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Eugenio Scalfari
Einaudi e il buongoverno. Un classico introvabile
2 Dicembre 2005
Scritti 2004
Torna in libreria Il Buongoverno di Luigi Einaudi (Laterza, pagg. 632, euro 35). La Repubblica del 20 novembre 2004 pubblica un ampio stralcio della prefazione. La riedizione è un omaggio a Vito Laterza, a tre anni dalla sua scomparsa:

Di Luigi Einaudi ce n´è più d´uno. Alle personalità importanti per altezza di ingegno, fermezza di carattere, purezza di intenti, capita spesso. Si muove il mondo, si muovono perfino le piramidi d´Egitto - come esemplificava Montaigne - e sarebbe dunque ben strano che uomini di talento non cogliessero quel movimento restando incartapecoriti e immobili. La loro preziosa funzione di testimoni del tempo ne risulterebbe vanificata. La loro coerenza apparente si trasformerebbe in una incoerenza sostanziale poiché - muovendosi l´intera realtà che li circonda e restando essi in uno stato di mummificata fissità - i loro rapporti con la società in movimento ne risulterebbero profondamente alterati. Sicché, spostandosi tutte le cose, la vera coerenza consiste nel mantenere il rapporto con esse e non già nell´allontanarsene.

Massimamente ciò accade per chi - come appunto Luigi Einaudi - abbia nutrito per tutta la sua lunga vita convinzioni e cultura liberali, non agganciate ad alcuna schematica e utopica ideologia ma a convinzioni flessibili quali sono quelle ispirate dalla libertà degli individui e delle società nelle quali essi vivono e operano.

Dunque nessuna sorpresa nel constatare che il pensiero di Einaudi sia stato un modello di coerenza e al tempo stesso di molteplici «letture» della realtà sociale nella quale e sulla quale egli operò in un arco di anni che dalla «Belle Époque», dal «ballo Excelsior» e dalla lira che faceva aggio sull´oro, ci avrebbe portati alla conquista della Luna, all´invenzione dei microprocessori, alla scoperta delle cellule staminali e infine al terrorismo globale, passando attraverso fasi oscene che hanno fatto regredire il mondo a livello d´un mattatoio gigantesco, attraverso due guerre mondiali, l´Olocausto, i lager staliniani e l´atomica di Hiroshima e Nagasaki.

Come tutti sanno, Einaudi fu attento soprattutto agli aspetti economici e alle dottrine che cercano di spiegare le leggi che li governano e i meccanismi che incitano i soggetti a competere gli uni con gli altri per conseguire posizioni ottimali nell´incessante lotta per la vita.

Nel dedicarsi allo studio di questi temi, compì due operazioni apparentemente contraddittorie: restrinse il campo delle sue ricerche agli aspetti monetari e tributari dell´economia politica, ma contemporaneamente lo allargò ai princìpi morali che debbono presiedere anche ai comportamenti dei soggetti economici. Del resto Adam Smith, che fu il suo maggiore punto di riferimento, duecento anni prima aveva fatto un´analoga operazione, tanto che si discute oggi se l´autore della Ricchezza delle nazioni abbia lasciato più profonde tracce nella dottrina economica o nella filosofia morale. A mio parere si tratta di due campi del sapere talmente interconnessi che l´uno non è concepibile senza l´altro. Ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe troppo lontano.

Eppure, desidero richiamare l´attenzione dei lettori sul fatto che le osservazioni più innovative del pensiero economico einaudiano sono emerse tutte le volte che esso, fissando uno specifico segmento della vita sociale, ha usato al tempo stesso l´analisi economica e il sentimento morale. Così quando esaminò la naturale tendenza del mercato a produrre situazioni di oligopolio e addirittura di monopolio ove non intervengano severe norme di tutela della libera concorrenza; e ancora quando, raccontando le conseguenze economiche della guerra (quella del ‘14-‘18), mise in luce gli sfacciati arricchimenti prodotti dalla collusione tra le industrie degli armamenti e degli approvvigionamenti militari con settori del mondo bancario e apparati della pubblica amministrazione; infine quando teorizzò, nelle lezioni di politica sociale tenute in Svizzera nel ‘44 mentre ancora infuriava la seconda guerra mondiale, la necessità di fornire a tutti gli individui eguali condizioni di partenza, affinché il libero gioco del mercato, la selezione dei talenti, l´accumulazione delle risorse e la distribuzione della ricchezza prodotta non avvenissero sulla base di carte truccate, ma fossero l´effettivo risultato d´una competizione tra eguali in fondo alla quale avrebbero prevalso i migliori, fermo restando il dovere della comunità di darsi carico dei perdenti per metterli in grado di tornare in campo e partecipare a nuove competizioni.

Queste impennate del pensiero einaudiano verso le conseguenze sociali del mercato e delle variabili che ne condizionano il funzionamento restano comunque saldamente innestate su un nucleo costante e invariato che ha come valore primario e attore principale l´individuo e la sua libertà. Libertà organizzata nelle sue specifiche articolazioni, quelle indicate e codificate come diritti dell´uomo, che furono successivamente definite dalla vulgata marxista come libertà borghesi, per dire che esse erano più formali che sostanziali, o anche come elementi sovrastrutturali, prodotti dalle forze strutturali operanti nel tessuto economico e nei rapporti di forza tra le varie classi sociali.

Ci volle molto tempo (e molti eventi) affinché fosse riconosciuto anche dagli adepti dell´ideologia marxista che le libertà da essi definite borghesi erano comunque necessarie per garantire la dignità e l´autonomia individuale e che tra struttura delle forze produttive e sovrastruttura istituzionale, giuridica, politica, il rapporto non era improntato a un determinismo semi-automatico tra causa ed effetto ma ad un´interazione dialettica di cause che producono effetti che a loro volta suscitano reazioni e correzioni nelle cause stesse.

