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la Repubblica, 30 aprile 2018. La decisione preliminare è se Venezia debba soccombere alla peste della turistificazione, e quindi diventare compiutamente un "parco a tema", oppure essere un modello del rapporto tra società e ambiente

Sui tornelli di Venezia hanno ragione i no-global del centro sociale Morion. Hanno ragione quando dicono che non c’è bisogno di cancelli, ma di case. La morte della città, infatti, non si ferma con misure estemporanee dal sapore poliziesco e propagandistico, ma solo tornando a governarla, tornando a dire e a pensare la cosa più ovvia, e insieme più negata e più rivoluzionaria: Venezia è una città. Non una location, non un grande resort o una colossale seconda casa per ricchi, non lo sfondo per le micidiali Grandi Navi. Non tutto questo, ma una città.

Il problema di Venezia non si risolve se si parte dai numeri in entrata (i turisti): bisogna cambiare quelli in uscita ( i residenti). Al tempo di Tiziano la città, delle stesse dimensioni di quella di oggi, aveva quasi 170.000 abitanti: oggi non si arriva a 50.000. Questo è il problema. E la soluzione è invertire la rotta delle politiche che hanno causato questo esodo di massa. Tornare a governare i prezzi del mercato immobiliare, il proliferare di strutture ricettive, reimpiantare i servizi necessari a chi ci vive ogni giorno, fare manutenzione della città. Bisogna far «convivere insieme il monumento artistico e la bottega artigiana, il palazzo del ricco e le case di chi in quei quartieri è nato e vive, la festa popolare e la festa d’arte con i suoi ospiti e i turisti che le fanno corona. Si tratta d’una politica attenta, dimensionata sui contesti specifici, differenziata luogo per luogo, quartiere per quartiere; accettabile e comprensibile in primo luogo dalle singole comunità, da coloro infine che sono i soli depositari dell’identità storica e umana dei luoghi». Sono parole di Eugenio Scalfari, scritte su questo giornale in un illuminato articolo del 1989 che denunciava, all’indomani del distruttivo concerto dei Pink Floyd, «l’uso scellerato che una classe politica inetta e incolta fa di Venezia in particolare e delle città d’arte italiane in generale». Parole tutte vere ancora oggi: anzi, oggi rese più gravi e urgenti da altri trent’anni di errori gravi. L’articolo si intitolava “I vandali in Comune”: e bisogna riconoscere che la distruzione di Venezia come città è una grave responsabilità delle amministrazioni degli ultimi decenni.
Oggi siamo arrivati al bivio finale: o si lasciano perdere gli imbarazzanti diversivi dei tornelli e dei numeri chiusi, e si ricomincia a governare Venezia con in mente un progetto di città, o non ci sarà nulla da fare.
In St. Mark’s Rest, l’ultimo suo grande tributo a Venezia (1877-84), John Ruskin si lascia andare a un fulminante gioco di parole: la decadenza della città era iniziata quando le autorità veneziane avevano iniziato a credere al «regno di San Petrolio invece che a quello di San Pietro » . Ruskin vedeva che la religione del mercato soppiantava la religione civile del bene comune. E non poteva scegliere parola più profetica: il petrolio. Quello delle Grandi Navi, ma soprattutto quello metaforico della rendita del patrimonio culturale, che distrugge anche Firenze e tante altre “città d’arte” che non sono più governate, e vivono alla giornata dei frutti di un turismo che le svuota e le consuma. Città ridotte a una somma di interessi privati il cui risultato è lontanissimo dal bene pubblico.
Piero Bevilacqua ha scritto che «la storia di Venezia è la storia di un successo nel governo dell’ambiente che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città». La lezione è chiara: non serve la polizia all’ingresso del luna park, bisogna ritrasformare quel luna park in una città.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Di fronte al disagio abitativo, la violazione dei diritti e i danni ambientali provocati dalla crescente ascesa dell'industria turistica, una rete di movimenti del Sud Europa ha creato un manifesto per cominciare ad opporre resistenza. con riferimenti (i.b.)

In molte città del Sud Europa stanno nascendo movimenti di resistenza ai processi di turistificazione che le stanno investendo. Associazioni e collettivi di alcune di queste (Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Girona, Donostia/San Sebastian, Canarie, Camp de Terragona, Barcellona) si sono incontrati nel corso dell’ultimo anno in diverse occasioni, con l’obiettivo di condividere e scambiare esperienze e conoscenze.

Anche se ognuna di queste città presenta problemi specifici legati a questo fenomeno, alcuni sono senza dubbio comuni a tutte loro:

Di fronte a questi e altri conflitti, la popolazione locale ha iniziato a organizzarsi per difendere i suoi diritti sociali, primo fra tutti, il diritto a un alloggio dignitoso e accessibile e il diritto alla città. Il lavoro collettivo che nelle nostre città stiamo realizzando spesso comincia dalla messa in evidenza di questi conflitti e dall’acquisizione di una maggiore consapevolezza, passando per la critica al modello turistico e la denuncia delle sue conseguenze, e continuando con la proposta di vie alternative.

Esempi di queste ultime, sono la richiesta di imposizione di limiti all’industria turistica, la deturistificazione dell’economia della città, o la decrescita turistica accompagnata da politiche di stimolo di altre economie più eque dal punto di vista sociale e ambientale. Il grado d’incidenza di questi problemi nelle diverse città non è affatto omogeneo, anzi molto variabile, giacchè spesso dipende direttamente dal grado di turistificazione che le colpisce. Così ci sono stadi più avanzati e gravi, ad esempio Venezia, Palma o Barcellona, dove è evidente la necessità di un cambio di modello e altre, come Valencia, Madrid o Lisbona che, nonostante si trovino immerse in rapidi processi di turistificazione, possono ancora aspirare a politiche di prevenzione o freno.

Su questi e altri argomenti, in queste e in altre città abbiamo trovato molti punti in comune, elogicamente abbiamo iniziato a pensare all’opportunità e necessità di creare una rete internazionale di città colpite dall’industria turistica.

L’obiettivo, oltre al supporto e al confronto reciproci, è di estendere questa lotta ad altre città e territori, creando una voce plurale e potente di critica al modello turistico attuale che si alzi dal Sud Europa. Questo manifesto è il primo passo per la internazionalizzazione della lotta alla turistifcazione delle città e dei territori, attraverso il quale continuiamo il dibattito, la riflessione e la mobilitazione comune.

Riferimenti

Il manifesto della rete SET (Sud Europa contro la Turistificazione) è stato presentato pubblicamente il 24 Aprile in tutte le città coinvolte. Nato sotto la spinta di una serie di organizzazioni e movimenti spagnoli, ha cercato sin dall'inizio di coinvolgere altre realtà europee, soprattutto dei paesi mediterranei, più fragili ambientalmente e più aggrediti dal turismo di massa, diventato oramai la nuova forma di colonizzazione, che relega ai margini - fisici, economici e sociali - i residenti delle città turistiche.
Qui potete accedere al video della rete e alla pagina facebook.

Segnaliamo alcuni dei numerosi articoli sugli effetti dannosi del turismo raccolti in eddyburg. Intramontabile l'articolo di Luigi Scano del 2006 sul Turismo insostenibile, che già allora sosteneva come il turismo minaccia di devastare Venezia. Un breve, ma significativo estratto del libro di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, dove si spiega come il turismo non solo devasta le città a causa per la sua invadenza nella vita quotidiana dei residenti, ma la uccide in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica.

Su Venezia, consigliamo il testo di Clara Zanardi Non solo navi. Sull'impatto antropico sul turismo contenente una profonda analisi dell'impatto del business croceristico sulla città. L'intervista al sociologoveneziano Giovanni Semi, Venezia stregata dal turismo urge rompere l'incantesimo sul nuovo capitalismo finanziario che attraverso la monocultura turistica accelera i meccanismi di espulsione e di disuguaglianza abitativa. Dalla penna di Paola Somma si legga Bella gente, sulla quale il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro focalizza le sue politiche urbane, moltiplicando i favori all' industria del turismo e regalando sostanziosi incentivi agli sviluppatori immobiliari che stanno distruggendo il territorio lagunare.

Su Firenze, segnaliamo gli articoli di Ilaria Agostini Firenze. Il turismo consuma il diritto alla casa, che spiega come politiche mercantilistiche hanno cambiato la natura antropologica della residenza, e di Paolo Baldeschi Firenze. La movida, il turismo e la città desiderata, con un ampia analisi dei problemi derivanti dal turismo sregolato di massa e la svendita della città al turismo "ricco".






la Stampa, 30 aprile 2018. Ragazzi veneziani contro lo sfruttamento turistico del territorio. Sradicano il recinto nel quali gli sfruttatori vogliono rinchiudere la città ex Serenissima, e trasformarla in un "parco a tema". Chissà se domani, 1° maggio, i sindacati scenderanno in campo al loro fianco.

«Il blitz di una trentina di giovani ai piedi del Ponte di Calatrava, a Piazzale Roma: "La città non è un parco giochi"»

Al grido di «Venezia libera» hanno messo le mani sui tornelli, sradicandoli dai masegni su cui venerdì pomeriggio sono stati piazzati, in uno dei principali ponti d’accesso alla città: il controverso ponte della Costituzione disegnato da Santiago Calatrava. A difendere le barriere mobili provando a trattenerle al loro posto, con un vero e proprio scontro sul piano fisico, sono stati gli agenti della polizia municipale. Sul posto era presente anche il comandante Marco Agostini che ha garantito che la struttura sarà ripristinata quanto prima. Cento cinquanta gli agenti schierati nel fine settimana a presidio dei varchi. Una trentina invece gli attivisti, aderenti al Laboratorio occupato Morion, al Centro Sociale Rivolta, al Sale Docks e al Collettivo Lisc, che hanno messo in atto la manifestazione.

«Questi check point sono la dimostrazione della volontà di questa amministrazione di trasformare definitivamente Venezia in un parco a tema. Sono il simbolo della decisione di pensare alla nostra città come a uno spazio inabitato, solamente a uso turistico, da sfruttare e mettere a valore» è il messaggio scandito dal megafono e rilanciato in rete gli attivisti.

Ieri, sabato 28 aprile, il primo giorno in cui l’ordinanza avrebbe permesso alla polizia locale di far scattare la chiusura e le conseguenti deviazioni su percorsi alternativi la temuta serrata non c’è stata. Il dispositivo rimane però in vigore fino al prossimo martedì, insomma, per l’intero lungo ponte in cui a Venezia è previsto il tutto esaurito non è escluso che scattino le deviazioni. Per scongiurare il pericolo ressa e «tutelare l’incolumità pubblica» il sindaco Luigi Brugnaro ha firmato il 24 aprile l’ordinanza che per la prima volta mira a contenere la calca e indirizzare i turisti su percorsi alternativi con sistemi meccanici. Come previsto questa mattina c’è stato l’assalto dei turisti. Già dalle prime ore è scattato il “tutto esaurito” nei parcheggi privati di Piazzale Roma imponendo la deviazione obbligatoria verso il Tronchetto delle auto provenienti da Mestre.

Due i varchi presidiati dai tornelli: il ponte di Calatrava a Piazzale Roma e quello degli Scalzi ai piedi della Ferrovia. Nel caso di chiusura costringerebbero i turisti ad effettuare un giro più ampio per raggiungere il cuore della città. Via libera invece per i residenti a cui l’accesso è sempre consentito. «Questi tornelli non c’entrano nulla con il controllo dei flussi - hanno ribadito i manifestanti - se questa giunta volesse contenere il turismo di massa avrebbe dovuto iniziare una vera politica per la città e per la residenza».

il manifesto, 28 aprile 2018. A sei anni dall'inizio del processo, la sentenza della Cassazione ha annullato le condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino ai manifestanti NO TAV degli scontri in Val di Susa nel 2011, con postilla (i.b)

La sentenza della Cassazione che ha annullato pressoché in toto le pesanti condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino nel maxiprocesso per gli scontri in Valsusa nel 2011, è una smentita senza precedenti dei teoremi di Procura e giudici torinesi nei confronti dei No Tav.

Non è certo la prima. Basta ricordare, per limitarsi ai casi più noti, la caduta rovinosa dell’imputazione di terrorismo nel processo per il danneggiamento di un compressore e l’annullamento di numerose misure cautelari. Ma questa volta la smentita è, se possibile, ancora più significativa. Per coglierne il senso conviene ripercorrere la vicenda.

I fatti risalgono all’estate del 2011 e si verificano alla Maddalena di Chiomonte dove, all’esito di numerosi ripensamenti, si è deciso di cominciare lo scavo del tunnel geognostico propedeutico alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione. Lì si organizza l’opposizione della Valle con un presidio di migliaia di persone che, il 27 giugno, vengono sgomberate, con inaudita violenza e con un uso massiccio di lacrimogeni, da reparti di varie polizie in assetto di guerra. Allo sgombero fa seguito, il 3 luglio, un imponente corteo di protesta all’esito del quale si verificano pesanti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Sei mesi dopo il gip di Torino emette 41 misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav imputati di violenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e di lesioni.

La lettura del provvedimento dimostra un inedito salto di qualità dell’intervento giudiziario che, da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali, si trasforma sempre più in strumento di tutela dell’ordine pubblico.

Le misure cautelari, pur facoltative, vengono emesse per reati che consentono, con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena e vengono giustificate tra l’altro, con la singolare considerazione che «i lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati».

La motivazione si concentra, più che sulle condotte individuali, su una ritenuta responsabilità collettiva sino all’affermazione che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».

La pericolosità degli imputati viene desunta essenzialmente da rapporti di polizia e, per uno di essi, addirittura dal fatto che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare «Lotta Continua» e «Potere operaio» e partecipa a una manifestazione non preavvisata» (sic!). Il seguito è coerente, all’insegna di quello che è stato definito il «diritto penale del nemico». Il procuratore della Repubblica interviene di continuo sulla stampa affermando in modo tranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico».

I vertici degli uffici giudiziari torinesi non consentono lo svolgimento a palazzo di giustizia di un convegno sul tema organizzato dai Giuristi democratici. Il processo è sostenuto in modo acritico da un’alleanza di ferro tra fautori dell’opera, Partito democratico e media locali e nazionali. Interviene persino il presidente della Repubblica che «rinnova l’apprezzamento per come magistratura e forze dellordine stanno operando in quella tormentata area della Valsusa»).

In questo clima, e in aule presidiate da forze di polizia come se fossero campi di battaglia, si svolgono i dibattimenti di primo e di secondo grado che si concludono con pesanti condanne di gran parte degli imputati. Ebbene, oggi, sei anni dopo l’inizio del processo, la Cassazione riconosce l’inconsistenza e la forzatura di questa operazione.

Certo, occorre aspettare le motivazioni. Ma, intanto, alcune cose sono chiare già dal dispositivo: che le motivazioni delle condanne non sono congrue (tanto da imporre un nuovo processo per quasi tutte le posizioni), che alcuni dei reati contestati semplicemente non esistono (tanto da determinare l’annullamento della sentenza sul punto), che la sostituzione della responsabilità individuale con una inedita responsabilità collettiva a titolo di concorso non può avere cittadinanza nel nostro sistema, che alcune delle pene inflitte sono eccessive. È quanto basta per dire che è necessaria una completa rilettura della vicenda.

postilla

E' una buona giornata per chi lotta contro gli scempi compiuti da classi dirigenti che nella migliore delle ipotesi sono semplicemente incapaci di governare i nostri territori e nella peggiore sono solo interessati ad ottenere benefici personali alle spalle del paese e dei suoi abitanti, nascondendosi dietro la retorica del progresso, della modernità e dello sviluppo economico. Gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese che costruiscono opere inutile e dannose e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Sull'argomento vedi in eddyburg gli articoli di Marco Aime No Tav. Fuori dal tunnel, e di Tomaso Montanari Vuoi grandi opere?

Il Sole 24 Ore e la Nuova Venezia, 27 aprile 2018. Articoli di Luisanna Benfatti e Alberto Vitucci. Per obbedire all'Unesco si vorrebbero regolare con recinti e tornelli i flussi dei turisti. Con postilla.



Il Sole 24 Ore
VENEZIA “CHIUDE” PER IL LUNGO PONTE

PREVISTE MISURE STRAORDINARIE
PER DEVIARE I TURISTI
Se avete in agenda un salto a Venezia per il lungo ponte, fate attenzione e leggete attentamente le istruzioni del Comune in tempo reale sui social, perché l’accesso potrebbe esservi negato o risultare problematico e poco piacevole. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha firmato il 24 aprile un'ordinanza che autorizza la Polizia locale a una serie di misure urgenti dal 28 aprile al primo maggio, giornate nelle quali è prevista un'affluenza straordinaria di visitatori nella città storica.

Accesso libero per i soli residenti: le misure di controllo
Come si legge nella ordinanza: “In quelle giornate potrà essere deviato l'accesso pedonale sulla direttrice Piazzale Roma, Stazione di Santa Lucia, Strada Nuova, consentendone l'accesso ai soli residenti e frequentatori abituali della città e ai visitatori diretti nel sestiere di Cannaregio e nella porzione del sestiere di Castello limitrofa a San Giovanni e Paolo. I flussi turistici verso Rialto o San Marco saranno fatti proseguire su percorsi alternativi. I lancioni gran turismo provenienti dai Comuni di Cavallino-Treporti, Jesolo, Musile di Piave e Quarto d'Altino avranno il divieto di sbarco in Riva degli Schiavoni e dovranno indirizzarsi alle Fondamente Nuove. Inoltre, il Ponte della Libertà potrà essere limitato alla circolazione dei soli veicoli di chi è abbonato alle autorimesse di Piazzale Roma e Tronchetto, ai taxi, ai veicoli dei noleggiatori e agli autobus di linea, per evitare congestioni in Piazzale Roma.

«Ho voluto firmare un atto pubblico, forse la prima in Italia - afferma Brugnaro - in cui si decreta uno stato di bollino nero per Venezia, con lo scopo di gestire il traffico sia pedonale che acqueo e smistare i flussi delle persone. Il nostro obiettivo è informare quanti vogliono venire a visitare la città che nei prossimi giorni potrebbe esserci un'affluenza straordinaria di persone tale da renderne difficoltosa la visita. Sappiano tutti che i turisti, se vengono rispettando la città, sono i benvenuti. Al tempo stesso, però, abbiamo il compito di salvaguardare Venezia ed è per questo che abbiamo adottato delle misure possibili in base a quanto consentito dall'attuale ordinamento, un'occasione per sperimentare un nuovo sistema di gestione del turismo”.

Il Comune di Venezia, in base alle notizie fornite dalla Polizia Locale, aggiornerà costantemente gli utenti sulle possibili deviazioni di percorso attraverso i propri profili Facebook e Twitter e i siti istituzionali.

