprio da questo intervento per riprendere un discorso interrotto e spesso travisato sul tema della partecipazione. Scrive Sara Marini nell'introduzione che De Carlo «disegna una visione sfaccettata della partecipazione, caratterizzata da un marcato astio verso ambigue utilizzazioni e facili strumentalizzazioni della stessa».
È assodato, infatti, che i «conformismi» e le «retoriche salvifiche» (Bianchetti) furono anche una sua preoccupazione. Il dato certo è che De Carlo è stato il solo a verificare sul campo la complessità dell'architettura della partecipazione che in molti casi lo ha visto perdente com'è successo a Rimini quando, incaricato di intervenire nel centro storico della città romagnola i suoi contributi - «concreti, realistici, strutturalmente eversivi» (Zevi) - finirono in un nulla di fatto. Sarà così ad Ameglia, come ricorda Pizzorno nel saggio precedente, dove De Carlo sarà «messo in minoranza da una maggioranza». Negli anni settanta, però, le competenze di un urbanista si collegavano alle politiche riformiste di partiti interessati a trasmetterle nelle istituzioni oltre che a impossessarsene essi stessi.
Tutto il contrario di quanto accade oggi: il «gioco della deliberazione» esclude qualsiasi dialettica tra tecnici e politici. «La differenza tra deliberazione e rappresentanza - ci ricorda Pizzorno - è che nella prima la discussione mira a far tacere gli interessi dei partecipanti; nella seconda è il contrario». In merito a queste differenze, De Carlo è stato ancor più esplicito. Egli comprese che nell'epoca postindustriale è il processo della cooptazione dei saperi da parte dell'architetto-urbanista a causare il «disastro sociale e politico» perché «divide gli esperti, quelli che 'sanno' e 'sanno fare' da quelli che non sanno neppure 'perché' si fa».
A Terni, con il Villaggio Matteotti progettato per gli operai delle Acciaierie, l'architetto genovese trasforma un agglomerato di case malsane in un esemplare progetto di riqualificazione urbana. Sottopone al giudizio della direzione aziendale e del consiglio di fabbrica cinque ipotesi di intervento. Tra queste esclude sia quella di incremento speculativo delle cubature sia quella di un inutile maquillage dell'esistente, per scegliere quella che consisteva nell'edificare tre piastre sovrapposte entro le quali inserire le abitazioni, i servizi con i loro collegamenti pedonali. La cronaca narrata da De Carlo conserva ancora la sua carica di suggestione nella spiegazione di come la tipologia delle abitazioni, così come la nuova configurazione del quartiere, si definiscono solo chiarendo prima i bisogni reali «complessivi» e poi quelli «specifici» dei 1800 operai che avevano bisogno di una casa.
Se è stata la «tensione rinnovatrice» a produrre quell'esperienza, è la «chiarezza» della lezione decarliana l'elemento più importante che l'ha sottesa. Senza la chiarezza non c'è comunicazione tra gli individui, quindi è impossibile finalizzare il risultato di una buona «organizzazione urbana».
Imporla non è compito delle istituzioni che non sono di loro «sagge, giuste, sane». Inoltre, anche le tecniche, le regole e le poetiche messe a punto nel secolo scorso dalla modernità architettonica hanno mostrato tutti i loro limiti pretendendo di modificare in modo assoluto comportamenti e abitudini. In questa fase esasperata dell'«idolatria della tecnologia alta» (smart grid city), l'urbanistica che nella città delle reti svilupperà forme e spazialità sempre più innovative e complesse, dovrà essere valutata nelle sue capacità di socializzazione, altrimenti per il prossimo futuro non si vedranno che crescere disagio e disuguaglianze.
Perché pagare onerosi affitti alla grande proprietà immobiliare quando esistono edifici già pubblici che si vorrebbero alienare? Il manifesto, 27 novembre 2013
Il sindaco ha infatti messo a nudo il dominio incontrastato della grande proprietà immobiliare che sta portando Roma al collasso economico.Scorrendo l'elenco si comprendono bene i motivi per i quali i predecessori non hanno inteso rendere pubblica la sconvolgente tabella: tutti i romani avrebbero potuto constatare che una parte rilevante dei loro soldi, per la precisione 52 milioni di euro, transita dalla casse comunali a quelle della proprietà edilizia. E avrebbero potuto anche verificare che questo enorme flusso di denaro pubblico non viene da qualche recente emergenza. Al contrario, perdura indisturbato da decine di anni. E ciò di fronte alla possibilità di avviare un oculato investimento poliennale per realizzare edifici di proprietà o anche in presenza di un vasto patrimonio pubblico inutilizzato che potrebbe con modesti investimenti essere riutilizzato per ospitare uffici pubblici e diminuire l'esposizione finanziaria.
Ma vediamo nel dettaglio la giostra infernale, fermandoci soltanto ai casi più eclatanti. In testa alla classifica dei beneficiati per numero di immobili si trova l'Ente Eur, noto di recente per la distruzione del Velodromo olimpico e per le gesta dell'ex amministratore delegato Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, finito in carcere. Ebbene, l'ente prende dalle tasche dei romani 9,6 milioni di euro per ospitare uffici e una scuola. I contratti di affitto sono molto vecchi, datano per la maggior parte dal 2002 e 2003, gli anni d'oro del «modello Roma» inventato da astuti politicanti: sono dunque almeno dieci anni che ci sveniamo per rimpinguare i bilanci dell'Eur e gli abbiamo trasferito a occhio e croce 90 milioni di euro.
Scandaloso è in particolare l'ammontare di un ultimo contratto d'affitto acceso nel 2013. In tutta Roma e anche all'Eur i valori di affitto sono calati per la crisi immobiliare che attraversiamo. Molti conduttori hanno ricontrattato con i proprietari i valori di locazione strappando diminuzioni. Ebbene, a fronte di affitti a metro quadro anno di 211 e 214 euro stabiliti negli anni 2002 e 2003, nel 2013 il comune di Roma affitta altri 9 mila metri quadrati a un valore medio di 338 euro al metro quadro. Gli affitti calano dunque per tutti meno che per il comune di Roma e non essendoci più organi di controllo - sono gli effetti della nefasta legge del 1993 - si spera ormai soltanto nell'intervento della Corte dei Conti.
15 milioni e seicento mila euro, il primo posto in classifica, vanno a Milano '90 del costruttore Scarpellini. Di questi, oltre 6 milioni vanno per l'esercizio della democrazia, e cioè per le sedi dei gruppi consiliari nell'edificio di via delle Vergini e altri 9 per l'edificio di largo Loria, lungo la Cristoforo Colombo, che ospita in 18.000 metri quadrati autoparco, ragioneria e altro. Il costo unitario di questo affitto stipulato nel 2008 arriva a circa 530 euro al metro quadrato e forse comprende anche l'erogazione di servizi, altrimenti sarebbe incomprensibile.
E veniamo ad altri tre beneficiati. Il primo è il più grande fondo immobiliare italiano, Idea Fimit, di proprietà De Agostini con la partecipazione dell'Inps (un'eredità dell'Inpdap) il cui fondo Alpha affitta sempre in zona Cristoforo Colombo 9.950 mq. per 2,5 milioni anno. Un'altra società immobiliare, Il tiglio, affitta per oltre un milione di euro anno uffici municipali di 3.200 mq. dall'altro lato della città, lungo la via Flaminia. Altre due società, Fresia srl e Valle Giulia srl affittano ben 20.550 mq di uffici a via Ostiense: lì paghiamo oltre 5 milioni per anno. Come si vede, una girandola di localizzazioni che ci costano per i collegamenti tra uffici un fiume di soldi di gestione: ma di questa voce non c'è ovviamente alcun riscontro, va tutto nel grande calderone del debito complessivo.
Con due esempi possiamo invece comprendere la possibilità immediata di voltare pagina e riportare tutte le attività all'interno del grande patrimonio pubblico esistente non utilizzato. Per il canone degli uffici del giudice di Pace di via Teulada, paghiamo circa 2 milioni e 400 euro anno. A duecento metri c'è il bellissimo deposito Atac di piazza Bainsizza abbandonato da anni per tentare una volgare speculazione. Perché non portare lì quegli uffici? Ancora. I depositi del teatro dell'Opera sono stati affittati nientemeno che nella borgata Finocchio a 15 chilometri dall'edificio di piazza Beniamino Gigli. Sparsi per Roma e molto più vicini, ci sono decine di capannoni di vecchie caserme abbandonate: perché non risparmiare soldi ed evitare speculazioni e vendita di quell'immenso patrimonio pubblico?
E infine una perla. La famiglia Pogson Doria Pamphili affitta per 228 mila euro anno i locali per la biblioteca comunale di piazza Grazioli. Siamo ovviamente a favore della diffusione della cultura, ma questo affitto va avanti dal 1988 e ci è pertanto costato almeno 5 milioni, una cifra notevole con cui si potevano costruire almeno cinque nuove biblioteche invece di alimentare la rendita parassitaria.
Un quadro desolante, dunque, a cui va aggiunto quanto si mormora sempre più spesso e cioè che il comune di Roma paghi per l'assistenza alloggiativa dei troppi cittadini che non hanno i mezzi per avere o affittare una casa, più di 40 milioni di euro anno ai soliti gruppi immobiliari formati ad esempio, dicono i bene informati, da Bonifaci, proprietario del Tempo o dalla famiglia Totti. A tal proposito speriamo che il sindaco Marino renda al più presto pubblico anche questo elenco per dovere di chiarezza. Comunque sono circa 100 i milioni che i cittadini romani trasferiscono alla rendita immobiliare.
La sessione di bilancio iniziata lunedì rischia di far concludere prematuramente l'esperienza di Ignazio Marino. Molti sono stati i suoi errori di supponenza e di prospettiva. Vogliamo soltanto ricordare l'ultimo in ordine di tempo: a fronte di una periferia che impiega mediamente due ore per raggiungere il centro, il sindaco ha proposto la realizzazione di tre nuove linee tramviarie che interessano sempre e soltanto il centro pregiato. Uno schiaffo alla periferia che non alimenta il consenso, mentre l'opposizione si avvale di protagonisti convinti come il gruppetto di Marchini e di grandi giornali come il Messaggero. E sta qui, forse, la motivazione più profonda dello scontro di questi giorni. Marino e il suo assessore Caudo stanno tentando con rigore di far prevalere l'idea che non è costruendo altri quartieri in periferia che si salva questa città che ha già troppi alloggi invenduti. Si salva solo se fa fino in fondo i conti con una rendita immobiliare predatrice che sta facendo fallire la città.
