LA SENTENZA con la quale la Corte di Cassazione ha definitivamente assolto Giulio Andreotti da ogni accusa riguardante il delitto Pecorelli ha sollevato, anzi risollevato, il tema più generale del rapporto tra magistratura e politica. Se ne discute a dir poco da undici anni, cioè da quel «terribilis» 1992 che vide il primo processo di Tangentopoli contro il «mariolo» presidente del Pio Istituto Trivulzio, sorpreso con le mani nel sacco ad incassare tangenti. Se ne continua a discutere in un perenne polverone e in presenza d´una sempre più accanita tifoseria. Accanita e accanitamente cangiante perché fu dapprima una tifoseria giustizialista che applaudì i magistrati della pubblica accusa senza alcuna riserva critica, per il solo motivo di voler dare addosso alla politica e ai suoi protagonisti, sempre assai malvisti in questo Paese per ragioni storico-antropologiche che sono state più volte esaminate e sulle quali è ora inutile ritornare. E fu poi una tifoseria pseudo-garantista che con un repentino cambiamento di fronte si schierò contro la magistratura, ritenuta al tempo stesso inefficiente, corporativa e faziosa laddove era stata fino a poco prima ritenuta eroica, integerrima e dedita unicamente alla disinteressata ricerca della verità.
Questa inesausta discussione va avanti incrociando mezze verità e fittissimi polveroni demagogici, al punto che è diventato estremamente difficile se non addirittura impossibile distinguere il grano dal loglio di fronte all´affastellarsi di leggi e leggine approvate a colpi di maggioranze parlamentari blindate allo scopo palese e spesso financo dichiarato di sottrarre alcuni potenti alle maglie della giurisdizione. Credo perciò necessario fissare chiaramente concetti e situazioni di fatto per porre il dibattito su un terreno concreto e oggettivo.
Il tema, l´ho già detto, è quello del rapporto tra politica e giurisdizione. Della sentenza Andreotti ripeto qui ciò che ho scritto più volte e da anni: essa restituisce all´imputato l´innocenza giudiziaria che gli era dovuta e consente ai suoi critici (tra i quali mi ascrivo) la libertà di esprimere i propri giudizi morali e politici su un personaggio complesso e sicuramente ragguardevole che ha incarnato per quarant´anni il potere democristiano nel bene e nel male. Quella sentenza, come ha benissimo scritto ieri Francesco Merlo, libera lui da presunti reati e libera i suoi critici dalla «pietas» dovuta ad un imputato contro il quale non sono state trovate prove di colpevolezza.
Il nostro tema si può affrontare sulla base di alcune domande alle quali ogni cittadino è in grado di rispondere da sé. La prima è questa: ci deve essere in un sistema liberal-democratico un controllo di legalità sul potere e su coloro che lo esercitano?
Sulla necessità che questo controllo vi sia, tutti senza eccezione alcuna si dichiarano d´accordo. Del resto perfino nei regimi totalitari la necessità di un tale controllo era riaffermata nelle (fasulle) Costituzioni. Così nella Germania nazista e così nella Russia di Lenin e di Stalin. E così anche nelle monarchie assolute dell´«Ancien Régime» nonostante che il sovrano ricevesse dal «sacrum» la sua legittimità.
I regimi liberal-democratici differiscono da quelli assoluti, oligarchici, totalitari, per il fatto che in essi il controllo di legalità è affidato ad un ordine (la magistratura) indipendente e autonomo rispetto a quel potere sul cui operato esercita la sua giurisdizione sulla base delle leggi che i governi propongono e i parlamenti (potere legislativo) emanano.
E´ vero che in una società sempre più dominata dall´influenza dei «media» la distinzione tra potere esecutivo e legislativo tende a scomparire dando luogo a quella tendenza verso la dittatura della maggioranza che per molti aspetti fuoriesce da un sistema democratico-liberale; tuttavia una traccia di diversità tra chi approva le leggi e chi deve attuarle esiste ancora ed è quella traccia che permette alla magistratura di svolgere la sua attività di controllo perseguendo i casi specifici in cui la legalità sia stata violata.
Io non credo che ci sia qualcuno che voglia dichiararsi contrario al controllo di legalità affidato ad una magistratura indipendente. Credo che neppure Giuliano Ferrara affermerebbe mai un´assurdità così evidente e una così palese bestemmia contro la democrazia liberale; ma posso sbagliarmi. Se qualcuno la pensa diversamente ce lo faccia sapere e daremo senz´altro conto delle sue ragioni.
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La seconda domanda è questa: poiché il controllo di legalità affidato alla magistratura indipendente si svolge dopo che il reato o l´illecito sono avvenuti, a chi spetta il compito di prevenire per quanto possibile che il potere violi la legalità? Chiaramente l´azione preventiva spetta alla politica, cioè a quello stesso potere soggetto al controllo. Spetta ai governi, ai parlamenti, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni politiche e alla libera stampa di vigilare preventivamente sui comportamenti dei singoli e dei gruppi di potere, stabilendo acconce e trasparenti procedure e sanzionando politicamente chi cercasse di eluderle e di manipolarle a proprio vantaggio.
E´ evidente a tutti che tanto più il potere sarà in grado di controllare preventivamente se stesso tanto meno la magistratura dovrà esercitare «a posteriori» il controllo di legalità. E viceversa: tanto meno il potere autocontrolla e autosanziona se stesso e i suoi singoli membri tanto più la magistratura trova materia di verifica e di accertamento delle fattispecie criminali poste in essere.
