John Fitzgerald Kennedy fu eletto presidente degli Stati uniti nel 1960con una percentuale di votanti del 63,06%. Da allora, con la sola eccezione dell'elezione di Clinton nel `92, quella percentuale è stata in costante calo, e quattro anni fa fu del 51,30%. Stavolta la stima della partecipazione al voto rasenta il 60%, un picco insperabile nella società leader della spoliticizzazione che da un paio di decenni contagia tutte le democrazie occidentali. Ha ragione chi vede in questo dato un segnale di rivitalizzazione democratica; ma ha avuto torto chi ha scommesso sui «nuovi votanti» (14 milioni, soprattutto giovani) come fossero un bacino garantito di consensi per Kerry. Non sempre la partecipazione porta acqua ai mulini di sinistra. Stavolta l'ha portata anche a Bush, garantendo una base di legittimazione larghissima a quello che nel suo primo mandato, a causa delle modalità più che controverse della sua prima elezione, era stato l'inquilino meno legittimato e meno legittimo della Casa bianca. Le prime analisi suggeriscono altresì che nemmeno il voto delle minoranze tradizionalmente ascritte all'«altra America» (neri, working class etc.) premia necessariamente il campo dei democratici. In attesa di maggiori elementi sulle nuove e impreviste linee di frattura che dividono il melting-plot, come ormai qualcuno ironicamente lo chiama, della società americana, vale la pena di interrogarsi sulla frattura principale che ce la mostra, col voto di martedì, verticalmente spaccata in due, e non su dettagli programmatici ma su valori e orientamenti di fondo come guerra o pace, sicurezza armata o interdipendenza disarmata, fede o laicità, famiglia o individuo, sessualità o castità, forza o diritto. Alcuni lustri passati a uniformare tutte le democrazie allo schema del bipolarismo politico che avrebbe dovuto semplificare il confronto programmatico all'interno di società cementate da valori condivisi, hanno partorito infine un inedito bipolarismo sociale frontale e incomunicante, in cui una metà della mela non condivide nulla dell'altra metà, non la decifra, non la conosce e non la riconosce. Non solo negli Stati uniti: de nobis fabula narratur, com'è evidente nell'Italia berlusconiana. All'inizio del terzo millennio, nelle democrazie eredi della politica moderna avanza e vince una secessione dalla modernità che cementa metà della popolazione su professioni e suggestioni di fede, identità, visceralità, emotività insensibili alla razionalità politica classica e alle élite intellettuali orientate a sinistra che se ne fanno portatrici. L'America profonda e viscerale di Bush e di Foxnews vince su quella non solo di Kerry, ma anche dei grandi giornali, dei campus universitari, di Bruce Springsteen e del cinema indipendente.
Senonché questo bipolarismo sociale radicalizza necessariamente il bipolarismo politico: anche in questo le elezioni americane acquistano un valore di annuncio. Il ritornello che da anni ci ossessiona, secondo cui nei regimi bipolari le elezioni si vincono al centro, da ieri non è più sostenibile. Durante la campagna elettorale americana qualcuno aveva profetizzato la vittoria non di chi avesse conquistato il centro, ma di chi fosse riuscito a trascinare alle urne tutto lo zoccolo duro del proprio schieramento. Aveva ragione: guidato dalla destra neo-conservative, il bipolarismo si è fatto estremista, mentre a sinistra ancora si sceglieva il candidato più commestibile per l'elettorato moderato.
Qui l'annuncio americano potrebbe diventare molto interessante. Nel dopo-'89 il gioco, in tutte le democrazie occidentali, è stato fra destre radicali e sinistre moderate. Le prime agiscono su un'emotività calda e regressiva e vincono, le seconde controbattono con una razionalità fredda e temperata e perdono. L'11 settembre ci ha messo un carico da undici, scatenando nella società americana e non solo comprensibili angosce e un senso della vulnerabilità a cui da destra si risponde con la forza e da sinistra non vengono risposte adeguate di altro segno. In ogni caso, quel gioco non funziona più. La sinistra europea farebbe bene a rifletterci. E forse a guardare con maggiore curiosità non al moderatismo di Kerry, ma al laboratorio di sperimentazione di pratiche e culture nuove che nella sinistra radicale americana si è aperto in questi mesi, fuori dai circuiti ufficiali della rappresentanza. Che fra i lasciti della sfida Bush-Kerry potrebbe non essere l'ultimo.