che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera... (segue)
Due vicende, di ambito apparentemente diverso hanno caratterizzato gli ultimi giorni. Da un lato le sentenze del Consiglio di Stato che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera all'istituzione del Parco Archeologico del Colosseo, decretando lo smembramento definitivo di quella che era la storica Soprintendenza Archeologica di Roma. Sui problemi giuridici aperti dalle sentenze v. soprattutto i commenti su Emergenza Cultura, ma occorrerà ritornarci, per la gravità delle implicazioni che si estendono ben al di là del caso specifico, fornendo una legittimazione all'uso o meglio abuso della decretazione come modalità di sottrazione dell'attività dell'esecutivo ad ogni controllo preventivo in materia di pubblica amministrazione.
Le sentenze del CdS legittimano quindi - nel metodo e nel merito - la costituzione del Parco, decisa dal Ministero come un semplice atto regolatorio interno, quasi che la dissoluzione definitiva dell'unità archeologica di Roma e lo sconvolgimento amministrativo che comporta sul centro - fisico, culturale, urbanistico - della città sia questione da trattare fra le mura del Collegio romano senza alcun confronto con la città. Anche per questo, per l'evidente vulnus al principio di leale collaborazione istituzionale, il Comune di Roma aveva fatto ricorso, accolto dal TAR e poi respinto dal Consiglio di Stato (sentenza 3665/2017) con motivazioni acrobatiche su cui occorrerà ritornare. La creazione del Parco, un recinto che ritaglia, contro la storia antica e recente, senza alcuna idea se non quella dell'isolamento di littoria memoria, un complesso monumentale parte integrante di un organismo urbano complesso come quello romano, è stato l'ennesimo episodio di quel centralismo velleitario che connota questa stagione governativa.
La riforma costituzionale bocciata dal referendum ne era stata l'espressione più compiuta, con il tentativo di annullare 45 anni di regionalismo - senz'altro non privo di problemi - a vantaggio però di una neocentralità appiattita sul potere esecutivo. Lo spirito della riforma Renzi-Boschi era stato anticipato, nel 2014, dallo SbloccaItalia. Anche in quel caso, innumerevoli erano le "scorciatoie" concesse al governo centrale: "esemplare", in questo senso, l'art. 33 con il quale si sottraeva al Comune di Napoli la competenza urbanistica per quanto riguarda l'area di Bagnoli.
Proprio quella vicenda ha trovato qualche giorno fa un esito in qualche modo inaspettato: dopo mesi di contrasto durissimo - da parte del Comune e ancor più della città attraverso i molti comitati e associazioni - si è arrivati ad un accordo che azzera le molte, illegittime distorsioni del piano urbanistico vigente, ipotizzate in questi ultimi vent'anni. Ripristinate le dimensioni del parco urbano a 120 ettari, ripristinata l'integrità della linea di costa originaria della spiaggia di Coroglio, con l'arretramento dell'edificio abusivo di Città della Scienza, annullati gli aumenti di cubatura.
Certo persistono ancora molti problemi e lo stesso accordo non è esente da ombre e ambiguità, come testimonia il dibattito su eddyburg. Insomma, la battaglia per restituire alla città e al godimento di tutti una delle sue aree paesaggisticamente più belle, è ancora lunga.
Ma l'accordo è un buon punto da cui ripartire e soprattutto ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato: è la dimostrazione del potere istituzionale di un'urbanistica pubblica interpretata al meglio. La variante su Bagnoli del 1996 ha dimostrato una capacità di resilienza che dovrebbe far riflettere. Capacità certo agevolata dalla cialtroneria politica e amministrativa con cui si è cercato di aggirare le previsioni del prg e che si è nutrita, al contrario, di un consenso popolare via via più tenace. Quel piano regolatore ha resistito, a dimostrazione anche della debolezza politicamente e socialmente intrinseca degli attuali approcci urbanistici, che rinunciano ab origine ad una visione ampia dell'organismo urbano, inchinandosi - a prescindere - agli interessi di parte.
Qualche anno fa, nel 2013, in un libretto sul rapporto fra le politiche di sinistra e l'urbanistica degli ultimi decenni (La sinistra e la città), gli autori, Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, definirono Bagnoli come "simbolo del fallimento dell'urbanistica italiana" (p. 76), confondendo rozzamente fra progetto urbanistico e sua ritardata realizzazione.
Ma l'urbanistica ha tempi lunghi e già Antonio Cederna ci aveva insegnato a non arrenderci, mai. La resistenza contro un governo del territorio che rinunci a perseguire l'interesse pubblico e la difesa della legalità è stata anche la lezione della migliore stagione di Italia Nostra. Tuttora attualissima.
L'accordo su Bagnoli - nella sua imperfezione e migliorabilità - è una base da cui ripartire.
Anche per quanto riguarda Roma e quest'ultima vicenda del Parco del Colosseo, la cui istituzione, lungi dall'avere alcun effetto innovativo, costituisce invece la cristallizzazione - a puro scopo di speculazione turistica - della situazione di devastante incompiutezza dell'area archeologica centrale.
E soprattutto un ostacolo forse non casuale alla realizzazione del più grande progetto urbanistico che abbia interessato Roma moderna, il progetto Fori.
Come insegna Bagnoli, la buona urbanistica ha lunga vita.