Faceva impressione confrontare l´altro ieri nella trasmissione di «Porta a porta» sulla sentenza Andreotti la veemenza appassionata di Giuliano Ferrara quando accusava la magistratura milanese d´aver decapitato e cancellato dall´anagrafe politica due interi partiti dell´importanza storica della Democrazia cristiana e del Partito socialista, con la tranquilla razionalità di Anna Finocchiaro, la quale gli ricordava che la politica, essendo stata globalmente compromessa nella corruzione-concussione, era saltata in aria per la vastità delle malefatte compiute e la consapevole omissione omertosa di tutti i controlli preventivi che sarebbe stato suo compito di attivare. Quando il potere divora le istituzioni e le deforma a proprio beneficio, con ciò stesso perde la possibilità e vorrei dire il diritto di considerare come interferente il controllo giurisdizionale.
Bettino Craxi – è vero – si autoaccusò in Parlamento d´aver violato la legalità, ma lo fece dopo avere negato tutto (Chiesa, il mariolo) e solo quando gli inquirenti erano già arrivati ad acquisire prove non confutabili del malaffare. La sua autoaccusa voleva essere soprattutto una chiamata di correo contro il Pci più che l´inizio d´un percorso espiativo.
Ci si dimentica troppo spensieratamente dell´origine del finanziamento pubblico dei partiti, perciò sarà bene ricordarla. Era scoppiato a metà degli anni Settanta lo scandalo dei petroli; era stato scoperto dalla magistratura che i petrolieri operanti in Italia si erano trasformati in una sorta di grandi elemosinieri dei partiti di governo per ottenerne favori che li ripagavano a iosa delle dazioni effettuate. Pagavano e ricevevano, i nostri petrolieri, e i beneficiari di quelle dazioni erano la Dc, i socialisti, i socialdemocratici, i liberali, i repubblicani, ciascuno secondo la sua forza parlamentare e politica rigorosamente soppesata.
Lo scandalo fu enorme e mise a rischio il sistema al punto che gli stessi capi-partito che avevano incassato milioni e miliardi si resero conto della necessità d´una svolta. Nacque così la legge sul finanziamento pubblico, cioè a spese dell´erario e quindi di tutti i contribuenti, dei partiti e dei gruppi parlamentari. Le cifre stanziate furono ritenute eque, il Parlamento votò, nel corso del dibattito tutte le formazioni politiche (radicali esclusi) illustrarono la legge come un atto imprescindibile di moralità, si impegnarono a rinunciare a ogni futura opera di corruzione, stabilirono sanzioni pesanti contro chi da quel momento in poi avesse violato e trasgredito.
Ma erano passati pochi mesi che la corruttela e l´omertà ripresero lena, sicché le dazioni da parte di «lobbies» affaristiche ricominciarono, col passar degli anni avvolsero in una tela di ragno tessuta con fili d´acciaio tutti i rapporti tra lo Stato, gli enti locali, la Pubblica amministrazione da un lato e il «business» dall´altro, al punto che non si poté più distinguere tra corruzione e concussione. Le regole delle dazioni, le procedure, la percentuale dovuta a ciascun partito, gli intermediari, tutto fu stabilito secondo un canone non scritto ma noto a tutti gli interessati. In più: al finanziamento illecito dei partiti si affiancò quello ancor più illecito delle correnti fino ad arrivare a quello personale di capi, capetti e leader massimi. E questa fu la situazione che mise in moto l´inchiesta su Tangentopoli, cioè sulla «città delle tangenti» , quella città essendo nient´altro che la Repubblica italiana.
Questa è la storia non dubitabile perché accertata da documenti, riscontri bancari, testimonianze, confessioni, sentenze definitive. Non fu la magistratura a decapitare i partiti ma furono quei partiti e gli uomini che li dirigevano a decapitare se stessi. L´obiezione è che il Pci fu risparmiato da quella mattanza. E´ da provare, non è stato provato. Perfino il giudice Nordio, che indagò tenacemente e per anni su quel partito e che è da tempo nelle grazie di questo governo, chiuse la sua inchiesta con un nulla di fatto. Comunque e quand´anche il Pci in quanto partito fosse stato coinvolto nel malaffare e non sufficientemente perseguito, non toglie che il controllo di legalità fu effettuato e dette risultati; incompleto forse, ma non a vuoto perché il marcio – e che marcio – fu messo a nudo e sanzionato.
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Queste, dunque, sono le domande alle quali bisogna rispondere: controllo di legalità, azione preventiva della politica per impedirsi di violare la legalità, omissione durata vent´anni di ogni prevenzione e di ogni trasparenza, conseguenze che ne sono inevitabilmente derivate. Poi, dalla costola di quel sistema omertoso e corruttorio, è nato il «monstrum» del conflitto d´interessi berlusconiano, l´edificazione del duopolio (oggi monopolio) del sistema televisivo, le leggi per sottrarre i potenti alla giurisdizione.
Ci sono tanti modi di revisionare la storia e tutti hanno la loro soggettiva validità purché non falsifichino i dati di fatto. Ecco: i dati di fatto, non opinioni ma comportamenti provati. La passionalità e la veemenza di eloquio non li possono neppure scalfire e infatti non li hanno scalfiti. Stanno lì, come pietre. La pacificazione di cui si continua a parlare potrà avvenire soltanto se i responsabili di quel malaffare e di quanto ad esso seguì ammetteranno pubblicamente quanto fecero e contribuiranno dal canto loro a ripristinare la legalità. La quale tuttora sanguina per le ferite che le vengono ancora oggi quotidianamente inferte.