Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Bari 2004, € 10
Prefazione
La conversazione che segue verte su un tema: la cultura degli italiani. Ed è motivata da un quesito: l’Italia è culturalmente un paese che vive una condizione di minorità rispetto agli altri paesi che a lei sono più assimilabili per storia, per posizione geografica, per vicende politiche e istituzionali? E’, insomma, l’Italia una nazione culturalmente arretrata? L’interrogativo ha un aspetto immediatamente rudimentale e, nella sua brutalità, induce a risposte secche. Ma un libro è l’antitesi di una risposta secca. Questo libro, un libro-intervista con Tullio De Mauro, nasce dal proposito di fornire una risposta articolata, motivata, argomentata a un interrogativo che, pur nella sua perentorietà, molti si pongono. Molti, ma non moltissimi.
Sul tema dell’arretratezza esiste vasta bibliografia. Cui qui non è neanche il caso di accennare. Frequentemente l’arretratezza di un paese – arretratezza nella sua accezione più generale possibile - si misura con indicatori che riguardano le condizioni economiche della popolazione, dal prodotto interno lordo al tasso di inflazione, dai livelli della produzione industriale a quelli della bilancia commerciale. Tali voci contribuiscono a comporre il benessere, o il malessere, materiale di una comunità.
La conversazione con Tullio De Mauro intende infilare una sonda in un altro settore della vita pubblica di una nazione, di questa nazione. Nella convinzione che gli indicatori del livello di cultura abbiano stretti rapporti con quelli relativi al suo benessere materiale e che, lungi dall’esserne l’automatico e marginale corollario, rappresentino un elemento insostituibile del benessere equilibrato e complessivo di una comunità. E’ stato così anche in Italia? Oppure questo paese, acquisite soddisfacenti forme di benessere materiale, rischia di perderle se ad esse la sua classe dirigente non fa corrispondere un altrettanto soddisfacente attenzione verso i temi della scuola, della formazione, della lettura, della ricerca?
A titolo di pura campionatura si possono citare alcuni dati acquisiti. Rispetto alla media europea l’Italia ha un numero più basso di adulti in possesso di una laurea e di un diploma di scuola secondaria. E fra i laureati scarseggiano quelli in discipline scientifiche. In Italia si leggono, sempre rispetto alla media europea, meno libri e meno giornali. Di molto inferiore è il numero delle biblioteche pubbliche. Destano preoccupazione le rilevazioni sugli indici di analfabetismo. La spesa per la ricerca, in percentuale rispetto al Prodotto interno lordo, è quasi la metà della media europea. Il numero dei ricercatori, sul totale delle persone impiegate, è fra i più bassi d’Europa, e l’età dei ricercatori è fra le più alte.
Tullio De Mauro non ha bisogno di essere presentato. Qui la competenza di linguista, di studioso e di filosofo del linguaggio, si abbina a una particolarità del suo profilo intellettuale che in qualche modo rende la sua una figura a sé sulla scena della cultura italiana. E’ uno dei rari uomini di ricerca e di indagine che non si sia mai stancato di seguire tutto intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere: dai punti più elevati della riflessione e dello studio fino all’ordinamento delle scuole per l’infanzia. Questa costante attitudine a frequentare i luoghi alti della conoscenza e i temi del sapere diffuso ha fatto sentire il bisogno di abbracciare in una conversazione sulla cultura degli italiani quel profilo intellettuale, il suo stesso profilo intellettuale, quasi fosse l’ossatura di un discorso che altrimenti avrebbe rischiato di perdere la concretezza di una vicenda reale, di una storia personale dentro una storia collettiva sviluppatesi nell’arco di un cinquantennio.
Dal capitolo I. La cultura, le culture
Come prima cosa, per avviare questa conversazione, proviamo a chiarirne l’oggetto. E’ possibile, parlando di una popolazione, definirne la cultura? E, più in dettaglio, è possibile parlare di una cultura degli italiani?
