«Città. Architettura e società» è il cuore della decima Biennale, l'esposizione a cui la mostra veneziana si affida per ritrovare un'identità culturale e un ruolo nella discussione internazionale sull'architettura dopo tre edizioni un po' discusse, accusate da alcuni di essere troppo incentrate sulla pura spettacolarità. Il tema, ufficialmente «assegnato» dal consiglio di amministrazione della Biennale, è quello della «questione megalopolitana», dell'inarrestabile flusso che continua a portare persone e comunità intere dentro ambiti urbani sempre più difficili da gestire, di cosa debbano imparare e poi elaborare gli architetti e gli urbanisti per affrontare il problema. Richard Burdett, anglo-italiano cresciuto alla scuola del pragmatismo architettonico inglese, ha svolto un compito su cui era evidentemente già preparato in modo egregio, dipanando alle Corderie un percorso chiaro e didattico attraverso l'illustrazione delle sedici megalopoli studiate, e raccogliendo al Padiglione Italia materiali più diversi e interpretativi, aperti da un lato alle visioni di artisti e fotografi e dall'altro pazientemente impegnati a raccontare ricerche e studi disciplinari già avviati.
Abbiamo visitato la mostra il giorno 6, approfittando di una pre-vernice riservata a chi aveva lavorato ai vari eventi. La prima impressione è stata strana e inusuale, legata al flusso inaspettatamente rado di visitatori privilegiati e ai rarissimi ritardatari ancora al lavoro nel loro spazio espositivo. Novità assoluta. La ragione è stata chiara quasi subito, dopo il primo sguardo ai pannelli e alle immagini: la biennale praticamente non ha espositori, quindi a mostra semi-aperta non ci sono le solite tribù. Non ci sono le frotte di architetti e affini impazienti di mostrare i propri gioelli, non ci sono le superstar assediate da giornalisti e ammiratori come al Lido. Si girava quindi per padiglioni semivuoti, approfittando per guardarsi in pace un materiale che sopratutto alle Corderie si presenta in modo del tutto inedito per la Biennale: una sequenza unitaria e coerente di pannelli pieni di testi, cifre, informazioni e immagini (ferme e in movimento) relative alle sedici città esposte. Insomma, la Biennale trasformata in una splendida mostra didattica, una cosa non da poco.
L'impressione di novità non finisce qui. Per la prima volta dopo la visita alla mostra si sente una strana impazienza di consultare il catalogo, che invece alla Biennale è in genere un ammasso un po' frettoloso di immagini relative agli autori esposti, quasi sempre del tutto differenti rispetto a quanto esposto (che infatti è stato completato la notte prima). In questo caso, data la materia e l'approccio scelto, il catalogo della mostra va considerato come un vero e proprio libro, che permette di espandere e approfondire quanto vediamo nei grafici e nei pannelli appesi alle Corderie.
Le differenze rispetto alle edizioni precedenti non sono finite, ma sembrano anzi consolidarsi come un elemento preciso e consapevole del programma, anche se il tema delle megalopoli non è certo una novita assoluta per la biennale. Sei anni fa, infatti, Massimiliano Fuksas lo aveva affrontato nella sua Less Aesthetics More Ethics, giocando proprio sulla contraddizione tra il titolo edificante e il contenuto iperestetizzante della mostra. Dalla sua mostra erano usciti pochissimi problemi delle città contemporanee e molta cultura dell'immagine, grazie anche all'indimenticabile megavideo di Studio Azzurro alle Corderie. Non che Burdett rifiuti la cultura visiva del terzo millennio, la fotografia e lo stile «google earth» dominano gli spazi, però anche in questo caso la sensazione è opposta. Il tutto è tenuto insieme con sobrietà e rigore, quasi fosse davvero - come in effetti è - la sezione critica di un corpus di dati e riflessioni molto importanti.
