1. Perché parliamo nuovamente del problema della casa
Negli ultimi dieci anni l’innalzamento dei prezzi di vendita e dei canoni di affitto delle abitazioni è stato di gran lunga superiore alla crescita dei redditi delle famiglie. Secondo una rilevazione effettuata da CRESME, nel periodo 1998-2005 i canoni sono cresciuti mediamente del 49% (ma nelle grandi città dell’80%), i prezzi di vendita del 51% (ma nelle grandi città del 60%) (Calimani).
Nello stesso periodo, i mutui per l’acquisto di una casa hanno spuntato le condizioni migliori di sempre, ma nonostante ciò molte famiglie si sono indebitate in modo eccessivo e per periodi troppo lunghi. Per di più, non appena si sono verificate tensioni sui mercati finanziari, l’accesso al credito è diventato più oneroso. Secondo Banca d’Italia, in soli 7 anni, dal 1997 al 2004, l’indebitamento complessivo delle famiglie per acquistare un alloggio è creciuto di ben 4 volte, passando da 40 a 160 miliardi di euro (Sbetti).
Anche pagare l’affitto è diventato un problema. Dieci anni fa è stata cancellata la legge 392/1978 che imponeva la moderazione degli affitti e oggi possiamo constatare gli effetti dell’impennata dei canoni . Si stima che per 1,7 milioni di famiglie l’affitto incida per oltre il 30% del reddito complessivo. E’ il caso, per esempio, di una famiglia che guadagna 20.000 euro netti l’anno (una busta paga sola, oppure due lavoratori precari) e paga un’affitto di 600 euro/mese (Calimani e Caudo 2008).
L’obbligo per i comuni di riservare dal 40 al 70% del fabbisogno abitativo decennale all’edilizia economico popolare è, di fatto, disatteso, nonostante siano tuttora in vigore le leggi che lo prevedevano (Brenna). L’edilizia sociale è pressoché azzerata: i finanziamenti statali sono esauriti, è stata imposta una stretta alla possibilità delle pubbliche amministrazioni di contrarre mutui, alcune sentenze della giurisprudenza particolarmente favorevoli per la proprietà privata hanno reso il ricorso agli espropri più oneroso e complicato. Secondo i dati ISTAT, nel 1984 le abitazioni costruite con contributi pubblici erano poco meno di 60.000, di cui la metà di proprietà pubblica; nel 2004, rispettivamente, 10.000 e meno di 2.000. (Sbetti e Calimani).
2. Domanda di abitazioni e mercato immobiliare
In Italia ci sono:
- molte più abitazioni che famiglie (rispettivamente 27 e 22 milioni);
- la più alta percentuale di abitazioni in proprietà dell’Europa, dopo la Spagna (16 milioni di abitazioni al 2001, più del 70%);
- una produzione edilizia molto sostenuta, in particolare nell’ultimo decennio (circa 300.000 nuovi alloggi ogni anno).
Perché, nonostante questi dati strutturali, la casa è tuttora un problema?
Certamente esiste una domanda crescente. Anche se la popolazione è complessivamente stabile, le famiglie aumentano in modo significativo e, conseguentemente, cresce il fabbisogno di abitazioni.
Tra il 2000 e il 2007 il numero delle famiglie è passato da 22 a 24 milioni (285.000 nuclei aggiuntivi ogni anno, dato non troppo distante dalla produzione di alloggi). In secondo luogo, le persone si spostano in cerca di un lavoro e di un futuro migliore: per questa ragione le montagne e le colline dell’Italia interna si spopolano, le aree metropolitane si espandono e accrescono i loro abitanti.
Cambiamenti così rilevanti giustificano l’esistenza di un fabbisogno, ma non bastano a spiegare perché le richieste non trovano una risposta adeguata.
