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Mariangiola Gallingani
Quando l'obbligo di "vincere" torna a uccidere i figli
9 Febbraio 2017
Mariangiola Gallingani
Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, lna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente...(segue)

Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, lna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente...(segue)


Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, luna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente ripreso. È alla lettera di Michele che mi riferisco in questa riflessione.

Ci sono immagini che restano scolpite nella pietra. Sono immagini di realtà che, prima ancora, sono state incise per sempre nella carne e nelle ossa di chi le ha viste in faccia, e ne ha lasciato memoria. Una di queste è la topografia assoluta di Primo Levi de I sommersi e i salvati. Una realtà definitivamente e per sempre tripartita, i sommersi, i salvati; in mezzo, con i suoi contorni nebbiosi, la “zona grigia”.

Se il lager è, come suggeriscono alcuni forse non a torto, la metafora più pregnante del mondo in cui viviamo – allo stesso modo in cui si era detto che il carcere fosse la metafora par excellence degli Anni ’70 -, non è difficile oggi, in Europa, sapere chi siano i “sommersi”, qui, nei paesi che si protendono sul grande pietoso cimitero che è diventato il Mediterraneo. Sepolti nelle profondità marine perché la loro fuga non è andata a buon fine. Altri “sommersi”, che apparentemente ce l’hanno fatta perché ancora viventi, abitano i sotterranei e le friches delle nostre città, e a volte muoiono durante le rigide notti d’inverno.

Si può pensare che, per simmetria, “salvati” siano quanti semplicemente non sono finiti in fondo al mare – ma non è così semplice.

Si diceva dei giovani in fuga dall’Italia, lunga è la polemica sui cosiddetti “cervelli in fuga”, grandi sono i sacrifici e le aspettative che la nostra generazione di genitori ha investito sul buon esito di quella fuga. Perché quei figli siano, alla fine, i “salvati” dalle minacce del mondo. Un mondo che non c’è più la speranza di poter cambiare nell’arco di tempo della singola esistenza, un mondo in cui cercare luoghi al riparo.Dove stava Michele, che si è tolto la vita?, il ragazzo che ha lasciato quella lunga lettera che pesa come come un lucido, potente, ineludibile atto di accusa, in particolare, scrive, “un’accusa di alto tradimento”. Un atto d’accusa circostanziato, esploso nei dettagli.

Dove stava Michele, che ha scelto lucidamente la parte dei “sommersi”, perché dei sommersi sentiva di condividere la frustrazione, l’impossibilità di vivere per sopravvivere, il destino del “minimo”?

«Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione»

Nel maneggiare la parola del ragazzo morto sorge un fastidioso spontaneo pudore - e tuttavia anche la convinzione che a quella parola, a quella lettera che ha curato - e che comunque ha saputo scrivere magistralmente, dall’altra parte del cielo malato della sgrammatica fastidiosa dei social -, a quelle ultime parole chiare cui ha affidato il suo pensare e sentire Michele tenesse, e tenesse anche al fatto che venisse letta.

Tutto si scrive perché, prima o poi, qualcun altro legga…

«Sono… stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi…»

Quello che appare in queste parole è un mondo dove “vincere” è divenuto nuovamente in modo strisciante un imperativo categorico – per un’intera generazione di giovani occidentali. Un mondo che impone di “vincere” può uccidere i propri figli in molti modi: Quello in cui è morto Michele è uno di questi.

Ma Michele - allo stesso modo dei corvi del SonderKommando, che hanno sepolto la loro storia dentro barattoli-stagni all’ombra delle betulle bianche di Birkenau -, Michele ha lasciato scritto, chi e come lo ha ucciso. Condannato nella “zona grigia” del “sopravvivere” al “minimo”, poiché niente di più avrebbe avuto chi come lui appartiene a una generazione perduta - consapevole tuttavia, e desiderante, del “massimo”, e stanco di “invidiare”, lui, che pure sopravvivere avrebbe potuto, ha scelto il reticolato.

«Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile».

Ci si chiede in giro che cosa avrebbe potuto fare ognuno di noi: la potenza della parola di Michele fa male, piega la parola, irride il dolore, cancella il senso.Ci si può chiedere però, al contrario, quanti di noi o dei nostri prossimi non siano in realtà già molto vicini, alle condizioni di Michele: non condizioni psichiche o fisiologiche o altro. «Condizioni oggettive». Perché quanto ci separa dall’abisso dei sommersi, anche qui, nel cuore dell’Occidente, può trovarsi ad essere solo un crosta sottile. Che può frantumarsi sotto i nostri piedi per un battito d’ali…

Riconoscere Michele in noi stessi - la sua frustrazione nella nostra, la sua delusione nella nostra, la sua miseria nella nostra, la privazione del suo diritto nella nostra, la sua sensibilità “sbeffeggiata” in quella di ciascuno di noi - questo può essere un modo per far qualcosa che forse avrebbe desiderato: cercare di capire…Fino a che quella crosta sottile non si frantumi anche sotto i nostri piedi…

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