L’esito delle recenti elezioni regionali ha dimostrato (immagino, fra molte altre) almeno un paio di cose sulle quali, relativamente trascurate dai teatrini televisivi, può essere il caso di soffermarsi.
La prima: la generale e acquisita maturità dell’elettorato cattolico italiano, chè si è mostrato definitivamente emancipato e ‘adulto’ nei confronti di eventuali (auspicati?) imperativi a serrare i ranghi di una ‘confessionalità’ politicamente monodirezionale. La prepotente ondata emotiva (non banale, né marginale od effimera) che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II non ha, in altre parole, dato luogo alle conseguenze che sessant’anni di avventura politica dei cattolici italiani ci avevano in qualche modo abituato, con una sorta di preventiva e rassegnata preoccupazione, ad aspettarci. E tale e tanta dev’essere stata la sorpresa, che qualcuno, tra le file della CdL, non è proprio riuscito a trettenersi, se è da attribuirsi all’esimio La Loggia l’affermazione secondo la quale le elezioni sono andate come sono andate in quanto ‘l’elettorato era distratto dalla morte del papa” – affermazione che ha subito sollevato l‘infuriata protesta dell’Osservatore Romano, scandalizzato dal fatto che qualcuno non solo si azzardi a pensare cose simili, ma abbia anche la spudoratezza di esternarle.
Se quell’ondata emotiva ha avuto conseguenze politiche, deve evidentemente trattarsi di altre conseguenze, inedite e non previste – che tocca ora ai supposti depositari dell’eredità di quello che fu voluto da De Gasperi e dalle coeve gerarchie vaticane come il ‘partito dei cattolici italiani’:
questo, al di là della misera cucina degli avanzi che discetta di voti di fiducia e/o rimpasti, è il filo del rasoio su cui il partito di Follini (ma anche di Buttiglione) è volente o nolente chiamato ad avventurarsi.
La seconda implicazione, decisamente rassicurante, è che queste elezioni hanno premiato il gioco di squadra e penalizzato i personalismi: linea da tempo attesa, in questo paese, da chiunque, ed alla quale anche un narcisista di lungo corso come Massimo d’Alema, che è al tempo stesso vero uomo politico, si è immmediatamente conformato, archiviando i bisticci preelettorali sulle primarie, e utilizzando al meglio la propria vis polemica per stringere all’angolo esattamente il narcisismo dell’avversario – il quale, umilmente (nozione aliena alla cultura narcisistica come al diavolo l’acqua santa), si è prestato ad un confronto televisivo pubblico e stranamente non si è nascosto, come è accaduto invece in altri frangenti.
Perché con la CdL è stato sconfitto – meglio (non siamo troppo ottimisti): si è cominciato a scalfire - anche uno dei pilastri della sua ideologia: il narcisismo cesaristico incarnato dal premier e la sua relativa efficacia carismatica, e, per converso, l’illusione mimetica che aveva sedotto milioni di italiani poveri e diseredati secondo l’improbabile imperativo del “diventa anche tu ciò che io sono, se è andata bene a me, che non sono altri che un italiano, non si vede perché non dovrebbe andar bene a tutti…”.
La smentita secca delle urne è oggi all’origine della ennesima verifica o resa dei conti all’interno del Polo – ma credo che abbia qualcosa da insegnare anche a sinistra. Se il narcisismo non paga più, se la sua cultura mostra la corda, ciò vale a maggior ragione per chi rispetto a quella cultura rivendica la propria alterità e differenza.
E in questo contesto rinnovato, in questo quadro grigio che lentamente riprende colore, stride con ancora maggior violenza la disputa che si consuma sul teatro politico veneziano: una disputa le cui ragioni mal si comprendono lontano dalla Laguna – e, probabilmente, anche a Murano o a Torcello, ma che mostra inequivocabili i segni residui, i ‘colpi di coda’, di un narcisismo che evidentemente stenta a farsi da parte, fatica ad essere razionalizzato, e inevitabilmente deborda in derive non controllate, certo destinate ad arenarsi miseramente, mostrando l’intera miseria del proprio fondo fangoso, ma non per questo persuase a rinunciare a ciò di cui il narcisismo sopra ogni altra cosa si nutre: dare spettacolo, fosse anche il peggiore spettacolo che si possa mostrare.