De Mauro Da parecchio tempo cerco di non usare la parola cultura al singolare in riferimento a una popolazione, e specialmente agli italiani. Perché credo che il vocabolo copra una serie di realtà molto diverse. L’uso restrittivo di questa parola è correntemente testimoniato da intere colonne del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, e arriva, grosso modo, fino al bravo Paolo Villaggio che ha scritto un libretto, Come farsi una cultura mostruosa. In questa accezione restrittiva cultura vuole dire “cultura intellettuale”. Ma ancor più che cultura genericamente intellettuale, nella nostra tradizione italiana cultura vuol dire specificamente “cultura letteraria”. Se si vuole, “letterario-filosofica”, ma io direi piuttosto “letterario-ideologica”.
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Cosa vuol dire dimensione tecnica delle culture intellettuali?
De Mauro L’ingegnere, il medico, ma persino il funzionario di banca o il finanziere, sono anche loro portatori di ciò che secondo me va chiamato cultura. Direi di più. La spinta a grandi elaborazioni intellettuali, anche scientifiche, anche molto astratte, è venuta proprio da tecniche molto prossime all’operatività e alla pratica. Ciò è accaduto dalle scienze mediche all’idraulica, o alla scienza delle costruzioni. Per conto mio questo è evidente e mi pare strano che un fisico come Bernardini, molto attento alla storia delle idee scientifiche, e del come si siano formate, di fronte al valore intrinseco e di promozione conoscitiva delle pratiche ingegneristiche – tanto per fare un esempio - si chiuda a riccio e sostenga solo le virtù della cultura intellettuale e scientifica nelle sue forme più astratte. E invece non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare quello che sappiamo dalla storia delle elaborazioni scientifiche, anche le più sofisticate, e cioè quanto agiscano le spinte che vengono dalla pratica addirittura artigianale. Il caso di Galilei è clamoroso: Galilei elabora una prospettiva radicalmente nuova per guardare agli eventi fisici, costruita attraverso la lettura matematica e quantitativa dei fenomeni e la replicabilità delle esperienze, ma muovendo da ciò che osserva nell’Arsenale di Venezia, dove per far navigare una nave era necessario rispettare una serie di procedure pratiche che poi hanno trovato la loro interpretazione organica nella meccanica classica.
E’ quantomeno singolare che lei, di formazione umanistica, debba convincere i suoi colleghi scienziati del valore della pratica.
De Mauro Una volta mi è capitato di parlare nella facoltà di medicina della Sapienza di Roma e di leggere lo stupore dipinto sulla faccia dei colleghi quando ho provato a dire che, non solo nel mondo antico, ma anche nel mondo contemporaneo, le pratiche mediche sono la madre di tutte le scienze, una fonte fondamentale di spinte teoriche. L’hanno scambiata per una forma dipiaggeria nei loro confronti. Ricordo che Marino Raicich, che ha dedicato studi insuperabili a molti aspetti di storia dell’istruzione in Italia, negli ultimi anni di vita diceva di essersi pentito per aver lasciato in ombra la cultura dei manuali Hoepli. Non perché la ritenesse di serie B, mi diceva, ma perché, essendo ritenuta di serie B o di serie C addirittura, anche lui aveva finito con l’occuparsi di latino, di greco, di italiano, di filosofia, di storia del loro insegnamento, lasciando del tutto a margine il ruolo che hanno avuto questi veicoli di cultura tecnica che furono i Manuali. Del resto, se si legge la legge Casati sull’istruzione, che risale al 1859, il disegno è già assolutamente chiaro. C’è una cultura alta, che è quella classico-umanistica, c’è una cultura marginale, quella scientifica, e poi c’è una cultura per vili meccanici, che pure serve per sopravvivere, ed è quella degli studi tecnici.
E questa è rimasta la partizione classica che ha dominato per decenni nel sistema scolastico italiano...
De Mauro ...e che a me pare profondamente sbagliata. Ma questa è solo una parte del dubbio che l’uso della parola cultura provoca se riferito esclusivamente alle forme intellettualmente più elaborate. Io resto affezionato a una definizione larga di quel termine, e più precisamente a quella che forniscono etologi e antropologi.
E quale definizione danno etologi e antropologi?
