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Mariangiola Gallingani
La scissione del Pd e il fattore Sarajevo
18 Febbraio 2017
Mariangiola Gallingani
"Le scissioni (o le guerre) hanno spesso motivazioni immediate che appaiono irrazionali, al di sotto dell’evento catastrofico che determinano", scrive ieri ... (segue)

"Le scissioni (o le guerre) hanno spesso motivazioni immediate che appaiono irrazionali, al di sotto dell’evento catastrofico che determinano", scrive ieri Peppino Caldarola su Lettera 43 ("Con Renzi il Pd diventerà una Margherita dimezzata".

Una considerazione non ipocrita, finalmente, nel coro dei commentatori a tempo pieno, intenti a simulare stupore/sconcerto/disappunto di fronte ad una scissione che sembra, a loro dire, consumarsi nel maggiore partito italiano per una mera e banale questione di date.

Il fatto è che la questione di date banale non è - dal momento che proprio su quella la sedicente (e comunque assai tiepida) disponibilità di Matteo Renzi a prodigarsi per conservare di quel partito l'unità incontra un ostacolo insormontabile e inderogabile: dead end. Non dovrebbe meravigliare che il che-cosa-viene-prima-e-cosa-dopo polarizzi prepotentemente la libido di un politico che ha sostituito la velocità all'eguaglianza nel quadro dei valori fondativi della sinistra.

Ma anche trascurando la storia delle date, quel che fingono di non comprendere i commentatori, dileggianti gli scissionisti "impiccati al calendario", è che quella sorta di disintegrazione del nucleo, in cui si trasforma di giorno in giorno sotto i nostri occhi la scissione del Pd, è da ascriversi in larghissima parte, esattamente all'insaziabile libido dominandi proprio del segretario uscente.

Dopo l'avventurosa sfida referendaria del 4 dicembre, mostra tuttora, anche nell'estremo presunto (e dovuto) appello ad evitare la scissione, come al di là delle tante stra-parole autoaccusatorie, di non aver ancora capito che cosa il 4 dicembre è stato sconfitto:

"Milioni di italiani chiedono una politica che non sia solo contro qualcuno. Che non sia solo contestazione, ma sia fatta di proposte. Io ci sono e sono in campo. Con umiltà e tranquillità. Ma anche con coraggio e determinazione. Siamo in tanti. Milioni di persone. Non sufficienti a vincere un referendum, d'accordo. Ma in grado di cambiare tante cose. E non rinunceremo a farlo" (Intervista a Matto Renzi di Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2017, corsivo mio)

Chi si illuda che con ciò si aprano "nuove fasi" è servito: ci sono tutti gli elementi per capire che, nel Renzi-pensiero, si riparte esattamente dal punto in cui si è lasciato il giorno prima del referendum. E specie per un punto: la "sua" leadership, vera invariante di qualsiasi "discussione aperta", "conferenza programmatica", "convenzione congressuale" e compagnia

Lo si è visto nel vuoto di analisi e di proposta che ha esibito in apertura/chiusura dell'ultima Direzione nazionale, veicolando come unico contenuto intellegibile la necessità che ogni scelta parlamentare o di governo sulle regole (legge elettorale) o sulle grandi questioni (manovra aggiuntiva), come ogni scelta che riguarda il partito (congresso, elezioni, persino il sostegno al governo Gentiloni, che si è vergognosamente rifiutato, tramite lo stridulo Orfini, anche solo di mettere ai voti...) sia in ogni caso modellata sulle sue proprie esigenze/opportunità contingenti o immediatamente a venire.

"L'innovazione... produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti", scriveva Renzi nel 2014 a commento della nuova edizione di Destra e sinistra di Bobbio, proponendo di sostituire alla polarità distintiva eguaglianza/diseguaglianza quella, più aggiornata, innovazione/conservazione.

Quel testo è stato per molti versi profetico - oltre che programmatico, subito interpretato come "manifesto" di governo - di ciò che dalla leadership del nostro ci si poteva/doveva aspettare...

Molti, dentro il Pd - spesso per quel mix di acquiescenza ed opportunismo di sapore vagamente feudale che Fausto Anderlini descrive in Alea iacta est , che vi invito a leggere, - hanno sorvolato sulle implicazioni della nuova polarità, seguendo il capo come leali vassalli nella sua corsa all'innovazione sans phrase.

Quando è la velocità il massimo valore, meglio sgombrare il campo da ogni tediosa perdita di tempo, come per esempio fermarsi a pensare. Si potrebbe diventare rapidamente sospetti...

E molti, nella c.d.minoranza interna, hanno inghiottito rospi, non facendo nulla a lungo per frenare quella corsa. Hanno subìto - anche per colpa loro - accuse di codardia e tradimento dalla base per ogni fiducia votata in Parlamento, dal job acts alla buona scuola, fino al riscatto, almeno, sulla riforma costituzionale.

Ma quella corsa era destinata a continuare solo fino a quando fosse stato lui, Renzi, a indurre nell'ambiente il cambiamento, non il contrario.

E oggi è proprio lui a mostrarsi incapace di percepire i mutamenti dell'ambiente, e del tutto restio, per usare le sue parole, a "cambiare se stesso".

Ed è proprio questo il fattore Sarajevo, per cui il vaso, da tempo colmo e in precario equilibrio, trabocca. Ancora una volta, la determinazione a occupare a qualsiasi prezzo, sconfitte politiche comprese, un posto che ritiene sia di diritto suo...

Un politico non può dire "ce ne andiamo perchè il segretario è fuori controllo" - anche se molti in questi giorni hanno provato a lasciarlo intendere tra le righe: perchè è un bambino ingenuo e innocente che si alza, nella favola, per gridare a tutti gli altri che il Re è nudo...

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