52 milionI transitano dalle casse del comune di Roma a quelle della proprietà edilizia. Cui vanno aggiunti i 40 per l'assistenza alloggiativa
«Il documentario vincitore del Leone d'Oro è un'esplorazione raffinata del paesaggio extraurbano contemporaneo, una testimonianza sottile e non giudicante degli esiti prodotti dall'occupazione crescente di territorio da parte del sistema della circolazione automobilistica»
Ammetto di essere fraquelli che vanno al cinema conoscendo volutamente solo il titolo delfilm. Così è stato anche per Sacro GRA, sebbene il conferimento del“Leone d'Oro 2013” abbia fatto in modo che si parlasse di questodocumentario e, volente o nolente, se ne svelassero alcuni contenuti,ovvero storie di vita legate al grande anello stradale che abbracciala città di Roma. Alla fine del film, in realtà, le storie e levicende hanno raccontato anche molto altro.
Sotto questo profilo, lascelta di Gianfranco Rosi di fissare lo sguardo sulla quotidianitàdi esistenze assai eterogenee restituisce una varietà di narrazioniche si sono sedimentate nel tempo attorno al grande raccordo anularee che, al contempo, appaiono piuttosto simili nel trasmettere unsenso di solitudine ed emarginazione. Così, ad esempio, un occhiosilenzioso spia il trascorrere di un'intera giornata fra le paretidei mini alloggi di edilizia popolare, costruiti evidentemente nelleimmediate vicinanze del principale aeroporto italiano, visto ilcontinuo passaggio di aerei a bassa quota che con il loro frastuonospezzano sequenze di lunghi silenzi, interni ed esterni.
la Repubblica, 26 novembre 2013, postilla (f.b.)
MILANO — Le autostrade in Lombardia hanno un nuovo padrone: l’alleanza formata dal gruppo Gavio e Intesa Sanpaolo ha preso il controllo di Tem, la spa che sta realizzando la nuova tangenziale est di Milano, un’opera da 2 miliardi di valore. Un anno fa, la stessa coppia in proporzioni diverse, aveva scalato Brebemi, l’autostrada che collegherà il capoluogo con Brescia (cantiere che vale altri 2 miliardi). E così le società a monte della Tem e di Brebemi, secondo il progetto di Gavio e Intesa, verranno fuse insieme e successivamente dovrebbero essere quotate sul mercato. Il gruppo Gavio tramite Sias avrà il ruolo di socio industriale e gestore delle due tratte autostradali, mentre Intesa Sanpaolo sarà il partner finanziario che a tendere dovrebbe collocare le sue quote a Piazza Affari.
È questo l’esito dell’assemblea che ha dato il via a un aumento di capitale di Tem da 96 milioni, non sottoscritto dalla provincia di Milano (presente nel capitale con la controllata Serravalle) e da Impregilo. La prima perché ha difficoltà di bilancio tanto da aver messo in vendita la sua quota di controllo proprio di Serravalle, la seconda perché ha deciso di cedere al gruppo Gavio la partecipazione in Tem e anche il pacchetto di lavori che avrebbe dovuto realizzare sulla tangenziale. Detto in altro modo: il socio pubblico oramai senza soldi lascia il posto ai privati, un modo per salvare sia il finanziamento pubblico a fondo perduto della provincia da 330 milioni, sia il valore strategico dell’infrastruttura che sarà realizzata prima dell’Expo. L’obiettivo è il controllo del 59,1% di Tem e la fusione di quest’ultima con Autostrade Lombarde, controllata al 13,4% da Gavio e al 42,5% da Intesa, titolare del 79%di Brebemi. E c’è anche chi si spinge a pronosticare che l’accoppiata Gavio-Intesa i potrebbe persino puntare sulla Pedemontana
A breve ci sarà l’aumento di capitale da 536 milioni per realizzare la terza grande opera infrastrutturale delle Lombardia, una superstrada da 4 miliardi che attraversa 94 comuni con 4 milioni di abitanti. Un’opera ambiziosa e i cui rapporti di forza potrebbero cambiare se Serravalle, che controlla il 76,42% della società, non sottoscrivesse la sua parte. Il gruppo Gavio, che tramite la non quotata Itinera parteciperà anche alla realizzazione di 300 milioni di lavori (un decimo di tutte le opere previste per Tem e Brebemi), ha reinvestito sulle autostrade italiane tutti i 565 milioni realizzati nel 2011 dalla cessione delle attività cilene, andando a insidiare il suo primo rivale, ovvero la Atlantia che fa capo alla famiglia Benetton. Due anni fa il gruppo di Tortona aveva speso 225 milioni per rilevare proprio da Atlantia la tratta Torino-Savona e ora ha puntato altri 300 milioni sulla tangenziale esterna, che una volta che sarà collegata alla Brebemi, diventerà una valida alternativa alla A4, uno dei gioielli della corona delle concessioni del gruppo Benetton, che solo qualche anno fa aveva allargato la tratta fino a Bergamo a quattro corsie. E mentre Atlantia che in Italia è leader, ha deciso di investire sempre più all’estero, Gavio ha invece ceduto le attività in Sudamerica per completare la sua rete a livello nazionale.
postilla
Chi segue da un po' di tempo l'evoluzione di questo sito eddyburg.it forse non ha dimenticato il definirsi per tasselli successivi di un disegno di scala territoriale e infrastrutturale vasta, la vera e propria fabbrica dello sprawl, che conglomera interessi compositi attorno al modello autostradale. Il quale modello non è solo o tanto questione di impatti locali (le sei o otto corsie che rovinano il paesaggio della cascina o tagliano fuori una frazione dal capoluogo comunale) ma una vera e propria filosofia di sviluppo. Alla base di qualunque vera strategia di contenimento dei consumi di suolo, sta il controllo delle forme di urbanizzazione, e questo controllo sta in una pianificazione in grado di affrontare alla scala adeguata le sfide: questa scala è quella della megalopoli, o della macroregione come l'hanno chiamata i candidati del centrodestra alle ultime elezioni. Sfottuti stupidamente da chi non capiva la posta in gioco, e ha anche per questo malamente perduto, lasciando libero campo agli interessi particolari sostenuti da chi tiene saldamente il potere. E continuerà a tenerlo, finché non si capisce di cosa parliamo quando parliamo di territorio, modernizzazione, ambiente ecc. (f.b.)
Solo per citare alcuni dei "tasselli" evocati all'inizio: il sistema degli insediamenti industriali a grappolo nel Cuore Verde della Megalopoli, oppure il progetto di Sistema autostradale padano meridionale che lo alimenta, o il demente (ma solo se lo si legge coi paraocchi) Raccordo Trasversale con la linea pedemontana.
Anziché una “opinione”, da Giorgio Todde autorevole collaboratore una lezione di urbanistica, una denuncia politica, un appello: chi lo raccoglie con una sua adesione nei “Commenti”, contribuisce alla buona politica contro la cattiva, alla città delle persone contro quella degli affari
Su Stangioni significa, in sardo, lo stagno, la palude grande.
Chi, a Cagliari, si oppone al nuovo quartiere sovietico detto Su Stangioni che sorgerebbe su una piana all’estremità del territorio cagliaritano, accanto a un vecchio inceneritore che ha sparso veleno per decine d’anni, un quartiere collegato solo da strade a scorrimento veloce, un ghetto più vicino all’hinterland che alla città, chi si oppone sarebbe radical chic. Mentre dei problemi spacciati per veri se ne occupano con le maniche rimboccate quelli che dicono di “pensare concretamente alla città”.
Tra gli obiettivi degli uomini “del fare” rientrerebbe l’impresa di “riportare a Cagliari i cagliaritani emigrati nell’hinterland perché il centro era troppo caro”. E di trasferirli a Su Stangioni, ultimo lembo extra moenia del territorio di Cagliari. Dall’hinterland all’hinterland, insomma.
Così gli abitanti continuerebbero a entrare in città solo per lavorare e a uscirne per andare a dormire. Un obiettivo speculare per indegnità a quello dei centri storici alla spina, vivi solo di notte, abitati da pochi spericolati residenti con il sonnifero sul comodino.
Cagliari non è un’eccezione nel Paese.
Cagliari – da 220mila abitanti nel 1981 a 150.000 nel 2012 - ha da tempo praticamente esaurito il proprio territorio.E l’hinterland, dove oggi si trovano i 70mila abitanti che mancano alla città, è diventato il luogo nel quale la speculazione edilizia si è scatenata con più violenza. E hanno pianificato: il vuoto al centro e il pieno nell’hinterland. Basta un giretto lungo le squallide statali 554 e 130 per comprendere e rabbrividire.
Però quest’area disastrata è stata insignita del titolo di area vasta con lo scopo, nobile solo in origine, di fornirle un unico governo. Da più di dieci anni si chiama area vasta di Cagliari l’area che comprende il capoluogo e 15 comuni intorno. Una popolazione di circa 420.000 abitanti che decrescerebbe se non ci fosse una modesta immigrazione extracomunitaria.
Pochi e costretti a una pericolosa dispersione urbana. Nell’hinterland la densità abitativa è bassa, meno di 600 abitanti per chilometro quadro, dissolti in uno spazio spropositato. Nell'area vasta lavorano circa 140mila persone. Quasi 90mila a Cagliari. L’80% di chi entra a Cagliari ogni mattina sceglie l’auto.
L’area vasta di Cagliari è, sotto ogni aspetto, un compiuto esempio di insostenibilità economica e sociale. Niente di nuovo. Spersonalizzazione, cancellazione dei caratteri e rapporti sociali che definivano le diverse comunità, la sindrome da spaesamento ormai epidemica. E poi, un auto ogni due abitanti, inquinamento, tempi di spostamento insopportabili, incidenti. Tutto questo considerato non una patologia, ma una tassa da pagare a una finta, grottesca modernità.