Il nodo centrale sta nel fatto che la liberalizzazione del mercato della casa ha determinato un innalzamento generale dei valori immobiliari, elevato e continuo nel tempo. Costruire e rivendere le case è da molti anni un business redditizio e sicuro. Ssecondo diversi esperti, il ciclo immobliare che stiamo attraversando è il più lungo nella storia del nostro paese. Nei momenti di picco si sono vendute fino a 800.000 abitazioni in un anno: il mercato delle compravendite, quindi, è di gran lunga superiore a quello delle case in realizzazione ed è proprio nei passaggi di proprietà (a volte più d’uno per lo stesso alloggio) che si creano ingenti plusvalori. Il settore immobiliare ha drenato risorse dal sistema delle imprese, distraendole dagli investimenti nella catena produttiva , e attratto cospicui investimenti finanziari. In un circolo perverso, la rendita edilizia e quella finanziaria si sono alimentate a vicenda, fino al crack odierno che ha investito direttamente gli Stati Uniti e – di riflesso – l’Europa.
3. Chi soffre del disagio abitativo?
Sappiamo tutto dell’Isola dei Famosi. Molto meno della penisola degli anonimi. Per troppo tempo si è pensato che il disagio abitativo riguardasse solo gli ultimi nella scala sociale e solamente ora ci siamo accorti che coinvolge anche i “penultimi” e – in prospettiva – anche i “terzultimi”. Il disagio abitativo è spia di una progressiva retrocessione di strati crescenti della popolazione, confermata peraltro dagli indicatori sulla disuguaglianza di reddito, molto elevati e in aumento.
Tra gli ultimi ci sono i poveri, ovviamente . I senza casa sono circa 150.000, ma se guardiamo al reddito, possiamo considerare al di sotto della soglia di povertà il 12,7% della popolazione, cioè più di 7.000.000 di persone (la somma degli abitanti di Roma, Milano e Napoli oppure dell’intero Triveneto). Anche gli immigrati possono essere considerati al fondo della scala sociale: secondo l’ISTAT, sono poco meno di 3.000.000, ma secondo CARITAS sono ancora di più, quasi 4.000.000 (Caudo 2008, Calimani).
Al penultimo posto possiamo collocare:
- chi ha un lavoro nelle grandi città (magari precario) e cerca casa: come abbiamo detto, i valori immobiliari delle grandi città sono letteralmente schizzati verso l’alto in pochi anni;
- chi studia in città e non trova un ‘posto alloggio’: gli studenti fuori sede sono circa 650.000, ma i posti letto istituzionali sono solamente 54.000, appena l’8% della domanda;
- chi rimane da solo (divorziati, single, vedovi…), chi ha troppe persone da mantenere (famiglie monoreddito, famiglie con molti figli), chi è in difficoltà (oltre ai precedenti, anche anziani, ammalati, famiglie con disabili) e non può ‘produrre’ a sufficienza per pagarsi mutuo o affitto.
Quest’ultima lista non è affatto stabile. Anche i terzultimi, quelli che per ora non entrano nelle statistiche sul disagio, non appena il loro reddito dovesse calare potrebbero trovarsi in difficoltà, per l’incidenza del mutuo o del canone d’affitto. E, in una società selettiva, chi è in difficoltà rimane inesorabilmente indietro.
4. Come viene aiutato chi cerca casa?
Chi cerca casa, oggi, può contare solo sulle proprie forze. La politica della casa, in Italia, è nata agli inizi del novecento (la legge 251/1903 è il primo provvedimento promulgato allo scopo di facilitare la costruzione di case popolari), si è sviluppata in modo consistente a partire dagli anni sessanta (leggi 167/1962, 865/1971, 457/1978 – ultimo provvedimento organico di finanziamento), per esaurirsi alla fine degli anni novanta. Possiamo individuare nella legge 21/2001, riguardante il secondo programma di contratti di quartiere e la costruzione di 20.000 alloggi in affitto, l’ultimo provvedimento che ipotizza un finanziamento pubblico statale.
