Il Nord e il PD
Nel Paese che cambia, ci sono riforme che non costano nulla, se non un atto di coraggio. Esempio: andare da un notaio, e firmare l’atto di nascita del Partito Democratico del Nord, federato al partito nazionale, con il sindaco di una grande città come segretario. Una forza politica leale a Veltroni ma autonoma, coerente col Pd nei valori ma indipendente nelle sue priorità e nei suoi programmi, soprattutto insediata nella zona italiana del cambiamento, e capace di una sua specifica rappresentanza: in uomini, interessi, esigenze e problemi.
Tutto questo non nella convinzione che il Nord si sia consegnato alla destra per sempre. Anzi. Il voto, rovesciando il cannibalismo con cui Berlusconi si cibò della Lega nei primi anni della sua avventura, vede, al Senato, il Pdl calare di 70mila voti in Piemonte, di 254mila in Veneto, di 236mila in Lombardia, a vantaggio della rimonta bossiana. E il Pd, che cresce di 295mila consensi in Lombardia e di 72mila in Piemonte, è pari ad ognuno dei suoi avversari in tutto il Nordest, ed è addirittura primo in tutti i capoluoghi veneti, Vicenza, Verona e Treviso compresi.
Ma il nuovo partito "metropolitano" non arriva al popolo minuto del capitalismo personale che innerva di innovazione e modernità l’area della Pedemontana, né al reddito fisso nordista colpito dalla crisi nella sua rappresentatività sociale. Non è vero che questo sistema economico e sociale rifiuta la politica, perché nella presenza capillare della Lega unita al populismo berlusconiano ha cercato comunque una ipotesi politica di rappresentazione, di interpretazione e di tutela del suo mondo.
Il problema della sinistra è che è esterna prima ancora che estranea a questa trasformazione molecolare del lavoro e della produzione, perché ferma ad una concezione fordista, "evoluzionista", dove la piccola impresa è solo l’impresa da piccola e non un soggetto della modernità, che opera nei luoghi del cambiamento, produce beni immateriali come informazione, servizi, finanza, conoscenza: leve di nuove figure professionali, nuovi saperi, nuovi diritti, nuove domande.
Da questa metropoli diffusa, come anche da Milano, la sinistra non può rimanere fuori, se vuole essere credibile come soggetto del cambiamento. Non può regalarla alla destra, né può pensare che la destra sia lì per caso. Un’offerta di culture diverse può arricchire la zona più ricca d’Italia, nell’interesse del Paese. Forse il Pd del Nord non servirà per vincere, ma servirà per vivere, o almeno per capire.
il manifesto
La marcia in più dei sindaci leghisti
di Orsola Casagrande
Venezia La parola chiave nel post elezioni sembra essere «territorio». Il successo travolgente della Lega Nord soprattutto in Veneto, Friuli, Lombardia e anche Piemonte è dovuto alla capacità che il partito di Bossi ha dimostrato nel relazionarsi ai territori. In maniera speculare la scomparsa della Sinistra arcobaleno è da attribuirsi in larga parte al suo aver disertato i territori, dove per presenza nel territorio si intende la particolare attenzione che è stata data alle istanze che dal locale provenivano. Addentrandosi maggiormente significa presenza e organizzazione (nebulosa, confusa a volte ma comunque fisica, visibile) nei luoghi di lavoro, le fabbriche in primis. Nelle scuole, nei mercati rionali. E naturalmente nelle amministrazioni pubbliche.
La vittoria della Lega è in tanta parte da ascrivere ai sindaci e amministratori che in questi anni sono riusciti a rendere una immagine efficace, presente, per nulla succube dal potere centrale romano, delle pubbliche amministrazioni, dei comuni, perfino dei quartieri. L'esercito dei sindaci leghisti (oltre duecento) ha lavorato con un obiettivo in mente, radicarsi nel territorio, essere riconosciuti e riconoscibili, dare risposte. Spesso risposte gridate, razziste, troppo velocemente liquidate come «sparate». La Lega Nord è cambiata tanto in questi anni, tra esternazioni xenofobe del Borghezio di turno e un meticoloso lavorio di ascolto del territorio che ha prodotto dirigenti che nei territori sono radicati perché da lì provengono, oggi la Lega può brindare al successo. Le caricaturali e folkloristiche immagini della cerimonia della nascita della Padania (a Venezia) lasciano il posto a un articolato progetto che pure ancora confuso si snoda su punti saldi e chiari. Che vanno al di là del «prendiamo i fucili» di Bossi o «buttiamoli a mare» di Borghezio. E parlano di federalismo, fiscale e non solo, di maggior potere alle amministrazioni locali, di maggiore autonomia.