L'agglomerato urbano comprende in realtà anche una decina di altri comuni oggi tenuti fuori dall’area vasta, ma afflitti dalle stesse malattie. Con gli abitanti di questi comuni si raggiungono i 490mila abitanti su un territorio di oltre 1.800 chilometri quadrati. La popolazione della provincia, che non coincide con l’area vasta, è di 563mila abitanti. Un rompicapo amministrativo.
E la scuola? In questa popolazione sono presenti, nel 2001, diecimila analfabeti totali e più di cinquantamila dichiarano di saper leggere e scrivere un testo semplice ma di non aver conseguito nessun titolo di studio. Dati desolanti e in peggioramento.
Insomma, l’area vasta sarda ripete le percentuali abitative di aree che nelle facoltà di architettura sono di solito indicate come nocivo esempio di sprawl. Curiosamente Atlanta ed Elmas, il paragone suscita un sorriso, spargono i loro abitanti nel territorio più o meno con le stesse percentuali.
Qua come altrove è la politica, sospinta dagli affari, che ha consentito la completa dissociazione tra fabbisogni reali e il costruito in eterna, tragica moltiplicazione. Senza un disegno urbanistico e senza una filosofia dell’abitare.
Occorreva un governo e una visione sovra-comunale. Ma nessun sindaco, nessuna municipalità ha accettato, se non a parole, un’autorità condivisa.
Il Piano Strategico Intercomunale c’è, ma è solo carta, senza contare che quando un progetto è definito “strategico” allora siamo di certo in pericolo. Le espressioni “risiedere, muoversi agevolmente, godere dell’ambiente e di fruire dei servizi” dovevano essere “strategici” però sono rimasti parole e le vere azioni “strategiche” sono consistite nel ricoprire di cemento l’area vasta.
Ogni Comune ha deciso il suo Puc oppure ha deciso che è meglio non possederne uno. Ma in tutti i casi le Giunte comunali sono rimaste i soliti centri d’affari dedicati all’edilizia che “regge il mondo”. E hanno vinto i localismi.
Anche la definizione di Area Metropolitana è rimasta volutamente vuota. Una legge regionale annunciò nel ’97 il riassetto delle province sarde e che il territorio di Cagliari si sarebbe potuto riorganizzare facendo coincidere l’assetto provinciale con l'Area metropolitana dotata di un’Autorità che la governasse. Tutti sanno come è andata a finire e la commedia muta in tragedia.
Intanto nel Piano attuativo regionale per la spesa dei fondi destinati alle aree sottoutilizzate 2007/13 – si trattava di 2278 milioni di euro - le parole “trasporto pubblico, coesione sociale, ambiente” sono state sostituite da parole molto più remunerative come“strade, svincoli, assi di scorrimento”. Soldi per fare strade, insomma. E infatti oltre il 90% delle risorse riguarda collegamenti stradali. Pochissimo per aeroporti, porti e ferrovie. Hanno vinto gli affari e non c’è speranza di uscire da una perniciosa concezione della nostra area urbana ridotta a territorio di speculazione.
Intanto il nuovo quartiere de Su Stangioni resta un progetto che respira di nuovo perché qualcuno, anche nel Pd cagliaritano, tenta di rianimarlo.
Ancora case disperse e ancora la distorsione e l’abuso di parole come “sostenibile, ecologico, verde” nel tentativo di contrabbandare come housing sociale l’ordinario cemento, mentre la città, svuotata, quindicimila appartamenti vuoti, si sfalda e si disperde nel solito orrendo nulla urbano.
Rudimenti di urbanistica.
Il consumo irrazionale di suolo, quello distaccato dal fabbisogno reale, deve cessare anche a Cagliari, la bruttezza delle campagne divorate dal “cemento a vanvera” deve cessare, la vita di relazione deve essere facile, il trasporto pubblico deve vincere. Non si vive vicino a un territorio inquinato per decenni dall’incenerimento dei rifiuti. E non si vive in un luogo brutto.
Su Stangioni è un luogo che evoca acque ferme, paludi malsane. Nessuna manna, solo polveri avvelenate. Si deve definire il livello di inquinamento di quest’area e solo dopo favorire la ricostituzione di un nuovo paesaggio campestre e, magari, agricolo. Non esiste altra via.
E’ necessario stabilire un punto fermo dove finisce la città e dove inizia la campagna. Esattamente come accade nei Paesi dove l’urbanizzazione si è data regole certe. E quel punto, quel confine esiste già. Molto lontano da Su Stangioni e molto prossimo alla città attuale.
Ai “sostenitori” del progetto è consigliabile un volo sopra i Paesi europei dove amano davvero i loro suoli per vedere come le città abbiano un confine netto e come da quel punto inizi l’agro. Noi vogliamo la città compatta dove per il bene comune si vive, si va in una scuola vicina, in un teatro vicino, in un cinema vicino, in ambulatori e ospedali vicini, in botteghe vicine, dove si cresce, si matura e si invecchia in compagnia di altri esseri umani e dove una comunità conserva le sue caratteristiche e peculiarità proprio perché si vive vicini.
Nuove micro città sono come la gramigna: consumano i luoghi, sprecano risorse comuni e producono malessere.
La politica, la parte buona che sopravvive, cerca oggi a Cagliari di evitare il cemento a Su Stangioni. Ma una parte del Pd locale pensa e agisce contro ogni abbiccì urbanistico. L’interesse di pochi non deve determinare la crescita della città, noi non dobbiamo pagare urbanizzazioni folli, insediamenti insensati, dannosi e antieconomici.
Per questo siamo sicuri che il pensiero raccolto intorno a Eddyburg è profondamente contrario a un progetto brutto, vecchio, scriteriato, svantaggioso e nocivo come quello di Su Stangioni. E che sarà accanto a chi si oppone a questo inaccettabile progetto.
Riferimenti
Sembra un paradosso ma non lo è. Anche le migliori riforme toccano gli interessi di qualcuno, e quel qualcuno si opporrà al cambiamento. Per esempio, sappiamo che il commercio internazionale fa bene ai Paesi che ne accettano le regole, ma poi andate nel Sulcis a dirlo agli operai dell’Alcoa, un impianto che la competizione globale ha condannato alla chiusura.
PPR, risultato storico
Il Piano Paesaggistico Regionale (PPR, in breve) rischia di essere vittima di questa sindrome. Il PPR è stato disegnato per favorire l’interesse generale. La sua adozione è un risultato storico per la Sardegna, una delle cose più lungimiranti mai realizzate nella nostra regione. Tenere alta la qualità del paesaggio ha infatti due enormi vantaggi. Primo, dà un beneficio diretto ai residenti. Non si tratta solo del poter godere ogni giorno della bellezza di un paesaggio. Stiamo imparando a nostre (e purtroppo crescenti) spese che si tratta anche di un piano essenziale per garantire la sicurezza del territorio, di una normativa autorevole senza la quale niente potrà fermare le speculazioni edilizie che prima o poi trasformano eventi climatici in enormi tragedie.
Secondo, in una regione a vocazione turistica il Piano paesaggistico rende competitiva la nostra offerta. Quando si tratta di esportare beni e servizi, le imprese sarde sono spesso in difficoltà per carenze di vario tipo. Ma nel turismo di qualità il fattore decisivo è la risorsa naturale e quella c'è, eccome. Il problema è conservarla con cura: più passa il tempo, più diventa la merce rara che un numero crescente di turisti è disposto a comprare ad alto prezzo.
Il Piano paesaggistico regionale favorisce dunque l'interesse generale, ma questo non basta a metterlo al riparo dal rischio di iniziative legislative che ne danneggerebbero gravemente la sua efficacia. Lobby di speculatori che desiderano rimuovere vincoli rigorosi e ragionevoli, e politici pronti a sostenerle non sono mai merce rara, in Sardegna come altrove. Il rischio vero è quelle lobby trovino consensi ampi anche da parte chi non ha interessi diretti a speculare sul paesaggio.
Nella situazione attuale però i soldi generati da questo meccanismo vanno soprattutto al comune che ha speculato nel passato, quello nel quale i turisti devono risiedere. Poco o niente arriva al comune che ha preservato la qualità del proprio paesaggio. La sua scelta rischia così di favorire esclusivamente il vicino meno virtuoso. È facile intuire che, se questo problema non verrà affrontato, i nemici del Piano paesaggistico regionale potranno sempre contare sul sostegno politico di chi ritiene ingiusta l'attuale distribuzione dei benefici economici generati dal piano.
E questo è un rischio enorme: se riparte la speculazione sulle coste i sardi, nel loro complesso, ne avranno enormi svantaggi. Questa è una sfida importante per chi vuole difendere il PPR sardo migliorandolo: bisogna trovare il modo di distribuire anche ai comuni che hanno conservato la propria risorsa naturale i benefici che oggi arrivano soprattutto a chi, in passato, il paesaggio lo ha consumato.
Un intervento di questo tipo, perfettamente giustificabile sul piano dell'equità, ridurrebbe il malcontento intorno al Piano paesaggistico regionale e toglierebbe spazio ai politici che su quel malcontento fanno sciaguratamente puntano le loro carte elettorali.
Postilla
Pigliaru ha perfettamente ragione: i benefici dell’utilizzazione di una parte del territorio dovrebbe appartenere a tutti coloro cui il territorio appartiene. Ma proprio sull’interpretazione di quest’ultima parola che si gioca la soluzione del problema. Nell’attuale regime giuridico sembra che il territorio, spezzettato in frammenti, appartenga ha chi ne è “proprietario”. Questo è un aspetto rilevante del regime economico-sociale capitalistico-borghese, nato e consolidato nel XVIII e XIX secolo. Il territorio da “bene” è stato tramutato in “merce”. La disequità segnalata da Pigliaru è un aspetto di questo quadro. Si è tentato di affrontarlo in diversi modi, tra l’altro con la fiscalità, la quale dovrebbe servire non solo a finanziare lo stato e il suo funzionamento ma anche a redistribuire la ricchezza. E ci si è lavorato in alcune esperienze di pianificazione territoriale (per esempio nella Provincia di Bologna).
