Diciamoci la verità, Bush ha vinto e stravinto il suo secondo mandato di presidente degli Stati uniti, ma il vero vincitore strategico, di fase, rischia di essere Osama Bin Laden, con la sua aura ieratica e la sua concezione della politica attaccata alla fede. O forse vincono insieme, Bush e Bin Laden, coppia gemellare a onta della loro proclamata inimicizia frontale, come ben videro alcune analisi dei loro gemellari proclami immediatamente successivi all'11 settembre, costruiti su una identica e speculare retorica dell'appello a Allah e a Dio. Fatto sta che ormai ci si appella a spada tratta al divino anche qua in Europa: la coppia Buttiglione-Ferrara insegna. E anche in questo caso il linguaggio la dice lunga: è una fiera del repechage postmoderno di parole della storia continentale stravolte di senso. La caccia alle streghe applicata al caso del commissario europeo mancato, la qualifica di totalitarista appiccicata allo stato laico reo di discriminare i cristiani e via dicendo. Il prof. Carlo Pelanda, insigne editorialista del Giornale nonché di Ideazione, parla candidamente di «nuova identità politica e di missione» improntata all'«alleanza fra la luce e la croce», che sarebbero l'illuminismo e il cristianesimo abbinati alla bell'e meglio contro gli «idioti» abitatori della sinistra. Così va il mondo agli inizi del terzo millennio. Aveva ragione Juergen Habermas quando, poco dopo l'11 settembre, profetizzò che il primo effetto del crollo delle Torri sarebbe stato un rigurgito del sacro e del divino in varie maschere all'interno delle democrazie occidentali secolarizzate, con relativo scontro di civiltà al loro interno prima che fra occidente e islam. E forse, nove mesi prima, avremmo dovuto tutti prestare più attenzione alle venature apocalittiche di cui era stata costellata, sotto sotto, la grande festa per il passaggio di secolo e di millennio. Affilate analisi del voto americano, del resto, riportano a tendenze precedenti l'11 settembre: non è stata tanto la paura del terrorismo a giocare a favore di Bush, quanto insicurezze più primarie incanalate nelle professioni di fede, nella santificazione della famiglia «regolare», nell'omofobia. «L'11 settembre è servito solo a cristallizzare la spaccatura preesistente fra un'America fatta di fede religiosa, unilateralismo politico e isolamento culturale e un'America laica, multilaterale, scientista e cosmopolita», scrive David Rieff su Internazionale. Una spaccatura già operante negli anni 90 del boom clintoniano, e sulla quale i neocons americani, com'è noto, lavoravano per costruire la loro risposta all'insicurezza sociale generata dalla globalizzazione e al terremoto politico innescato dal crollo del bipolarismo nell'89.
Non è un caso infatti, ed è un effetto positivo del 2 novembre, che dell'89 si ricominci a parlare nella sinistra italiana, riconsiderandone gli effetti culturali prima che politici, proprio a ridosso del voto americano. Perché è lì, nella reazione della sinistra al crollo del Muro giusto quindici anni fa, che vanno ricercate le cause di quella cattiva «laicizzazione» della sinistra che, con la cesta delle ideologie sconfitte, ha buttato via anche il bambino di un qualsivoglia orizzonte di senso. Interiorizzando una concezione della politica come pura tecnica amministrativa, moderatismo dei piccoli passi, mimetismo del linguaggio della parte contraria (che è cosa ben diversa dal «riconoscimento del nocciolo di verità contenuto nelle ragioni dell'avversario» di gramsciana memoria). E lasciando interamente scoperto il campo che oggi si definisce «dei valori», e per il quale forse bisognerebbe mobilitare altre parole: senso, emotività, immaginario, simbolico, e forse sogno, a volerla dire col linguaggio dei Dreamers di Bertolucci. Non è accaduto solo in America, dove trionfano le tre «g» di Bush. E' avvenuto anche in Italia, dove ha trionfato la colonizzazione berlusconiana dell'immaginario, e ora si fa strada la colonizzazione neo-cristiana (e alquanto blasfema, non foss'altro che per la sua palese strumentalità politica) del senso.
Qualcosa si muoverà, anche nella sinistra italiana, di fronte al disastro americano? Sì, se non si continuerà a pretendere ostinatamente, stile D'Alema, di riconquistare i voti perduti parlando moderando e razionalizzando i messaggi che vengano dall'altro campo. Ha ragione Massimo Cacciari quando dice che ci vuole un'altra invenzione, un'altra lingua e un'altra altezza del tiro di fronte a un terremoto materiale e culturale che ridisegna il profilo delle democrazie contemporanee e la loro toponomastica politica. Ha ragione anche Fausto Bertinotti, quando dice che non si può rispondere alla rivoluzione conservatrice col moderatismo e invoca per la sinistra una qualche visione del mondo. Ma per favore non la chiami ideologia. Le parole hanno una storia, e la storia della parola ideologia sa di falsa coscienza, nonché di scissione fra contenuti e pratiche, progetto e esperienza, concetti e vissuto, imperativi e comportamenti. Non è con la ripetizione di queste scissioni che contrasteremo il voto identitario, per non dire olistico, con cui i «fedeli» americani si rispecchiano oggi in Bush e in chissà chi domani quelli italiani o europei.