Certo, le parole d'ordine anche in questa campagna elettorale sono state le stesse di sempre, con tanta violenza vomitata addosso ai migranti, per esempio. Anche se poi Treviso, dove il sindaco Grosso e il prosindaco «sceriffo» Gentilini hanno fatto il bis (dopo la guerra delle panchine), è la città che la Caritas nel suo dossier sull'immigrazione indica come il luogo di maggiore integrazione per i cittadini stranieri. A Cittadella, dove il sindaco locale è salito agli onori delle cronache per la sua ordinanza, ribattezzata «antisbandati», con la quale negava la residenza a chi non aveva un reddito di un certo tipo, la Lega ha sbancato raggiungendo addirittura il 42%. Ma il dato da leggere non è solo l'ordinanza. Bisogna andare a monte: la nuova classe dirigente della Lega è quella che appunto usa le ordinanze, gli strumenti legali di cui dispone l'amministrazione locale.
Molto si discute in questi giorni sul voto operaio in parte dirottato proprio verso i leghisti. Anche in questo caso la lettura da fare non può fermarsi alla superficie. Gli operai, molti, hanno visto nelle parole della Lega una possibilità. Intanto di difesa del posto di lavoro, cosa che, lamentano in tanti, anche il sindacato ormai non considera più la priorità. In fondo, nelle assemblee che in questi mesi ci sono state nelle fabbriche venete si è parlato molto di quello che il governo di centro sinistra avrebbe dovuto fare e non ha fatto, a partire dall'abolizione della legge 30. Insomma se la Lega in queste elezioni ha avuto tre milioni di voti alla Camera e poco meno di due milioni e settecentomila al Senato non è soltanto per «protesta». E' perché in questi anni il partito di Bossi ha puntato al radicamento nel territorio, in questo «aiutata» dall'abbandono dei territori da parte della sinistra (intesa come le forze dell'Arcobaleno) e certamente dalla dismissione totale di ciò che di residuo «sinistroide» era rimasto ai Ds poi Partito democratico. Perché nonostante Veltroni e company abbiano perso le elezioni hanno vinto su un altro fronte da tempo perseguito (peraltro fin dai tempi del vecchio Pci) e cioè l'eliminazione delle fronde «sinistre».
In questo contesto si inseriscono positive e interessanti anomalie, come, per citarne soltanto due, il movimento no Tav, ma anche il popolo no Dal Molin. Ognuno con le sue specificità. A Vicenza il presidio permanente ha deciso di giocare la carta dell'amministrazione locale, proponendo una lista e ottenendo un consenso ampio, il 5% che tradurrà in sperimentazione all'interno del consiglio comunale. Anche per provare a stare nel territorio in maniera differente dalla Lega.
Lo si diceva da tempo, e da molte parti: la “questione televisiva” ha certo un peso, e un peso notevole, sullo spostamento dei consensi e la formazione dell’immaginario sociale, ma non riassume di certo l’universo delle sensibilità diffuse. Conta ancora, e in modo massiccio, il “territorio”, meglio ancora se riesce ad entrare in sintonia proprio con quell’immaginario televisivo e in genere mediatico che ne amplifica o orienta tendenze e suggestioni.
Riuscire a riallacciare contatti correnti con le vite quotidiane di chi (la stragrande maggioranza dei cittadini) il territorio nei suoi vari aspetti lo percepisce e sperimenta senza il filtro della grandi categorie dello spirito. Questo l’obiettivo raggiunto dalla Lega, nata esattamente da qui, e questa pare, leggendo l’inquietante editoriale decisamente “marchiato” di Repubblica, anche la tendenza emergente del Pd.
Inquietante non perché scopra il territorio: la cosa è assai positiva, e non da oggi chi se ne occupa in modo più costante e sistematico auspicava una simile svolta della politica. Il motivo della preoccupazione, è che proprio nel momento in cui la sinistra sembra evaporare e/o ingrugnirsi in un dibattito che pare abbastanza autocentrico, il centro pigliatutto se ne esca con la brillante intuizione: casa, famiglia, bottega.
Perché è a questo universo che mira, tutta la congerie di suggestive evocazioni che ascoltiamo ormai da anni, e che ora appaiono sul punto di transustanziarsi in mainstream. Non certo la comunità olivettiana, o le sue antenate del socialismo utopico o dell’autogestione, care ai pionieri dell’urbanistica moderna, dall’autarchia rurale di Owen alla rete globale campi-fabbriche-laboratori di Kropotkin. L’unica radice “teorica” di certa pseudosociologia valligiana tanto in voga, è proprio tutto quanto una intera generazione ha imparato freudianamente a odiare, e che ora ci vorrebbero rivendere come nuova frontiera riformista.
Attenzione: dietro a quelle chiacchiere c’è solo ed esclusivamente un mondo “ideale” che sembra uscito direttamente da qualche sconsolata pagina di Massimo Carlotto e dintorni. (f.b.)