Tuttavia anche in Italia si sta tentando di affrontare la questione in modo più radicale: nel senso di andare alla radice del problema. Una strada che mi sembra interessante è quella che, opponendo il concetto di bene” a quello di “merce” (ossia rivalutando il “valore d’uso” sul “valore di scambio” ) ragiona sul superamento delle vigenti forme dell’istituto giuridico della proprietà e sull’affermazione di istituti e pratiche coerenti col concetto di “bene comune e “bene collettivo”. Mi riferisco, in particolare, la lavoro della Commissione Rodotà e agli scritti di Paolo Maddalena, che da qualche decennio sta lavorando proprio sui i nessi dei concetti di “appartenenza” e “proprietà con le pratiche di tutela del paesaggio (come Pigliaru saprà, Maddalena, vicepresidente emerito della Corte costituzionale è il sostanziale autore "tecnico" della Legge Galasso).
Certo è che non è un piano paesaggistico lo strumento che può affrontare il problema e distribuire in modo equo i vantaggi che crea. Può dare un segnale e imprimere una direzione e innescare un processo, iniziando dal primo passo indispensabile: proteggere il bene dalla sua distruzione. Non a caso lo sgambetto che ha portato Soru alle dimissioni è stata la volontà, del suo stesso partito, di non completare il PPR con l’approvazione della disciplina degli ambiti interni. E non a caso il primo atto compiuto da Cappellacci è stato quello di distruggere l’Ufficio del piano, di impedire l’attivazione degli altri strumenti d’implementazione previsti. Loro si che sono dei furbacchioni. Ma non è detto che vincano sempre.
Il fatto è che tra il dire e il fare ci sono in mezzo gli affari: se vogliamo essere più precisi, un’idea perversa nascosta dietro l’etichetta della parola dell’innocente parola “sviluppo” Un'idea che sul territorio genera cemento e asfalto. L’Unità, 24 novembre 2013
Nulla di nuovo sotto la pioggia, nemmeno quella che lunedì notte ha trasformato metà Sardegna in un lago di morte. Nulla di nuovo perché, come troppo spesso capita, tutti sapevano, qualcuno ha detto, nessuno ha fatto. Tutti sapevano e tutti sanno che in Italia il territorio è un malato senza cure, dunque fragile. Ed è per questo, non altro, che le frane e le alluvioni sono la regola, non l’eccezione, che negli ultimi sessant’anni ha provo cato 5500 vittime. Tutti sapevano e tutti sanno che i cambiamenti climatici non sono più la folle idea di qualche «ambientalista in sandali infradito» (definizione di Gian Antonio Stella) ma una teoria accettata da tutta o quasi la comunità scientifica internazionale.
È vero, non sappiamo e non possiamo sapere con certezza quanta di quella pioggia torrenziale fosse dovuta alla normale bizzarria della natura e quanta alla coperta di gas che stiamo tessendo nell’atmosfera anno dopo anno e che continueremo a tessere dopo il fallimento della Conferenza Onu ieri a Varsavia. Ma una cosa è certa: quei fenomeni così potenti e così estremi non potranno che aumentare, non certo diminuire. E allora perché continuiamo a far finta di nulla, a costruire e condonare, a ricoprire la terra con uno strato di asfalto e cemento? Il 7% del Paese è avvolto da questa impermeabile coltre ma è un dato fuorviante: nelle aree metropolitane quelle dove si vive, si lavora, si dorme abbiamo coperto il 50% del terreno.
La verità è che stiamo progettando e realizzando un Paese sempre più inadeguato a ricevere le grandi quantità di pioggia (bombe d’acqua, cicloni extratropicali, chiamateli come volete) che d’ora in avanti saranno sempre più frequenti. Dal 1956 gli italiani sono aumentati del 24% come popolazione ma il consumo del suolo è cresciuto sette volte di più, arrivando al 156%: ogni cinque mesi viene cementificata una superficie pari al comune di Napoli. Dove finisce l’acqua che cade sulle nostre città? Rimbalza nel cielo? O si infila nei sottopassaggi, nei tunnel, nei seminterrati come quello in cui vivevano i Passoni, morti affogati come i turisti del Titanic?
Nel 2013 in Italia si muore di pioggia: questa è la drammatica realtà di un Paese che parla (o ha parlato) di grandi opere ma dimentica le più elementari regole di manutenzione e prevenzione. Come il divieto di costruire nelle zone a rischio, la cancellazione della parola condono, la restituzione dello spazio naturale ai fiumi che devono essere lasciati liberi di esondare in tutta sicurezza e in zone non abitate o non pericolose.
C’è un punto, nella vicenda sarda, che inquieta in modo particolare: l’ostinazione a non fare i conti con la realtà. Per quanto violento, il «ciclone» di lunedì scorso (400 millimetri, la pioggia di sei mesi in una notte) non è stato un episodio senza precedenti. Sempre in Sardegna nell’ottobre del ’51 caddero sull’Ogliastra 1400 millimetri in quattro giorni: ci furono cinque morti e due paesi, Gairo e Osini, abbandonati. Nel dicembre 2004, sempre sull’Ogliastra, vennero giù 517 millimetri in 24 ore. Cinque anni fa nel Campidano, a Cagliari, 372 millimetri in poche ore.
Guardo sconcertato la terra di mio padre, la Gallura devastata dall’acqua e i cognomi familiari travolti dalla tragedia. Ma se dopo l’ora del dolore arrivasse anche quella del perché, le domande andrebbero poste ad ogni livello. Il discorso è quello che abbiamo fatto in pochi tante volte, così tante da farci zittire, rei di dire sempre le stesse cose.
Con autentico sprezzo del ridicolo, il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci è intervenuto pochi giorni fa dicendo che la tragedia della sua Regione non cambierà il nuovo «piano paesaggistico» che cancella quello del centrosinistra del 2006 e prevede meno vincoli per nuovi progetti e nuove costruzioni, compresi 25 campi da golf accompagnati da tre milioni cubi di ristoranti, case e alberghi: «Dovrò pur dare a un golfista una club house e un posto dove mangiare bene». Nell’Italia dove si parla di alzare la benzina piuttosto che far pagare l’Imu ai ricchi succede anche questo. Tutti sapevano e tutti sanno: ma allora perché dopo ogni «disastro annunciato» ripetiamo e ascoltiamo le stesse frasi e gli stessi commenti, come il lunedì mattina al bar dopo le parti.
Certo, mettere in sicurezza il territorio costa, perché si parla di 40 miliardi, euro più euro meno. Una cifra «bella e impossibile» ma sempre più bassa dei 61,5 miliardi di danni collezionati dal 1944 al 2012 fra frane e alluvioni che salgono a 232 miliardi se contiamo gli effetti dei terremoti. Cosa costa di meno: stare fermi e guardare o decidere e fare?
L’unica vera grande opera di cui abbiamo bisogno è la messa in sicurezza del territorio. Così come una buona prassi politica sarebbe definire «virtuosi», non i Comuni che rispettano i conti di bilancio, ma quelli che salvano le vite dei loro abitanti applicando le norme di sicurezza e aggiornando i piani di emergenza, come invece non è avvenuto in molte aree della Sardegna e non avviene in molti Comuni d’Italia.
John Maynard Keynes diceva che per rimettere in moto l’economia in tempo di crisi bisognerebbe far circolare denaro anche a costo di creare lavori inutili ma regolarmente pagati: piuttosto che tenere la gente a casa senza stipendio e senza consumi, diceva, era meglio impiegarla a scavare delle buche al mattino per riempirle la sera. E se al posto delle buche mettessimo in sicurezza il Paese?
Il manifesto, 23 novembre 2013, con postilla
«Cappellacci - ha detto ieri Soru in una dichiarazione rilasciata alle agenzie - è un politicante che mente in totale malafede. Le bugie sono la sua regola. Con le modifiche che il leader del centrodestra sardo vorrebbe apportare al Ppr, il piano sarebbe totalmente cancellato: rivivono tutte le lottizzazioni, le zone F, cioè quelle riferite all'ambito turistico-costiero, i campi da golf, si cementificano le campagne, si cancellano i centri storici e si invitano i comuni ad andare avanti senza norme».. «Non è vero - ha aggiunto Soru- che è stato Cappellacci ad aver ampliato la fascia di tutela nei pressi dei fiumi. La sua proposta di modifica del Ppr, infatti, contiene per la prima volta il tentativo esplicito, e pericolosissimo, di riferire le distanze alla linea di mezzeria, invece che dall'alveo del fiume, lasciando poi alla discrezionalità del caso per caso di stabilire vincoli diversi». Ma è tutto l'impianto del nuovo piano predisposto da Cappellacci che non convince Soru. «Si vogliono resuscitare - ha detto l'ex presidente - tutte le lottizzazioni in zona F (turistiche-costiere), bloccate dal Ppr, per circa dieci milioni di metri cubi. Si punta a far rivivere le zone F per attività turistiche per altri cinque milioni di metri cubi. Si prevedono circa venticinque nuovi campi da golf, in realtà altre seconde case, per circa tre milioni di metri cubi. Si vuole trasformare tutta la campagna della Sardegna in aree edificabili: basterà anche un solo ettaro e chiunque potrà costruirsi una casa. A cui si aggiungeranno logge, cortili e strade sui quali correrà l'acqua, compromettendo la vocazione agricola e sicurezza dei territori». E ancora. «Si punta ad eliminare la tutela nei centri storici dei paesi che vengono giudicati non importanti, mantenendola soltanto nelle città più note, e ad eliminare le norme di salvaguardia esistenti, di fatto incentivando i comuni a non adottare i piani urbanistici».