Marco Scurati, portavoce del Comitato Turismo Sostenibile, critica la decisione del sindaco “modello garage-aspetto che qualcuno esca per entrare” presa all’ultimo minuto come misura urgente: «Bisognerebbe come abbiamo più volte evidenziato come associazione, porre un limite in tempi diversi che preveda una programmazione più ordinata dei flussi turistici, soprattutto di quelli giornalieri. Venezia è un luogo limitato, è un isola fatta da tante isole collegate da ponti, circondate dall'acqua, strade strette fatte secoli fa, un patrimonio storico da tutelare, non si può estendere in superficie o in altezza su più piani, la compenetrazione dei corpi non è ancora possibile, e il crescente flusso di masse di turisti frettolosi di poche ore è insostenibile. La città si sta spopolando anche a causa dell'eccessiva pressione turistica, è un luogo/prodotto con una domanda infinita ma un'offerta limitata.

I residenti da 175.000 nel 1951 oggi sono 52.000, i turisti oltre 30milioni. I letti di strutture ricettive ufficiali senza contare quelli degli ostelli e hotel low cost che apriranno a breve a Mestre, erano a Venezia nel 2016 52.500 (di cui 30000 alberghiere) un numero superiore a quello degli abitanti: caso unico al mondo. Bisognerebbe quindi al più presto stabilire un numero limite di capienza con un sistema di prenotazione online che regoli l'accesso alla città o più facilmente all'area marciana (piazza San Marco) senza penalizzare i pernottanti che contribuiscono all'economia e poi attivarsi affinchè venga rispettato. Se il Comune non agirà in questa direzione la mia città diventerà, come ha già sottolineato la Cnn in “12 destinations travelers might want to avoid in 2018”, una meta da evitare”.
Una fine tristissima per la Serenissima.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

la Nuova Venezia
INCUBO FLUSSI
di Alberto Vitucci

S. Marco vietato ai lancioni
«Pronti alla mobilitazione»
Flussi pedonali dirottati. E lancioni provenienti da Punta Sabbioni spostati alle Fondamente Nuove. Sono le due novità previste nell'ordinanza per il ponte del primo Maggio, in vigore da domani a martedì. Primi tentativi per tentare di guidare un flusso turistico che si annuncia di grande impatto, come si è visto nelle «prove generali» di Pasqua. Ma sui lancioni già arrivano le prime polemiche.
«Non vorremmo che le Fondamente Nuove si trasformassero in un nuovo Tronchetto, non potremo più vivere nemmeno qui a Cannaregio», allarga le braccia un residente. «Nessun problema, è un provvedimento sperimentale, che si farà solo per pochi giorni l'anno, quelli da bollino nero», dicono a Ca' Farsetti. Ma il divieto di sbarcare a San Marco provoca anche la reazione dei proprietari dei lancioni. «Decisione folle, presa dalla sera alla mattina», sbotta Luca Manara, amministratore delegato della Marco Polo, una delle più importanti aziende per il trasporto con Gran Turismo, «faremo una simulazione di quello che può succedere portando barche di 30 metri per sette in quel canale. E dove sbarcheranno le persone? In una fondamenta larga tre metri?».
La protesta monta. Perché ovviamente i tour operator che provengono da Punta Sabbioni e dal litorale non ci stanno a essere «declassati» e sfrattati da San Marco. «Alle Fondamente Nuove ci sono anche problemi di traffico», insiste Manara, «quel luogo è un crocevia già oggi pericoloso. Ci passano vaporetti, motoscafi, taxi, diretti all'aeroporto, ambulanze per la vicinanza dell'Ospedale. È un rischio». Così le compagnie di Gran Turismo del litorale dimostreranno oggi quanto sia difficile manovrare in quel tratto di laguna. «Senza contare il fatto», dicono, «che abbiamo contratti già firmati con le guide. E i gruppi non ci stanno a essere sbarcati lontano da San marco. Non ci sembra nemmeno molto coerente, ma penalizzante solo per la nostra categoria. Si dice che si vogliono limitare i turisti mordi e fuggi. Ma hanno costruito alberghi dappertutto in terraferma: 4.800 nuovi posti letto. Gente che arriva di colpo con il treno e intasa la città».
Il tema dell'allontanamento dei lancioni dall'area marciana non è di oggi. Se ne parlava anche dieci anni fa, quando questo tipo di imbarcazioni ha cominciato ad aumentare, ipotizzando allora uno spostamento a Sant'Elena. Bocciato dai residenti. Traffico pericoloso e concentrato alla Ca' di Dio e davanti alla caserma Cornoldi. Migliaia di persone scaricate alla stessa ora nei barconi che arrivano dal Tronchetto, ma anche da Chioggia, dal litorale, da Jesolo. La trasformazione dell'area è evidente, con l'arrivo di decine di mega bancarelle e venditori ambulanti. Ma adesso l'area di San Marco è satura. Così il Comune ha pensato di cominciare la sperimentazione per allontanare una parte dei Gran Turismo da San Marco. E mandarli alle Fondamente Nuove, dove adesso sono attraccati in parcheggio motoscafi e battelli dell'Actv. Tra qualche giorno cominceranno i lavori per rifare i pontili. Così anche l'area Nord della città, fino a oggi abbastanza "salva" dalle orde dei turisti giornalieri, diventerà una meta per questo tipo di visitatori e per le comitive di massa. «Solo in giorni particolarmente difficili», ripetono al Comune.Ma resta eluso il grande tema sollevato da Unesco e Italia Nostra. Come si fa a ridurre la pressione su Venezia? Basterà spostare gli arrivi, già ben oltre il limite, da San Marco alla parte Nord della città

la Nuova Venezia
«GIORNATE DA BOLLINO NERO

DOBBIAMO SALVARE LA CITTÀ»
di Alberto Vitucci
«Il Comune, in accordo con l'Unesco, sta sperimentando nuove misure per i flussi
Il sindaco: “Non vogliamo chiudere il centro, in caso solo il Ponte della Libertà”»

Venezia. La parola chiave è «bollino nero». Come per le autostrade. Nei giorni di «bollino nero» scatteranno limitazioni e deviazioni dei flussi pedonali e dei lancioni Gran Turismo. Non è ancora la limitazione dei flussi, ma un primo passo verso la loro regolamentazione. «Abbiamo adottato le misure possibili in base a quanto consentito dall'attuale ordinamento», dice Brugnaro, «un'occasione per sperimentare un nuovo sistema di gestione del turismo». Il sindaco spiega che il Comune sta studiando misure «in accordo con l'Unesco» per diminuire la pressione turistica sulla città storica.

«Lo scorso anno abbiamo spiegato all'Unesco che avremmo misurato il traffico, ma non possiamo impedire l'accesso alla città e non vogliamo, dobbiamo regolarne i flussi nei giorni che si annunciano critici, li abbiamo definiti in gergo autostradale da bollino nero». Ma per ora non c'è intenzione di «chiudere» la città. La chiusura potrà essere limitata al ponte della Libertà, «quando si riscontrino particolari situazioni critiche per la sicurezza». Si fa già da anni nei giorni di massimo afflusso, quando i garage di piazzale Roma e del Tronchetto sono esauriti, come nel periodo di Carnevale, a Pasqua e al Redentore.
Ma il problema restano i passeggeri che arrivano con il treno. Accordi lontani fra Comune e Trenitalia, che anzi nei week-end e nei giorni di festa offre biglietti scontati per venire a Venezia in giornata. «Lo scopo di questa ordinanza, forse la prima del genere in Italia», dice il sindaco, «è quello di poter gestire meglio il traffico sia pedonale che acqueo, e smistare i flussi delle persone nelle giornate che abbiamo definito da bollino nero. Vogliamo anche informare quanti vogliono venire a visitare la nostra città che nei prossimi giorni potrebbe esserci un'affluenza straordinaria di persone, tale da renderne difficoltosa la visita». «Ma i turisti sono anche ricchezza, ospiti graditi della città», precisa. «Sappiano tutti che i turisti, se vengono qui rispettando la città, sono i benvenuti. Al tempo stesso, però, abbiamo il compito di salvaguardare Venezia».
Si parte allora con il ponte del Primo Maggio, come annunciato. Vigili a piazzale Roma potranno deviare il flusso dei turisti che arrivano, chiudendo l'accesso al ponte di Calatrava. Così alla Stazione, dove la marea che si dirige verso Rialto e San Marco passando per Lista di Spagna e Strada Nuova dovrà essere interrotta quando le condizioni della viabilità risulteranno critiche. Transenne e vigili potranno deviare i pedoni verso i Frari e San Polo, oppure da piazzale Roma verso Santa Margherita e l'Accademia. «Tutto questo per provare a dividere in tre il grande afflusso che darebbe problemi all'area Marciana», continua Brugnaro, «è un tentativo, poi ci saranno sensi unici che saranno istituiti volta per volta. E la stessa cosa vale per il Bacino, per cercare di limitare il moto ondoso. Ci proviamo, chiediamo a tutti la massima collaborazione. Chi risiede in hotel starà più comodo, chi invece pensa di venire in giornata, forse non è il momento giusto per venire a Venezia».

postilla

Politica schizofrenica quella dei governanti veneziani. Eppure i veneziani continuano ad eleggerli. Forse la demenza è scesa dall'alto verso il basso e si è intrufolata nella maggioranza dei cervelli. Da un lato, si spinge per aumentare l'appeal di Venezia, incoraggiando la propaganda delle holding degli affari sul turismo e aggiungendovi quella delle istituzioni veneziane o veneziofagiche (come la Biennale), dall'altro si introducono sistemi apparentemente balordi per veicolare, contare, diramare, disperdere tra calli e callette le torme di visitatori. Ma forse questa trovata dei recinti con tornelli costituisce solo un momento di passaggio verso un obiettivo che oggi non è pronunciabile: fare di Venezia il gigantesco recinto, nel quale può entrare solo chi ha molti soldi.

Non c'è bisogno di avere la sfera di cristallo per leggere un futuro nel quale chi è ricco è ospitato dai resort di lusso (per realizzare i quali si stanno privatizzando i residui spazi pubblici disseminati nella Laguna). Chi invece è povero pernotterà nelle Grandi navi o nei mega-alberghi che si stanno moltiplicando in Terraferma, per essere condotti a visitare la città con giganteschi Zeppelin o grandi barconi a terrazze, raddrizzare e allargare il Canal grande e abolire i tre ponti che lo scavalcano non sarà la peggiore delle devastazioni!


il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2018. Un altro bene prezioso della nostra storia. Come sempre, in bilico tra l'esigenza di conservare e quella di trasformarli in merci, affidate alla voracità degli interessi immobiliari, l'egoismo delle archistar, l'incultura degli amministratori

La vecchia signora asburgica, abituata ai tempi lenti dei suoi caffè mitteleuropei, ha preso a correre. “Trieste”, dice Mitja Gialuz, presidente della Barcolana, la più grande regata del mondo quest’anno arrivata alla sua cinquantesima edizione, “è una delle poche città italiane che non nasconde il suo mare”, come fanno invece Genova o Palermo. Anzi lo accoglie come prolungamento naturale della sua piazza più bella. Per i triestini, il mare è Barcola, dove si va a fare il bagno anche tutti i giorni, nella bella stagione. Ma ora il mare è soprattutto il porto. Dal Caffè degli Specchi, in piazza Unità d’Italia, vedi il Molo Audace e intravedi, a sinistra, il porto nuovo, a destra il Porto Vecchio. Le ciacole ai tavolini lasciano il posto ai conti e ai progetti. Sono in arrivo tanti, tanti soldi.

Il porto nuovo è già il primo d’Italia per movimento merci, 61 milioni di tonnellate l’anno, con 36 milioni l’anno incassati di sole tasse portuali. È il primo per collegamenti ferroviari, 8.800 treni l’anno, che portano merci in Austria, in Baviera, a Budapest, nella Repubblica Ceca. Il primo anche per il petrolio che da qui parte verso il Centro Europa con l’oleodotto transalpino. “Ma nel 2017”, racconta il direttore del porto Mario Sommariva, “il traffico di container è aumentato del 25 per cento”. Ora i cinesi hanno deciso che Trieste sarà il terminale occidentale della “nuova via della seta”. Arrivano investimenti da Pechino, ma anche da Turchia, Russia, Danimarca, Usa.

Dall’altra parte, c’è Porto Vecchio, reso punto franco nel 1719 da Carlo VI d’Asburgo e poi ampliato dall’imperatrice Maria Teresa. Gli immensi magazzini, i moli, la grande gru Ursus: una struggente area di 600 mila metri quadrati andata via via in disuso perché le navi si sono spostate al porto nuovo. Area demaniale, cioè dello Stato. Bloccata per anni, inutilizzata e inutilizzabile. È stata l’amministrazione di centrosinistra a sbloccarla, nel 2016: con la “sdemanializzazione”, cioè il passaggio dell’area dal Demanio al Comune. L’ha portata a casa il senatore Pd Francesco Russo, affiancato dal sindaco Pd Roberto Cosolini e dalla presidente della Regione Debora Serracchiani. Non ha portato bene: Russo non è stato rieletto in Senato, Cosolini ha dovuto lasciare il posto al nuovo sindaco di Forza Italia Roberto Dipiazza, Serracchiani sarà molto probabilmente sostituita, dopo le regionali del 29 maggio, dal leghista Massimiliano Fedriga. Saranno loro, Dipiazza e Fedriga, a gestire il domani, insieme all’Autorità portuale presieduta dal veronese Zeno D’Agostino. “È partita”, dice eccitato il sindaco Dipiazza, “una magnifica rincorsa verso il futuro”.

La “sdemanializzazione”, infatti, produce due effetti. Il primo: i privilegi doganali del porto franco saranno via via trasferiti dal Porto Vecchio al porto nuovo, attirando nuovi investimenti privati, soprattutto internazionali, per insediarsi nelle aree retroportuali dove si potrà fare non solo logistica (magazzini), ma anche trasformazione, manifattura, assemblaggio di prodotti arrivati via mare. Il secondo effetto: Porto Vecchio diventa il più grande progetto di riqualificazione urbana del Nordest e uno dei più importanti d’Europa. L’area (doppia rispetto al già riqualificato Porto Antico di Genova) con la sua trasformazione avrà un impatto gigantesco su Trieste, che è una città piccola di 200 mila abitanti. Impatto urbanistico, ma anche economico: sono già arrivati 50 milioni di fondi europei, che ora dovranno essere gestiti da Comune, Regione e Autorità portuale. Ma gli investimenti complessivi previsti, pubblici e privati, potrebbero raggiungere i 5 miliardi di euro. Una succulenta torta Sacher che galvanizza gli amministratori che dovranno gestire il progetto, che fa drizzare le antenne ai grandi gruppi finanziari e imprenditoriali che potrebbero realizzarlo e che attira gli appetiti delle organizzazioni criminali: “C’è anche il pericolo d’infiltrazioni mafiose”, avverte il procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni.

Ma che cosa fare in quei 600 mila metri quadrati? La polemica è tra progetto unitario e “spezzatino”. C’è chi vorrebbe un concorso internazionale per realizzare un masterplan unitario degli interventi. Qualche archistar ha dichiarato il suo interesse, come Massimiliano Fuksas, già impegnato a progettare una grande torre a Capodistria: “Dopo aver progettato a Beverly Hills, a Los Angeles e a Pechino, ora l’unico luogo che mi interessa, dove lavorare, è Trieste”. Il sindaco Dipiazza il 10 aprile lo ha accompagnato in visita lungo i moli e gli angiporti da far rivivere, ma poi ha imboccato la strada del fare una cosa alla volta: lo “spezzatino”, appunto. Un’area resterà pubblica, con un Museo del Mare (nei Magazzini 24 e 25), un centro congressi e polo fieristico (27 e 28), mercato del pesce e ristoranti (30) e un polo per la ricerca (Magazzino 26) in vista del 2020 quando Trieste diventerà Capitale europea della scienza. Altre parti sono già “impegnate”: l’area terminal per la Msc Crociere, l’area ovest già accaparrata dalla Greensisam Real Estate. Il resto? È possibile che arrivino terziario, residenze, commerciale… Nascerà qui la “Città della scienza” dove potrebbero confluire i tanti istituti di ricerca triestini? Sarà l’ennesima speculazione immobiliare? Il Comune manterrà la guida del progetto o lascerà fare a chi porta più soldi?

Fortezze proletarie: Moinho das Rolas è uno dei tanti progetti di re-insediamento degli immigrati dei 'barrios de barracas' di Lisbona. Nuove pratiche di colonialismo, simili a quelle praticate in Angola o Mozambico, introdotte con l’adesione del Portogallo all’Unione Europea per rendere invisibili i poveri e distruggere le varie forme di resistenza, ma senza fornire una soluzione all'esclusione o alla precarietà economica.

A differenza delle bidonville, costruite dalla comunità e che comprendevano una complessa sovrapposizione di privati ​​e comunali spazi, i nuovi condomini sono ostili e chiusi e i residenti sono compartamentalizzati in scatole di cemento. Sono sei blocchi di appartamenti in cement di cinque piani, tre lati su un vicolo cieco, a meno di 300 metri da un parco tecnologico, dove alcuni residenti lavorano come addetti alle pulizie e personale di servizio. Tuttavia, le comunità di Moinho das Rolas non hanno smesso di resistere e trasformare lo spazio che gli è stato imposto. I residenti hanno occupato informalmente gli spazi di manutenzione e unità commerciali della proprietà per attività comuni e hanno creato un centro sociale, il "Braku Bagda", per le riunioni, le battaglie per il cibo e il freestyle. Nel frattempo, le persone gestiscono piccole imprese di ristorazione informale dalle loro case o forniscono servizi come parrucchiere, e hanno usato lo spazio verde intorno ai condomini per creare orti urbani.

Fonte: Foto di António Brito Guterres. Il testo è stato estratto e tradotto dall’articolo “The invisible city. Existence and resistance in the peripheries of Lisbon” di Ana Naomi de Sousa e António Brito Guterres pubblicato su The Funambulist. Qui il link alla rivista.

il manifesto, 22 aprile 2018. «Giornata della Terra. I rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l'economia»



ll 22 aprile 1970 fu dichiarato «giornata della Terra» in molti paesi del mondo e anche in Italia. Fu un evento importante, i movimenti ambientalisti in Italia erano appena nati – Italia Nostra esisteva dal 1955, il Wwf era stato fondato due anni prima, la Legambiente sarebbe nata dieci anni dopo – ma era vivace la protesta contro i fumi delle fabbriche inquinanti, la congestione del traffico e l’avvelenamento dell’aria nelle città, le colline di rifiuti puzzolenti, l’erosione delle spiagge e delle colline. Amintore Fanfani, che allora era presidente del Senato, creò una commissione «speciale» invitando alcuni studiosi ad informare i senatori sui «problemi dell’ecologia».

Erano anni di lotte operaie e studentesche, era appena iniziata la dolorosa stagione degli attentati terroristici, ma la domanda di un ambiente pulito sembrava dare una luce di speranza per la costruzione di un mondo meno violento. Dell’ecologia, come si diceva allora, si cominciò a parlare nelle scuole, nelle università, nei partiti, nelle chiese.

In quella lontana «giornata della Terra» di quasi mezzo secolo fa sui muri delle città americane apparve un manifesto in cui era riprodotta la vignetta di un fumetto, allora celebre, Pogo, un opossum umanizzato che, come molti personaggi dei fumetti, ironizzava sul comportamento, nel bene e nel male, degli umani. Pogo guardava un diligente ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».

Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell’ecologia, ma poi nella vita quotidiana si comportano in maniera esattamente contraria a quanto dicono di essere. Ciò avviene perché i comportamenti ecologicamente corretti sono scomodi e sgradevoli, tanto che devono essere regolati con leggi che puniscono (dovrebbero punire) le violazioni.

Prendiamo il caso dei rifiuti: in Italia ogni persona produce, in un anno, circa mezza tonnellata di rifiuti solidi domestici: verdura, carta straccia, imballaggi, plastica, vetro, scarpe rotte, frigoriferi e televisori usati; tre o quattro milioni di tonnellate di automobili vanno alla «rottamazione» contribuendo all’aumento dei metalli, gomme, oli usati che finiscono da qualche parte.

La grande massa dei rifiuti della vita civile è estremamente sgradevole: ingombra le strade, puzza, lascia colare liquidi che inquinano le acque dei pozzi e dei fiumi, impone dei sistemi di raccolta costosi e che intralciano il traffico. E, come nella commedia di Ionesco, «Come sbarazzersene», anche i rifiuti aumentano sempre di volume e aumenta il disturbo che arrecano agli altri cittadini, al «prossimo» vicino, della stessa strada o città, o lontano, del luogo dove sono localizzati la discarica o l’inceneritore e addirittura al prossimo planetario per l’emissione di gas (metano, anidride carbonica) che derivano dalla decomposizione o combustione dei rifiuti e che alterano il clima planetario presente e futuro.

Ma i rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l’economia.

Si potrebbe avere lo stesso benessere, gli stessi servizi, gli stessi oggetti, generando meno rifiuti, arrecando «meno» danno al prossimo? Si potrebbe e addirittura è richiesto dalle leggi: le fabbriche potrebbero diminuire la massa degli imballaggi e produrre imballaggi riciclabili, ma è scomodissimo e costoso cambiare la forma e la fabbricazione delle merci. Le singole persone potrebbero raccogliere separatamente la carta straccia che potrebbe essere riciclata, lo stesso vale per il vetro e la plastica; ma queste operazioni che, prima di essere rispettose dell’ambiente sarebbero rispettose del prossimo, in senso cristiano, se volete, sono tutte scomode. Bisogna fare cento passi di più per raggiungere il cassonetto di raccolta della carta, bisogna avere cura e sapere — ma chi informa in maniera paziente e convincente ? — che non si deve mettere carta e plastica insieme, vetro e plastica insieme (perché così non si ricupera più né plastica né carta né vetro).

La possibilità di vivere in un ambiente meno violento e più sano non dipende tanto dalla moltiplicazione delle discariche o degli inceneritori o delle marmitte catalitiche, ma da un recupero dell’etica, del rispetto del prossimo, sollecitato dai governanti, dagli uomini di spettacolo, dagli uomini di chiesa che parlassero «opportune et importune», come scrive Paolo a Timoteo e come sta facendo adesso Papa Francesco. La mia modesta esperienza suggerisce che le persone sono migliori di quanto si pensi: l’altro giorno ho visto, in una grande città, un cassonetto in cui i cittadini erano invitati a mettere le bottiglie di vetro «bianco», più facilmente riciclabile di quello colorato: il cassonetto era strapieno e bottiglie bianche erano depositate tutto intorno: i cittadini avevano raccolto un invito fatto bene e avevano risposto facilmente. Forse «il nemico» di cui parlava Pogo, siamo proprio noi che non parliamo con chiarezza e non testimoniamo con coerenza l’ecologia professata a parole.

Il manifesto, 22 aprile 2017. Ricordiamo che per la nostra vita non c’è (ancora) un pianeta B, ma anche che sono trascorsi 21 anni di lotta per i diritti della terra i. Intervista di Luca Martinelli a Stefano Caserini e articolo di Gabriele Annichiarico

«SENZA UNA VERA POLITICA
IL PIANETA SOFFRIRÀ PER MILLENNI»
intervista di Luca Martinelli a Stefano Caserini

«Senza un’azione rapida e drastica pagheremo a lungo le conseguenze del riscaldamento globale. Ma per molti non c'è la percezione di azioni urgenti»

«Quel è lo stato del Pianeta? La risposta dei climatologi è chiara: gli effetti di ciò che accadrà nei prossimi 5 o 10 anni non riguarderanno solo la nostra e la prossima generazione. Le alterazioni provocate dall’eventuale inazione della politica, come quella del bilancio energetico del nostro pianeta, potrà avere conseguenze per decine di migliaia di anni dopo di noi» spiega Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.

Mentre l’Italia celebra l’Earth Day, il ricercatore lodigiano – il cui ultimo libro è Il clima è (già) cambiato. 10 buone notizie sul cambiamento climatico, uscito nel 2016 per le Edizioni Ambiente – sottolinea come «il climate change ponga oggi una questione molto particolare, legata all’urgenza di intervenire. Siamo di fronte a processi fortemente influenzati da irreversibilità e inerzia – dice – Pensiamo ad esempio alla fusione, che è in corso, delle calotte glaciali: darà conseguenze per migliaia di anni. La ricerca scientifica sa che non basta ridurre l’uso dei combustibili fossili e le emissioni degli altri gas serra per essere a posto, per diminuire le temperature. Senza un’azione rapida e drastica pagheremo a lungo le conseguenze del riscaldamento globale. Però per molti, purtroppo, non c’è ancora la percezione della necessità di avviare azioni urgenti che influenzino il lungo termine».

Tra i «molti» lei include anche la politica?

Necessariamente. Pur riconoscendo l’importanza di una consapevolezza «dal basso» e di comportamenti individuali più corretti, sappiamo che questo genera cambiamenti lenti, e servono azioni decise e strategiche a livelli diversi. Quindi, questo dovrebbe essere accompagnato da esempi «attivi» di politica ambientale. Non chiediamo necessariamente di assumere posizioni rivoluzionarie: l’idea «chi inquina paga» è dell’economia neoclassica, quindi con opportune tassazioni potremmo ad esempio provare a ridurre il problema delle microplastiche di cui si parla in questi giorni. Eppure siamo in ritardo: abbiamo aspettato di vedere tratti importanti di mare contaminati dalle plastiche; abbiamo i dati, le fotografie, e procrastinare non ha senso. Credo che Paesi più ricchi, come il nostro, dovrebbero adottate legislazioni più incisive, anche per influenzare le economie emergenti, come Cina o India.

Con l’appello «La scienza al voto» (lascienzaalvoto.it) avete avanzato richieste ai partiti impegnati nelle politiche del 4 marzo. La risposta?

Se guardiamo ai programmi elettorali, vi si trova dentro qualcosa che ha a che fare con il climate change, più che in ogni altra campagna elettorale precedente. Si parla di decarbonizzazione, di adattamento ai cambiamenti climatici, e il punto di vista dei «negazionisti» è praticamente scomparso, anche perché ci si è resi conto che rinnovabili ed efficienza possono creare posti di lavoro. C’è però grande distanza tra livello di analisi, e la capacità di tradurre questi temi in elementi prioritari nell’azione governativa. L’appello ha ottenuto la firma di quasi tutte le forze politiche (tranne il M5S), e di fronte all’impasse attuale potrebbe anche diventare un elemento comune: la questione della transizione energetica potrebbe diventare elemento di raccordo. Nei programmi dei 5 Stelle e del Pd, ad esempio, c’è qualcosa di simile per quanto riguarda le azioni sull’efficienza energetica e contro il dissesto idrogeologico. Credo però che la classe politica non sia a conoscenza di quella che è la vera dimensione del problema del cambiamento climatico, e che affrontarlo può essere un’occasione anche per aumentare posti di lavoro e ridurre le diseguaglianze.

Dieci anni fa pubblicò per le Edizioni Ambiente il libro A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia. Nacque nel 2008 anche il sito climalteranti.it. Un bilancio?

Allora un articolo su due metteva in discussione il tema del cambiamento climatico. Oggi non è più così, per fortuna. Intanto, però, i dati del Cnr evidenziano nel nostro Paese un aumento medio delle temperature, rispetto al periodo di riferimento della fine del diciannovesimo secolo, di circa due gradi. Ed il segnale è chiarissimo in tutto il Mediterraneo, e non solo: nelle ultime settimane sono stati pubblicati altri articoli scientifici mostrano segni dell’indebolimento della «corrente del Golfo», che ha un impatto significativo sulla distribuzione del calore e sulla circolazione atmosferica. È un tema che il cinema ha toccato nel film «L’alba del giorno dopo», ma a differenza di quel copione, scritto violando una ventina di leggi della fisica e della oceanografia, l’impatto probabile non sarà una glaciazione ma un aumento del livello del mare negli Stati Uniti, e una maggiore incidenza delle ondate di calore estive verso l’Europa. E qui torno al punto di partenza della mia analisi: se manomettiamo la circolazione dalla corrente del Golfo, o i ghiacci del Pianeta, non potremmo tornare indietro nell’arco di qualche decennio, i tempi sono secoli e millenni.

17 APRILE, LA GIORNATA MONDIALE
DELLA LOTTA CONTADINA
di Gabriele Annichiarico

«Diritti. 21 anni di lotta contadina in difesa di terra e risorse naturali»

Il 17 aprile, quest’anno 21esimo anniversario della giornata mondiale della lotta contadina, è una chiamata internazionale in difesa delle risorse naturali minacciate dallo sfruttamento e dalla privatizzazione. Sono le derive del modello neo-liberista e gli accordi di libero scambio ad essere al centro della contestazione, quali strumenti responsabili della precarizzazione e dell’impoverimento dei piccoli produttori.

É il «25 aprile» della resistenza contadina, in ricordo delle vittime di una lotta politica che rivendica accessibilità alla terra e celebra una classe sociale (termine forse desueto, ma ancora politicamente e filosoficamente valido per questa categoria lavorativa) portatrice di valori quali la solidarietà (appunto, di classe), la difesa dei territori, la trasmissione di conoscenze e pratiche legate alla cura della terra, la promozione di pratiche di vita più virtuose ed in equilibrio con il nostro ecosistema, naturale e sociale.

Un movimento che è stato precursore delle contestazioni no-global prima e alter-mondialiste poi, poiché per primo ha colto le ragioni dell’opposizione al modello produttivo dell’industria agroalimentare globale.

Un movimento che più di altri ha saputo interpretare ed animare la contestazione internazionale agli accordi di libero scambio come il Ceta (fra Canada ed Unione europea), il Ttip (fra Stati uniti ed Unione europea) e l’Alena (fra Stati uniti, Canada e Messico), solo per citare i più celebri.

Una giornata per commemorare la strage del 17 aprile del 1996, quando 19 contadini venivano uccisi mentre occupavano delle terre incolte a Eldorado do Carajas, nello stato di Parà in Brasile, e quelle che si sono susseguite negli anni successivi.

Fra gli ultimi fatti di cronaca, l’uccisione di Marcio Matos (detto Marcinho), 33 anni, contadino e dirigente del movimento «Sem terra», freddato a colpi d’arma da fuoco mentre lavorava nel suo campo.

Una strage che non sembra avere fine, denuncia la Via campesina, realtà federatrice delle lotte contadine a livello mondiale. «A fronte di questa situazione, il movimento contadino promuove la dichiarazione delle Nazioni unite sui diritti dei contadini ed ogni altro lavoratore in zone rurale » ha dichiarato la Via campesina in un documento (Peasants fighting for justice, cases of violations of peasants’ human rights, Via campesina, 2017), censendo i casi di violenza e chiedendo un riconoscimento ufficiale « per assicurare al mondo contadino la protezione della vita e dei mezzi di sussistenza, accordando un diritto d’utilizzo e di gestione delle risorse naturali».

il manifesto, 20 aprile 2018. Niente da fare. Da quando Renato Soru non c'è più le coste della Sardegna sono governate dagli "sviluppisti", più o meno aggressivi: il paesaggio è una variabile subordinata. con postilla

Diventa sempre più alta la probabilità che la legge urbanistica della Sardegna, al momento in discussione in commissione, arrivi nell’aula del consiglio regionale prima dell’estate. Dopo le polemiche dei mesi scorsi la maggioranza di centrosinistra guidata da Francesco Pigliaru ha deciso di cancellare dal testo della legge l’articolo più contestato dagli ambientalisti e più pericoloso, il numero 43, in base al quale veniva concessa la possibilità di realizzare «progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico» in aree attualmente protette dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato nel 2006 dalla giunta Soru, che impedisce ogni costruzione nella fascia dei trecento metri dal mare.

Se approvato, l’articolo 43 avrebbe consentito a grandi gruppi nazionali e internazionali di realizzare progetti di insediamento turistico – prevalentemente alberghi ma anche villaggi – in zone vergini dal punto di vista paesaggistico e attualmente protette dal Ppr. Un meccanismo di deroga rispetto alle norme del Piano paesaggistico contro il quale era insorto tutto il fronte ambientalista, sardo e nazionale, ma anche una parte della maggioranza guidata da Pigliaru. In particolare, dentro il Pd Renato Soru si era spinto ad annunciare un suo voto contrario se nel testo presentato in consiglio fosse rimasto l’articolo 43. Che ora invece sparisce, insieme con un’altra parte del testo originario della legge particolarmente insidiosa per gli equilibri ambientali delle coste sarde, l’allegato 4 sui criteri di calcolo delle cubature comune per comune, che ricalcava vecchie norme degli anni Novanta superate dal Ppr e che avrebbe consentito a molti centri dell’isola di superare le soglie fissate dalle attuali norme di tutela.

Resta invece, nel testo che approderà in consiglio, un altro articolo contestato dagli ambientalisti, il numero 21, che autorizza incrementi volumetrici fino al 25 per cento per gli alberghi già presenti nella fascia dei trecento metri dal mare. La giunta regionale giustifica questa misura con «la necessità di adeguare molti alberghi – dice l’assessore all’urbanistica Cristiano Erriu – alle esigenze del mercato internazionale del turismo, che più che nuove camere richiede servizi, come piscine, solarium, sale benessere». Gli ambientalisti replicano che molti alberghi entro i trecento metri sono già molto grandi e che quindi un aumento delle volumetrie del 25 per cento creerebbe veri e propri ecomostri. Inoltre, molte delle strutture che beneficerebbero dell’articolo 21 hanno già approfittato negli anni scorsi di una sorta di versione sarda della “legge sulla casa” di berlusconiana memoria approntata dalla giunta di centrodestra guidata da Ugo Cappellacci, che ha governato l’isola dal 2009 al 2014. Camere in più ne sono state costruite già tante.

Resta quindi molto duro, nonostante il ritiro dell’articolo 43 e dell’allegato 4, il giudizio degli ambientalisti. «La nuova legge urbanistica – accusa il presidente regionale di Italia Nostra, Graziano Bullegas – è un provvedimento improntato a garantire, attraverso l’articolo 21, il massimo dell’utile in termini di cubature e a considerare il territorio merce di scambio piuttosto che bene comune da preservare. Di fatto serve a svuotare il Piano paesaggistico regionale. E’ sconcertante poi la risposta che la legge urbanistica dà al fenomeno del consumo di suolo: fino al 10% delle superfici già urbanizzate, incrementabile. Scelta in controtendenza rispetto agli indirizzi urbanistici europei». Per Italia Nostra la legge resta pericolosa: «Se approvata riporterà la Sardegna all’edificazione selvaggia e incontrollata».

«Prima di portare il testo della legge in consiglio – replica Francesco Pigliaru – avvieremo, a partire dal 27 aprile, una fase di consultazione di base in tutti i territori dell’isola, attraverso una serie di dibattiti pubblici. Molti nella mia maggioranza dicono che bisogna approvare la legge comunque; io sostengo che bisogna approvarla solo se si raggiunge una sintesi alta, che salvaguardi l’ambiente e nello stesso tempo renda più facile l’adozione dei piani urbanistici da parte dei comuni, oggi bloccati quasi dappertutto».

postilla

In realtà il Piano paesaggistico regionale non tutela solo una fascia di 300 metri (già tutelata dalla "sciabolata" della legge Galasso), ma un'area costiera di dimensione variabile a seconda delle caratteristiche specifiche del territorio, fino a una profondità di circa 3mila m. Sulla nuova legge urbanistica della regione Sardegna si veda tra l'altro su eddyburg Sardegna, legge urbanistica con pseudo tutela e Sardegna. Quod non facerunt barbari .

The vision, 18 Aprile 2018. Neanche la Bologna "rossa e fetale" resiste alle seduzioni del mercato, del turismo, dell'estetica asettica, minimalista e omologante. 'Ripulita' dei cantieri sociali, luoghi storici di aggregazione, FICO vuole essere l'immagine della nuova città. Con riferimenti (i.b.)

Negli ultimi anni, al mito della Bologna ribelle del ’77 si vuole soppiantare una nuova visione di città da cartolina, mecca del turismo e della buona cucina. Questo radicale cambio di rotta delle politiche cittadine si è manifestato con interventi chiari e mirati. Un certo tipo di azione politica ed economica deve passare giocoforza dall’identità, e quindi dall’immaginario.

Per trasformare la città in una vetrina occorre allora ripulirla da tutte le esperienze culturalmente alternative, inadatte alla nuova grammatica commerciale. Così l’amministrazione comunale, sotto l’egida del legalitarismo, ha chiuso diversi centri sociali, storici luoghi di aggregazione della città: Bartleby nel 2013, Atlantide nel 2015, Labas e Crash la scorsa estate. Anche per quanto riguarda le occupazioni, la situazione è drammatica: dal 2015 a oggi sono stati fatti più di venti sgomberi, fra i quali è doveroso citare quello dell’ex-Telecom di via Fioravanti, con 280 evacuati, e della palazzina di via De Maria, nel quartiere della Bolognina, con circa 130 persone. Il tessuto sociale e culturale che gravitava attorno a queste esperienze ne è uscito irrimediabilmente impoverito. L’ambizione è quella di rimodellare il tessuto urbano, ampliando e reindirizzando i flussi turistici. In questa direzione si muove l’apertura della Fabbrica Italiana Contadina, abbreviata sotto la sigla FICO.
FICO sarà il fiore all’occhiello delle politiche di riqualificazione e promozione turistica del capoluogo emiliano. L’apertura di quello che sembra però più un parco divertimenti agroalimentare che non un complesso dedicato alla gastronomia e alla ristorazione ha infatti coinvolto molti capitali: da Eataly a Carisbo, passando per Il Resto del Carlino, Pirelli e Legacoop.

Una “pedana per selfie”: questa è la prima cosa che si incontra all’ingresso di FICO, il megastore dello slow food – circa 100.000 mq – voluto da Oscar Farinetti e inaugurato il 15 novembre in zona Pilastro. La pedana è la prima avvisaglia del modo spettacolarizzato di concepire l’enograstronomia. Il sito di FICO descrive lo spazio come: “Un sorprendente e unico parco tematico agroalimentare, uno straordinario progetto di educazione alimentare per offrire a tutti i visitatori, italiani e stranieri, e in particolare ai giovani, una grande fattoria didattica che richiama e valorizza le eccellenze dell’agricoltura italiana di qualità”.