Einaudi non si riconobbe mai in questo dibattito e, almeno in apparenza, non vi partecipò salvo una volta: nell´accesa polemica che lo vide contrapporsi ad un altro grande liberale, Benedetto Croce, sul rapporto tra liberalismo e liberismo. Paradossalmente in quel dibattito fu proprio Einaudi a far sua la concezione marxista di struttura e sovrastruttura quando teorizzò che il liberalismo inteso come filosofia della libertà e delle libertà non avrebbe potuto esplicarsi in assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e del libero mercato. Croce sostenne invece, almeno in linea di principio, che il liberalismo poteva esistere in forme originali ma non per questo meno autentiche anche in presenza di strutture economiche non liberiste.

Fu un dibattito appassionato, condotto da due maestri non soltanto del pensiero ma anche dello stile, della qualità eccelsa della prosa e dell´uso del linguaggio: limpido in entrambi come acqua purissima e al tempo stesso profondo nelle sue implicazioni.

Per quanto riguarda Einaudi - a parte il paradosso che ho poco fa segnalato ma del quale mi pare di poter dire che egli non si fosse reso conto - emerge dalle pagine di quel dibattito il nucleo del suo pensiero e cioè l´importanza storica della micro-economia, della piccola proprietà terriera, delle innovazioni applicate alla trasformazione e commercializzazione delle derrate in beni di consumo diretto, dell´armonica integrazione tra agricoltura e industria, dell´uso dell´imposta per avocare alla comunità le rendite nel senso ricardiano del termine; infine del risparmio come principale fonte di accumulazione del capitale e quindi di finanziamento degli investimenti produttivi.

Oggi si applicherebbe probabilmente a Einaudi lo slogan «piccolo è bello» e si troverebbero nei suoi scritti numerose conferme a sostegno di quella tesi, suffragate altresì dalla sua concezione dello Stato e del governo dello Stato. E qui veniamo a questo libro che raccoglie una parte dei suoi innumerevoli interventi sul tema del buongoverno, che dà il titolo all´intero volume.

Einaudi è intervenuto nella vita pubblica italiana utilizzando numerosi strumenti di comunicazione. Non parlo degli scritti di carattere dottrinale che hanno dato luogo a specifiche pubblicazioni: scritti sulla natura e sugli effetti dell´imposta, sui modelli teorici dell´equilibrio economico, sulle regole che dovrebbero assicurare al mercato un funzionamento ottimale e in mancanza delle quali lo strumento pratico si allontana rapidamente dal modello teorico fino addirittura a divorarlo dando vita al «mostro» del monopolio.

Parlo invece degli innumerevoli articoli da lui scritti con serrato ritmo sul Corriere della Sera rifondato e diretto da Luigi Albertini, dei suoi interventi su riviste di politica economica e sociale, delle lettere e «memorandum» da lui inviati al presidente del Consiglio ed altre autorità pubbliche durante il settennato che passò al Quirinale come presidente della Repubblica.

Tutti questi suoi interventi raffigurano nel loro variegato insieme il suo ideale di buon governo, di cui le pagine qui raccolte rappresentano la quintessenza. Quest´ideale è reso concreto dalla descrizione dei singoli casi, scelti come esempi paradigmatici di ciò che un buon governo deve fare o non deve fare, e riguardano soprattutto i comportamenti della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini da un lato e delle forze politiche dall´altro.

La continuità dell´amministrazione, vivificata dall´alternarsi delle forze politiche alla guida del governo, configura per Einaudi la concreta distinzione tra Stato e Governo, che era chiarissima nella sua mente e che viceversa non lo era affatto sia nel personale politico sia nel personale amministrativo, tendenti entrambi ad appropriarsi ciascuno dei poteri dell´altro producendo di conseguenza situazioni di malgoverno, di sopraffazione, di inefficienza, di costi crescenti e benefici calanti nei confronti dei cittadini.

In queste pagine c´è la denuncia puntuale e ostinata di singole devianze da quel modello ideale, secondo il quale spetta al Governo di indicare gli obiettivi che l´amministrazione deve perseguire e a quest´ultima l´esecuzione degli atti idonei a realizzarli nei tempi dovuti. Al Parlamento il controllo politico dell´insieme degli atti amministrativi e di ciascuno di essi. Alle magistrature amministrative, Corte dei Conti e Consiglio di Stato, la tutela dell´interesse dei cittadini e quella altresì dell´indipendenza dei pubblici impiegati dall´eventuale interferenza dei politici.

Resta da dire perché l´editore Laterza abbia voluto farci dono di questo volume ormai introvabile, uscito in prima edizione nel maggio 1954, e poi ripubblicato nel 1973 con una Premessa di Massimo L. Salvadori.

Non svelo alcun segreto, anzi adempio ben volentieri al compito di comunicare ai lettori che quest´iniziativa intende ricordare l´opera non dimenticata - perché non dimenticabile - di Vito Laterza, a tre anni dalla sua scomparsa.

La sostanza dell´operazione culturale di Vito fu quella di un grande innesto tra cultura liberale, cultura radicale e cultura marxista. Gli innesti sono operazioni assai delicate: richiedono prudenza, selettività e intuizione; si debbono scegliere gli aspetti - e in questo caso gli autori e i testi - più dinamici e più densi di futuro, combinandoli con elementi altrettanto idonei a fruttificare nuove specie. Il rischio è elevato perché può accadere che l´innesto faccia appassire le varie specie combinate o dia luogo a prodotti privi di sapore e affetti da sterilità.

Non è stato così nel caso Laterza.

Una bella pagina di Luigi Eimnaudi è già in Eddyburg

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