La forzatura della sicurezza aeroportuale e lo sfruttamento dell'emergenza fanno emergere le distorsioni del modello shopping mall chiuso. Le Monde Diplomatique – il manifesto, febbraio 2013 (f.b.)
A metà degli anni 2000, nel sud della Norvegia. L’aeroporto di Kristiansand è appena stato rinnovato. Il volo è in ritardo: il tempo di bere un bicchiere con i miei accompagnatori? «Non è più possibile: bar, tavoli e sedie si trovano ormai dall’altro lato dei controlli di sicurezza...». Passa un’ora. Niente aereo, nessuna notizia né il bancone di un bar. Per ottenere delle informazioni, bisogna raggiungere la porta di imbarco ma l’accesso è scomparso. Toh, il duty free è controllato da un agente: «Accedere alle porte di imbarco? Da qui, attraverso il negozio. È dopo le casse!» Buffo. Ma perché no? «È giusto per avere qual- che informazione? Torno subito, si ricorderà di me?» L’agente risponde premuroso: «Certo, ma non potrà tornare indietro. Dovrà ripassare dalla dogana...»
Preparare i passeggeri all'atto dell'acquisto
Così, invece di imboccare il corridoio pubblico di accesso, si attraversava un negozio pieno di giochi, di profumi, di scatole di cioccolatini e di bottiglie di gin. Il terminal che una volta consisteva in un’unica grande sala, in occasione della sua «modernizzazione», viene frammentato in tre parti il passaggio tra le quali risulta ormai rigidamente controllato. Il mese seguente, nello stesso aeroporto, mio figlio di 2 anni e mezzo ciondolava verso l’aereo, con la sua giacca appesantita da alcuni pacchetti di caramelle e da una boccetta di Chanel N° 5, discretamente prelevati nel duty free, diventato passaggio obbligato per tutti i viaggiatori diretti all’imbarco.
Così nasce il progetto «Duty free shop», presentato in queste pagine. Strategie inedite di organizzazione dello spazio, nuovo orienta- mento del flusso delle persone: mani invisibili avevano trasformato radicalmente la natura e l’uso di un luogo pubblico. Hanno avuto inizio lunghe settimane di osservazione negli aero- porti europei, trascorse a scrutare i movimen- ti, gli oggetti, gli atteggiamenti del personale, l’arredamento, le luci, il design e la segnaletica, per carpire il significato dei cambiamenti, di- segnarli in mappe destinate a far comprendere quello che è in gioco qui. Cosa, o chi, c’è all’origine di queste trasformazioni? Le autorità aeroportuali, i ministeri dei tra- sporti e le società a cui hanno delegato la gestione degli spazi commerciali, o forse si dovrebbe dire di servizio. Tutti lavorano di concerto per modellare il paesaggio interno dei terminal.
Come in una messinscena teatrale, inseriscono anche attori e comparse: agenti di sicurezza, personale dei duty free e delle compagnie aeree, doganieri, poliziotti e... passeggeri. Stabiliscono gli arreda- menti, le luci e i campi visivi, le «aperture» o le «chiusure». Il tutto con un solo obiettivo: preparare i passeggeri all’atto dell’acquisto. Le autorità aeroportuali, interrogate su queste trasformazioni, giurano di non averci nulla a che fare. «I direttori dei negozi decidono da soli le loro strategie commerciali», affermava (distogliendo lo sguardo) Jo Kobro, ex direttore dell’ufficio stampa dell’aeroporto di Oslo. In realtà, gli uni fanno soldi, gli altri ottengono delle percentuali.
Il conforto dopo la prova dei controlli di sicurezza
Dagli anni '50, la sicurezza del trasporto aereo è oggetto di particolare attenzione dopo che nel 1949, e poi nel 1955, delle bombe nella stiva avevano fatto esplodere in volo due aerei in nord America. All’epoca si era trattato di lugubri storie di adulterio e di assicurazione sulla vita... Ma quei primi attentati avevano mostrato la vulnerabilità dell’aviazione civile. Nonostante tutto, per circa mezzo secolo, gli aeroporti sono rimasti dei luoghi relativamente aperti, in cui recarsi con la famiglia per passeggiare, sperimentare la magia del mito aeronautico, ammirare i passeg- geri per i quali le compagnie stendevano il tappeto rosso, sognare davanti ai manifesti di destinazioni esotiche.
«Città nelle città» con supermercati, duty free, parcheggi
Se gli spettacolari attentati contro il Boeing della Pan american airlines (1989) e contro il Dc-10 dell’Union de transports aériens (Uta, 1988) hanno segnato l’inizio del rafforzamento dei sistemi di controllo e di sicurezza, quelli dell’11 settembre 2001 aprono una nuova era. Il traffico subisce un crollo durevole (solo nel 2005 recupererà il livello precedente agli attentati); le compagnie aeree e gli aeroporti affrontano una crisi senza precedenti.