FICO si presenta come una serie di capannoni non troppo diversi, al loro interno, da un centro commerciale: stand in simil-legno e vari ambienti asettici da industria biotecnologica. A fare da collante fra le due estetiche dominanti sono i bar e i ristoranti, divisi per tema e provenienza regionale. Nelle lunghissime gallerie di FICO troviamo spazi dedicati alla carne, al formaggio, alla pasta e a ogni altro prodotto tipico della cucina italiana. Allo stesso modo vediamo sfilare i padiglioni di Lombardia, Calabria o Puglia, come se si trattasse di un EXPO in sedicesimi. L’idea di FICO è proprio creare una vetrina permanente: cornucopie di prosciutti lasciano spazio a pareti di mele in diverse gradazioni, forme di grana ammonticchiate, pannelli che raffigurano giganteschi tagli di carne. L’esposizione dei prodotti ricorda quella barocca e parossistica di Harrods, ma peggio. Il cibo diventa oggetto, scultura da ammirare.

La definizione “parco divertimenti”, di primo acchito, può sembrare fuori luogo, eppure è in questo solco di attrazione che si configura la presenza di piccole stalle e recinti nell’area esterna – mucche, maiali e cavalli tirati a lucido per essere offerti in pasto all’entusiasmo di bambini e famiglie; e ancora, coltivazioni di menta, basilico e altre erbe aromatiche dalle innumerevoli tonalità di verde pantone.

Lo spazio di FICO, proprio come quello dei centri commerciali, è a dir poco eterogeneo: dentro ci troviamo campetti da beach volley o da tennis, piccole arene, una centrale del latte in miniatura, gli onnipresenti silos che pubblicizzano l’ultimo libro di Farinetti, persino un ufficio postale.

Da ogni angolo, gli slogan sull’autenticità dei prodotti ci ricordano la natura genuina della nostra esperienza. Gigantografie cartonate delle città italiane danno la sensazione di navigare nel bignami di tutto ciò che rappresenta, o dovrebbe rappresentare, il Made in Italy. Ogni elemento suggerisce che siamo nel Paese di Bengodi, in una sorta di ossessiva autoreferenzialità che vorrebbe comunicare l’unicità dei nostri consumi.

Caratteristiche e funzionali all’educazione gastronomica sono le cosiddette “giostre”, alcuni padiglioni adibiti al racconto di un alimento specifico: dalla carne al pesce, dalle sementi al vino. Istallazioni interattive, giochi elettronici e proiezioni ci illustrano lo sviluppo storico di ciò che mangiamo. Benché l’intento sia nobile, il vago sapore illuminista delle spiegazioni fallisce nella trasmissione del sapere; la sensazione è di trovarsi di fronte a installazioni di arte contemporanea di cui non si capisce bene il senso, dalle “giostre” si esce spaesati, capaci solo di disperdersi nelle labirintiche gallerie del megastore.

Il personale si presenta come esasperatamente cordiale, cristallizzato in un sorriso perenne e bardato con abiti a tema, come in un racconto di George Saunders: i costumi tipici dei padiglioni regionali, le tute da lavoro dei centri di produzione, le fogge caratteristiche dello stereotipo Made in Italy, abiti che ricordano il prodotto venduto, come ad esempio completi rossi per la zona macelleria e rosa per quella dei salumi. Ho visto un cameriere, completamente vestito di rosa, spendersi in salamelecchi all’entrata del Bar Mortadella, e pochi minuti dopo, lo stesso, all’esterno, che fumava una sigaretta con gli occhi bassi e la faccia di chi non ha esattamente l’aria di divertirsi. È possibile, del resto, che i tagli di 90 lavoratori interinali operati di recente dalla direzione abbiano generato un certo clima di preoccupazione.

Bisogna considerare che FICO, nonostante le reboanti dichiarazioni di dare lavoro a 3.700 dipendenti, non ha così tanto bisogno di personale, dato che si appoggia al comune, non solo per quanto riguarda i fondi erogati dal Caab, ma anche per l’adesione al progetto di alternanza scuola-lavoro, che coinvolge a titolo gratuito circa ventimila studenti e che sta suscitando molte polemiche.

Prima dell’apertura, l’obiettivo dichiarato dell’affluenza era sei milioni, una stima che, divisa su un anno intero, dovrebbe portare più di 16.000 visitatori al giorno: in pratica un comune italiano di medie dimensioni. L’analista finanziario Roberto Foglietta sostiene che “con un bacino di utenza di 200 milioni, nell’area metropolitana di Londra, attirarne 6 significa servirne il 3%, ma a Bologna significa servire il 50% dei potenziali clienti. Bisognerebbe che in Emilia Romagna il buon cibo e il buon bere italiano fosse più raro e/o costoso di 16 volte rispetto a Londra per avere un fattore di attività che compensi il bacino potenziale. Invece è l’opposto: a Bologna, e più in generale in Italia, l’offerta di FICO è ridondante”.

Durante la mia visita, benché si trattasse un sabato di primavera e per giunta all’ora di pranzo, quello che scarseggiava era proprio l’affluenza di turisti stranieri. FICO è situato in una zona industriale, dove lo sguardo abbraccia solo capannoni e reti stradali, a una decina di chilometri dal centro. Difficile racimolare visitatori, disposti ad allontanarsi dal centro e a spendere dai venti euro in su per un pasto veloce, se persino sul Guardian appaiono recensioni negative.

Il giornale inglese rileva la prima lampante contraddizione del centro agroalimentare: la delocalizzazione rispetto al tessuto urbano. Appare difficile che un turista – transitando da Bologna per un periodo medio di due giorni – decida di spendere un’intera giornata in uno spazio periferico, la cui attrazione principale, il cibo, è facilmente reperibile in centro, che ha dalla sua il patrimonio artistico cittadino. Il Guardian conclude dicendo che “Eataly vuole celebrare la cultura alimentare italiana, ma lo fa in un modo che non è affatto italiano”. Più che un parco agroalimentare ci troviamo di fronte un mall americano, alla “Strip” di Bologna, che sembra prendere le mosse da quella di Las Vegas.

La situazione di FICO nasconde contraddizioni evidenti. David Harvey, nel saggio Città ribelli, rileva che “negli ultimi decenni, il peso dell’imprenditorialità urbana è sensibilmente cresciuto a livello internazionale. Si tratta essenzialmente di modelli specifici di comportamento, all’interno della governante urbana, in cui fluiscono poteri pubblici statali, una vasta gamma di organizzazioni della società civile, e interessi privati, aziendali o individuali, che danno vita a coalizioni per promuovere o gestire un determinato tipo di sviluppo urbano e regionale”, il tentativo è creare una rendita monopolistica, sfruttando le particolarità del territorio. Si investe sul capitale simbolico, sul carattere di unicità che mercificato diventa brand. Il problema del marchio all’interno del commercio risiede nell’omologazione al mercato. Nel caso del turismo questo significa livellare le particolarità di un territorio per inserirle in un determinato immaginario. Quest’opera, volta all’aumento dei flussi turistici, e quindi dei guadagni, rischia di livellare l’unicità dei luoghi, e paradossalmente ridurne così il capitale simbolico e danneggiarne la rendita monopolistica. FICO, come il fenomeno di Eataly, non intrattiene solidi rapporti con il territorio, ma rappresenta l’occasione per una stucchevole parata del culto del buon cibo.

La pedana per selfie all’entrata di FICO assume, allora, i contorni di una schietta metafora: la possibilità di fotografare un marchio che comunica solo se stesso. La visita di questo complesso non trasmette nulla della città che lo ospita, né della cultura che dovrebbe rappresentare. Si tratta solo di una gigantesca vetrina per i prodotti di un brand che vuole facogitare ogni altra declinazione del concetto di Made in Italy enogastronomico, come se sotto i riflettori dovesse esserci un solo attore, a scapito del contesto che lo ha generato. Progetti come questo, vere e proprie cattedrali nel deserto, non aggiungono nulla alla comunità a cui si appoggiano, capitalizzando il patrimonio simbolico per uso privato; e falliscono anche nel valorizzare l’originalità che rappresenta la vera attrazione turistica.

Un territorio fiorente dal punto di vista enogastronomico non ha bisogno di un centro commerciale che svolga una funzione omologante, necessita di politiche mirate che spostino l’attenzione sulla biodiversità delle proprie risorse.

Riferimenti

Su eddyburg.it potete leggere diversi articoli su FICO e le 'pericolose relazioni' tra gastronomia e affari, che caratterizzano questa disneyland del cibo e del divertimento. Per saperne di più sugli investitori e Oscar Farinetti, il patron di Eataly, vi consigliamo "Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto", che contiene una spassosa postilla. Per rimanere sul tema dei poteri forti coinvolti leggete "Un giro dentro Fico, la Disneyland del cibo a Bologna". Inoltre: "Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto" di Mara Monti, "Un tram chiamato Farinetti.Gli fanno una linea ad hoc” di Ferruccio Sansa, "Qui si mangia" di Carlo Tecce. Sul fronte della cultura si veda di Tomaso Montanari "Carta e bellezza non fanno rima, Santa Lucia Farinetti, incinta tra le mortadelle, Milano e Firenze, chiese a uso privato"

The submarine, 18 Aprile 2018. E' la logica dell'espulsione che spinge forzosamente lavoratori e abitanti fuori dal sistema. E' un processo globale, sistemico ed endemico che caratterizza questa fase del neoliberalismo. (i.b.)

Quelli dell’Amazzonia sono fiumi che hanno visto molte cose che oggi, purtroppo, stentiamo a ricordare. Il sangue che le loro acque hanno portato via non è l’unica memoria che rischia di scomparire. Nei giornali di tutto il mondo la foresta amazzonica è spesso utilizzata come hashtag per parlare di problemi su scala internazionale (#disboscamento, #clima, #biodiversità), ma le sue storie difficilmente riescono a oltrepassarne i confini.

La diga devia l'80% del flusso producendo enormi aree asciutte.
È passato appena un mese da quando “o deslocamento” di alcuni individui della tribù Mebêngôkre (Kayapó) ha avuto luogo, l’ultimo di una serie di spostamenti forzati cominciati nel 2012 e previsti in un rapporto del 2009 dell’EIA (Estudo de Impacto Ambiental). L’esodo di questo popolo indigeno della regione amazzonica del Mato Grosso non è il solo.
La diga ora devia circa l'80% del flusso nel serbatoio principale, attraverso un canale e in un serbatoio secondario.

Diverse tribù autoctone sono state confinate per continuare la realizzazione del complesso idroelettrico di Kararaô (oggi Belo Monte Dam) e della miniera a cielo aperto (Belo Sun), sul fiume Xingu, nonostante le numerose protestee petizioni, iniziate nel 1989 col famoso gesto dell’indigena Tuìra che mise la lama del suo macete sul volto di Jose Antonio Muniz, presidente di Eletronorte, azienda elettrica fondatrice del progetto.

Come gli uomini anche gli animali trovano le loro difficoltà — guardando il fiume non si vede l’orizzonte, ma tra le onde tre delfini rosa cavalcano controcorrente. Li chiamano boto e, secondo una leggenda che qui tutti amano raccontare, sono i seduttori delle giovani fanciulle. Purtroppo per questi animali c’è il rischio estinzione a causa delle costruzioni delle dighe: mentre sono impegnati a risalire il rio si trovano di fronte una barriera, e dal momento che non possono continuare si altera il corso dei loro cicli vitali.

L’impianto di Belo Monte sarà terminato nel 2019, la sua costruzione ha già coinvolto un totale di 400 mila ettari di foresta, dove vivono molte specie animali e vegetali, oltre che diverse comunità locali e indigene. Il progetto dell’impianto idroelettrico rischia di essere al centro dell’ennesimo disastro ambientale che colpisce non solo il Mato Grosso, ma anche il vicino Parà, danneggiando soprattutto Altamira, il comune più esteso del Brasile (160 000 km²), con una superficie poco più grande della Grecia.

Il complesso di Belo Monte sarà uno dei più grandi al mondo grazie all’autorizzazione da parte del FUNAI e dall’IBAMA, gli enti brasiliani che tutelano rispettivamente gli indigeni e l’ambiente.

Non è la prima volta che si violano le leggi che garantiscono i diritti delle tribù indigene per favorire la costruzione di mega-progetti appartenenti alla “green” economy. In Rondonia – nel nord ovest del Brasile – si trova Porto Velho, una città che in pochi decenni è cresciuta fino a contare 430 mila abitanti, incrementando la richiesta di energia elettrica. All’inizio degli anni 2000 si è discusso sul suo fabbisogno energetico e si è optato per una centrale che sfruttasse la potenza dell’acqua del Rio Madeira, l’affluente più grande del Rio delle Amazzoni.

La proposta è stata avanzata dell’IIRSA (Iniciativa para la Integraciòn de la Infraestructura Regional Sudamericana), realtà che più volte si è trovata al centro di inchieste sui piani di sviluppo. Prima della costruzione delle dighe gli abitanti dei piccoli villaggi si sono opposti con la campagna “Viva o Rio Madeira Vivo,” promosso dall’Institudo Madeira Vivo, ponendo attenzione sui danni ambientali che si sarebbero potuti verificare. Tuttavia l’IBAMA — l’Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle risorse Ambientali — nel 2006 ha approvato il progetto dell’IIRSA.

Con un’opera d’ingegneria, a cui ha partecipato, oltre che Eletronorte, anche l’impresa di costruzioni Norberto, sono state realizzate due lunghe dighe (Jirau e Santo Antônio) che attraversano il fiume provocando, come previsto, danni ambientali e umani. Nel 2014 una parte del fiume ha inondato strade, distruggendo case e raccolti — i ribeirinhos della comunità di San Sebastião, che si trova dall’altra parte del fiume rispetto a Porto Velho, sono dovuti fuggire all’interno della foresta trovando riparo in punti dove l’acqua non è arrivata. Si sono salvati, ma hanno perso barche, campi, case e tutto ciò che esse contenevano. A distanza di quattro anni il governo, così come la centrale, non ha mai indennizzato gli abitanti. Il villaggio, da 137 nuclei familiari, è passato a sole 13 famiglie.

La maggior parte di loro non vuole parlare di ciò che è successo, nei loro volti lo sconforto è un segno indelebile. Camminando per la via principale, fatta da una passerella di legno che costeggia il rio, molte case sono in stato d’abbandono, così come il centro culturale, la scuola e la chiesa. Una famiglia che alleva galline e pappagalli ci mostra il livello raggiunto dall’acqua durante l’inondazione — lo si intuisce guardando le pareti esterne di ogni casa, dove il colore naturale della tinta cambia. Questo perché per mesi le case sono rimaste parzialmente sotto il livello dell’acqua.

Una donna assieme al fratello e alla figlia ci portano da alcuni parenti che abitano lì vicino in mezzo alla finestra. Due uomini sono sulla riva di alcuni piccoli laghi che si sono formati con l’inondazione nella speranza di catturare qualche pesce. La bimba raccoglie delle lunghe piume di un uccello nero e bianco per fare degli orecchini, mentre la madre si ferma a raccogliere dei frutti da portare ai genitori. I due anziani hanno perso molti alberi da frutto nella loro proprietà, alcuni sono marciti altri invece sono circondati da grandi pozzanghere d’acqua.

Dopo l’accaduto, queste persone sono rimaste perché è qui che si trovano le loro radici, la loro storia, la loro vita. Per questo che hanno deciso di ricominciare, nonostante siano consapevoli che da un momento all’altro potrebbero assistere ad un’altra grave inondazione.

La centrale idroelettrica del Rio Madeira, inoltre, ha espropriato alle tribù Karitiana e Karipuna una grossa fetta del territorio che utilizzavano per le coltivazioni di sussistenza e per la pesca. Una parte della comunità indigena ha deciso di abitare nella foresta più profonda, mentre un’altra parte è stata costretta a spostarsi in una zona limitrofa di Porto Velho, nella Casa do Indio, in quanto alcuni di loro studiano o hanno un piccolo lavoro in città. Come per gli abitanti di San Sebastião, anche gli indigeni vivono in condizioni precarie e a stento riescono a costruirsi una nuova vita. Il FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio) – che in Brasile si occupa delle politiche riguardanti i popoli indigeni – ha promesso loro una sistemazione più dignitosa, ma a distanza di anni ancora non si è visto un cambiamento.

A marzo del 2018 Adriano e André Karipuna sono scesi a Brasilia per rivendicare le terre della loro comunità, mentre i Karitiana hanno eletto a gennaio di quest’anno come portavoce un indio di 23 anni. Il giovane si chiama Cledson Pitana e con grandi sacrifici economici familiari sta portando a termine gli studi universitari per poter aiutare il suo popolo. “Il nostro più grande problema è il fatto che molti di noi non hanno studiato o non hanno la possibilità economica per farlo,” ci racconta Pitana. “Nessuno di noi vorrebbe stare qui in città, ma lo dobbiamo fare perché non esistono mezzi che collegano Porto Velho al nostro villaggio e noi non abbiamo macchine. Così siamo costretti a vivere qui, col nostro artigianato, in abitazioni che a stento chiamiamo case. All’esterno noi non contiamo nulla perché non abbiamo un titolo di studio, ma stiamo cercando di integrare le nostre conoscenze con quelle imposte dalla società predominante, forse così un giorno ci accetteranno, e a quel punto si potrà parlare allo stesso livello.”

Gli indigeni sono una ricchezza antropologica, non solo per il valore della loro cultura, ma anche per alcune conoscenze che altre società hanno perso nel tempo in nome dello sviluppo, così come il senso di comunità soppresso dall’individualismo. Un tesoro che è continuamente sottovalutato dai molti cittadini brasiliani, che vedono gli indigeni come delle sanguisughe che vivono sulle spalle del governo e delle associazioni. Camminando per gli edifici semi distrutti delle due comunità indigene ed entrando nelle loro case vuote la realtà però sembra un’altra, peggiore di quella riscontrata nelle favelas sparse in questo enorme paese. Nella Casa do Indio gli abitanti sono stati abbandonati, senza acqua e luce, in un luogo pieno di cani, gatti e macachi infestati di pulci con cui i ragazzini stanno a contatto. Le stanze non si possono chiamare tali, arredate con oggetti abbandonati, qualche pentola ferruginosa e dei sacchi bianchi sgualciti che si usano per conservare il riso.

In un sottotetto un gruppo di indios è impegnato a cucire orecchini e intagliare la punta legnosa di alcune frecce che venderanno al mercato dell’artigianato vicino alla vecchia stazione porto-velhense di una ferrovia fantasma. Nella stradina affianco, un’india cammina con un uomo. La si vede spesso perché tra tutte è quella più riconoscibile: indossa degli short attillati e ha i capelli tinti di un giallo aranciato. È sempre in compagnia di uomini diversi, ma nessuno degli altri indigeni accenna a lei.