Nel frattempo, con il Dlgs 112/1998 molte funzioni e compiti amministrativi in materia di politica della casa sono stati trasferiti alle regioni senza però una corrispondente attribuzione di risorse. In un contesto complessivo di scarsa incidenza della spesa per la casa (nel 2008, 13 regioni su 20 hanno destinato a questo scopo meno dell1% del PIL regionale), le politiche attivate nelle diverse regioni presentano differenze crescenti, accentuando la frattura fra il centro-nord e il sud, dove l’investimento è tuttora legato ai fondi residui ex Gescal (CENSIS-Federcasa).
Possiamo suddividere le politiche della casa in due grandi filoni. Da un lato, si collocano gli interventi volti a sostenere la domanda. Mediante crediti agevolati, buoni casa, buoni affitto e simili, si aiutano le famiglie a cercare un alloggio alle condizioni di mercato. Per le ragioni spiegate in precedenza, questo tipo di sostegno viene – di fatto – vanificato dall’innalzamento dei canoni e dei prezzi di vendita.
Dall’altro lato si collocano gli interventi sull’offerta di abitazioni, consistenti:
- nella costruzione pubblica degli alloggi e loro assegnazione in affitto alle famiglie più disagiate (gli ultimi saranno i primi, se vogliamo… poi c’è sempre qualcuno che imbroglia, ma questa è un’altra storia);
- nell’agevolazione di imprese e cooperative che si impegnano a costruire alloggi da mettere in vendita o in affitto a prezzi concordati (edilizia convenzionata);
- nella regolazione degli affitti, mediante una definizione del canone legata a parametri sottratti alle dinamiche di mercato (il cosiddetto equo canone).
La costruzione pubblica di alloggi ha sempre avuto, sotto il profilo quantitativo, un ruolo marginale. Si è costruito molto meno del necessario, come testimonia lo scarto mai colmato tra domande presentate e alloggi assegnati. Nel biennio 2002-03, secondo un’indagine a campione condotta dal CRESME (117 comuni aventi una popolazione complessiva di oltre 15 milioni di abitanti), delle 126.671 domande presentate nel biennio 2002-2003 per l’assegnazione di alloggi di edilizia sovvenzionata, ne sono state soddisfatte solo 10.156, pari all’8% (Storto).
L’edilizia convenzionata ha ottenuto migliori risultati, in particolare nelle città dell’Italia centrale, ma non è stata in grado di ‘calmierare’ la crescita dei prezzi nelle aree a maggior tensione abitativa. Sia l’edilizia pubblica che quella convenzionata hanno subito una una forte contrazione negli ultimi anni: nel 1984 il loro apporto era pari al 23% della produzione edilizia, nel 2004 solamente all’8% (l’iniziativa delle cooperative si è dimezzata, quella del settore pubblico è crollata all’1%).
Per di più, con la legge 560/1993 è stata autorizzata la dismissione di parte del patrimonio immobiliare degli ex Istituti autonomi case popolari, che – al momento – ha prodotto una riduzione pari al 10%. Infine, la mancata gestione della legge sull’equo canone ne ha vanificato gli obiettivi e la percentuale di alloggi in affitto si è progressivamente ristretta: gli alloggi a canone sociale sono il 5% in Italia, contro il 17% in Francia, il 20% in Gran Bretagna, il 34% nei Paesi Bassi (CENSIS su dati EU).
In buona sostanza, il rapporto tra edilizia sociale e offerta in libero mercato è sempre più sbilanciato a favore del secondo.
5. Che fare. Per quali finalità e con quali strumenti rilanciare le politiche della casa
Il ministro Brunetta, in un suo recente intervento a Urbanpromo 2008, ha sostenuto che il problema della casa ha dimensioni limitate: durante il quinquennio del suo mandato occorrerebbe reperire 50.000 alloggi all’anno, una cifra corrispondente grosso modo al 20% della produzione edilizia complessiva. Poiché il patrimonio pubblico è di circa 1 milione di alloggi, ipotizzato che ai prezzi attuali per realizzare un nuovo alloggio se ne debbano venderne quattro (stima Federcasa), la svendita dell’intero (!) patrimonio potrebbe finanziare il soddisfacimento del fabbisogno. Sembra l’uovo di Colombo, ma le cose non stanno affatto così:
- il fabbisogno – come detto – è molto più ampio e tendenzialmente crescente in assenza di significative correzioni;
- molti inquilini non sono in grado di riscattare l’alloggio;
- il problema del degrado del patrimonio pubblico passerebbe dallo Stato alle famiglie, senza per questo essere risolto.