Immediata la replica di Cappellacci: «In queste ore preferisco dedicarmi all'emergenza, ma stia tranquillo Soru che poi mi occuperò di lui con una operazione verità sul suo finto ambientalismo. Le sue sparate e i suoi picchiatori mediatici non intimoriscono nessuno. Il suo velenoso tentativo di collegare gli eventi tragici di questi giorni a una revisione del piano paesaggistico che ancora non ha completato il suo iter dimostrano che gli unici bugiardi e cinici sono il mio predecessore e i suoi amici».
Al presidente della giunta ha replicato, sulle colonne della Nuova Sardegna, uno dei più noti scrittori sardi, Marcello Fois: «E allora, dottor Cappellacci, ha visto che alla fine i sardi le hanno creduto? Ha visto che ha colpito nel segno quando, zainetto in spalla, aria da bel bello, si aggirava per le campagne in uno spot, pagato con molti soldi pubblici, per dire che insomma questi pedanti difensori del territorio a noi sardi ci stavano mettendo le mani in tasca? Sorridente e concessivo ci raccontava che di territorio integro in Sardegna ce n'era fin troppo e che, in un'economia di sussistenza, vietare troppo significava adottare un sistema punitivo. Sempre con i nostri soldi aveva pagato una costosa campagna pubblicitaria di domande e risposte, dove auspicava l'avvento di tempi belli in cui impunemente i balconcini potessero essere trasformati in camerette per bambini senza che questo si dovesse chiamare abuso. Le hanno creduto e l'hanno votata in molti. Ora, però, penso che i suoi spin-doctors debbano ragionare su formule alternative, che non facciano ricorso necessariamente al ventre molle dell'elettorato, ma, finalmente, alla sua testa. Credo che lei dovrebbe fare un passo indietro di fronte all'evidenza che un'alluvione eccezionale fa danni eccezionali dove ancora esiste il territorio, ma fa morti dove il territorio non esiste più».
«Entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050». Ma cominciare domani è già troppo tardi. Con postilla
La necessità dilimitare il consumo di suolo e in particolare di suolo agricolo (8 metriquadrati al secondo, secondo i dati di ISPRA) è ormai entrata a tutti glieffetti nell’agenda politica nazionale. Dopo il DDL Catania, presentatodall’omonimo Ministro del governo Monti e arrivato fino all’approvazione dellaConferenza Stato-Regioni, nell’attuale legislatura sono stati depositati tredisegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno come obiettivo dichiaratola limitazione del consumo di suolo, a cui va aggiunto un ulteriore disegno dilegge promosso direttamente dal governo Letta.
postilla
Mi domando quale sarebbe il risultato di questa compensazione in Italia, dove l'unica legge rispettata dai forti è l'elusione della legge, deve la rendita e i "diritti edificatori"imperano, e dove la pubblica amministrazione è sempre meno motivata, autorevole, competente e attrezzata.
Dopo i sedici morti e la devastazione causata dal ciclone Cleopatra in Sardegna, sono scattate due inchieste per omicidio colposo e per disastro colposo, avviate dalle procure di Tempio Pausania e di Nuoro. La magistratura ha chiesto alle amministrazioni coinvolte nella catastrofe di lunedì scorso, i progetti, le delibere e tutto quanto possa consentire di far chiarezza su opere stradali, edifici, strutture e pianificazioni urbanistiche realizzati negli ultimi anni. Per ora siamo ai primi accertamenti. I fascicoli sono senza un nome, ma è chiaro che i morti e i danni provocati dall'alluvione non hanno soltanto cause naturali. Lo aveva detto, già martedì mattina, il sostituto procuratore del tribunale di Tempio Riccardo Rossi, in visita al centro di coordinamento dei soccorsi allestito dalla protezione civile a Olbia: «Questo è il momento del dolore e della misericordia, poi arriverà quello della giustizia. Questa drammatica vicenda ha posto in luce evidenti carenze strutturali che, passata l'emergenza, dovremo valutare se potevano essere evitate».
Le inchieste delle procure di Nuoro e di Tempio Pausania sono indirizzate ad accertare sia le cause delle morti sia quelle dei danni ambientali. In particolare la procura nuorese indaga per omicidio colposo in merito alla morte del poliziotto Luca Tanzi, 44 anni, inghiottito nella strada crollata mentre con l'auto di servizio scortava un'ambulanza; e per la morte della pensionata Maria Frigiolini, 88 anni, travolta dall'acqua e dal fango nella sua casa allagata a Torpè. Mentre la procura di Tempio vuole fare chiarezza sulla morte di un'intera famiglia di nazionalità brasiliana, padre madre e due figli, annegati in un sottopiano ad Arzachena.
E sulle cause del disastro, dopo le accuse mosse dagli ambientalisti al presidente della regione Sardegna Ugo Cappellacci, ieri contro il tentativo del centrodestra sardo di smantellare la legislazione di tutela dell'ambiente e del paesaggio approvata nella legislatura precedente dalla giunta guidata da Renato Soru è intervenuta, per conto del ministero dei Beni culturali, la sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni. «Il nuovo piano paesaggistico approvato dalla giunta Cappellacci - ha dichiarato la collaboratrice del ministro Massimo Bray - prevede un allentamento del grado di tutela sia nella costa marina sia in altre zone di particolare pregio paesaggistico, quali i centri storici o i corsi d'acqua pubblica». «Il disastro che ha portato in Sardegna gravi lutti e ingenti danni - ha aggiunto la sottosegretaria - riporta di nuovo, ancora una volta, al centro della nostra attenzione il problema della tutela e della messa in sicurezza del nostro territorio e del suo paesaggio. Un tema che, in alcuni casi, viene volutamente aggirato o considerato un ostacolo a uno sviluppo economico e occupazionale. L'allentamento delle tutele progettato dalla giunta Cappellacci porterà a modifiche sostanziali di molte zone anche nell'agro, attraverso demolizioni di piccoli fabbricati agro-pastorali preesistenti per successive ricostruzioni, con forti aumenti di cubatura e accorpamenti di volumetrie con sagome del tutto dissimili».
Bisogna ricordate che, nelle scorse settimane, il ministero dei Beni culturali aveva annunciato l'intenzione di ricorrere contro il piano di Cappellacci sia in sede Tar sia alla Corte costituzionale. Il Codice Urbani, ossia la legge nazionale che detta le norme generali di tutela del paesaggio, prevede infatti che in materia urbanistica le regioni non possono legiferare (come invece ha fatto Cappellacci) da sole: è necessario l'assenso del governo nazionale. Ma ieri Borletti Buitoni è andata oltre il dato formale. La nota dettata alle agenzie si chiude con un esplicito rilievo politico: «Al di là del vizio di forma e di procedura nell'approvazione del piano da parte della giunta regionale sarda, è a tutti ben chiaro che il territorio sardo aveva e ha la necessità di essere maggiormente tutelato e non maggiormente sfruttato. Purtroppo i tragici eventi di questi giorni lo confermano».
Di fronte alle cronache angosciose che arrivano dalla Sardegna l'animo è agitato da sentimenti contrastanti. Si vorrebbe...>>>
Di fronte alle cronache angosciose che arrivano dalla Sardegna l'animo è agitato da sentimenti contrastanti. Si vorrebbe tacere per rispetto dei tanti, troppi morti, alcuni dei quali bambinelli, strappati dalle mani disperate dei padri dalla furia delle acque. Ma si vorrebbe anche urlare per la rabbia e lo sdegno, perché ormai da troppi anni sciagure territoriali consimili punteggiano il nostro calendario civile. Chi se ne ricorda?
Queste ultime considerazioni ci portano alla seconda conseguenza da trarre dalla tragedia di questi giorni. È evidente che il nostro territorio, anche in ragione dei mutamenti nel regime della piovosità, è diventato sempre meno sicuro. Senonché il territorio è la nostra casa comune e dunque l'insicurezza è quella di tutti noi, di tutti i cittadini italiani. La nostra incolumità personale, la nostra stessa vita sarà sempre più esposta a rischi anche dentro le nostre città. Dunque, quello che è un antico diritto costituzionale della persona, il diritto alla sicurezza (sicurezza della vita e della libertà nei confronti dei soprusi dello stato e di altri poteri) oggi è insidiato da un versante inedito: quello della fragilità territoriale e della violenza climatica.
È evidente, a questo punto, che l'incultura e l'irresponsabilità del ceto politico nazionale e degli amministratori locali (ma anche di tanti privati cittadini che costruiscono abusivamente) tende a sconfinare verso ambiti di natura penale. Crediamo che su questo punto occorra la riflessione innovativa degli studiosi del diritto. Stiamo entrando in un nuova era, inaugurata dal caos climatico, che renderà problematico il rapporto tra cittadini e ambiente e caricherà di responsabilità inedite chi si candida a governare la cosa pubblica. L'Italia è già un'avanguardia e un laboratorio, non solo l'America dei cicloni. Per il momento dobbiamo incominciare a dire ai nostri governanti e agli uomini politici, che non hanno mai letto una pagina scritta sui caratteri del territorio italiano, che la loro inefficienza nel gestire le risorse disponibili, l'attività di distrazione di investimenti destinati alla cura del territorio e impiegati in grandi opere, sempre più viene a configurarsi come un danno dell'interesse collettivo, tendenzialmente criminale.
www.amigi.org
La Repubblica, 22 novembre 2013, con postilla
Nei giorni della catastrofe che si è abbattuta sulla Sardegna con l'uragano in cielo mare e terra che ha devastato Olbia e il territorio circostante e le terre del Nuorese, un gruppo di intellettuali sardi rappresentati da Marcello Fois si è fatto sentire con parole commosse e vibranti. L'articolo di Fois su 24 Ore è intitolato "Non ci perdoneranno". Ne cito un passo particolarmente significativo.
