Intervista di Francesco Erbani alla sociologa della Columbia University: «Le grandi corporation e le speculazioni immobiliari, la crisi economica e la fine dello spazio urbano pubblico. Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti». La Repubblica, 13 luglio 2016
Per rendere esemplare il suo ragionamento su chi siano i padroni della città, Saskia Sassen racconta il caso di Atlantic Yards, un’area grande circa nove ettari a New York. Un tempo ospitava uno stabilimento industriale. Al suo posto erano subentrati laboratori artigiani e industriali, studi di artisti, piccoli appartamenti e piccoli negozi. Si era sviluppato un sistema di vicinato, diremmo noi italiani, che aveva favorito diverse attività. Ma questa miscela culturale, sociale ed etnica così rappresentativa della dimensione urbana, aggiunge Sassen, è stata rimpiazzata da 14 formidabili torri con residenze di lusso che hanno «deurbanizzato questo spazio».
Cos’era successo? Semplicemente che l’area di Atlantic Yards è stata acquistata da un gruppo immobiliare e trasformata. Qualcuno direbbe persino: riqualificata. Esempi simili si trovano ormai dovunque in Nord America e in Europa. Nonostante la crisi, anzi forse proprio perché c’è la crisi, aggiunge Sassen, sui grandi centri urbani sono piovuti investimenti che, toccando l’edilizia e solo quella, stravolgono variegati assetti urbanistici.
Da tempo Saskia Sassen, sociologa della Columbia University, autrice di libri celebri (da Le città globali all’ultimo Espulsioni, editi in Italia dal Mulino) tiene sotto osservazione i mutamenti della scena urbana incrociandoli con le riflessioni sulla crisi finanziaria e sugli effetti che questa produce in termini di aumento delle disuguaglianze. Che proprio nelle città si manifestano con virulenza, laddove si sottrae spazio pubblico, si espellono e sostituiscono ceti sociali, imponendo tipologie architettoniche identiche a Parigi, a Chicago e a Shangai. Sassen sta arrivando a Venezia dove partecipa al convegno di Urban Age nella sessione insieme, fra gli altri, ad Ada Colau, sindaca di Barcellona, e all’economista Edward Glaeser, che l’architetto inglese Richard Burdett, promotore dell’iniziativa, ha intitolato «Who owns the city?». Appunto: chi possiede la città?
Sassen, è possibile che una città appartenga a qualcuno?
«È una provocazione. Ma è un invito a guardare al fatto che interi pezzi di città passano di mano in molte parti del mondo. Una città, nella sua forma più genuina, è un insieme di abitazioni private, di uffici, di edifici pubblici e di spazi pubblici, cioè strade, parchi, piazze… Non c’è una proporzione fissa fra questi elementi. Del tutto sproporzionata è invece una città dominata da giganteschi complessi edilizi, che spesso restano vuoti, fortezze protette da muri sorte una volta eliminati quartieri, strade e parchi».
A chi appartengono alcune grandi città del mondo?
«Appartengono a grandi corporation immobiliari e finanziarie. Che siano nazionali o che abbiano sede in altri paesi è secondario. Fra il 2013 e il 2014 i loro investimenti sono cresciuti dal 300 al 400 per cento».
Quali città sono interessate da questi investimenti?
«Più che le fonti ufficiali, parlano gli stessi operatori. Fra le prime 25 città troviamo, nell’ordine, New York, subito dopo Londra, più staccate Tokyo e Los Angeles, poi San Francisco e Parigi, quindi Chicago, Dallas, Hong Kong, Houston, Berlino, fino a Pechino, San Diego e Toronto».
Nessuna italiana?
«Nelle prime 25 no».
Lei cita Londra: che cosa cambierà con la Brexit?
«A Londra hanno una sede gran parte delle corporation immobiliari globali. Per un certo periodo nella capitale inglese gli investimenti in edilizia si fermeranno. Poi torneranno».
Che cosa ha favorito queste acquisizioni, i meccanismi dell’economia finanziaria globale o anche norme urbanistiche molto permissive?
«Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti. Il territorio urbano ha un valore in sé a prescindere dal valore degli edifici che vi sorgono. Questi possono essere anche di scarso pregio, ma il territorio urbano che li ospita ha un pregio potenziale che può essere sfruttato trasformandolo».
E a questo scopo intervengono norme urbanistiche ad hoc?
«Dagli anni Novanta del Novecento si è assistito a una forte deregolamentazione ».
Si interviene quindi sia nelle zone centrali che in quelle più periferiche?«Fino ad ora si è investito soprattutto nelle aree centrali, o in quelle più vicine al centro. Ma si tende, come dicevo, a estendere gli investimenti laddove è possibile realizzare megaprogetti…».
Megaprogetti che hanno un enorme impatto urbanistico.
«Si realizzano edifici ad alta densità, che impongono la monotonia alla complessità di un assetto urbano, senza sufficiente cura per gli aspetti architettonici o, appunto, urbanistici. L’effetto che si procura è la deurbanizzazione. Si svuota di senso la dimensione urbana. Il risultato è che gli spazi accessibili al pubblico diventano molto più deboli. Dove prima i territori erano governati da amministrazioni pubbliche ora lo sono dalle corporation».
È come se si rovesciasse il significato storico della città.
«Sì. La città è sempre stata un luogo complesso ma incompleto, nel senso di non perfetto, un luogo di frontiera dove gli attori più diversi, provenienti dai mondi più diversi, possono entrare in relazione. Come in rapporto possono entrare coloro che hanno potere e coloro che non ce l’hanno».
Crescono in questo modo i fattori di disuguaglianza?
«La disuguaglianza è in crescita da tempo. Se ne discuteva già quando scrivevo Le città globali, era il 1994 (l’edizione italiana è successiva di dieci anni, ndr). In una città diventiamo tutti soggetti urbani e non siamo solo appartenenti a una comunità religiosa, etnica o sociale. Anche i più poveri sono riconosciuti come soggetti urbani, hanno voce, sono parte della complessità. Ma piuttosto che prevedere luoghi che includono, le nostre città globali tendono a espellere. I nuovi abitanti sono abitanti part-time, sono internazionali ma non perché rappresentino diverse culture o diverse tradizioni, bensì sono esponenti di una nuova, omogenea cultura globale».
A Venezia si discute di come architettura e urbanistica possono proporre soluzioni socialmente orientate. La Biennale di Alejandro Aravena ha questo indirizzo. Crede che queste proposte siano attuabili?«Io sottolineo l’insopprimibile forza che possiede una città, se essa è mescolanza e complessità. A Venezia è presente il sindaco di Bogotà, Enrique Peñalosa. Nella capitale colombiana, come a Medellin, si sono intraprese la via della cultura e di un’architettura che include, che migliora la condizione dei più poveri, per fronteggiare i signori della droga. Sono soluzioni migliori della militarizzazione».
IL CONVEGNO