Poco distante un indio raccoglie la radice di una pianta e sorridendo ci dice di succhiarla. Ha un sapore aspro e dopo qualche minuto la bocca inizia a formicolare, perdendo sensibilità. La usano come antidolorifico, ogni pianta che coltivano ha un suo valore, spiega l’uomo, ma le parole si perdono tra il rumore assordante delle cicale. Sfregando le loro ali se ne stanno annidiate sulla corteccia di enormi alberi appartenenti a quella che una volta era una terra piena di vita.

Articolo tratto dalla pagina qui accessibile.

Internazionale, 17 aprile 2018. Lima, Una città esemplare nel mondo contemporaneo, in cui i confini, invece di scomparire per testimoniare che ogni persona ha gli stessi diritti, aumentano fino a fare della Terra un luogo impraticabile
“Da questa parte del muro stiamo male, non abbiamo l’acqua, non abbiamo niente. Dall’altra parte invece hanno tutti la piscina”, dice Esteban Arimana. Se potesse camminare fino alla casa dove lavora come collaboratore domestico, Esteban Arimana impiegherebbe cinque minuti. Invece ogni giorno passa ore nel traffico di Lima, a causa della barriera lunga dieci chilometri che serpeggia sulle colline della capitale peruviana.

Il cosiddetto muro della vergogna divide Pamplona Alta – una baraccopoli in cui vivono circa 96mila peruviani, per la maggior parte indigeni – dal distretto La Molina, dove le case arrivano a costare milioni di euro. Secondo le autorità la barriera serve a proteggere la zona dall’avanzamento degli insediamenti abusivi, ma in realtà divide semplicemente i quartieri più ricchi dalle baracche costruite sulle colline della città.

Un mondo di muri è una serie del giornale brasiliano Folha de S. Paulo sulle barriere costruite per chiudere i confini, fermare i migranti o nascondere la povertà. Nel 2001 ne esistevano 17, oggi sono 70.

Da sapere:
L’aumento della popolazione a Lima dipende soprattutto dall’espansione degli “insediamenti giovani”, un tempo chiamati barriadas. Nel 1961 nelle baraccopoli vivevano duecentomila persone, nel 2007 gli abitanti erano 4,1 milioni, circa il 40 per cento della popolazione della città. Negli anni ottanta e novanta migliaia di persone arrivarono nella capitale peruviana per scappare dal conflitto tra l’organizzazione guerrigliera maoista Sendero luminoso, concentrata soprattutto nella zona delle Ande, e il governo. La costruzione del muro seguì il ritmo dell’espansione delle baraccopoli. Il primo tratto fu costruito nel 1985 dal collegio Immacolata concezione, amministrato dai gesuiti, per impedire che le costruzioni si avvicinassero troppo all’istituto.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

perUnaltracittà newsletter, 8 aprile 2018. Come 'azione congiunta della "rigenerazione urbana" e dalla perversa politica del comune, asservita alla peste del turismo, tanno distruggendo la città delle persone

Nella Firenze intramuros decenni di politiche mercantilistiche e di vuoto pianificatorio hanno cambiato la natura antropologica della residenza. Vediamo da vicino, dati alla mano, la residenza mutante e i suoi influssi nefasti sulla questione dell’abitare e del diritto alla casa.

Tra 2001 e 2011 i residenti entro le mura sono aumentati dell’11%. Dei 38.703 residenti entro la cerchia dei viali, censiti nel 2011, molti sono giovani e single (è mononucleare il 56,8% delle famiglie), risiedono in case piccole, il loro tasso di disoccupazione è del 6,5% (fonte: Ancsa-Cresme[1]).

Il calo degli iscritti nelle liste elettorali sta però a dimostrare che, dagli anni ’90, i residenti di cittadinanza italiana sono stati progressivamente sostituiti da cittadini stranieri, non solo a basso reddito, che pur ci sono: nel 2017, gli stranieri costituiscono il 22,3% della popolazione del centro storico[2]. Residenti esteri e city users – “fruitori” o “utenti” – non sempre investono nell’abitare di lungo periodo in città: dotati di mezzi economici, essi determinano mutamenti nell’assetto urbano; tuttavia, privi del diritto di voto, hanno scarsa incidenza politica. È la popolazione ideale per governare senza problemi.

A Firenze, città storicamente afflitta da sottoccupazione[3], la spinta economica proviene dalla “fabbrica del turismo”, monocoltura che estrae profitto da un patrimonio culturale che non è in grado di riprodurre. E che anzi consuma: sono oltre 10 milioni le presenze turistiche in città nel 2017.

Dieci milioni di presenze hanno peso notevole nel mercato immobiliare. L’affitto turistico in civile abitazione è salito vertiginosamente: 1.800.000 le presenze in B&B nell’anno passato; si stima una crescita media annua dell’8,5% dal 2000[4].

Nel ciclo di incontri “La fabbrica del turismo”, Stefano Picascia (Ladest-Università di Siena) ha fornito dati significativi: a febbraio 2016 gli “appartamenti interi” offerti su Airbnb raggiungono il 17,9% del totale delle unità immobiliari del centro città, 4.192 unità sulle 23.434 censite nel 2011. È una percentuale molto ­– troppo – alta, che fa dubitare dell’effettiva residenzialità registrata dai dati censuari. Il centro di Firenze è infatti, tra i 109 capoluoghi italiani, quello con il minor numero di case “vuote o abitate da non residenti”: il 7,5% del totale (Ancsa-Cresme), molte case in meno del 17,9% posto su Airbnb. Questa incongruenza non preoccupa il Comune che, a corto di liquidità, preferisce introdurre come misura antievasione una tassa di tre euro a notte sulla prenotazione: Airbnb accetta di gestire la riscossione delle imposte, e versarle ogni 15 del mese successivo nelle casse del Comune. 6-7 milioni l’anno, un affare nell’affare.

Da una recente indagine di Tecnocasa[5] sappiamo che a Firenze il 93,8% degli acquisti immobiliari entro le mura ha finalità di investimento: il mercato è orientato nettamente sulle case-vacanza ossia su case sottratte agli abitanti. L’alloggio “mordi e fuggi” divora il diritto alla casa.

L’affitto a breve termine è infatti molto più sicuro dei contratti quadriennali, esposti al rischio di morosità. Persino gli studenti – tradizionale cespite della rendita cittadina – hanno difficoltà a trovar casa in centro. Sopravvivono nella città storica residuali rioni in cui ancora trovano alloggio le classi a basso reddito, il bracciantato del turismo: il sovraffollamento di via Palazzuolo o via Panicale – marginalizzate e in preda all’incuria – è sicuro prodromo alla nuova riqualificazione speculativa. La depressione che precede l’onda.

La città intramuros cambia velocemente volto, lo abbiamo denunciato molte volte da queste pagine. Se le classi subalterne sono espulse dai quartieri centrali, è l’intera cittadinanza ad essere spossessata dei luoghi rappresentativi. In tempi di austerità, la pratica mercatoria sullo spazio pubblico è il mezzo per appianare i bilanci: piazze, ponti e musei sono ridotti a fondali per eventi pseudo-culturali, o commerciali tout court. Piazza del Duomo e della Signoria sono, oggi, recinti per turisti.

Inoltre, annose politiche di decentramento hanno dislocato funzioni vitali, al di fuori di un progetto organico. I “contenitori storici dismessi” sono passati direttamente nei Piani delle Alienazioni: prelibati bocconi per investitori che trasformano caserme in hotel di lusso o il Teatro comunale in appartamenti «stile Fifth Avenue».

In nome della “rigenerazione”, infine, i piani urbanistici hanno reso buon servigio all’incalzante mutazione. E sono essi stessi trasmutati in strumenti di degenerazione urbana. Il 16 aprile scorso, il Consiglio Comunale ha adottato una scellerata Variante al Regolamento urbanistico. La Variante, che inserisce la “ristrutturazione edilizia” come categoria di intervento sugli edifici storici, legittimando speculazioni bloccate dal sistema giudiziario, rappresenta l’estrema torsione amministrativa. Un regalo ai parassiti della rendita, e, insieme, un atto di selezione sociale

[1] Ancsa-Cresme, Centri storici e futuro del paese, 2018.
[2] Fonte: Servizio Statistica del Comune di Firenze.
[3] Cfr. Federico Paolini, Firenze 1946-2005. Una storia urbana e ambientale, Franco Angeli, Milano, 2014.
[4] Fonte: Centro Studi Turistici Firenze.
[5] Tecnocasa Group News, Investire nel mattone? Sì ma dove?, 4 aprile 2018.

arcipelagomilano.org, 17 aprile 2018. Un caloroso invito a partecipare al grande corteo sonoro organizzato per difendere Città studi, un'area vitale per la città che vorrebbero distruggere mediante la "rigenerazione urbana". Le ragioni dei cittadini di Augusta per una vicenda connessa

Rispondo all’appello di Luca Beltrami Gadola a difesa della città di Milanocontro scelte politiche inadeguate, e chiedo ai lettori di Arcipelago dimettersi insieme e unirsi al corteo sonoro che giovedì 19 aprile partirà dapiazza Leonardo da Vinci per dire NO al trasferimento delle facoltàscientifiche a Rho Expo e SI’ al loro sviluppo nella storica sede di CittàStudi. Con vari strumenti musicali faremo sentire nuovamente la nostra vocedopo il grande successo della fiaccolatadel 7 novembre scorso che ha visto oltre 1000 persone scendere instrada a difesa di un pezzo di città.
Perché?
Come esposto più volte in vari articoli apparsi su questa rivista:

1.Città Studi è un quartiere universitario che funziona, è integrato neltessuto urbano, è vivace e accogliente, unisce saperi diffusi e sperimentacoesione nella città. Tutte le università, là dove possibile, si espandonopartendo dal loro nucleo centrale e a Città Studi lo spazio c’è. Costerebbeanche di meno. Ma del famoso studio comparativo, tra quanto costerebberilanciare Città Studi e quanto andare a Expo, non c’è traccia. Studiocomparativo tanto richiesto dai cittadini, durante i vari momenti di cosiddettapartecipazione, che servirebbe a capire con quali criteri si facciano certe sceltepolitiche con i soldi pubblici.

2. L’Università Statale verrebbe penalizzata con quasi 100 mila mq in meno.Sì, certo, a Expo si razionalizzerebbero gli spazi, come sostengono i fautoridel trasferimento, ma andate a chiedere ai matematici e agli informatici cosapensano di questa tanto decantata razionalizzazione che in pratica non sarà chel’allocazione dentro anonimi edifici di tutte le aule per lezioni della Facoltàdi Scienze, da utilizzare a rotazione per i vari corsi di laurea.
Ricordiamo che a causa di questi limiti di spazio, la maggior parte delpatrimonio librario delle attuali biblioteche di Matematica, Fisica, ecc. nonpotrà confluire nell’unica Biblioteca prevista in area Expo e questi tesorifiniranno dimenticati in un magazzino inaccessibile a Sesto. Inoltre non cisarebbe alcuna possibilità di futura espansione del nuovo campus, visto che illuogo è notoriamente chiuso fra tangenziali e autostrada.

3. Un intero quartiere subirebbe un graveespianto: si trasferiscono servizi pubblici come l’UniversitàStatale e due Istituti ospedalieri, Besta e Tumori, in cambio di vaghe promessee progetti per i quali non è stanziato neppure un euro.

Unica eccezione il barcone naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile2015 – evento in cui morirono 700 migranti- che dovrebbe arrivare la prossimaestate nel cortile di Veterinaria, in via Celoria. Per il suo trasferimento daAugusta sono stati stanziati 600 mila euro nell’ultima legge di bilancio. Unemendamento voluto dall’onorevole Quartapelle, con l’intenzione di creare unMuseo dei diritti umani, caldeggiato dalla professoressa Cristina Cattaneo delDipartimento di Medicina Legale che ha coordinato l’umanissimo lavoro diidentificazione dei cadaveri delle vittime.

Senza nulla togliere a questo lodevole progetto, resta da chiedersi se nonabbia invece ragione il “Comitato 18 Aprile” di Augusta, sorto nel 2016, di cuifanno parte vari cittadini partecipi e attivi sul fronte della migrazione,oltre che la Cgil e Legambiente, e sostenuto da parroci e dalla sindaca CettinaDi Pietro. In un comunicato stampa del 18 dicembre 2017 sostiene che queisoldi avrebbero potuto essere utilizzati per salvare vite umane e, soprattutto,ribadisce che il “Giardino della memoria” gli abitanti di Augusta lo vorrebberogiustamente a casa loro, visto che è proprio la comunità siciliana che si è distintanella solidarietà nei confronti dei migranti. I giovani democratici siciliani hanno già espresso la loro contrarietà a tale progetto.

Claudio Fava, consigliere regionale di Centopassi ha presentato a febbraio2018 un’interrogazioneal presidente della Regione, Nello Musumeci, e all’assessoreregionale alla Cultura, Vittorio Sgarbi, per chiedere di intervenire colgoverno nazionale al fine di evitare l’ennesimo scippo ad Augusta e l’ultimadepredazione del patrimonio museale dell’isola.”. Viene da chiedersi per qualimotivi Milano voglia arrogarsi tale diritto sul relitto/simbolo. Secondo leparole del consigliere comunale di Augusta Giancarlo Triberio: “a Milanorisulterebbe del tutto decontestualizzato sia sotto il profilo geografico,perché totalmente estraneo al luogo del naufragio, sia sotto il profilostorico, perché è questa città e questa regione a subire il maggiore impattodell’immigrazione dal mare.”
Ancora una volta si ignora la proposta e la voce di una collettività dipersone, in questo caso sensibili e impegnate sul fronte dell’accoglienza.

4. L’intera città sarebbe impoverita, preda di una politica urbanisticaassoggettata a interessi privati. In tutta questa vicenda assisto oramai datempo a operazioni dove gli interessi privati prevalgono sul bene pubblico,dove le sane e spontanee reazioni dei cittadini vengono distorte e si vuol farpassare una critica costruttiva come una visione miope e conservatrice. Osservoun’amministrazione pubblica che sta progressivamente trasferendo all’areaprivata alcune delle proprie competenze fondamentali. Un’amministrazione che èsotto il controllo del mondo dell’impresa, dell’economia e della finanza.Scelte politiche su come assegnare risorse, stanziare fondi, distribuirebenefici, localizzare investimenti e altri tipi di decisioni vengono dirottativerso direzioni altre, che noncoincidono con il bene della collettività. Scelta di strumentifinanziari come il project financing che relegano ilsoggetto pubblico ad una marginalità decisionale e ad una sudditanza operativasempre più marcata a vantaggio di grandi operatori privati”.

Un’amministrazione pubblica depauperata della sua coscienza sociale chevorrebbe cittadini con una coscienza partecipativa allineata e mai critica.Nella pratica una riduzione di libertà. Perché ogni cm quadrato di territoriodella città mal gestito, gestito senza una visione unitaria e armonica ogestito solo nell’interesse di pochi è un cm quadrato di libertà in meno perciascun cittadino. Sia che si tratti di un cittadino del centro storico o diuna periferia. Senza alcuna distinzione.
Nonostante l’abilità comunicativa nel creare un consenso diffuso erassicurante costruito su una serie di promesse e illusioni.

5. Sarà la nostra risposta alle carichedella polizia del 6 marzo. E se anche dovessimo essere solo in 10 alcorteo del 19 aprile, quei 10 non saranno mai dei perdenti, perché i perdentirimarranno coloro che hanno voluto blindare, chiamando poliziotti e carabinieriin assetto antisommossa, la via S. Antonio dove il Senato accademicodeliberava. Un corpo accademico che teme i propri studenti con le mani alzate.Studenti che chiedono di partecipare e far sentire la loro voce su una sceltastorica di tale portata. Zittiti, manganellati. La forza contro la parola. Unabrutta scena alla quale non avrei mai voluto dover assistere.
Per tutti questi motivi è davvero arrivato il tempo di unirci, di tornare albene comune della città, di riappropriarci anche della solidarietà e dellareciproca partecipazione tra i tanti comitati milanesi che difendono unavisione etica e unitaria della città, che si oppongono a scelte improvvisateper sanare precedenti operazioni fallimentari che hanno arricchito solo pochi eimpoverito la città. Comitati di cittadini che difendono il verde contro lacementificazione, il pubblico contro il privato.

Raccogliamo l’appello del Direttore di Arcipelago, e mettiamo in atto leparole con cui si chiude un articolo su Città Studi apparso suOfftopic:
«Si sta giocando in questi mesi una partita che città e istituzionivorrebbero chiusa. Noi diciamo invece che la partita è ancora aperta, e che lacittà può essere convocata. Perché c’è già in atto un processo collettivo,disperso nei quartieri, di difesa dei beni comuni. Un percorso che riguardastudenti, collettivi, comitati, cittadini, abitanti di diverse parti dellacittà, lavoratori».
Immaginiamo la forza che avrebbe questa cosa. La forza di una rivoluzione.

Cominciamolaquesta rivoluzione pacifica. Partiamo dal corteo del 19 aprile!

la Nuova Venezia, 18 aprile 2018. L'intervista di Vera Mantengoli al sociologo veneziano Giovanni Semi, sul nuovo capitalismo finanziario che fagocita soprattutto le città d'arte, a cominciare da Venezia. (m.p.r.) con riferimenti

Venezia, città degli espulsi. È questo il rischio che corre se non si spezza l'incantesimo della monocultura turistica. Un incantesimo che ha l'effetto di far credere ai cittadini che l'unico mercato possibile sia quello turistico, che i palazzi siano destinati a decadere se non interviene un privato, che botteghe e realtà locali abbiano un valore solo se inserite in circuiti turistici. Tutto questo ha un nome: è il nuovo capitalismo finanziario che fagocita soprattutto le città d'arte, Venezia in primis. Ne parla il veneziano Giovanni Semi, classe 1976, docente di Sociologia all'Università di Torino, autore di Gentrification. Tutte le città come Disneyland? e relatore al convegno sugli usi civici del patrimonio pubblico, organizzato a Palazzo Badoer da Poveglia per tutti e dai cittadini de La Vida.