«Quei morti non ci perdoneranno mai perché noi dovevamo sapere e lo dovevamo dire. Dovevamo sapere che lasciar costruire centrali nucleari in riva al mare poteva essere un modo per rendere micidiale per secoli un evento micidiale ma passeggero come uno "tsunami"». Dovevamo sapere — prosegue Fois — che cementare gli stagni per fare parcheggi o costruire villette a schiera sui letti secchi dei fiumi significa sfidare gli eventi eccezionali perché diventino carneficine. Ma le centrali nucleari in riva al mare sono state fatte, gli stagni prosciugati, i letti dei fiumi edificati. E oggi, al capezzale della civiltà dei sardi, a noi intellettuali ci chiedono parole di sostegno. Ma un appello al mondo quando la tragedia si è consumata è tempo perduto. La parola sostegno dovrebbe corrispondere a urlare No tutte le volte che si avallano decisioni e situazioni insostenibili. La Sardegna è stata abbandonata a se stessa e noi sardi abbiamo consentito che ciò avvenisse, anzi ci siamo adeguati al tozzo di pane che ci arrivava dal “placebo” del cemento selvaggio che produce lavoro solo per il tempo necessario a liquidare una tornata elettorale. Il corso terribile della Natura diventa devastante quando si accompagna all’ignoranza diffusa, alla disonestà degli amministratori, alla pessima memoria di chi si illude di poter modificare la propria precarietà con progetti di piccolo cabotaggio. Continueremo a maledire la nostra “malasorte”?».
La citazione è lunga ma meritava d’esser fatta. Con un’aggiunta però: fanno bene gli intellettuali sardi a denunciare una situazione diventata per loro insanabile, ma essa non riguarda soltanto la Sardegna. Riguarda tutte le terre italiane, soprattutto quelle del Sud ma non soltanto. E non è recente, è antica. Sonnino e Franchetti la denunciarono nella loro inchiesta sulla Sicilia fin dalla fine dell’Ottocento; Giustino Fortunato coniò nel 1904 l’immagine dell’Appennino in Calabria e nel Cilento come uno “sfasciume pendulo sul mare”; Carlo Levi raccontò negli anni Quaranta come e perché Cristo si era fermato a Eboli e analoghi racconti fecero Guido Dorso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Di Vittorio e Danilo Dolci in nome dei contadini salariati, consapevoli degli interessi di classe ma anche della terra sulla quale quel lavoro veniva sfruttato per depredarla e impoverirla con colture di rapina.
Questa situazione non si è modificata, anzi è peggiorata dovunque, il cemento selvaggio ha invaso tutta la costiera italiana, dovunque i fiumi sono stati edificati, l’abusivismo è diventato un fenomeno non più gestibile, la trasformazione dei torrenti in suoli edificabili e edificati d’estate e in fiumi di fango in inverno e primavera. Centinaia di milioni andati in fumo, migliaia di vittime cadute sul campo di queste devastazioni.
Bisogna riprendere con paziente tenacia le educazioni di quelle che un tempo si chiamavano “le plebi” e che tali stanno ridiventando a causa d’un analfabetismo di tipo nuovo, che non riguarda più l’ortografia e la grammatica, ma la conoscenza e la cultura.
La Sardegna è una delle terre più colpite ed ha bisogno di risvegliarsi con la massima urgenza. Segnalo a questo proposito un’iniziativa che può essere molto opportuna; è stata presa dal Fai (Fondo ambiente italiano), dal suo attuale presidente Andrea Carandini e dalla presidente onoraria Giulia Maria Crespi. Un convegno nazionale scandito da quattro parole: terra, paesaggio, occupazione, futuro; valori intimamente legati tra loro che possono rilanciare l’economia, l’artigianato, il turismo, l’energia proveniente da fonti non convenzionali. Ci vuole un ripensamento dei centri storici nei paesi e nelle città, la ristrutturazione dei beni residenziali esistenti, l’avvio del nuovo eco-sviluppo che si estenda all’Italia intera e comprenda anche la politica delle banche sul territorio e l’impiego differenziato delle tariffe energetiche che incentivino le potenzialità della terra, del paesaggio e dell’occupazione sulle quali il convegno è come abbiamo detto impegnato.
La catastrofe sarda ha dato, con la devastazione e le vittime che ha prodotto, l’ultimo allarme. Non lasciamolo cadere invano.
Postilla
Ottime parole, opportunamente e utilmente pronunciate (ma il dito dell’accusatore andrebbe rivolto, prima che alle plebi, a chi le ha plagiate). Peccato che al convegno organizzato dal FAI, ampiamente segnalata dal fondatore della Repubblica, non ci sia nessuna relazione dedicata alle coste della Sardegna, e in particolare alla difesa della rigorosa tutela decisa dal Piano paesaggistico della giunta di Renato Soru, formalmente vigente ma smantellato, eluso e derogato giorno per giorno dalla maggioranza guidata da Cappellacci.
«Dalla Sardegna disastrata dall’abusivismo alle cubature edilizie “in aree non contigue” ai nuovi stadi da agevolare. Lotito propose il nuovo stadio della Lazio in zona alluvionale. Gli americani dell’A.S. Roma lo progettano sull’ex ippodromo di Tor di Valle che all’apertura si allagò…» L'Unità, 21 novembre 2013
Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2013
RENATO SORU: «ILLUSI DAI METRI CUBI E ADESSO SI PIANGONO I MORTI»
intervista di Giorgio Meletti,
Esattamente cinque anni fa, a fine novembre del 2008, Renato Soru si dimise da governatore della Sardegna dopo essere stato mandato sotto dalla sua maggioranza di centrosinistra su un emendamento della nuova legge urbanistica. Un mese prima l'alluvione di Capoterra, pochi chilometri da Cagliari, era costata quattro morti. “Avevano costruito case e strade sul letto del rio San Girolamo”, borbotta Soru. Il copione si ripete. Ora come allora la conta dei morti fa da prologo alla campagna elettorale. Ora come allora il governatore berlusconiano Ugo Cappellacci chiede il voto per liberare la Sardegna dalle “regole talebane” fissate da Soru con il piano paesaggistico regionale del 2006.
Scusi Soru, l’hanno attaccata anche i potenti del centrosinistra sardo, lei alla fine sulla difesa del territorio ha perso le elezioni di febbraio 2009. Non è che alla maggioranza dei sardi il cemento piace?
Non lo so se ho perso su questo o su altre cose. Posso solo dire che la coscienza ambientale dei sardi è matura, e le mie regole le hanno accettate, ma la forza della speculazione si impone sulla coscienza dei cittadini quando rimane silente.
Cappellacci pochi giorni fa ha varato una delibera che smonta il suo piano paesaggistico.
Ha notato? E praticamente nelle stesse ore ci tocca contare i morti. Sono anni che attaccano a testa bassa il nostro lavoro. Abbiamo messo sotto tutela le coste, bloccando la cementificazione, abbiamo dato alla regione un piano idrogeologico, mai fatto prima, proprio per prevenire frane, inondazioni e disastri.
Vi hanno accusato di uccidere l'economia.
Sì, con i vincoli a costruire sul greto dei fiumi, con le distanze minime dai corsi d'acqua anche se apparentemente secchi. Ci hanno scatenato contro polemiche infinite. E adesso tra le nuove norme c'è la possibilità di dimezzare le distanze dai corsi d'acqua, quelle fissate da noi con il piano idrogeologico. Sono anni che ci provano.
A fare che cosa?
Sto pensando a quella famiglia, quattro persone morte in uno scantinato della ricchissima Arzachena.
Ricchissima?
Sì, ricca di cemento, così ricca da far dormire le famiglie negli scantinati.
Che c'entra con Cappellacci?
Sa quante volte hanno cercato di far passare la sanatoria per rendere abitabili gli scantinati? Fa una bella differenza vendere una villetta al mare di 100 metri quadrati, se si possono aggiungere 40 metri di scantinato. Ma gli scantinati non sono fatti per farci vivere esseri umani, e nemmeno per farceli morire. Eppure hanno cercato in modo sistematico di smontare le tutele del paesaggio attraverso le deroghe previste dai “piani casa”. Ne hanno fatto uno all'anno, siamo già a quattro, con la previsione di costruire 50 milioni di metri cubi di case. Si calcola che equivalgano a diecimila palazzi di sei piani.
Ma chi li dovrebbe comprare?
Aspetti. Prima le parlo della legge sui campi da golf. Hanno previsto di fare 25 campi da 18 buche, con la possibilità di costruirci intorno 3 milioni di metri cubi.
Ma che c'entrano i metri cubi con le buche del golf?
Effettivamente potevano chiamarla legge sulle case da fare vicine ai campi da golf. Era talmente fuori da ogni regola che è stata impugnata dal governo Monti.
Torniamo al punto. Per chi sono tutte queste case? Il popolo sardo ha veramente questa voglia di mattone?
Siamo fuori del mondo, le speculazioni immobiliari non sono più leve di crescita, ma motivo scatenante della crisi finanziaria. Anche in Sardegna l'invenduto è enorme. Solo a Olbia ci sono 15 mila appartamenti in cerca di acquirenti. Il mio piano paesaggistico ha salvato un sacco di immobiliaristi, impedendo loro di rovinarsi. Qualcuno è venuto addirittura a ringraziarmi.
Però Cappellacci insiste.
Quella delibera del 25 ottobre è una grida manzoniana, dice “liberi tutti”, ma è illegittima. C'è il rischio che qualcuno si lasci ingannare, che magari spenda soldi in progetti e procedure per niente. Il procuratore della Repubblica di Oristano ha dovuto fare una lettera richiamando sindaci e privati sul rischio di commettere addirittura reati.
Magari rivince le elezioni.
Lui ne è convinto, pensa che le due promesse sullo stile del suo maestro Berlusconi facciano ancora presa.
Due promesse?
La prima è a livello di reato di abuso della credulità popolare: la zona franca, niente più tasse in tutta la Sardegna. Come a Livigno, ma per un milione e mezzo di persone. La seconda è il cemento.
Magari funziona ancora.
A Roma la cattiva politica si nutre di debito pubblico, a Cagliari, non potendo fare debito, si stampano metri cubi. Ma no, non funziona più. Nel 2009 Cappellacci ha vinto perché così era l'Italia del tempo, c'era Berlusconi trionfante, è venuto qui a fare la campagna elettorale e ha promesso tutto a tutti: Porto Torres, Alcoa, Carbosulcis, Eurallumina. Molti si sono fidati. Ha promesso 100 mila posti di lavoro con l'edilizia, invece ne abbiamo persi 70 mila. E adesso c’è un livello di disoccupazione non dico mai visto, ma neppure mai pensato.
