SALVO improbabili sconquassi fra i partiti di governo, oggi il Senato porrà il timbro finale sulla riforma della Costituzione. Una riforma unilaterale, come e più di quella decisa dall'Ulivo in solitudine, sul volgere dell'ultima legislatura. Una brutta riforma, come dichiarano all'unisono costituzionalisti di destra e di sinistra, e che d'altronde non pochi parlamentari s'apprestano a votare turandosi il naso con due dita. Una riforma quantomai ambiziosa, dato che rivolta come un calzino la nostra vecchia Carta, correggendo 52 dei suoi 134 articoli, e aggiungendone altri 3 per sovrapprezzo. Ma infine una riforma che approda in porto dopo 26 anni d'insuccessi (era il 1979 quando Craxi, con un fondo sull'Avanti, avanzò per primo l'idea della «grande riforma»), d'accordi sfumati per un soffio (come quello fra D'Alema e Berlusconi, nel 1998), di progetti e bicamerali e comitati finiti in malora uno dopo l'altro.
Ecco: perché? Perché in Italia non si riesce a battezzare una riforma sufficientemente condivisa? E perché, quando una parte s'impone contro l'altra, l'esito è sempre mediocre, sul piano tecnico ma altresì ideale? Eppure una Costituzione è quanto di più vicino a un testo sacro che la legge umana possa concepire; non a caso fra i rivoluzionari francesi del secolo dei lumi c'era chi pensava di vietarne la revisione con la minaccia della morte. E del resto ogni Costituzione ambisce a sopravvivere alla generazione che l'ha partorita, proteggendosi con un procedimento speciale ed aggravato per modificarne il testo. Anche a costo d'infrangere lo stesso principio democratico, che vorrebbe la maggioranza liberamente scelta a propria volta libera di stabilire le regole della comune convivenza. Ma invece no: in questo caso serve (dovrebbe servire) l'accordo con l'opposizione, e perciò un colpo di reni tra forze politiche divise, un soprassalto d'unità quale avvenne nel 1947, fra i banchi della Costituente, e quale in Italia non si è più ripetuto.
Sicché torna ad affacciarsi la domanda: perché? E dove si fonda la pretesa della generazione costituente di vincolare le generazioni successive, d'impegnarle su un testo scritto da altri, in un'altra epoca, in un altro clima culturale? Potremmo rispondere con le parole di John Adams, che fu il secondo presidente degli Stati Uniti, a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento. Lui diceva che quella pretesa discende dall'eccezionalità dell'opera compiuta dalla generazione costituente: la liberazione dalla tirannide, l'edificazione della libertà, dell'indipendenza nazionale, della pace, della prosperità. È questo che le dà diritto di decidere un governo per sé e per i propri figli, facoltà che in genere gli uomini non possiedono più di quanta ne abbiano di scegliersi l'aria, la terra su cui nascono, il clima. Insomma un diritto guadagnato in uno di quei rari tornanti della storia che ai nostri costituenti capitò di attraversare, affratellandoli come non è più accaduto alle generazioni successive.
Perché fra di loro c'era un vissuto comune, una comune esperienza di vita. Quella temprata dalla guerra, ma ancor prima dall'«università del carcere», dove fermentò l'intesa tra operai ed intellettuali, così come fra laici e cattolici, fra liberali e socialisti, chi più chi meno tutti perseguitati dalla dittatura, dato che le galere fasciste si aprirono per Gramsci e per Pertini, ma anche per De Gasperi. D'altra parte a Napoli fu devastata la casa di Benedetto Croce al pari di quella di Arturo Labriola. E don Sturzo sperimentò l'esilio non diversamente da Togliatti. Sì, erano uomini d'una pasta speciale, i nostri padri fondatori. Le nuove istituzioni vennero progettate da un'élite, da un gruppo composito e compatto d'intellettuali e di politici quale forse mai l'Italia aveva avuto nel passato. Ecco perché quella generazione riuscì infine a licenziare una Costituzione che le è sopravvissuta. Agendo, secondo il verso dantesco, «come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Lo ricordò in un suo celebre intervento Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri. Ma Calamandrei non c'è più; adesso c'è soltanto Calderoli.