Da alcuni anni milioni di persone si mobilitano in varie parti del mondo contro le guerre e le nefandezze del liberismo, nessun partito le organizza, nessuno le finanzia, danno voce e presenza a gente che non l'ha mai avuta, sfondano il silenzio dei media. Ha ragione Bertinotti, sono una cultura diversa, un movimento senza precedenti, prodotti da una marea di coscienze acculturate e collegate dalla rete, resistenti alla omologazione mass-mediatica. Crescono in giganteschi appuntamenti. Hanno ucciso qualcuno? Gambizzato qualcuno? Sfilato con le P38? Con slogan trucidi? Mai. La Cgil ha cinque milioni di iscritti, è una delle più potenti centrali sindacali del mondo, raccoglie lavoratori, organizza scioperi, difende (neppure a sufficienza) i diritti del lavoro. Riempie le piazze. Ha sparato su qualcuno? Invitato a farlo? Plaudito a un attentato? Mai.
D'accordo, riconosce di malavoglia il governo, ma movimenti e sindacati, denunciando questa e quella ingiustizia, si fanno «bacino di violenza». Davvero? L'Occidente è pieno di esplosioni sanguinose individuali o di gruppo, che in Italia si tingono di politica. Dove il conflitto sociale è appannato sono di più: negli Stati uniti gli omicidi sono quattro volte quelli dell'Europa. No no, dice il governo, è proprio il conflitto sociale che li produce, e chi lo enuncia gli dà corda. Il Riformista ci informa che gli sparatori sono nella Cgil a migliaia. Segio che sono invece nel movimento. Menti ansiose della sinistra raccomandano di individuarli, isolarli, ripudiarli. Non penso affatto che siano a migliaia, né che esprimano un bisogno di massa, né che stiano avvelenando il paese. Ma se anche fosse, come fanno i movimenti e sindacati a individuarli, costoro che oggi manco fanno propaganda dove passano? Chiedendo a chi si iscrive al sindacato o si affaccia in un centro sociale di mostrare il passaporto? La dichiarazione dei carichi pendenti? Domandando un'informativa alla questura? Il solo risultato è che Cgil e centri sociali, invece che essere decorati al valor civile per costruire uno spazio in un paese desertificato dalla sinistra, sono in gran sospetto.
Non basta. Se dici che questo sistema è ingiusto e la legge 30 un'iniquità, forse un ragazzo instabile o un frustrato metropolitano di mezz'età va ad ammazzare Massimo D'Antona - tecnicamente più facile che organizzare uno sciopero. Non concordi affatto con Marco Biagi, se ne deduce che suggerisci l'agguato di via Valdonica. Non imbavagli Casarini quando fa delle cazzate, non sei comprensivo con i black-bloc ma ti chiedi da dove vengano, scrivi che le Brigate rosse sono state un fenomeno politico in una certa fase politica - sei un fiancheggiatore. Se non sei contiguo con il governo o il centrosinistra, sei contiguo con chi spara.
E sono tornati i peccati di pensiero, che credevo sepolti col mio confessore degli anni trenta. Pensi e magari scrivi che senza il conflitto politico e sociale una democrazia si ammala e diventa pericolosa - sei un incorreggibile figlio del Novecento, sentina intellettuale d'Europa, culla di rivoluzioni dunque di attentati e sangue. Non hai ancora capito che lo stesso filo lega Nadia Lioce al 1917, quindi al 1848, e - perché no? - alla Rivoluzione francese, anzi al 1648 in Inghilterra e, diciamo la verità, a quel folle di Spartaco. Me lo ricordano una volta all'anno due stimati amici, Bertinotti e Revelli.
Basta. Consiglierei di raffreddare gli spiriti. Di rivedere qualche strumento retorico e qualche analisi del presente. Anche qualche album di famiglia, ognuno ha il suo. Il mio mi ha insegnato che vivo in un sistema inumano e alienante. Che la minore violenza contro un sistema violento è quella dei grandi movimenti di massa, dei sussulti storici raziocinanti. Che il conflitto sociale è una cosa seria, non si gioca fra individui né con gesti simbolici. Non apprezzo perciò chi fa l'autocritica anche per mio conto e in consonanza con i governi. Neanche se sono bravissime persone come Sergio Segio, che ha pagato colpe passate, o Adriano Sofri che di colpe non ne ha e sta in galera per una sentenza emessa a nome del popolo italiano, e dunque, ahimè, anche mio.