LA CURA DEL CENENTO DEL MEDICO DI B.
di Antonella Brianda e Alessandro Ferrucci
Il futuro era lì, vicino, a portata di mattone. Settimo Nizzi, ex sindaco, aveva anche fissato la data: “Nel 2025 Olbia sarà una città da centomila abitanti con un’area urbana estesa fino alla tangenziale”. Di fatto la strada sopraelevata sarebbe diventata un moderno muro di cinta. E ancora zone agricole edificabili, un milione di metri cubi dedicati alla zona costiera, la più pregiata. Alberghi, ville. Ancora alberghi. Altre ville.
Era il 2004 e il professor Nizzi credeva di poter dire, fare, attuare ogni scempio in Costa Smeralda, in fin dei conti era l’ortopedico di Silvio Berlusconi. Fedele alla Casa delle libertà, la politica dell’ex primo cittadino era improntata sull’idea delle “mani libere”, del laissez-faire. A tanti, troppi è andata bene. Come il Caimano, anche lui amava mostrarsi in varie vesti, da medico, a politico, fino a operaio con tanto di caschetto giallo in testa e foto-ricordo sulle ruspe.
E ancora il via libera alla costruzione di abitazione a Santa Mariedda e Pozzuru, quindi gli agognati alberghi da cinque e oltre stelle come l’Hilton e il Geo Village, sorti in zone un tempo industriali e magicamente diventate edificabili.
Il procuratore capo a Tempio Pausania, Domenico Fiordalisi, ha sulle sue scrivanie pile di documenti, carte relative ad alcune costruzioni di dubbia regolarità. Dubbia per la legge, non per i suoi abitanti. Nizzi nella zona è ancora considerato un personaggio di spessore, ha ancora il suo cerchio magico, dirige il Cipnes, un consorzio di industriali che gestisce milioni e milioni di euro, con la facoltà di approvare piani edilizi e assegnare licenze nelle zone di sua competenza. Quali zone? Esattamente dove Olbia dovrebbe espandersi, ovvio, dove lui, in fin dei conti, è di casa.
Greenreport, 21 novembre 2013
«La devastazione provocata dall’alluvione in Sardegna, con la tragedia della perdite di vie umane, impone alla Regione il radicale cambiamento nella gestione del territorio, con il blocco di ulteriori compromissioni e l’adozione di efficaci interventi di riassetto idrogeologico e paeseggistico». E’ questo il succo dell’appello unitario lanciato da Fondo ambiente italiano (Fai), Italia Nostra, Istituto nazionale di urbanistica (Inu), Legambiente e Wwf che spiegano: «La Giunta Regionale ha approvato un nuovo Ppr, che stravolge il precedente, proponendo di annullare molte delle misure a tutela del nostro territorio, costruite in decenni di lavoro comune e di crescente attenzione della comunità sarda».
Le 5 associazioni il 23 novembre terranno una conferenza stampa a Cagliari, e intanto lanciano l’appello “Salviamo il Paesaggio della Sardegna” che parte da un assunto: «La salvaguardia dei suoli e dei paesaggi delle coste e delle zone interne deve costituire la risorsa strategica per promuovere uno sviluppo che sia sostenibile».
Inu ed ambientalisti invitano a partecipare studiosi, esperti, amministratori, rappresentanti delle istituzioni e tutti i cittadini che hanno a cuore la tutela del patrimonio paesaggistico ambientale della Sardegna a quella che, dopo il disastro del ciclone “Cleopatra” si presenta come una rinascita culturale e politica della Sardegna che metta al centro la tutela ed il recupero della sua più grande risorsa: il territorio e l’ambiente.
Le associazioni concludono: «Siamo fiduciosi che i sardi sapranno scegliere di difendere il proprio territorio per promuovere nuove politiche del lavoro basato sulla salvaguardia ambientale, su un esteso programma di riassetto idrogeologico e sulla riqualificazione dell’edificato esistente. Rafforzare la qualità del territorio e la sua attrattiva nel panorama internazionale con il restauro del sistema paesaggistico costiero, la riqualificazione dei tanti villaggi costieri e dei centri urbani, con migliaia di seconde case e di edifici invenduti o inutilizzati, il recupero alle grandi tradizioni produttive agroalimentari dei terreni abbandonati sono la grande sfida per la generazione vivente e per quelle future, con decine di migliaia di posti di lavoro e garanzia di vita delle comunità insediata».
Nuovi regali ai cementificatori. Le società dello sport-spettacolo costruiscano nuovi stadi finanziandoli con l'ulteriore cementificazione del territorio: si correggono la legge di stabilità snellendo le procedure e regalando ai costruttori il permesso di edificare, insieme agli stadi, nuovi edifici di ogni ordine e grado. Il Fatto Quotidiano, 21 nov. 2013
Quali sono gli interventi infrastrutturali più urgenti oggi in Italia? Lavorare sul dissesto idrogeologico? Ferrovie? Nuove strade? Macché. A stare all’ultima iniziativa legislativa del governo, la risposta è: nuovi stadi e impianti sportivi in generale. È quanto si evince da una bozza di emendamento del governo al disdegno di legge di Stabilità circolata ieri pomeriggio in Senato (al momento di andare in stampa non è ancora stato formalizzato), che non solo rifinanzia il cosiddetto fondo salva-stadi per 45 milioni di euro, ma concede a questo tipo di progetto canali di approvazione preferenziali e rapidissimi. A questo punto non ci si sorprenderà nel sapere che l’emendamento contiene anche il relativo regalo ai costruttori sotto forma di permessi di edificare, insieme agli stadi, nuovi edifici di ogni ordine e grado.
Il testo, infatti, prevede non solo la costruzione o la ristrutturazione di “uno o più impianti sportivi”, ma pure di “insediamenti edilizi o interventi urbanistici, entrambi di qualunque ambito o destinazione, anche non contigui agli impianti sportivi”. Vale a dire palazzi, ristoranti, negozi pure a chilometri di distanza dal sito interessato. E il criterio con cui si autorizza una cosa del genere? Semplice: “Il raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario”. In parole povere, con la massiccia cementificazione del territorio si paga lo stadio.
Non si tratta, peraltro, di un problema circoscritto: è noto il caso della As Roma – che vuole costruire il “nuovo Olimpico” sull’ex Ippodromo di Tor di Valle – ma molte altre società sono interessate a questo lucroso affare tanto in Serie A che tra i cadetti (ben 11 squadre di B hanno già aderito a un progetto sul tema della loro Lega). Solo che il punto debole di questo tipo di progetto, solitamente, è più la complessa procedura autorizzativa che non la compatibilità economica. No problem, ci pensa il governo Letta inventandone una che ricorda le ricostruzioni post-terremoto. Funziona così: la società X presenta uno studio di fattibilità al comune interessato, il quale ha 90 giorni di tempo per dichiararne “l’interesse pubblico”. Se va bene, X può presentare il progetto vero e proprio e la Giunta comunale ha 120 giorni per il via libera: se poi la faccenda comporta “varianti urbanistiche o valutazioni di impatto ambientale” serve il sì definitivo della regione entro 60 giorni. Va bene, si dirà, ma se qualche Soprintendenza si mette di mezzo? Niente paura: se qualche ufficio preposto “alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, della salute o della pubblica incolumità” dà parere contrario, arriva nientemeno che Palazzo Chigi, il quale adotta o fa adottare entro 90 giorni massimo “i provvedimenti necessari”.
Non si pensi, però, che l’esecutivo Letta pensa solo ai costruttori: non si dimentica nemmeno delle banche. Stamattina è il gran giorno in cui il Consiglio dei ministri si occuperà della rivalutazione delle quote di Bankitalia: ora valgono simbolicamente 156 mila euro e sono in gran parte in mano a banche private (da Unicredit e Intesa in giù), il governo vuole portare la cifra a circa sette miliardi guadagnando così la relativa tassazione da plusvalenza, vale a dire poco meno di un miliardo e mezzo di euro una tantum. E gli istituti di credito che ci guadagnano? Un cospicuo rafforzamento delle loro traballanti basi patrimoniali. L’operazione andrà vistata da Bruxelles, ma presenta comunque più di un problema: intanto perché una legge imporrebbe allo Stato di ricomprarsi le quote (e così, quando lo farà, dovrà pagare di più) e poi perché su quelle quote si paga una sorta di dividendo, oggi molto basso ma destinato ad aumentare con la rivalutazione.
Sempre oggi, infine, pare che Letta riuscirà ad abolire la seconda rata dell’Imu per il 2013, anche se – a stare alle solite bozze – con coperture assai ballerine. Il costo dell’operazione sarebbe 2,4 miliardi: il Tesoro, però, vorrebbe far pagare la tassa almeno su terreni e fabbricati agricoli portando il conto totale a due miliardi. Problema: i ministri politici hanno detto di no. L’unica misura certa, al momento, è l’aumento degli anticipi Ires e Irap per banche e assicurazioni fino alla strabiliante percentuale del 120 per cento (un miliardo e mezzo di ultragettito), ma nel mirino c’è pure il cosiddetto risparmio gestito, cioè quello che i clienti affidano alle società finanziarie: si pensa a maggiori anticipi per quasi mezzo miliardo di euro. C’è un dubbio, però: Bruxelles accetterà coperture esclusivamente contabili?
Una efficace ricomposizione delle principali documentate denunce sui motivi dei disastri, del responsabile della Protezione Civile e delle associazioni ambientaliste. Corriere della Sera, 21 novembre 2013
ROMA — «Centri funzionali decentrati»: con questo nome astruso si chiamano le strutture regionali che dovrebbero essere i pilastri del sistema di allerta in caso di alluvioni. Ieri si è scoperto che nella Sardegna funestata dal ciclone Cleopatra quel «Centro» non era attivo. Anche se non è stata proprio una scoperta. Si sapeva dal 9 ottobre scorso, quando il capo della Protezione civile Franco Gabrielli aveva denunciato, in un’audizione alla Camera dei deputati, che a dieci anni di distanza dal provvedimento che le ha istituite, il 24 febbraio 2004, soltanto in dieci Regioni quelle strutture funzionano a pieno regime. Quali sono? «Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania e le Province autonome di Trento e Bolzano. Le Regioni non ancora attive sono sei: Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Umbria, Lazio, Molise e Calabria hanno invece attiva solo la parte idro e hanno il supporto del Dipartimento per la parte meteo». Parole del medesimo Gabrielli.