Altra novità che non può non saltare agli occhi, rispetto alle edizioni-parata di Sudjic e Forster, l'assenza totale dello star system internazionale. Non ci sono le ultime fatiche di Gehry e Calatrava (a proposito, che fine ha fatto il ponte di piazzale Roma?), non c'è Eisenman né Libeskind, non c'è Rem Koolhaas e non c'è Zaha Hadid. Anzi Rem e Zaha e pochissimi altri altri ci sono, ma sobriamente inseriti in un ciclo di incontri con il pubblico. Non è difficile prevedere che questa sarà une delle ragioni del «successo di critica» della mostra, soprattutto presso gli addetti italiani. Le ragioni in realtà saranno diverse. Alcuni apprezzeranno la sottintesa consapevolezza, da parte del curatore, che ormai l'informazione in architettura viaggia altrove e in tempo reale. Altri, con un ragionamento un po' meno limpido e forse un po' troppo consolatorio, apprezzeranno l'assenza dell'imperialismo architettonico globalista e di tutto ciò che in genere ci ricorda la difficile condizione dell'architettura in Italia. Diranno che «finalmente l'effetto Bilbao è finito», ed eviteranno di rilevare che le archistar non ci sono, ma che non ci sono neanche i progettisti un po' meno alla moda, né quelli emergenti. Non ci sono i progetti di architettura e basta, salvo pochissime eccezioni, piegate da Richard Burdett all'esigenza di esemplifiare una strategia o una politica urbana.
Ultimo cambio di rotta evidente, rispetto a Forster e Hani Rashid, l'assoluto understatement dell'allestimento. Che la volta scorsa era una mostra nella mostra, enensimo pezzo d'autore teso a dare una chance all'«architettura digitale». E che in questa edizione è ben curato dallo studio Cibic & partners, quasi perfetto nella gestione degli spazi, sobrio e paziente nel distribuire l'enorme mole di dati, immagini e schermi nel corridoione delle Corderie.
L'impressione generale, comunque, è che sia una bella mostra, di quelle che in genere piacciono molto a noi appassionati di rapporti tra la cultura urbana contemporanea e l'architettura ma che piacciono meno ai dirigenti della Biennale. Quindi complimenti a Burdett, che probabilmente è riuscito a realizzare questo progetto grazie alla possibilità di sviluppare una grande ricerca con i mezzi della London School of Economics, al sostegno dei più importanti architetti inglesi e alle relazioni che ha costruito in questi anni, grazie al Forum globale che ha istituito, con le classi dirigenti di alcune delle città coinvolte. E complimenti al consiglio, che ha sostenuto un progetto fondato sui contenuti.
Rispetto a una biennale standard, in cui si scorrono elenchi chilometrici di nomi lambiccandosi su quale valga veramente la pena di citare nello spazio piccolissimo di una recensione, in questo caso il compito è semplice. La mostra è un'opera poco estrosa ma compatta e coerente, dalla quale si fa fatica a staccare «pezzi» sublimi. A parte l'inevitabile scorpacciata di planimetrie e foto aeree, alcune cose da ricordare però ci sono. Per esempio le tavole in bianco e nero di alcune parti comparabili del tessuto urbano delle sedici città messe a confronto con il vecchio metodo à la Colin Rowe del pieno/vuoto. Il nudo profilo degli edifici, come ci insegnava Rowe, si rivela un lettore acutissimo delle differenze di densità e dei modi di occupare il suolo, e in fondo anche l'unico omaggio agli strumenti specifici della disciplina architettonica. Poi gli istogrammi tridimensionali delle densità campione delle città, raccolti intelligentemente in un'unica stanza, gotici e impressionanti come una gypsoteca del sovraffollamento urbano. Infine alcuni lavori dei fotografi e artisti visivi più bravi e interessanti, le immagini di Francesco Jodice e di Olivo Barbieri, l'ermetica scatola magica (video) di Andrea Cavazzuti su Shangai, e soprattutto la mostra al Padiglione Italia, con alcuni artisti davvero shocking e profondi (memorabili alcune fotografie di Robert & Shana Parkeharrison).
Non mancano ovviamente punti meno appassionanti, o scelte discutibili (il mito perduto di MiTo?), ma la visita alla mostra ci restituisce comunque un punto di vista solido e chiaro, ed è certamente meno estenuante di molte altre biennali.
Nota: per un confronto, le opinioni sulle stesso (?) tema di Paolo Vagheggi e Vittorio Gregotti e l'intervista al direttore Richard Burdett; manca ancora un commento dei sociofagi della "città infinita" (f.b.)