ROMA - «Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia. Serve un’azione di contrasto sempre più forte e determinata da parte del centrosinistra, che deve ritrovare le ragioni dell’unità». Sergio Cofferati rilancia il suo allarme: preoccupato dalle ultime «pericolose spallate del presidente del Consiglio», l’ex leader della Cgil chiama l’opposizione a una «forte assunzione di responsabilità, a partire dalle prossime consultazioni elettorali». Compreso il referendum per l’articolo 18, sul quale finalmente annuncia in modo ufficiale la sua posizione: «Non andrò a votare».
Cofferati, cosa la preoccupa nelle ultime prese di posizione del premier?
«Mi preoccupano, anche se non mi sorprendono, i gravissimi attacchi che il premier sta muovendo contro le istituzioni. L’avevo detto dopo il voto del 13 maggio 2001, e oggi ne ho la conferma: Berlusconi non è la Thatcher, ma è una miscela molto più pericolosa».
Che basta, secondo lei, per gridare al "regime", come dice Rutelli?
«Io l’ho sempre sostenuto, anche quando altri non ne erano convinti. Siamo in una situazione grave e delicata, che è il frutto di strappi continui e che ora, dopo gli ultimi sviluppi giudiziari, subisce un’accelerazione drammatica. Lo confermano le frasi gravissime e inquietanti pronunciate da Berlusconi a Udine. Siamo in presenza di una crisi istituzionale che non ha precedenti, e che si sviluppa su due fronti. Il primo fronte è quello internazionale: il premier, alla vigilia del semestre di presidenza italiano della Ue, getta fango sulle istituzioni europee che l’Italia rappresenta attraverso il presidente della Commissione di Bruxelles e il vicepresidente della Convenzione. Il secondo fronte è quello interno: il premier muove all’attacco del presidente della Repubblica, ignorando i suoi moniti ed anzi rivolgendogli contro un atto di evidente ostilità attraverso il rilancio del presidenzialismo».
Il Cavaliere obietta: è mio diritto ricostruire i fatti della vicenda Sme, in tutte le sedi in cui mi è possibile. Non vorrà negargli questo diritto.
«Berlusconi, con la sua offensiva giudiziaria, ha provocato e sta provocando un’ulteriore, gravissima caduta di credibilità internazionale del nostro Paese. Con il risanamento degli anni '90, e poi l’aggancio alla moneta unica di Maastricht, il Paese aveva compiuto uno straordinario passo avanti, che gli aveva ridato lustro e aveva rafforzato il suo tessuto democratico: era uscito dalle macerie di Tangentopoli e aveva ripreso il controllo della sua finanza pubblica in un quadro di grande consenso sociale. Oggi quel patrimonio di credibilità è stato dilapidato. Basta leggere i commenti dei più autorevoli osservatori internazionali, per rendersene conto».
C’è anche chi osserva che Prodi non avrebbe dovuto reagire, dichiarandosi "indignato" dopo la comparsata televisiva del premier ad "Excalibur".
«Ci manca solo questa. Che si impedisca ad un cittadino di manifestare la propria indignazione, di fronte ad uno spettacolo indegno come quello che abbiamo visto venerdì sera. L’osservazione di Prodi è del tutto condivisibile. Ed è stravagante l’idea di chi mette sullo stesso piano azione e reazione. C’è stato un vulnus istituzionale gravissimo prodotto dal presidente del Consiglio, e subito ci si affretta ad occultarlo, mettendo sullo stesso piano la legittima replica di chi quel vulnus lo ha subito in prima persona. Una pratica inaccettabile, che nasce dalla mancata soluzione del conflitto di interesse».
Che c’entra il conflitto di interessi?
«Berlusconi sta lacerando il tessuto connettivo della democrazia, garantito dalle norme costituzionali. Questo avviene per effetto della saldatura tra due azioni altrettanto devastanti. Da una parte c’è l’attacco sistematico a uno dei poteri fondamentali dell’ordinamento, la magistratura, che nasce dall’esigenza di piegare l’indipendenza dei giudici agli interessi privati del premier e di alcuni suoi alleati. Usando strumentalmente il principio sacrosanto secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, si punta invece a creare una zona franca di impunità riservata solo a pochi eletti. Dall’altra parte c’è l’uso monopolistico della comunicazione, che viene attivata a proprio piacimento per sovvertire mediaticamente lo stato delle cose: è così che l’accusato diventa accusatore, il condannato diventa perseguitato».
Non è esagerato parlare di "lacerazione del tessuto democratico"?
«Non trovo una definizione diversa, di fronte al seguente fenomeno: c’è un presidente del Consiglio che (per interesse personale) vuole togliere ai cittadini il diritto di essere giudicati da una magistratura autonoma e indipendente, e che nel contempo (in forza del suo strapotere mediatico) sottrae loro anche il diritto al pluralismo dell’informazione. Così si priva una democrazia dei fondamenti del vivere civile, sanciti dalla Carta costituzionale».
Non si potrebbe sciogliere questo nodo con l’immunità o con la proposta Maccanico, che prevede la sospensione dei processi per le alte cariche?
«Considero gravissime entrambe le proposte. Chi ha compiti di rappresentanza politica non deve essere protetto da privilegi legislativi: la sua unica, vera "protezione" è costituita dalla sua storia, dalla sua credibilità, dalla sua trasparenza. Da questo punto di vista, è giusto che l’opposizione non si presti ad alcuna forma di dialogo con la maggioranza. Né sul lodo Maccanico, né su altre ipotesi che nascondono solo l’obiettivo di arrivare all’impunità».