Il Friuli Venezia Giulia potrà rivendicare di avere una struttura regionale di Protezione civile assolutamente eccellente, mentre la Puglia ha già rispedito l’accusa al mittente, sostenendo che la colpa dei ritardi è tutta dell’apparato nazionale. Replica non incassata a sua volta da Gabrielli, che ha invitato le autorità pugliesi a non girare la frittata. Episodio, a prescindere dalle ragioni di ciascuno, che fa ben capire come il nostro federalismo pasticcione non abbia risparmiato nemmeno la Protezione civile: vittima di quella che il suo capo ha bollato come «una Babele di competenze» capace di frenare la prevenzione dei disastri ambientali. «Sul dissesto idrogeologico hanno competenze Autorità di bacino, Province, Regioni e Comuni», ha spiegato Gabrielli, aggiungendo che davanti a un alluvione come quella del 1966 a Firenze saremmo indifesi come allora.
Si è forse dimenticato qualcuno, il capo della Protezione civile: i consorzi di bonifica, per esempio. Ma il quadro è ugualmente disarmante. Tanto più che in questa Babele chi ha il compito di prevenire i dissesti fa esattamente il contrario. Dal febbraio del 2004 a oggi, quando sono stati formalmente istituiti i «Centri funzionali», i Comuni e le Regioni hanno continuato nell’opera di selvaggio e scriteriato consumo di suolo, ponendo le basi per future catastrofi più gravi. Se i cambiamenti climatici producono con sempre maggiore frequenza eventi estremi, i loro effetti «sono stati esacerbati», denuncia anche Gabrielli, «dagli ormai ben noti caratteri di elevata antropizzazione del territorio, dall’aumento del consumo di suolo alla conseguente notevole impermeabilizzazione delle superfici». Un allarme simile a quello lanciato nel rapporto 2012 perfino dall’Istat, che mai si era spinto prima di allora in valutazioni tanto critiche sulle questioni ambientali. E qui l’abusivismo c’entra ben poco. C’entrano invece i piani regolatori sfornati con leggerezza dai Comuni e vidimati con altrettanta leggerezza dalle Regioni. C’entrano programmi territoriali e piani paesistici regionali spesso insensati. C’entrano le sconsiderate variazioni di destinazione d’uso delle superfici che hanno fatto perdere all’Italia negli ultimi quarant’anni qualcosa come 5 milioni di ettari di terreni agricoli. E qui le responsabilità sono tutte delle classi dirigenti locali, spesso coinvolte nel torbido intreccio di interessi affaristici e speculativi.
Dice una indagine di Legambiente che «negli ultimi quindici anni il consumo di suolo è cresciuto in modo abnorme e incontrollato», con il risultato che nel 2011 il 7,6% del territorio italiano non era più naturale: parliamo di una superficie superiore a quella dell’intera Toscana. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella della media europea (4,3%) e della stessa Germania (6,8%), Paese pressoché interamente pianeggiante (mentre un terzo del territorio italiano è montuoso) e con una densità abitativa superiore di circa il 15 per cento alla nostra.
Ancora. Nel 2007 a Napoli e Milano il 62% del suolo comunale era impermeabilizzato. A Roma, nei 15 anni fra il 1993 e il 2008, ben 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e occupati da abitazioni inutili. Nel 2009 si contavano nella capitale 245.142 abitazioni vuote: record nazionale assoluto. Ma al secondo posto c’era Cosenza con 165.398 case vuote, numero superiore di quasi due volte e mezzo a quello degli abitanti della città.
E mentre si prosegue a tirare su dappertutto palazzine e centri commerciali al ritmo (stime del ministero dell’Agricoltura) di cento ettari al giorno, un anno fa il Dipartimento della Protezione civile informava che ben quindici Regioni non avevano presentato l’elenco dei Comuni con i piani d’emergenza aggiornati: questo in un Paese come l’Italia che ha ben 6.600 enti locali su poco più di 8 mila sui quali incombe il rischio idrogeologico. Per non parlare poi delle scaramucce fra il centro e la periferia che vanno avanti dal 2001, anche a colpi di ricorsi alla Corte costituzionale.
Al verificarsi di tragedie come quelle di Sardegna 2013, Maremma 2012 e Liguria e Toscana 2011, contribuisce certo la cronica mancanza di denari da destinare alla prevenzione. Trenta milioni l’anno, quanti ne sono stanziati dalla legge di stabilità, in effetti sono pochini per un Paese che avrebbe bisogno di un miliardo e mezzo l’anno per almeno un decennio. Ma siamo sicuri che la carenza di risorse non sia in qualche caso una scusa per pietose autoassoluzioni? Ha fatto scalpore in Liguria una denuncia del gruppo regionale del Popolo della Libertà, spalleggiato dall’allora capogruppo del partito all’europarlamento, l’attuale ministro della Difesa Mario Mauro, secondo cui appena il 7 per cento dei fondi europei venivano impiegati per prevenire il dissesto, in una delle Regioni più a rischio. Argomentazioni «pretestuose», per l’assessore regionale Enzo Guccinelli.
E ricordate invece la tragedia di Messina del 2009, quando un alluvione provocò la morte di 37 persone? Mentre infuriavano «pretestuose» polemiche la Regione siciliana, punta sul vivo, diramò un comunicato nel quale sosteneva che in dieci anni aveva speso 200 milioni di euro allo scopo di prevenire il dissesto idrogeologico nel solo messinese. Ma qualcuno dei solerti dirigenti regionali si era forse accorto delle palazzine spuntate come funghi nell’alveo dei torrenti?
Usare nostalgia e tradizione per promuovere obiettivi di innovazione? Pare questa, la prospettiva di ricucitura percettiva di un quartiere. Corriere della Sera Milano, 20 novembre 2013, postilla (f.b.)
Dieci itinerari per scoprire la vecchia Greco, borgo con una storia antica, che il rilevato ferroviario spezzò in due negli anni Venti, ma oggi ritrova la propria identità, grazie all’azione decisa dei cittadini. Le «Social walking» sono passeggiate serali che l’associazione 4 tunnel organizza ogni lunedì sera. La voce narrante, che svela tratti inediti di questo angolo di città, è quella di Gianni Banfi, lo «storico» di Greco. Ed è così che in una sera umida e piovosa, zigzagando da via Cavalcanti a via Venini, con il naso all’insù ad ammirare facciate di palazzi decorati in stile Art Noveau, Liberty e Decò, si arriva a piazza Morbegno, dove s’affaccia l’edificio del Terragni, esponente della corrente razionalista del Ventennio, che è meta ogni giorno di visita di turisti giapponesi.
Mentre sull’altro lato del Rilevato ferroviario, si organizza per giovedì sera un incontro per la riqualificazione della via Gluck, che sabato sarà anche oggetto di un maquillage mirato, di qua dal rilevato i residenti riscoprono il quartiere che contende a Gorla l’appellativo di Piccola Parigi. Il primo itinerario parte dal Museo della Shoah. Un altro conduce alla Casa del Glicine di via Tresseno, l’itinerario ‘arancio’ ci accompagna lungo el «vie del silenzio» di via Venini. «Un tempo si chiamava via Libertà - spiega Banfi -. Qui, da Ferrante Aporti a viale Monza c’era la Greco Urbana, del commercio e della residenza, di là la Greco ‘capoluogo’ agricola e poi sede di industrie piccole e grandi, fino alla Pirelli, con la sede del Comune, la chiesetta, la cinquecentesca cascina Conti. Greco era un comune rosso, socialista, che aveva assorbito una quantità di persone qui immigrate da tutta Italia. Il fascismo cambiò nome a tutte le strade».
I protagonisti insistono a sottolineare il valore culturale delle passeggiate: «Vogliamo ripopolare le nostre strade, abitarle, ma prima di tutto occorre conoscerle - spiega Irma Surico, di 4tunnel-. Vogliamo anche vedere ciò che non va, parlarci, e questo è un modo per collaborare a migliorare la qualità della vita». Bella la piccola Greco, che al tempo dei Savoia si chiamava Segnano. Tante le ipotesi a che si debba quel nome, Greco. «Forse alla direzione del vento (il grecale) che spira a Nord-Est dove il borgo nacque. Novant’anni dopo essere stato declassato a quartiere di periferia, oggi Greco ritrova la sua identità.
postillaQualche settimana fa, a Milano si discuteva dei motivi non strettamente culturali e psicologici dell'incidente con tre morti di via Famagosta, in un quartiere tagliato a metà da un'arteria automobilistica di grande scorrimento che di fatto trasformava in due universi incomunicanti i due lati della strada. Anche giustamente, molti commentatori preferivano invece privilegiare proprio questi aspetti soggettivi e psicologici: il problema non era tanto l'impatto urbano dell'infrastruttura, ma il modo di percepirla e usarla, individuale e collettivo. Per molti versi si può dire che l'Associazione 4 Tunnel, coerentemente al proprio nome (sono i passaggi sotto il rilevato ferroviario, unici trait-d'union fra i due lati del quartiere Greco) stia tentando di aggredire il problema su entrambi i fronti. Usando la nostalgia del bel tempo che fu per recuperare un'idea unitaria di quartiere, brutalmente tagliato dalla mannaia ferroviaria della Stazione Centrale. Usando invece idee assai moderne di recupero degli spazi dismessi, per ricucire fisicamente il tessuto urbano. Un processo certamente da seguire, sperando che questa azione su due fronti sia consapevolmente perseguita, ovvero che l'obiettivo non si limiti a discutibili patchwork di idee di salvaguardia locale come quella, giustamente un po' contestata, della via Gluck di celentaniana memoria (f.b.) QUI il sito dell'Associazione, per capirne di più