Cosa si intende per meccanismo di estrazione di valore degli immobili?
«Per capirlo dobbiamo iniziare a domandarci chi sono i produttori di città oggi. Se infatti è vero che le città sono tutte diverse, è anche vero che l'impasto urbano è simile ovunque. Le città d'arte sembra stiano vivendo una nuova fase dell'oro grazie al rilancio del turismo internazionale. Tuttavia il motore delle città sta nel continuo estrarre valore dagli immobili, per esempio usando le piattaforme di affitti a breve termine. Oggi siamo di fronte al fenomeno di città i cui molteplici proprietari di immobili estraggono rendita dal puro fatto di essere proprietari».
Quali le conseguenze?
«La conseguenza è che il divario sociale è sempre più forte. Si toglie spazio di affitto per la popolazione, quindi si sottrae una parte di vita alla città. Le famiglie che in passato sono riuscite a diventare proprietarie possono sperare di estrarre rendita dalla casa, tutti gli altri sono in gravi difficoltà perché non riescono a stare dove vorrebbero e sono costretti ad andarsene. Parlo anche della classe medio alta che comunque non riesce a diventare proprietaria perché nelle città globali i prezzi sono troppo alti e i residenti vengono espulsi».
Qual è l'effetto?
«La monocultura urbana del turismo di fatto accelera i meccanismi di espulsione e di disuguaglianza abitativa. Le città che stanno meglio sono quelle che possono contare su economie differenziate. Io sono nato e cresciuto qui, ma ogni volta che torno provo un grande dolore perché il panorama urbano che conoscevo è scomparso molto velocemente».
La città soffre di un degrado urbano notevole.
«Il degrado urbano è collegato alla pressione del turismo, ma è molto facile dare la colpa al turista. Ricordiamoci che la parte visibile del degrado è il turista che bivacca, ma è solo la punta dell'iceberg perché la parte invisibile è la molteplicità di interessi che hanno portato al turista che bivacca. Non ci sarebbe il turista che si lancia da Rialto se non ci fosse l'infrastruttura che glielo lascia fare. Si tende a colpire l'ultimo anello della catena perché è quello più visibile, ma per spezzare l'incantesimo bisogna mostrare tutta la catena, altrimenti il rischio è arrivare a volere solo turisti ricchi e civili, senza rendersi conto che questa non è la soluzione, ma è seguire ancora quella monocultura che vuole solo il turista ricco che porta soldi. Dopo la selezione di veneziani, quella sui turisti».
Venezia città degli espulsi?
«Le vicende di Venezia si inscrivono in questo meccanismo. È troppo bella per passare inosservata, troppo redditizia per non sollevare appetiti locali. Il flusso di capitale che scorre sotto la crosta terrestre rende Venezia un vero vulcano che, quando emerge in superficie, travolge tutto. È un vulcano voluto anche dalle amministrazioni locali che hanno consapevolmente lavorato per permettergli l'emersione, salvo poi lamentarsi che la lava distrugge tutto. La sociologa Saskia Sassen ha integrato questo tipo di dinamica urbana in un modello di sfruttamento che procede per espulsioni successive».
In che senso?
«Secondo Sassen il capitalismo globale si avvale di formazioni predatorie che estraggono risorse da ogni possibile ambito del pianeta. Parliamo qui di risorse economiche. Non ci rendiamo conto di come questo tipo di estrazione stia minacciando l'espulsione degli abitanti, soprattutto quelli delle città reputate belle. Per questo ho detto che Venezia è città degli espulsi, perché incarna il processo della monocultura».
Che ruolo hanno le piattaforme come Airbnb?«La monocultura turistica si è espansa durante la crisi finanziaria del 2008, anno in cui è nata la piattaforma Airbnb. In quel momento Airbnb ha salvato molte famiglie dal collasso, ma ha avuto successo perché si è rotta gran parte dell'economia e della redistribuzione. Queste piattaforme seguono una logica di monopolio, come si vede anche dal nuovo Airbnb Experience che promuove esperienze locali. Si tratta di una sorta di monopolio dell'identità perché questa enfasi nella produzione dall'alto delle cosiddette esperienze autentiche locali è la negazione dell'autenticità stessa. Se una realtà è autentica lo è senza doverlo affermare».
Come opporsi?
«Sarebbe già tanto riconoscere questo meccanismo e chiamarlo con il nome che ha, processo di estrazione di rendita, senza farsi intrappolare dalla retorica che lo chiama innovazione sociale o smart city. In realtà siamo di fronte a un processo di espulsione degli abitanti e di omologazione delle città che stanno diventando uguali, arrivando a quella che i sociologi chiamano disneyzzazione del panorama contemporaneo. I cittadini in questo momento hanno poco spazio perché la monocultura del turismo fa credere che si possa vivere solo di questa. Riconoscere che non è così potrebbe portare a una consapevolezza diversa. Paccottiglia e hotel che nascono a dismisura sono la parte visibile. Sotto la pelle della città scorre un fiume di capitale pronto a salire in superficie. Questo fiume non si vede, ma c'è. Noi abbiamo il compito di svelarlo perché si possa almeno discutere se è ciò di cui abbiamo davvero bisogno per vivere. In questo modo c'è la possibilità di spezzare l'incantesimo».

Riferimenti

Sui mutamenti delle città, sul capitalismo finanziario che le fagocita e sugli effetti che questo produce in termini di aumento delle disuguaglianze si vedano su eddyburg di Saskia Sassen Chi ha rubato le nostre città? le numerose interviste a Saskia Sassen, in particolare quella di Francesco Erbani Saskia Sassen: «Così i padroni delle città hanno conquistato il mondo» e di Ilaria Boniburini L'Agenda urbana dell'ONU. “Urbanizzazione” per quale “sviluppo”? Sul turismo a Venezia vedi in particolare l'articolo di Claudia Zanardo Non solo navi. Sull'impatto antropico sul turismo, oltre ai numerosi articoli raccolti nella cartella Vivere aVenezia

Al Jazeera, 12 Aprile 2018. Gli effetti disastrosi del turismo di massa, nuovo settore economico, sono già visibili sia nella capitale che nei luoghi più naturalistici. Il governo sta valutando le misure da adottare (tradotto da i.b.)

L'Islanda, una piccola isola del Nord Atlantico di 335.000 abitanti, è diventata l'ultima destinazione per i viaggiatori in cerca di paesaggi mozzafiato. Nel 2017, ha contato più di due milioni di turisti.
Il turismo è diventato la principale fonte di reddito del paese, davanti alle industrie della pesca e dell'alluminio, un fatto che potrebbe cambiare il volto del paese e la sua natura esuberante, una terra di ghiaccio e fuoco. Il settore del turismo rappresenta il 20% del PIL, generando oltre 7.000 euro pro capite.

Il maggior numero di visitatori proviene dagli Stati Uniti e supera oramai il numero di abitanti locali. Le compagnie aeree offrono ai viaggiatori l'opportunità di fare uno “stop over” per scoprire il paese senza costi aggiuntivi sul prezzo del volo originario. La maggior parte di questi turisti rimane nelle vicinanze della capitale, Reykjavík, dove Airbnb continua a prendendo molti asottrarre ppartamenti al mercato immobiliare residenziale. Gli abitanti del centro città stanno gradualmente cedendo il posto ai turisti e alberghi e negozi di souvenir prosperano a scapito della scena culturale e artistica della città.

Una delle destinazioni turistiche più popolari d'Islanda è Jokulsarlon. Un gruppo di investitori, che ha acquistato il terreno da una banca in asta, è deciso a combattere contro la prelazione dell'acquisto da parte dello stato islandese, che ha affidato la gestione della laguna e delle sue coste al parco nazionale di Vatnajokull.

Lontana dalle minacce terroristiche che colpiscono il mercato turistico deel Mediterraneo, l’Islanda può considerarsi un "rifugio sicuro", ma il boom del turismo pone un nuovo pericolo e nuove sfide al paese.

L'infrastruttura stradale non può farcela, gli hotel sono saturi, l'esplosione di Airbnb ha alzato il prezzo degli alloggi nella capitale a scapito degli abitanti delle città, che ora lottano per trovare alloggi a prezzi accessibili. I giovani, che non riescono a trovare un posto dove vivere, spesso lasciano il paese e il divario generazionale si sta allargando. Le autorità stanno lottando per garantire la creazione delle strutture necessarie ai turisti. I servizi igienici, i parcheggi e la segnaletica sono insufficienti, e i siti precedentemente quasi dimenticati sono ora presi d'assalto da un carico di turisti.

Di fronte a questo crescente afflusso di turisti, il governo islandese sta attualmente valutando soluzioni che permettano al paese di continuare a beneficiare delle entrate generate dal turismo preservando allo stesso tempo i suoi siti naturali.
Tra le strategie si stanno considerando come incanalare i flussi turistici, limitare il numero di visitatori ammessi durante tutto l'anno e proteggere i siti più vulnerabili.
Siccome alcuni visitatori non rispettano i percorsi o le segnaletiche, danneggiando piante o formazioni geologiche dei siti, la segnaletica viene aumentata a scapito del carattere incontaminato della natura islandese. Per gestire la sua nuova popolarità, i professionisti del turismo sull'isola suggeriscono che i turisti siano limitati alle destinazioni più popolari. In particolare, alcuni sostenitori si concentrano su coloro che sono disposti a pagare un "prezzo realistico" per visitare i siti protetti.

Queste misure possono ridurre la pressione turistica in alcuni luoghi specifici, ma anche controllare meglio l'impatto ambientale di quello che è ora il turismo di massa. Infatti, il carico turistico rischia di far soccombere l’isola. Da una parte deve fare affidamento su molte importazioni per rifornire la sua massa di turisti e soddisfare il loro fabbisogno idrico diretto e indiretto. Dall’altra deve controllare il crescente dell'inquinamento causato dai trasporti, rifiuti e sviluppo delle infrastrutture.

Di fronte alle trasformazioni causate dall'attività umana, il territorio rimasto vergine è oramai scomparso.
L'articolo originale "Iceland: the tourism epidemic" è accessibile qui.

che Fare, 12 aprile 2018. «Una partita che si muove su più campi: quello degli spazi cittadini, della turistificazione, della vendita del patrimonio pubblico, degli standard urbanistici». (m.p.r.) con riferimenti

Venezia, campo San Giacomo da l’Orio. Dove, a detta di molti, ci giocano ancora i bambini. A garanzia di qualità della vita, di insediamento abitato, di quartiere (inteso come porzione del più ampio sestiere di Santa Croce) autentico. Lo sottolinea anche il noto portale Airbnb che definisce campo San Giacomo, “sicuramente una delle piazze più vive e vere della città”. I bambini qui ci giocano davvero perché escono da alcune delle numerose sedi delle scuole (primarie o di primo grado) che insistono nelle calle (vie) adiacenti. E per le sue dimensioni e la sua forma: una sorta di U allargata che abbraccia il perimetro dell’omonima chiesa. Così i più grandi giocano verso il lato sud e i più piccoli giocano verso il lat nord dove è meno rischioso che il pallone finisca in acqua o sui balconi delle case.

In una città iper turistificata il “campo dove giocano i bambini” diventa metafora di molte cose: di luogo di resistenza, di controtendenza, quasi di unicità. Un pezzo della città in cui gli abitanti sembrano semplicemente esserci: a fronte di una Venezia schiacciata dal peso delle migliaia di visitatori che ogni giorno si riversano al suo interno (per aria, per terra e per mare), che ne influenzano inevitabilmente l’aspetto e l’economia, trasformandola in un enorme museo a cielo aperto corredata di bar e ristoranti, terrazze nei campi e nelle fondamenta, alberghi nei palazzi storici o nelle stesse abitazioni.

Un destino che accomuna i centri storici di molte città e che qui si amplifica perché siamo in un’isola. In alcuni fine settimana l’accesso per via terra alla città lagunare risulta impossibile a causa dell’eccessivo numero di persone che via automobile o mezzi pubblici tentano di raggiungere questo luogo “unico al mondo” restando bloccati sul Ponte della Libertà.

Attorno a Campo San Giacomo insistono, oltre alle scuole, una sede universitaria, un ferramenta, una cartoleria, alcuni laboratori di giovani artigiani e ancora dei piccoli alimentari e alcuni bar di quartiere. Non è un caso che proprio qui si stia giocando la partita de La Vida.

L’immobile che si affaccia sulla parte orientale del campo ospita al pianterreno l’edificio che in città è conosciuto come La Vida. Il nome lo deve al pergolato di viti che ombreggiava i tavolini di una rinomata trattoria che ha accompagnato pasti e aperitivi fino a circa la metà degli anni ’70. Fino ad allora in campo c’era solo un altro ristorante, ancora oggi aperto, dalla parte opposta, anzi un po’ più in là ancora, dopo Palazzo Pemma, una volta sede dell’Università, oggi albergo, accanto alla abitazione del poeta Mario Stefani, che ha accompagnato con i suoi versi il grido di dolore di questa città.

Sulla targa in pietra sopra alla porta d’entrata dell’edificio - oggi chiusa - si legge chiaramente la sua antica origine: si tratta di un Teatro Stabile per la sezione anatomica, voluto e costruito a metà del Seicento dal Senato della Repubblica, anche grazie a una donazione privata. L’edificio, che si estendeva dal piano terra ai piani superiori (oggi appartamenti), e del tutto simile al più noto Teatro Anatomico di Padova, per oltre un secolo e mezzo ha quindi ospitato il luogo in cui si sezionavano cadaveri a fini di studio. Ma anche: il Collegio dei Medici Fisici e dei Chirurghi, la Scuola per i dottorati in medicina e chirurgia con relativi archivi e biblioteche e per qualche decennio la prima scuola di Ostetricia. Inserito nel contesto urbano, visibile, quindi e riconoscibile a testimoniare il progresso scientifico e la lungimiranza delle istituzioni veneziane.

Ma torniamo alla partita che oggi si sta giocando qui. Una partita che si muove su più campi: quello degli spazi cittadini, della turistificazione, della vendita del patrimonio pubblico, degli standard urbanistici. Da una parte un ente pubblico e un piano di dismissione (in questo caso la Regione Veneto, proprietaria di tutti i locali al pianterreno dagli anni ’80), un imprenditore privato, che quei locali acquista (siamo nel 2017) e che vorrebbe trasformare in un ristorante (l’ennesimo sul campo che dalla metà degli anni ’70 ad oggi qualche trasformazione ha vissuto), dall’altra un gruppo di abitanti che ne contesta vendita e cambio di destinazione d’uso.

Nel 1996 infatti l’amministrazione comunale vincola l’immobile a tipo SU: “Unità edilizia speciale preottocentesca a struttura unitaria, compatibile con attività museali, sedi espositive, biblioteche, archivi, attrezzature associative, teatri, sale di ritrovo e attrezzature religiose”.

La Regione in questi decenni lo sotto-utilizza in questo senso: ne fa un archivio, la sede dell’Organismo Culturale Ricreativo Assistenza Dipendenti regionali e poi lo chiude.

Affacciato com’è sul campo, sono in molti a chiederne l’utilizzo: per farne sede per le associazioni, realizzare una ludoteca per bambini, un museo etnografico. Negli anni ’90 nel mezzo di una manifestazione promossa dall’arcigay viene occupato e ne diventa per qualche anno la sede. Nuovamente chiuso. Ospita per qualche anno le sporadiche iniziative ricreative dell’OCRAD del Veneto e infine viene messo all’asta e venduto.

È il settembre 2017. Il progetto presentato alla Regione da alcune associazioni e le firme dei cittadini raccolte contro la vendita si rivelano inutili. Il giorno della notizia dell’acquisto, gli abitanti entrano nell’immobile e lo riaprono: La Vida diventa per oltre cinque mesi un luogo in cui succedono molte cose. Attività ricreative e momenti di confronto sulle funzioni e il destino dello spazio pubblico, il suo utilizzo le regole e la sostenibilità di quell’utilizzo.

Attorno alla Vida nasce, cresce e si forma una comunità che è fatta di uomini e donne di ogni età, di diversa estrazione sociale e con esperienze e appartenenze politiche e sociali molto diversificate, accomunati, tutti, da obiettivi chiari: lo spazio, amministrato per conto dei cittadini, dalla Regione deve restare pubblico e utilizzato in modo collettivo. In questi mesi si affaccia all’interno delle assemblee l’esigenza di un linguaggio condiviso che definisca chi sono i cittadini, cosa vuole dire “collettivo”, quali sono le regole della partecipazione e della condivisione.

Una riflessione che mette al centro di tutto, il tempo. In una città unica come Venezia, che favorisce le relazioni umane, in cui il tempo è ancora un tempo lento e umanizzato, in cui le distanze sono percorribili e i percorsi a piedi invitano all’incontro, in una città così fortunata si avverte comunque la perdita dello spazio pubblico come spazio collettivo. Il recupero dei laboratori in campo, dei pranzi domenicali in tavolate conviviali in cui “ognuno porta quello che vorrebbe trovare”, la proposta di letture per bambini, del cinema per ragazzi domenicale, delle presentazioni… rappresentano una forma di riappropriazione non solo dello spazio ma anche del tempo collettivo. Il tempo dei cittadini di prendersi cura di un pezzo della loro città: che è fatto di pareti, di proposte e di persone.

Al momento dello sgombero (6 marzo 2018) con un ingente e inspiegabile dispiegamento di forze dell’ordine, la comunità si raccoglie sotto un tendone in campo per riprendersi lo spazio e soprattutto non perdere quanto conquistato e costruito.

La vendita del patrimonio pubblico accomuna tutto il territorio nazionale, diversi soggetti (Demanio, Regioni, Comuni), alcuni provvedimenti legislativi e la medesima ragione: i conti del bilancio. La gestione della città diventa pratica di ragioneria ed esercizio contabile.

L’operazione inizia più di qualche anno fa (già nel 1991 con la privatizzazione degli Enti Pubblici) e subisce una serie di accelerazioni: la più forte, forse, nel 2008 con le “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica” che permettono agli Enti Locali di programmare “piani di alienazione” in cui inserire la lista degli immobili pubblici in vendita e poi allegarli al bilancio.

In questa ottica palazzi, scuole, caserme, terreni, isole vengono alienate (privatizzate) e monetizzate. Se guardiamo la cosa dall’altra parte vediamo che interi pezzi di città e di territorio vengono privati e preclusi ai cittadini. Bilancio ed erosione del patrimonio. Profitto immediato e definitiva perdita dei beni pubblici. Quadratura dei conti e mancata progettualità. In mezzo la città o quel che ne rimane: un’isola trasformata in albergo di lusso ne preclude l’accesso ai cittadini, cambia funzione, impedisce ogni progettualità futura. Un edificio “a caratteristiche ricreative e associative” che diventa ristorante toglie agli abitanti 200 metri quadri di spazio di aggregazione, di condivisione e di “vissuto”. Il futuro plateatico di quel ristorante, divorerà un altro pezzo di suolo.

L’alienazione del patrimonio pubblico di fatto depaupera la città dei suoi spazi e spossessa i suoi abitanti dei luoghi del ambiente di vita e quindi delle prospettive a questo legate.

La riappropriazione di uno spazio cittadino (sia esso un’isola, un terreno agricolo, una caserma, una scuola, un palazzo) assume un’importanza strategica in termini di presa di coscienza collettiva delle esigenze della vita civica per chi quelle città vive e abita. Ma anche in termini di governance: di ruolo attivo dei cittadini nel tessere relazioni, nel prendersi cura degli spazi del vivere comune e su queste operare delle scelte condivise. Ha, cioè a che fare con il concetto stesso di comunità.

A Venezia in questa straordinaria e quasi futuristica dimensione urbana che nel suo policentrismo vede nel “campo”, nella piazza che si moltiplica in ogni quartiere, il cuore pulsante della vita sociale e relazionale cittadina (qui si affacciavano le case, i canali, la chiesa, il cimitero, il mercato, il pozzo per l’acqua), si riparte dallo spazio collettivo, dalla piazza appunto e dai beni pubblici che in quel campo si affacciano.