De Mauro Chiamano, chiamiamo cultura quel complesso di elaborazioni, condizionate dal patrimonio genetico di una specie vivente, ma non dettate da questo, nascenti dal rispondere ai bisogni che quella specie trova sul suo cammino. Trasmissione per imitazione, ricombinazione di elementi già dati, invenzione sono le tre radici della cultura intesa a questo modo. Negli anni Settanta Danilo Mainardi pubblicò un libro di larga divulgazione intitolato provocatoriamente L’animale culturale, in cui analizzava tutti i fenomeni legati alla capacità innovativa di specie viventi, diverse dagli esseri umani. Queste capacità innovative sono originate non da una curiosità intellettuale, ma da un bisogno pratico che stimola la curiosità intellettuale. Ora possediamo una gran quantità di conoscenze sulle capacità culturali di altri esseri viventi diversi dall’uomo, non solo di grandi mammiferi o di scimmie, perfino di specie evolutivamente più lontane da noi, compresi i microrganismi. Capire come funzionano i sistemi simbolici e di accumulo dell’informazione da parte dei virus è un acquisizione di enorme interesse per chi si occupa di semiotica e di teoria della comunicazione allo stato puro, ma queste indagini hanno poi ricadute sull’immunologia e l’immunologia ne ha, a sua volta, sulla nostra vita di esseri umani. Quindi lo sviluppo che ha realizzato quella che chiamiamo zoosemiotica, dagli anni Quaranta e Cinquanta in poi, cioè lo studio delle culture linguistiche, comunicative quanto meno, di altri esseri viventi, è uno studio che risponde continuamente a sollecitazioni molto pratiche, di sopravvivenza o di migliore sopravvivenza.
[...]
E qual è questo dato?
De Mauro In Italia – sono misurazioni del 1999 - ha il diploma appena il 42 per cento della popolazione adulta compresa fra i 25 e i 64 anni. La media europea è del 59 per cento. Francia e Gran Bretagna sono al 62. La Germania è all’81. La Grecia è intorno al 50, l’Irlanda supera il 50. Peggio dell’Italia sono solo Spagna e Portogallo. Vuole anche i dati sui titoli universitari?
Certamente.
De Mauro Solo il 9 per cento degli italiani adulti, fra i 25 e i 64 anni, posseggono una laurea. La media europea è del 21 per cento, quella inglese del 25, quella tedesca del 23, quella francese del 21. Ma mi permetta di insistere con i dati, scavalcando la soglia dei diplomi di scuola secondaria e di università, che sono pur sempre livelli formali di accertamento. In un’indagine condotta dal CEDE è risultato che oggi il 5 per cento della popolazione adulta non riesce nemmeno a leggere il primo e più semplice di cinque questionari (l’indagine era a carattere internazionale e le modalità erano fissate dall’OCSE) ed è quindi da considerarsi radicalmente analfabeta. Al primo dei cinque questionari si ferma il 33 per cento degli italiani adulti e non va oltre: tenga conto che questo primo questionario è composto di frasi assolutamente elementari e di calcoli altrettanto elementari. Un secondo 33 per cento si ferma al questionario successivo.
Può provare a tradurre queste cifre in termini, per così dire, politici e culturali?
De Mauro Intanto traduco in cifre assolute: più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi quindici milioni sono semianalfabeti, altri quindici milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini inferiori delle capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa come ormai è la nostra e in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica.
Qual è il rapporto con gli altri paesi europei?
De Mauro Se in Italia abbiamo un 66 per cento di persone con una insufficiente competenza alfabetica e aritmetica funzionale, in Europa la media supera di poco il 50. La Svezia è al di sotto del 30, mentre Germania e Gran Bretagna sono in linea con la percentuale europea.
Sono dati sconvolgenti. E vorrei aggiungere anche molto poco noti.
De Mauro Queste cifre circolano da tre anni, sono state registrate e poi accantonate. Sui quotidiani se ne è parlato per un giorno e poi basta. Pochi si domandano perché negli altri paesi europei si cerca di innalzare complessivamente un livello di competenze che è già così alto, certamente più alto del nostro. Di fronte a queste cifre mi sembra pericolosa l’obiezione che le citavo prima: ma voi volete che tutti studino? Sciocchezze, insistono, le persone sono diverse, c’è chi vuole studiare e c’è chi vuole dedicarsi alla prassi.
Questa è la politica che ispira la destra oggi al governo in Italia?