Vendere tutto, o meglio cartolarizzare, è necessario, secondo il ministro, per accrescere la possibilità di investimento della pubblica amministrazione. Questo è il presupposto del combinato disposto del nuovo piano casa e della valorizzazione degli immobili pubblici stabilito dalla legge finanziaria 133/2008, che a sua volta darà vita ad una nuova stagione di programmi in deroga ai piani urbanistici, con il loro corredo di ulteriori incentivi alla valorizzazione immobiliare (varianti urbanistiche, accordi di programma, trasferimenti di cubature e ulteriori premi edilizi) di cui abbiamo già constatato l’inefficacia e gli effetti negativi sulla vivibilità delle città.
E’ possibile fare tutt’altro, tenendo presente che certamente le risorse pubbliche non sono molte, ma nemmeno esigue come si tende a far credere. Innanzitutto le politiche della casa devono essere inquadrate all’interno di un più vasto e corente programma di azione pubblica che preveda di:
(1) Coniugare politica della casa e politiche per l’inclusione sociale. Casa e città sono intimamente legate tra loro. Abitare ha un significato molto ampio che non si esaurisce nella mera disponibilità di un alloggio e comprende la possibilità di fruire di servizi pubblici, di spazi e occasioni di incontro, di iniziative culturali (non fosse altro per emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico). Per rendere le persone ‘abitanti’ di una città occorrono politiche di accoglienza, di inclusione, di partecipazione. In Europa, la spesa media degli stati per finanziare politiche di inclusione sociale – comprendenti il contrasto al disagio abitativo – è pari al 3,8% del PIL e l’Italia è ultima con lo 0,2% (Calimani).
(2) Coniugare politica della casa e politica del territorio. La pianificazione territoriale non è un inutile orpello. La deregolamentazione urbanistica ha generato il mostro dello sprawl insediativo : abitazioni lontane dai posti di lavoro, pendolarismo sempre più intenso , collasso del sistema dei trasporti, disagi nell’organizzazione di vita delle persone. In assenza di risposte collettive, costi aggiuntivi gravano sulle famiglie, singolarmente costrette ad arrangiarsi. La politica della casa chiede alla politica del territorio di assicurare le condizioni strutturali del benessere:
- alla scala urbana, prendendosi cura della “dimensione pubblica” della città, affinché quest’ultima non si riduca ad un mero ammasso di case;
- alla scala territoriale, affrontando con decisione i problemi legati alle relazioni tra casa, luoghi di lavoro, trasporti e gestione dei servizi pubblici.
(3) Coniugare politica della casa e riassetto della finanza locale. La stretta finanziaria imposta alle amministrazioni locali si è scaricata per buona parte sulla politica della casa e della città, nell’errata convinzione che quest’ultima potesse essere delegata all’iniziativa privata.
Gli oneri di urbanizzazione sono stati utilizzati per assicurare il pareggio di bilancio delle amministrazioni locali, ammettendo in troppi casi la monetizzazione delle opere (meno verde, meno scuole, meno attrezzature pubbliche) per ragioni di cassa. Anche il contributo corrispondente al costo di costruzione, con il quale si sarebbe dovuto finanziare il risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato, è di norma dirottato ad altri scopi . Correzioni della politica nazionale sono quanto mai indispensabili, per ripristinare i canali di finanziamento saggiamente previsti negli anni settanta e incautamente soppressi, senza sostituirli con alcunché.