La riappropriazione del campo dopo lo sgombero è al tempo stesso necessaria e simbolica, materiale e metaforica: se da una parte guarda all’edificio pubblico che non si vuole e non si deve lasciare priv[atizz]are, dall’altra guarda proprio alla dimensione dello spazio urbano e della sua riconquista da parte di chi, nuovi e vecchi abitanti, non accetta di vivere in una città condannata alla monocultura turistica e, per questo, quello spazio pubblico, intende riprendersi e vivere.

Al centro della battaglia per la Vida, che sta assumendo i caratteri di una rivendicazione e dibattito anche emblematici, ci stanno non solo l’idea di stare insieme e di fare delle cose insieme ma anche una lettura attenta delle trasformazioni della città, della pericolosità della sottrazione dello spazio pubblico, della necessità di poter usufruire e saper governare quegli spazi. Di rimettere al centro gli abitanti e recuperare le funzioni che la città ha in quanto tale. Di prendersi cura della città che deve essere il luogo in cui se i bambini ci giocano non è una cosa straordinaria.

riferimenti
Su eddyburg i provvedimenti legislativi che hanno accompagnato lo svuotamento di senso delle politiche urbane nell'articolo di Ilaria Agostini Alienazioni a Firenze. Sulla vicenda della Vida altri articoli sono raggiungibili su eddyburg utilizzando il "cerca"

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Una Opera, di dimensioni straordinariamente vaste, tra Egitto, Etiopia e Sudan, che modificherà delicati equilibri ambientali, nonché le condizioni di sopravvivenza di uomini e altri esseri. Ma il business è terribilmente appetitoso:3400 milioni di euro, impresa Salini-Impregilo

Le posizioni dell’Egitto e dell’Etiopia, appoggiata dal Sudan, sulla messa in funzione della Grande diga etiopica della rinascita (Gerd), sono ancora lontane. Anche l’ultimo incontro, avvenuto la settimana scorsa a Khartoum, si è concluso con un nulla di fatto. Lo ha dichiarato ufficialmente il ministro degli Esteri sudanese, Ibrahim Gandur, alla fine dell’incontro del comitato tripartito cui hanno partecipato i ministri degli Esteri, delle Risorse Idriche e dell’Irrigazione, oltre che i responsabili dei servizi di sicurezza e di intelligence dei tre paesi.

Gandur ha aggiunto che al prossimo incontro, di cui non ha precisato la data, parteciperanno solo i ministri incaricati dell’irrigazione, che dovranno sciogliere gli intricati nodi ancora sul tappeto in quel settore. Solo in seguito saranno raggiunti dagli altri componenti del comitato. Gandur ha insomma fatto sapere che è ancora non concordata la questione chiave: quanta acqua resterà disponibile per l’Egitto con l’entrata in funzione della diga.

L’Egitto, che dipende quasi totalmente dal Nilo per il suo sviluppo agricolo e industriale, oltre che per il consumo umano, vuole garanzie certe che non sarà intaccata la quantità di acqua che fluisce nel suo territorio annualmente, pari a circa 50 miliardi di metri cubi. Questo è, in estrema sintesi, il punto cruciale anche della Dichiarazione di principi, firmata da Egitto, Etiopia e Sudan nel marzo del 2015. I tre paesi si erano impegnati a raggiungere il consenso sulla valutazione dell’impatto ambientale della diga prima che fosse messa in funzione. Ma questo consenso è ancora ben lontano.

Pare che il problema più importante riguardi il tempo di riempimento del bacino, della capacità di 74 miliardi di metri cubi di acqua. L’Etiopia pensa ad un massimo di cinque anni, mentre l’Egitto chiede un periodo molto più lungo, per garantirsi un maggior flusso di acqua durante tutta quella fase del progetto.

Ma il governo di Addis Abeba non si ferma davanti agli ostacoli del negoziato. La Gerd, costruita sul Nilo Blu a pochi chilometri dal confine sudanese, è ormai vicina al traguardo. Già nello scorso agosto il 60% dei lavori previsti era stato completato, mentre i primi test per la produzione di energia elettrica sono programmati entro la fine di quest’anno, con l’entrata in funzione di 2 delle 16 turbine, che, a progetto completato, produrranno 6.000 megawatt di energia elettrica. Anche il riempimento dell’invaso è già iniziato.

Prezioso ecosistema a rischio

Perciò in Egitto si comincia a pensare ad un piano B, che permetta di differenziare l’approvvigionamento idrico, garantito ora quasi totalmente dal grande Nilo Blu. E così si ritorna a parlare del canale di Jonglei, che dovrebbe drenare l’acqua dispersa dal Nilo Bianco nel Sudd - una vastissima zona umida che occupa una buona parte del territorio delle regioni centro settentrionali dell’est del Sud Sudan, con una superfice stimata di 57 mila chilometri quadrati - riportandole nell’alveo del fiume. In questo modo il Nilo Bianco potrebbe garantire risorse idriche aggiuntive pari a circa 4,7 miliardi di metri cubi all’anno.

Si tratta di un vecchio progetto egiziano, risalente agli anni Settanta. La costruzione del canale iniziò nel 1978 e fu interrotta dallo scoppio della guerra civile, nel 1983, quando ormai erano stati scavati 240 chilometri, dei 360 previsti. Proprio la costruzione del canale fu una delle ragioni per cui le regioni meridionali del Sudan si ribellarono. Infatti nella palude del Sudd vivevano, e ancora vivono, milioni di capi di bestiame, la ricchezza delle tribù pastorali dei Dinka, dei Nuer e degli Shilluk. Sull’allevamento del bestiame è basata non solo l’economia, ma anche l’identità sociale e culturale stessa di questi gruppi etnici, che sono i tre maggiori del Sud Sudan.

Inoltre nel Sudd - che rappresenta uno dei più grandi ecosistemi di acqua dolce del mondo - hanno il loro habitat innumerevoli specie di insetti, uccelli, rettili e mammiferi selvatici. Per questo è considerato una riserva straordinaria della biodiversità del pianeta, e come altre zone umide, è protetto dalla convenzione di Ramsar fin dal 2006. Si può dunque facilmente immaginare cosa succederebbe se la zona venisse prosciugata, e presto desertificata, per convogliare a nord l’acqua necessaria alla sopravvivenza di milioni di persone, di capi di bestiame e di specie viventi. Al disastro ecologico immane si sommerebbe una conflittualità perenne per l’accesso ai pascoli e alle risorse idriche, ridotti drasticamente dal drenaggio del territorio.

Tuttavia, nel 2008, durante una visita al Cairo di Salva Kiir, il presidente del Sud Sudan allora vice presidente del Sudan, si è ricominciato a parlare del vecchio progetto in termini concreti: la ripresa degli scavi del canale dopo l’eventuale indipendenza del Sud.
In un’altra occasione l’Egitto suggerì anche di considerare l’acqua drenata dal canale come la quota parte delle acque del Nilo spettanti al nuovo paese. Il progetto si è di nuovo arenato con lo scoppio della guerra civile, nel dicembre del 2013, ma si può star certi che verrà rispolverato appena il Sud Sudan ridiventerà un paese stabile. E la pressione per la sua ripresa sarà proporzionale alla sete d’acqua che la grande diga etiopica avrà causato all’Egitto. Al Cairo le lobby che sostengono la necessità per il paese di differenziare l’approvvigionamento idrico utilizzando anche le acque del Nilo Bianco si stanno facendo sempre più forti ed influenti.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il Fatto quotidano, 14 giugno 2018. Come faranno a convivere due posizioni così radicalmente diverse? Conoscendo i politici italiani, non siamo ottimisti. Ma la speranza è l'ultima a morire

Mentre si profila una possibile intesa fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, mi tornano in mente le dure polemiche consumatesi in Parlamento fra i loro due gruppi in materia di cultura, di natura, di ambiente, di aree protette, e, comunque, le opposte opinioni espresse.

Andate a rileggervi sul sito dei 5 Stelle il programma elettorale in materia di beni culturali e paesaggistici: 1) Bisogna difendere e rafforzare il ruolo delle Soprintendenze indebolite dai governi Berlusconi e Renzi sul piano dei poteri; 2) Bisogna tornare a dividere il Turismo dai Beni culturali evitando che il Mibact consideri quei beni o quel centri storici, beni commerciali, “macchine da soldi”.

All’opposto le posizioni della Lega (e in generale del centrodestra): in uno “storico” dibattito televisivo da Bruno Vespa, Matteo Salvini, infuriato per la bocciatura (sacrosanta) di un’altra strada sul Lago di Como da parte del soprintendente Luca Rinaldi, se ne uscì reclamando l’abolizione delle Soprintendenze e dei loro “assurdi vincoli e poteri”. E la renzianissima Maria Elena Boschi fu di fatto d’accordo: “Della soppressione delle Soprintendenze si può discutere, noi intanto, con la riforma Franceschini, le abbiamo ridimensionate…”. Renzi docebat.

Non meno opposte le posizioni della Lega e dei 5 Stelle in materia di paesaggio e di ambiente, di parchi. Nei mesi scorsi ci sono state forti polemiche (che hanno spaccato pure il Pd) sulla legge Caleo che sfasciava la legge Cederna-Ceruti del 1991 sulle aree protette. La quale ha consentito – pensate quale “rivoluzione verde” – di portare da 4 appena a ben 24 i Parchi Nazionali e a 136 quelli regionali. Con una superficie protetta che da un 4 per cento scarso dell’Italia è balzata all’11 per cento. Con un evidente beneficio per la biodiversità vegetale e animale, per i nostri polmoni e per la nostra salute in generale in tempi di smog sempre più grave nelle città e nelle aree metropolitane.

Contro il disegno di legge “Sfasciaparchi” (firmato dall’onorevole Massimo Caleo del Pd, trombato il 4 marzo) e a difesa della legge Cederna-Ceruti è intervenuto lo stesso Beppe Grillo che nel suo blog ha fatto alcune affermazioni di questo tenore: “La vera scommessa sarebbe quella di destinare maggiori risorse alla tutela del patrimonio attuale che contribuisce alla ricchezza della Nazione e affinare ed estendere le competenze di gestione al di là dei 24 parchi nazionali e delle 30 aree marine protette per garantire una tutela attiva, ad esempio agli oltre 2.200 siti di interesse comunitario localizzati nel nostro Paese, fiore all’occhiello della Ue nel mondo. E invece abbiamo a che fare con una bassa cucina della politica che vuole condizionare le nomine del presidente e dei Direttori dei parchi nazionali (…) e ridurre le aree marine protette a una sorta di condominii degli enti locali”.

Durissimo Grillo contro l’idea di introdurre “royalties” per quanti sfruttano le risorse dei Parchi, e concedere così “una licenza ad inquinare”, a rapinare con cave, estrazioni petrolifere, ecc. Con una frase finale ammonitrice che vale per tutto il patrimonio storico-artistico-paesaggistico: “La tutela non può, non deve essere sacrificata allo sviluppo economico”. Da applausi.

E Salvini? E la Lega? Tutto il contrario: vogliono anzitutto fare “spezzatino” anche dei più antichi Parchi Nazionali e ci sono già riusciti col Parco Nazionale dello Stelvio (80 anni di vita) diviso fra Lombardia, Trento e Bolzano. Vogliono rendere “remunerativi” gli stessi. Vogliono da sempre reintrodurre la caccia nei parchi e nei loro immediati dintorni anche per le specie protette, ecc. ecc. Ma quali accordi di governo sono mai possibili su materie così strategiche per la salute, la cultura, il benessere psico-fisico degli italiani? Quali compromessi fra civiltà e barbarie?

il manifesto, 14 aprile 2018. Nella città di Renzi e Nardella resistere alla marea montante del turismo mordi e fuggi e dalla svendita del patrimonio culturale è più difficile che altrove. Ma ci si prova, iniziando dalla puntuale denuncia di ciò che accade con la complicità dei governanti

«La fabbrica del turismo. Una città afflitta da sotto-occupazione e precariato estrae valore da un patrimonio culturale unico, ma è incapace di riprodurlo.Strade, ponti e musei cambiati in fondali per «eventi». Piazza del Duomo e piazza della Signoria trasformati in recinti per turisti»

Ci hanno in odio», commenta un vecchio abitante alle prese con le difficoltà dell’abitare nella Firenze intramuros, dove decenni di vuoto pianificatorio e di politiche mercantilistiche hanno cambiato la natura antropologica della residenza.

Tra 2001 e 2011 i residenti entro le mura (38.703 nel 2011) sono aumentati dell’11%. Molti sono giovani e single (è mononucleare il 56,8% delle famiglie), risiedono in case piccole, il loro tasso di disoccupazione è del 6,5% (dati: Ancsa-Cresme). Il calo degli iscritti nelle liste elettorali sta però a dimostrare che, dagli anni ’90, i residenti di cittadinanza italiana sono stati progressivamente sostituiti da cittadini stranieri, non solo a basso reddito, che pur ci sono: nel 2017, gli stranieri costituiscono il 22,3% della popolazione del centro storico (Servizio Statistica del Comune). Residenti esteri e «fruitori» non sempre investono nell’abitare di lungo periodo in città: dotati di mezzi economici, essi determinano mutamenti nell’assetto urbano; tuttavia, privi del diritto di voto, hanno scarsa incidenza politica. La popolazione ideale per governare senza problemi.

A Firenze, città storicamente afflitta da sottoccupazione, la spinta economica proviene dalla «fabbrica del turismo», monocoltura che estrae profitto da un patrimonio culturale che non è in grado di riprodurre. E che anzi consuma: sono oltre 10 milioni le presenze turistiche in città nel 2017. Tali presenze hanno peso notevole nel mercato immobiliare. L’affitto turistico in civile abitazione è salito vertiginosamente: 1.800.000 le presenze in B&B nell’anno passato; dal 2000, si stima una crescita media annua dell’8,5% (Centro Studi Turistici).

Stefano Picascia (Ladest-Università di Siena) fornisce dati significativi: a febbraio 2016 gli «appartamenti interi» offerti su Airbnb raggiungono il 17,9% del totale delle unità immobiliari del centro città (4.192 su 23.434). Una percentuale molto – troppo – alta, che fa dubitare dell’effettiva residenzialità registrata dai dati censuari.

Il centro di Firenze è infatti, tra i capoluoghi italiani, quello con minor numero di case «vuote o abitate da non residenti»: il 7,5% del totale (Ancsa-Cresme), molte case in meno del 17,9 posto su Airbnb. Questa incongruenza non preoccupa il Comune che, a corto di liquidità, preferisce introdurre come misura antievasione una tassa di tre euro a notte sulla prenotazione: Airbnb accetta di gestire la riscossione delle imposte, e versarle ogni 15 del mese successivo. 6-7 milioni l’anno, un affare nell’affare.

A Firenze il 93,8% degli acquisti immobiliari entro le mura ha finalità di investimento (Tecnocasa, 2018). Il mercato si orienta sulle «case vacanza» che sottraggono alloggi agli abitanti. Molto più sicuro infatti, rispetto ai contratti quadriennali esposti al rischio di morosità, l’affitto a breve termine. Persino gli studenti – tradizionale cespite della rendita cittadina – hanno difficoltà a trovar casa in centro. Sopravvivono nella città storica residuali rioni in cui ancora trovano alloggio le classi a basso reddito, il bracciantato del turismo: il sovraffollamento di via Palazzuolo o via Panicale – marginalizzate e in preda all’incuria – è sicuro prodromo alla nuova riqualificazione speculativa. La depressione che precede l’onda.

La città intramuros cambia velocemente volto. Se le classi subalterne sono espulse dai quartieri centrali, è l’intera cittadinanza ad essere spossessata dei luoghi rappresentativi. In tempi di austerità, la pratica mercatoria sullo spazio pubblico è il mezzo per appianare i bilanci: piazze, ponti e musei sono ridotti a fondali per eventi pseudo-culturali, o commerciali tout court. Piazza del Duomo e della Signoria sono, oggi, recinti per turisti.

Inoltre, annose politiche di decentramento hanno dislocato funzioni vitali, al di fuori di un progetto organico. I «contenitori storici dismessi» sono passati direttamente nei Piani delle Alienazioni: prelibati bocconi per investitori che trasformano caserme in hotel di lusso o il Teatro Comunale in appartamenti «stile Fifth Avenue».

In nome della «rigenerazione», infine, i piani urbanistici hanno reso buon servigio all’incalzante mutazione. A marzo, la Giunta Nardella ha approvato una scellerata Variante urbanistica che, abolendo l’obbligatorietà del restauro sugli edifici storici e legittimando speculazioni bloccate dal sistema giudiziario, rappresenta l’estrema torsione amministrativa. Un regalo ai parassiti della rendita, e, insieme, un atto di selezione sociale.

il manifesto, 14 giugno 2018. Episodi di riconquista di beni collettivi nella città divorata dal turismo escursionistico e da quello di lusso e tradita dai governanti infedeli
«Ripensare gli spazi pubblici. A Venezia dove la resistenza al turismo di massa genera manifestazioni e azioni di protesta. La storia dell’Antico Teatro di Anatomia, noto in città come La Vida. Oggi e domani il convegno "L'altro uso. Usi civici e patrimonio pubblico. Dalla vendita alla gestione collettiva comunitaria"»

Venezia e turismo sono un binomio apparentemente inscindibile. Da sempre, quando si parla di città trasformate in cartolina e quotidiane invasioni di escursionisti, il nome della città lagunare è utilizzato per evocare il worst case scenario della turistificazione irrimediabile di una realtà urbana, di cui la questione delle Grandi Navi costituisce forse l’elemento più appariscente e noto alle cronache, anche per le numerose mobilitazioni che da anni ne contestano l’arrivo in porto.

Da qualche mese però la questione della resistenza al turismo di massa sta assumendo una connotazione più ampia, con il susseguirsi di manifestazioni ed azioni di protesta. L’ultima esplosione del tema riguarda le vicende dell’occupazione – e successivo sgombero – dell’Antico Teatro di Anatomia, noto in città come La Vida.

Si tratta di un edificio di proprietà regionale, inserito dalla giunta Zaia nel piano delle alienazioni e destinato a diventare l’ennesimo ristorante. Alla notizia del perfezionamento della vendita, gli abitanti della zona hanno reagito riaprendo la porta dello stabile, restituendo così La Vida al quartiere e rendendola un punto di riferimento per tutta la città. Per cinque mesi persone di tutte le età lo hanno presidiato e animato quotidianamente con attività di ogni tipo, fino allo sgombero eseguito la mattina del 6 marzo.

L’intervento delle forze dell’ordine non ha però messo la parola fine a questa vicenda. Da quella mattina ad oggi il presidio si è spostato all’esterno, sotto un gazebo, e in Campo S. Giacomo continuano le attività e le iniziative di protesta. Da ultima quella di questa domenica, in cui si svolgerà, nell’ambito di una due giorni di convegno su usi civici e patrimonio organizzato assieme all’associazione Poveglia per Tutti, un pomeriggio di confronto tra realtà italiane e spagnole attive nella resistenza alla turistificazione delle loro città. Sulla scia di quello che i movimenti anti-gentrification hanno chiamato «the right to stay put», vale a dire il diritto a restare, si organizza così, anche tra calli e campielli, la resistenza alla città cartolina.