Se le cose stanno così, come si esce da questa emergenza? Trasformando l’Ulivo in un Comitato di Liberazione Nazionale?
«Io credo sia necessaria, in questo momento, un’azione di contrasto da parte del centrosinistra, sempre più ferma e determinata. Oggi il problema non è il confronto sulle riforme, che come i fatti dimostrano è impensabile. Semmai è quello di mantenere le condizioni elementari perché eventuali cambiamenti siano ancora possibili in futuro. Dobbiamo difendere la Costituzione attuale, contro le continue aggressioni di chi la vuole snaturare. E l’opposizione deve farlo subito, in Parlamento e nella società civile, rilanciando l’unità del centrosinistra a partire dalle prossime consultazioni elettorali».
Lei è un po’ velleitario, visto che proprio sul referendum per l’estensione dell’articolo 18 si profila una resa dei conti a sinistra. A questo proposito, Cofferati, per lei è il momento di gettare la maschera. Ha taciuto fin troppo, su questa delicatissima sfida elettorale.
«Il referendum è stato un grave errore. Io resto convinto che sia tuttora indispensabile difendere ed estendere i diritti, nella cittadinanza e nel lavoro. Ma il mercato del lavoro è composto da figure che hanno profili, diritti e tutele diverse tra loro. Estendere e modulare i diritti, com’è giusto e necessario, richiede strumenti complessi e differenziati, che non possono che essere introdotti per via legislativa. Solo la legge consente una pluralità di interventi».
D’accordo. Traduca tutto questo in una scelta di voto. Sì o no?
«C’è un percorso logico da seguire, per arrivare alla risposta. Oggi sono un semplice cittadino, ma per me la proposta normativa più adeguata resta quella presentata al Parlamento dalla Cgil, per la quale abbiamo raccolto 5 milioni di firme. Data questa premessa, veniamo alle scelte possibili. Prima scelta, il no. Se dovessero prevalere i no all’estensione dell’articolo 18 nelle imprese con meno di 15 dipendenti, questo equivarrebbe di fatto alla negazione dell’esistenza del problema dell’estensione e della modulazione dei diritti: per me sarebbe un grave errore, perché quel problema esiste eccome. Seconda scelta, il sì. Se dovessero prevalere i sì, fallirebbe l’obiettivo per il quale mi sono battuto, cioè una nuova legge per l’estensione e la modulazione dei diritti: il sì non creerebbe alcun vuoto legislativo, del resto agli stessi promotori del referendum una nuova legge non è mai interessata, né l’hanno mai proposta. Ma il quadro normativo che ne discenderebbe sarebbe sostanzialmente inapplicabile: è noto a tutti che le condizioni organizzative e i rapporti di lavoro nelle piccole e piccolissime imprese sono oggettivamente diversi da quelle più grandi. Inoltre resterebbe irrisolta la questione delle tutele per il nuovo lavoro, quello più debole, rappresentato dai para-subordinati e dai collaboratori coordinati e continuativi».
Conclusione? Che farà il 15 giugno il cittadino Sergio Cofferati?
«Non andrò a votare».
Cioè fa come Craxi, e dice agli italiani "andate al mare"?
«Io non andrò al mare e non farò appelli all’astensione. La mia è una scelta personale, consapevole e attiva, e pienamente in linea con i diritti della Costituzione, che non per caso individua un quorum. Non voglio scoraggiare la partecipazione dei cittadini al voto. Agli italiani io non dico niente, ma so che i cittadini sanno scegliere, come hanno dimostrato in precedenti consultazioni referendarie: non votando quando hanno considerato irrilevante il quesito, o votando quando invece gli appariva significativo».
Quindi lei non condivide la scelta del suo successore Epifani, che ha attestato la Cgil sulla linea del sì?
«Ho troppo rispetto per l’autonomia dell’organizzazione alla quale sono iscritto, per formulare giudizi. Constato solo che la mia opinione è diversa».
Lei si rende conto che questi contorcimenti nascono dalla contraddizione della sua battaglia per l’articolo 18, inteso come "diritto assoluto di cittadinanza", e non come semplice "forma di tutela"? Bertinotti è partito da questa sua contraddizione, per tirare addosso al centrosinistra la sua bomba intelligente.
«Mi è chiaro l’intento di Bertinotti: dividere un fronte che era unito, ed era larghissimo. Quanto alla mia presunta contraddizione, resto convinto che l’articolo 18 sia un pilastro dal quale non si può prescindere, modulato sulla dimensione e l’organizzazione delle imprese: questo è giusto oggi come nel 1970, quando non a caso il legislatore fissò la soglia dei 15 dipendenti. E’ un diritto da declinare con forme opportune. La legge attuale riconosce, la proposta di legge della Cgil lo rafforza e lo rende universale, mentre il referendum lo cancella».
Ma fu lei che portò al Circo Massimo 3 milioni e mezzo di persone, per difendere quel diritto. Da domani lei avrà il plauso dei riformisti dell’Ulivo, ma correrà il rischio che molta, tra la sua gente, non capisca il suo "non voto", e lo consideri un tradimento rispetto alle battaglie di questi mesi.
«So che la mia scelta incontrerà dubbi e critiche. Ma correrò il rischio, perché la ritengo giusta e perché credo nell’etica delle responsabilità».
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