Merlo sostiene nel suo articolo che »la Provincia è come la coda della lucertola, quando la tagli ricresce. Nessuno è mai riuscito ad abolirla, è uno degli impossibili della politica italiana, come la riforma della Rai. L’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione e delle clientele, la piccola patria degli uscieri, il centro di spesa del keynesismo straccione ha questa misteriosa facoltà di resurrezione».
Vorrei ricordare molto sommariamente i fatti. Quando la Repubblica subentrò alla monarchia fascista già da tempo si sapeva che non esisteva più una contrapposizione netta tra città, - grandi, medie e piccole - paesi, e campagna, e che le relazioni tra città e paesi limitrofi stavano divenendo tali da richiedere strumenti, come si dice in gergo, di “area vasta”. Una serie di esigenze (dai trasporti locali allo smaltimento dei rifiuti, dalla localizzazione delle attività produttive e commerciali alla razionalizzazione dell’agricoltura, dalla tutela dell’ambiente, a quella del paesaggio dall’organizzazione scolastica a quella sanitaria e alla politica della casa) richiedevano che l’impiego del metodo e degli strumenti della pianificazione del territorio fosse praticato non solo alla scala urbana (e questo lo si era compreso da tempo, perfino in Italia) ma anche nella “dimensione d’area vasta”. I padri costituenti pensarono che l’istituzione delle Regioni avrebbe risolto il problema. Ma di fatto, grazie allo spntaneismo cui era stata lasciata la ricostruzione postbellica negli anni Cinquanta l’urbanizzazione aveva pesantemente modificato l’organizzazione e la vita dell’insediamento e la vita degli uomini sul territorio: le relazioni tra le varie parti dell'habitat dell'uomo erano diventate più fitte e intrecciate.
Per organizzare in modo efficace una serie le esigenze la dimensione della regione era troppo ampia e quella comunale troppo stretta. Si tentarono molte strade. Si cercava (questa era la logica di quegli anni lontani) la pianificazione che fosse “democratica”, quindi di titolarità pubblica e praticata da istituzioni elettive dai cittadini. Era necessario un livello intermedio” tra regione e comuni, soprattutto per quei problemi cui abbiamo accennato: dove trovarlo?
Si tentò la strada dei Comprensori, in varie versioni: o come articolazione tecnico-burocratica della regione, o come associazioni di comuni. Entrambe fallirono. Nel primo caso l’istituzione dominante era la regione, nel secondo caso era un ente elettivo di secondo grado (i membri del suo consiglio non erano eletti dai cittadini ma dai consigli dei comuni che erano compresi nel suo ambito). Ci si accorse che mentre i comprensori come emanazione delle regioni incontravano l’ostilità dei comuni, la forma associativa era inefficace perché ogni membro del consiglio rappresentava il proprio comune, e quindi l’accordo era di fatto impossibile. Del resto, modificare la Costituzione per inserire, accanto a regione, provincia e comune anche il comprensorio avrebbe richiesto troppo tempo. A qualcuno venne un’idea abbastanza ovvia: perché non "recuperiamo le istituzioni esistenti"? Esistono le province, inventate dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico). Partiamo da questo
Negli ordinamenti di radice napoleonica si era proceduto in questo modo. Tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, si erano tracciati i confini delle province sulla base di ragionamenti squisitamente territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato. Con la Costituzione repubblicana le province erano diventate istituzioni rappresentative elettive di primo grado, cioè elette direttamente dai cittadini, e le loro funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola.
Nell’ambito dello stesso ragionamento si affrontò un altro problema: quello delle aree metropolitane, parti del territorio dove la continuità edilizia, la prevalenza delle relazioni interne su quelli verso l’esterno, le caratteristiche dell’ambiente naturale richiedevano un potere più incisivo di quello affidato alle province: competenze non solo di pianificazione ma anche di gestione. Si arrivò così a definire l’istituto delle “città metropolitane”. Nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane: queste furono le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni.
Perché quelle riforme non vennero attuate? Accadeva un tempo che i legislatori fossero più lungimiranti della politique politicienne: le leggi erano basate sulla convinzione che la politica seguisse direttive della legge ene rispettasse le prescrizioni. Così non fu. I politici erano diventati politicanti. Le province furono considerate istituzioni di secondo livello, dove collocare il personale cui non poteva, o non si voleva, assegnare un ruolo di sindaco o di legislatore regionale. Le città metropolitane avrebbero sconvolto equilibri di potere, tra i partiti e nei partiti, che era meglio non turbare. Tuttavia, le esperienze positive delle nuove province non mancano, sebbene nessuno specifico servizio d’informazione dell’opinione pubblica sia stato fatto.
Non è detto affatto che la soluzione maturata in quegli anni lontani fosse, e sia ancora oggi, la migliore. Altri paesi hanno praticato altre soluzioni. Esaminarle nei loro specifici contesti sarà certamente utile (proveremo a farlo nel prossimo seminario di eddyburg). Così come sarebbe utile misurare i costi della mancata attuazione dell’ordinamento provinciale, e della sua abolizione. Certo è che un governo democratico d’area vasta è oggi più che mai necessario. E’ un vuoto che, in assenza di una risposta democratica, altri poteri si apprestano a colmare.
Essenziale sarebbe oggi il ruolo delle province in ordine ad alcuni problemi essenziali: dal controllo e contenimento del consumo di suolo, alla politica della casa, alla promozione dei trasporti collettivi, alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Problemi che riemergono ogni volta che un disastro naturale, o l’accumularsi di situazioni di disagio (le ferrovie dei pendolari, la mancanza di abitazioni a prezzi e in luoghi sdegiati, l’esondazione di un fiume, o la constatazione di un danno irreversibile (il consumo di suolo, la cementificazione del paesaggio) fanno versare lagrime Le province saranno forse come la coda della lucertola, come sostiene Merlo. ma le lacrime di molti opinion makers ricordano quelle di animali di forma analoga ma distazza maggiore.