Oggi e domani a Venezia è stato organizzato il convegno L’altro uso. Usi civici e patrimonio pubblico. A Palazzo Badoer (Calle della Lacca, San Polo 2468) ci si confronterà sulla questione della vendita del patrimonio pubblico con, tra gli altri, le esperienze dell’ex-asilo Filangieri (Napoli), Mondeggi fattoria senza padroni (Firenze) e Decide Roma. Domani è prevista una «passeggiata consapevole» per Venezia e nel pomeriggio alla Vida un confronto sulla «città turistificata».

il Fatto quotidiano, 4 aprile 2018. Il drammatico elenco della gigantesca indigestione di cemento, vetro, acciaio, asfalto e pattume vario che sta ingozzando, usque ad mortem, una città una volta non priva di futuro e bellezza

Milano è cambiata (in meglio) negli ultimi anni. Ma promette di cambiare ancor di più nel prossimo decennio (in peggio?). Sono in cantiere in questi mesi progetti che coinvolgono oltre 3 milioni di metri quadrati: spazi immensi, che possono trasformare la città. Area Expo (1,1 milioni di metri quadrati). Scali ferroviari (1,2 milioni di metri quadrati), Bovisa Gasometro (850 mila metri quadrati), Aree Falk e Città della Salute (1,4 milioni di metri quadrati). Quest’ultima è a Sesto San Giovanni, ma ormai non c’è soluzione di continuità tra Milano e i Comuni che la circondano. Se poi ci aggiungiamo le trasformazioni in corso o progettate a Città Studi, a Citylife, a Fiera Milano City, alla Piazza d’Armi e nell’infinito cantiere di Milano Santa Giulia a Rogoredo, il cambiamento diventa ancor più radicale.

È possibile valutare i grandi progetti uno per uno, soppesando annunci e realtà, promesse palesi e interessi sotterranei. Ma poi si può fare un esercizio ulteriore: guardarli tutti insieme, quei progetti, confrontarli e sovrapporli, scoprendo duplicazioni, conflitti, imposture. Il quadro che ne esce mostra che a Milano si sta progettando il futuro con tanto cemento ma senza alcuna visione strategica globale, più attenti agli interessi privati che al bene comune dei cittadini. Si sta anche preparando una nuova bolla immobiliare?

Area Expo. L’operazione “Mind” è il più grosso affare in corso a Milano: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (200 mila mq), con l’arrivo, per ora solo ipotizzato, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Celgene, Ibm. Poca residenza (63 mila mq) di cui 9 mila senior living, cioè residenze di altissimo livello, e 30 mila di social housing, ossia case a prezzo calmierato. In più, altri 54 mila mq di residenze per studenti. Completano il progetto 16 mila mq di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq di hotel. Tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.

Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area sorgerà anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.

Ma ciò che renderà davvero possibile l’operazione “Mind”, facendo da calamita per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq, costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.

Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco. Ma per raggiungere questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno, l’arena, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati (rispettivamente di 60 e 35 mila mq), su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. Chi non ha la memoria labile ricorda inoltre che i cittadini milanesi nel 2011 hanno votato “Sì” a un referendum consultivo che impegnava a lasciare a parco tutta l’area.

Scali ferroviari.Sette grandi aree delle Ferrovie dello Stato (scali Farini, Romana, Porta Genova, Lambrate, Greco Breda, Rogoredo, San Cristoforo), per oltre 1 milione di metri quadrati, saranno riprogettate. È stato fatto un accordo con il fondo anglosassone Olimpia investment fund: sorgeranno nuovi edifici per 674 mila metri quadrati. Meno di un terzo dovrebbe essere edilizia convenzionata, per il resto speculazione immobiliare: residenze, uffici, aree commerciali.

La giunta di Giuseppe Sala presenta il progetto come una grande occasione per rinnovare la città. Ma nelle due aree più grandi e preziose, lo Scalo Farini e lo Scalo Romana, l’indice edificatorio è altissimo, più dello 0,8: vuol dire quasi 1 metro quadrato di superficie lorda di pavimento (slp, in pratica la somma delle superfici dei piani costruiti) per ogni metro quadrato di area. Un diluvio di cemento, che potrà portare almeno 500 milioni di euro nelle casse delle Ferrovie.

Questi terreni sono stati pagati dalla collettività e dati in passato alle Fs per il trasporto pubblico, ma oggi le Ferrovie li usano per fare cassa, come fossero un immobiliarista privato. Il Comune di Milano ha lasciato loro mano libera e concesso un accordo di programma, trattandole alla stregua di un investitore estero. Le istanze di cittadini e comitati, che chiedevano di destinare le aree soprattutto a verde, non sono state prese in considerazione. Contro il progetto sono stati presentati ricorsi al Tar, alla Corte dei conti, alla Presidenza della Repubblica, all’Autorità sulla concorrenza. Si denuncia la mancata pubblicazione di una variante al Pgt (Piano di governo del territorio), che ha impedito ai cittadini di formulare osservazioni, e la carenza dei necessari spazi pubblici.

Città della Salute. Sulle aree di Sesto San Giovanni un tempo occupate dalle acciaierie Falk saranno costruiti edifici per 1 milione di metri quadrati. L’indice edificatorio è altissimo, 0,90: si potrà costruire quasi 1 metro quadrato di pavimento per ogni metro quadrato di area. Il progetto è stato chiamato “Città della salute e della ricerca”, perché qui saranno edificate le nuove sedi dell’Istituto neurologico Besta e dell’Istituto dei tumori: spesa 480 milioni (328 li mette la Regione, 40 lo Stato, 80 i privati). Quanto alla ricerca, il progetto sull’area Expo ha sostanzialmente scippato l’idea a questa area. Così, a parte i due ospedali, tutto il resto è il solito terziario, residenziale e centri commerciali. Tanto che Renzo Piano, che aveva firmato il primo progetto, se n’è andato sbattendo la porta (“Lascio il progetto dell’area ex Falck. Non sono certamente il garante di uno shopping center con un parco divertimenti”). L’operatore è la Milano Sesto dell’immobiliarista Davide Bizzi, insieme al gruppo arabo Fawaz Abdulaziz Alhokair che ha il 25 per cento della società.

Bovisa Gasometro
. Nel quartiere della Bovisa c’è una vasta area che dal 1906 ha ospitato i gasometri e poi, fino al 1994, è stata utilizzata per la produzione di energia. Una parte, chiamata “La Goccia”, di 80 mila metri quadrati, sarà bonificata (da metalli pesanti, arsenico, cianuro, idrocarburi e composti organici cancerogeni), dopo una sospensiva chiesta da un comitato locale, e restituiti a verde.

Una parte più vasta, di 850 mila mq di proprietà mista Comune, Politecnico e A2a, non ha ancora una destinazione, che sarà decisa nella prossima revisione del Piano di governo del territorio. Il Comune sostiene che manterrà per l’area una destinazione prevalentemente pubblica, con un parco e la realizzazione del campus del Politecnico. Ma, anche qui, una parte della volumetria sarà probabilmente usata per residenza e terziario.

Citylife. È il nuovo quartiere residenziale costruito sulle aree della vecchia Fiera campionaria di Milano e realizzato da Generali con Allianz (socio di minoranza che poi si è sfilato). Ha il record della cementificazione: l’indice edificatorio è 1,15. È quasi completato: pronti i grandi palazzi disegnati come fossero navi, pronto il centro commerciale Citylife, pronti due dei tre grattacieli progettati, quello di Zaha Hadid (lo Storto), dove andrà Generali, e quello di Arata Isozaki (il Dritto), nuova sede di Allianz. Mancano ancora il terzo grattacielo, “il Curvo”, firmato da Daniel Libeskind, che sarà affittato a PricewaterhouseCoopers, e alcuni edifici minori. Per finire quel che manca non c’è la ressa dei finanziatori, visto che quasi il 50 per cento delle residenze già completate, 10 mila euro al metro quadrato, sono invendute. Anche il rapper Fedez, che aveva comprato un appartamento, lo ha già messo in vendita.

Santa Giulia. Santa Giulia è un quartiere residenziale su un’area da 1,2 milioni di metri quadrati, con accanto la grande sede di Sky. Avventura intrapresa dall’immobiliarista Luigi Zunino, con progetti ambiziosi affidati all’archistar Norman Foster, finito però in mano alle banche dopo il crac di Zunino del 2010 che ha impedito il completamento del progetto: ci sono ancora 400 mila metri quadrati da edificare. Ci penserà Lend Lease, lo stesso gruppo che ha vinto la gara per le aree Expo e che gestisce il project management (cioè lo sviluppo) di City Life. Ha sottoscritto a ottobre 2017 un accordo con Risanamento spa, la società che un tempo era di Zunino, e ora dovrebbe edificare i lotti Nord, quelli rimasti incompiuti, 50 per cento residenziale di lusso, il resto terziario e alberghiero.

Piazza d’Armi. È un’area militare di 416 mila metri quadrati, compresa tra la caserma Santa Barbara e gli ex Magazzini di Baggio. Invimit, la società del ministero del Tesoro incaricata dal Demanio della valorizzazione della Piazza d’Armi, aveva incaricato l’architetto Leopoldo Freyrie di realizzare un masterplan che prevedeva un eco-quartiere di 4 mila alloggi, con un parco di 270 mila metri quadrati (più grande dei Giardini pubblici di Porta Venezia). Poi invece è arrivata la proposta dei nuovi padroni dell’Inter, che vogliono farne il campus della squadra, investendo 100 milioni di euro per 300 mila metri quadrati (dei 416 totali), realizzando 20 campi da calcio, una residenza sportiva, palestre e un centro medico specializzato. Sparisce il quartiere progettato da Freyrie, ma in compenso il verde prima pubblico diventa privato. E il costruito è comunque di 270 mila metri quadrati (equivalente a quello di Citylife). Sono in corso valutazioni sul rischio bellico e indagini ambientali, per quantificare i costi delle bonifiche necessarie.

Progetti di Catella. Manfredi Catella, immobiliarista figlio d’arte che si è fatto le ossa con Salvatore Ligresti, è forse l’investitore italiano più attivo negli ultimi anni nel business immobiliare milanese. Dopo aver guidato le attività italiane di Hines, colosso immobiliare americano, ha fondato Coima. Con Hines ha realizzato la riqualificazione dell’area di Porta Nuova (che comprende, tra l’altro, il celebrato Bosco Verticale di Stefano Boeri e la Unicredit Tower di Cesar Pelli, che racchiude piazza Gae Aulenti, diventata uno dei luoghi glam della città).

Il progetto Porta Nuova lo aveva rilevato da Ligresti alla vigilia del suo fallimento e lo ha poi girato al fondo sovrano del Qatar. Di Coima è il business center delle Varesine, il quartier generale della Vodafone in via Lorenteggio e la nuova sede di Microsoft e Fondazione Feltrinelli disegnata da Herzog & de Meuron a Porta Volta.

Coima costruirà anche il grattacielo di 26 piani che prenderà il posto della torre Inps di via Melchiorre Gioia e si è aggiudicata gli attigui 32 mila metri quadrati, ex parcheggio su area comunale.

In conclusione. Cifre totali: a Milano sono in arrivo nuove costruzioni su oltre 3 milioni di metri quadrati, di cui buona parte a destinazione terziario e residenziale. Questo in una città che ha invenduti o sfitti 1,5 milioni di metri quadrati a uso commerciale. Secondo la società immobiliare internazionale Cushman & Wakefield è vuoto il 6,8 per cento degli uffici nelle aree centrali, il 16 per cento in periferia e il 13 per cento nell’hinterland. A questi “vuoti” si sommano, nell’edilizia residenziale, circa 30 mila appartamenti sfitti o inutilizzati.

A che cosa serve, allora, aggiungere altro cemento? Agli operatori immobiliari serve perché le aree edificabili e i progetti da realizzare sono valori preziosi da mettere a bilancio ed esche per ottenere altri ricchi finanziamenti dalle banche. Un capitale fittizio (finché non si vende) che negli anni scorsi ha portato al dissesto di operatori come Zunino e Ligresti e all’esplosione dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche. Il rischio dunque è che il nuovo sviluppo di Milano stia costruendo, nell’euforia generale, la nuova bolla immobiliare destinata a scoppiare in un domani ormai non troppo lontano.

Quello che manca è una visione d’insieme, un progetto unitario, saldamente nelle mani del pubblico amministratore (che dovrebbe essere il sindaco della città metropolitana, dunque Giuseppe Sala). Ogni area ha una storia a sé, ogni grande progetto (Expo, Scali Fs, Città della Salute) è pensato come un’isola senza contesto, ha i suoi padrini politici, passati e presenti, ed è sostanzialmente lasciato in balìa degli operatori privati che decidono che cosa fare, mentre la pubblica amministrazione si limita a ringraziarli per i soldi che portano. Nel migliore dei casi, la pubblica amministrazione cerca di contenere un po’ le volumetrie per non fare esagerare con il diluvio di cemento.

È questa la grande Milano che sta crescendo sotto i nostri occhi, celebrata con enfasi da amministratori e media?

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Il salto, 6 Aprile 2018. La Shell sapeva da parecchi anni dei pericoli dell'uso dei fossili sul surriscaldamento globale. Ma il gigante del petrolio continua a investire in combustibili fossili e minare qualsiasi azione alternativa. (i.b.)

Clima di preoccupazione. È evidente fin dal titolo del film che ha realizzato nel 1991 che il gigante petrolifero Shell fosse perfettamente al corrente del nesso tra l’uso delle fonti energetiche fossili, il surriscaldamento globale e le conseguenze che ne sarebbero derivate. A quasi trent’anni di distanza, a inizio 2017 quella pellicola salta fuori insieme a un documento – con tanto di conchiglia sulla copertina – classificato come “confidential” e intitolato “The greenhouse effect”. Li ha scovati il giornalista Jelmer Mommers dopo un anno di indagini per il giornale olandese The Correspondent e ci ha poi lavorato con il collega del Guardian Damian Carrington.
Ne emerge un quadro nel quale Shell aveva piena consapevolezza della velocità elevatissima con la quale l’aumento di temperatura del globo avanzava, una velocità troppo elevata “perché la vita vi si possa adeguare” senza gravi ripercussioni sugli ecosistemi.

L’inquinamento delle pianure costiere, le isole tropicali sommerse, disastri “naturali” e carestie. Perfino la domanda “chi si farà carico di questi rifugiati climatici?”. “I problemi e i dilemmi del cambiamento climatico riguardano tutti noi” recita il film, che nasceva per essere divulgato ma pare non sia stato proiettato per molti anni. Le affermazioni e le stime riportate nel film si sono realizzate con un buon margine di precisione, eppure Shell e le altre “Big oil” non hanno mai fatto retromarcia né nei loro business né nel loro pressing sui governi e sull’opinione pubblica per minimizzare o addirittura negare le responsabilità umane nel fenomeno del climate change. Come fa notare un ex revisore esterno di Shell a The Correspondent, ciò che colpisce è che intanto non sia accaduto nulla per far dubitare di quei dati e della loro veridicità. Anzi, la scienza ha continuato a trovare conferme, unitamente all’evidenza dell’aumento costante delle temperature medie e all’intensificarsi di fenomeni naturali “estremi”.

“Una forma moderna di crimine contro l’umanità” lo definisce un altro degli intervistati, aggiungendo che ora Shell si nasconde dietro gli investimenti sul gas (la fonte fossile con meno emissioni “climalteranti”), mentre in realtà l’estrazione delle fossili dovrebbe cessare del tutto. Peraltro, chiarisce Paul Spedding di Carbon Tracker, se il gas naturale costituisce la metà delle riserve di Shell, un 30% è composto da sabbie bituminose, che rappresentano la modalità estrattiva con il peggiore impatto sul riscaldamento del pianeta e hanno un peso enorme sull’impatto della produzione complessiva del colosso.

A suffragare la tesi della piena consapevolezza del gigante petrolifero circa i rischi del global warming e la sua correlazione con le fonti energetiche fossili, c’è anche un report aziendale riservato del 1986, nel quale si faceva riferimento al rischio di “mutamenti repentini e drammatici” dalle gravi conseguenze sociali. Eppure tre anni dopo nasceva la cosiddetta Global Climate Coalition, con la quale le maggiori compagnie petrolifere hanno fatto pressione per mettere in dubbio la scienza del clima e opporsi all’azione del governo Usa.

Che le lobby petrolifere continuino ancora a incidere sulle decisioni che riguardano gli incentivi alle fonti fossili e che mirano a frenare le rinnovabili non è una novità, ma l’inchiesta di The Correspondent conferma anche che l’investimento minimo di Shell nelle ecoenegie (1% del fatturato) rappresenta praticamente un’operazione di marketing se non di greenwashing, dal momento che la gran parte del business è totalmente incompatibile con gli obiettivi, stabiliti al vertice sul clima di Parigi nel dicembre 2015, di far rientrare entro i 2 gradi centigradi l’aumento medio della temperatura terreste rispetto ai livelli preindustriali.
Il report interno del 1986 chiariva bene che la soluzione al problema devono trovarla i governi con il contributo essenziale dell’industria energetica, che su temi come questi si gioca anche la reputazione. Così, la soluzione più facile è stata mettere quel film sotto chiave, negare l’evidenza e raccontare il contrario di ciò che si faceva e ancora si fa, spesso proprio con il sostegno e la complicità dei governi.

A un anno di distanza, e nonostante la manifestazione della disponibilità a rispettare i limiti imposti dagli accordi di Parigi, gli obiettivi prioritari di Shell sono pressoché invariati: nei paesi Bassi, denuncia ad esempio Friend of the Earth, il 95% degli investimenti è ancora incentrato su petrolio e gas.
Intanto si fa sempre più pressante la richiesta di allineare il proprio business ai livelli di emissione prescritti dagli accordi sul clima di Parigi. E parallelamente aumentano le minacce di azioni legali. Friends of the Eart ha già portato una volta Shell davanti a una corte, ma queata volta l’azione giuriduca annunciata dagli ambientalisti olandesi sarebbe il primo caso di una causa che non chiede di pagare i danni ma di modificare le scelte strategiche di un’azienda.

Non è un caso che la minaccia di un’azione legale contro un colosso delle fossili arrivi proprio dall’Olanda. Proprio una corte dell’Aja, infatti, nel 2015 aveva ordinato al governo olandese di aumentare gli obiettivi di contenimento delle emissioni climalteranti almeno del 25% entro cinque anni, contro il 14-17% fissato dall’esecutivo. La battaglia non è stata facile neanche su questo fronte, tanto che il governo ha proposto appello contro la decisione, ma davanti a questa “sfida sociale complessa che dovrebbe essere affrontata attraverso una sana politica governativa e cambiamenti culturali”, come spiegano da Shell per ridimensionare gli impegni assunti e scongiurare il ricorso alle vie legali, anche la strada di consolidare una giurisprudenza che riaffermi la giustizia climatica assume un ruolo centrale.

Articolo tratto dal sito Il Salto qui raggiungibile.

Il video "Climate of Concern" è visibile sul sito de Correspondent.

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