De Mauro Le posso dire questo. Un ragionamento del genere di cui parlavamo prima (chi non ha voglia di studiare, mandiamolo a lavorare…) lo ha fatto in campagna elettorale l’attuale vice premier Gianfranco Fini. Io, del tutto in buona fede, credevo che fosse solo una battuta elettorale. L’ho detto e mi sono guadagnato un secchio di insulti da parte di An con un comunicato in cui si diceva che il ministro De Mauro si era “bevuto il cervello”. Effettivamente, se non mi ero bevuto il cervello, certo concedevo troppo a Fini e ad An: era proprio una loro intenzione, maturata e convinta, quella di andare a una spaccatura, a una rinnovata spaccatura, tra licei e scuole di serie B. Questa spaccatura ha trovato una giustificazione ideologica – non voglio dire teorica – in uno dei consulenti del ministro Moratti, Giuseppe Bertagna, il quale dice: ci devono essere – nella secondaria superiore – le scuole della teoria - che il professor Bertagna scrive col ‘th’ – e le scuole della praxis – con la ‘x’. Insomma, non dice “vili meccanici”, ma il senso è quello. Bertagna, però, può sostenere impunemente – mi si passi l’espressione – una cosa del genere, anche perché in luoghi insospettati della nostra cultura intellettuale c’è la convinzione che ci sia una scissione tra l’elaborazione teorica pura e la vile pratica. Per carità,sarei un mascalzone se dicessi che Carlo Bernardini è un alleato di Bertagna. Bernardini avrebbe diritto di trascinarmi in tribunale e farmi condannare. Però l’idea che la scissione c’è è un’idea che alcuni di noi, altamente formati e con cultura intellettuale sofisticata, professano e cioè che da una parte ci sono i vili ingegneri, i medici, questa gente così praticona, e dall’altra gli scienziati puri, e al sommo i purissimi letterati. Questa idea purtroppo gioca a favore di turpi sciocchezze. Cosa deve fare un ragazzino di 12-13 anni, messo di fronte alla scelta fra la theoria e la praxis? Cosa deve dire un ragazzino che viene da una famiglia con pochi libri, nessun giornale e in cui la theoria naviga, se naviga, solo attraverso la tv (italiana) e, se c'è, la capacità di uso di Internet? Questo ragazzino sceglie automaticamente la praxis, che gli dà la sensazione di poter spendere, dopo qualche anno, ciò a cui si è formato nel mercato del lavoro. E questo sappiamo che è falso, perché l’evoluzione produttiva è troppo rapida per sperare che ciò che si impara in una scuola di formazione professionale si possa riutilizzare a 10 anni di distanza. Del resto questo vale anche per le forme del sapere puro, oltre che del sapere pratico. E allora, Fini e An avevano ragione nel dirmi che io capivo male e che era proprio un loro obiettivo ripristinare, complice Bertagna, questa disastrosa scissione.
Tutto questo è sintomo di una arretratezza culturale?
De Mauro Sì, e anche di una arretratezza informativa. E’ sintomo ulteriore di una frantumazione tra chi possiede alcuni strumenti di accesso alla cultura intellettuale, all’informazione e il resto della popolazione italiana. Uno dei problemi è, purtroppo, che autorevoli commentatori, come Angelo Panebianco o Mario Pirani, che posseggono tutti gli strumenti intellettuali, non comprendono il danno di una persistente divaricazione di competenze, il danno di una classe dirigente che sa parlare ma non ha nessuna esperienza del saper fare, e il danno di un’enorme massa di popolazione che acquisisce un modesto saper fare che varrà – se vale – per pochi anni, ma non ha poi gli strumenti per riorganizzarsi mentalmente e passare, quando diventa necessario, ad altre tecnologie. Questo è un danno spaventoso per tutti. Questo sistema mortifica – per riprendere le polarizzazioni di don Milani – non solo Gianni, ma anche Pierino.
In che cosa consiste concretamente questo danno?
De Mauro Intanto una classe dirigente che sa parlare, ma non sa fare è lontana dai bisogni minimi di sopravvivenza propria e della popolazione. E’ una classe dirigente che o non decide o decide in modo imbonitorio, solo per durare. E quindi non governa. E tutto il resto del paese è condannato a quello che Carlo Bernardini chiama giustamente “l’inverno culturale”, a vivere, cioè, nella nebbia mentre il mondo è diventato troppo complicato perché ci si possa orientare con i piccoli gruzzoli di sapere personale e privato.