Per quanto riguarda la politica della casa vera e propria, si può fare tutt’altro che vendere il patrimonio pubblico e spingere le famiglie ad indebitarsi ulteriormente. L’obiettivo prioritario può essere riassunto con il seguente slogan: meno case sul “libero” mercato, più case accessibili. Si deve pretendere un’inversione di rotta radicale rispetto al ciclo immobiliare che abbiamo attraversato, governato dalla legge dell’offerta, Occorre ricostituire una quota significativa di abitazioni a canone o prezzo di vendita commisurato alla capacità di spesa delle famiglie. Oggi un alloggio su 15 è costruito in regime agevolato e uno su 100 è costruito dal pubblico: si tratta di uno squilibrio non accettabile.
Gli strumenti per riequilibrare l’offerta devono essere diversificati: non è necessario prevedere soluzioni troppo radicali (grandi acquisizioni pubbliche), troppo semplicistiche (edilizia sociale come standard, rigidamente fissato), eccessivamente uniformi (occorrono case ‘popolari’, posti letto per gli studenti, case in affitto per i lavoratori in trasferta; occorrono politiche differenziate per le grandi città e per i territori dello sprawl, eccetera). Non secondariamente dobbiamo ricordarci che abbiamo alle spalle un secolo di espansione edilizia. Il patrimonio abitativo si è moltiplicato, quello produttivo ingigantito: il recupero dell’esistente è prioritario rispetto ad ogni ulteriore crescita. A questo scopo, la riconversione delle aree dismesse (caserme, aree ferroviarie, altre grandi strutture – pubbliche e private) deve essere orientata alla realizzazione di edilizia sociale e di servizi pubblici, secondo rapporti equilibrati che tengano conto del contesto in cui si interviene.
Le grandi operazioni immobiliari devono produrre molti alloggi sociali, redistribuendo una parte significativa della rendita. A Milano, secondo un’indagine condotta da Roberto Camagni, i benefici pubblici connessi alle grandi trasformazioni urbane incidono per meno del 10% del valore complessivo degli immobili realizzati, a Monaco per circa il 30%. Nella città tedesca l’onere sostenuto dai privati ammonta fino a 2/3 (sic!) dell’incremento di valore stimato a seguito della trasformazione, concretizzandosi in:
- trasferimenti gratuiti di terreni, per realizzare strade e aree a verde e funzioni collettive e per “compensazione” di impatti, nelle vicinanze del progetto o in altre aree;
- risorse economiche che vanno a finanziare infrastrutture materiali e sociali;
- abitazioni sociali, per 1/3 del totale complessivo.
Ulteriori benefici possono essere prodotti facilitando l’incontro tra offerta di abitazioni non occupate e
domanda sociale: attraverso l’istituzione di fondi di garanzia (il comune prende in affitto dai proprietari gli alloggi e si fa garante del pagamento del canone) e di agenzie per la casa, i possessori di case possono essere invogliati ad affittare a canone controllato; peraltro, i redditi derivanti da affitti calmierati potrebbero essere detassati.
Infine, avendo scelto con attenzione dove intervenire (i piani urbanistici servono a questo), è possibile puntare ad una nuova stagione di finanziamento:
- della costruzione di alloggi popolari, accompagnata da politiche complessive di ‘accoglienza’ e di ‘inclusione’ per non ripetere gli errori del passato ;
- dell’edilizia ‘convenzionata’ (attraverso apposite convenzioni, è possibile ottenere benefici del tutto analoghi a quelli del programma promosso a Monaco di Baviera);
- del cosiddetto housing sociale, anche grazie al contributo del cosiddetto ‘capitalismo mite’, costituito da banche etiche, fondazioni e associazioni che, pur agendo nel mercato, non puntano alla massimizzazione del profitto ad ogni costo, bensì alla realizzazione di iniziative a sfondo sociale che assicurino il ‘pareggio di bilancio’ ovvero il ‘minimo rendimento’ necessario per finanziare l’operazione (DIPSU, CENSIS-Federcasa).
In molte regioni si stanno compiendo interessanti sperimentazioni che possono essere riprese e opportunamente trasformate in iniziative ordinarie ed è, probabilmente, dalle regioni più sensibili che può ripartire una politica della casa degna di questo nome.
Riferimenti bibliografici
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