In un primo tempo, molte basi aeroportuali e compagnie aeree hanno ricevuto massicci aiuti pubblici, soprattutto in nord America. Ma, rapidamente, gli aeroporti hanno dovuto farsi carico delle spese di funzionamento. Equazione ancor più difficile da quando le tasse pagate dai passeggeri insieme al biglietto sono state sensibilmente ridotte, a volte temporaneamente soppresse, per tentare di rilanciare il traffico. Gli stati recedono dal loro coinvolgimento diretto: la gestione degli aeroporti viene esternalizzata e affidata a delle società società (private, pubbliche o miste).
Questi nuovi gestori trovano «la» soluzione : trasformare le zone aeroportuali in spazi commerciali. Alcuni diventano delle «città nella città», con supermercati, duty free, parcheggi, alberghi, centri d’affari e di conferenze. Sull’insieme di queste attività, l’aeroporto percepisce degli utili – il cui importo rimane segreto – calcolati sulla base del giro d’affari.
Parallelamente, dopo lo shock dell’11 settembre, viene rivoluzionato l’approccio al controllo e alla sicurezza. Ormai, il «mondo esterno» si contrappone al «mondo interno». Per varcare il confine che separa le due realtà, bisogna accettare di esser sottoposti al metal detector, per- quisiti, palpati ed eventualmente privati di qualsi- asi oggetto «minaccioso», compresa la bottiglietta di acqua minerale...
Così, il terminal si trasforma in uno spazio al contempo ipercommerciale e ipercontrollato, di cui i viaggiatori diventano prigionieri. Chi gestisce gli spazi progetta una diversa organizzazione dei flussi; creano un sistema di circolazione forzata che converte gli aeroporti in laboratori. Vengono testati sottili piani di riorganizzazione spaziale per determinare quale strategia permetta di spremere meglio il passeggero. Quest’ultimo è manipolato come un burattino, condotto attraverso un per- corso predisposto in suo onore: una caverna di Ali Baba in cui scintillano merci e tentazioni.
In questo spazio «interno», tutto è limitato, dalla libertà di raggrupparsi a quella di fotografare o filmare. Non ci si può lamentare né scegliere i propri itinerari. È un’economia capitalista (far la maggiore quantità possibile di soldi) e monopolistica: alcune società multinazionali gestiscono le centinaia di negozi, di ristoranti, di bar e i servizi aerei a terra, affidati a subappaltatori. Il diritto all’informazione è spesso ridicolizzato: i manifesti che elencano i «diritti del passeggero» sono posti dove si vedono meno, in punti scuri, negli angoli morti, dietro le colonne, o in senso opposto al flusso generale. Le pubblicità sui temi del sogno, del viaggio, della donna o dell’uomo perfetti, del viso perfetto, della sensualità, del sesso... mimetizzano una strategia di assimilazione e di appropriazione dei luoghi pubblici.
Prima tappa: spiazzare il passeggero sovvertendo i suoi punti di riferimento. Gli agenti di sicurezza e i commessi dei duty free sono vestiti praticamente nello stesso modo. Gli addetti alle vendite sono inoltre pregati di assicurare il mantenimento dell’ordine nei negozi e nelle loro vicinanze, e gli agenti di sicurezza assumono il ruolo di procacciatori di clienti per i punti vendita. A Kristiansand Kjevik, la guardia indica con autorità una delle due porte situate dietro di lui: «Di là!». I passeggeri del volo proveniente da Copenhagen, ossia ottanta persone, sono condotti verso il duty free. Nessuno ha visto né oltrepassato la porta adiacente che con- duce direttamente all’area preposta alla riconsegna dei bagagli.
Il passeggero crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma
La segnaletica utilizza gli stessi codici grafici per indirizzarvi verso la porta d’imbarco e per vantare la qualità dei prodotti venduti nei negozi. Il passeggero pensa di ricevere delle informazioni invece legge una pubblicità; crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma. All’aeroporto di Londra-Gatwick, i bagni principali sono stati installati all’interno del duty free – clientela redditizia. Per imbarcarsi a Bruxelles, bisogna passare per i negozi di cioccolata, di gioielli, di gadget elettronici. Un modo per trovare conforto dopo uno sgradevole passaggio all’accettazione prima e al metaldetector dopo...
Meno di dieci anni prima, gli spazi commercia- li (in cui tutto è a pagamento) erano separati dagli pazi pubblici (in cui tutto è gratuito). Ormai, la sfera del consumo e la sfera del pubblico si sono fuse. A Londra, Oslo, Bergen o Milano, i passaggi pubblici «liberi» sono semplicemente scomparsi.
Due spazi che coabitano nello stesso ambiente
In alcuni casi, i due spazi coabitano. Nel primo trionfa un mondo artificiale dalle luci abbaglianti, dal design ricercato, con la sua massa di merci ben ordinate. Bianco accecante, giallo e rosso acceso dominano. Nel secondo, grigio verdastro, il passeggero, dopo esser stato condotto attraverso il primo, può infine sedersi, sempre se trova ancora una sedia: molte sono state eliminate per far posto a ristoranti e negozi, come all’aeroporto di Copenhagen. Nelle scomode zone di pre-imbarco non ci sono lustrini, perché per ora sono considerate «inutili»...
Questi cambiamenti preannunciano quelli di altri spazi pubblici ben più frequentati (solo il 10%-15% della popolazione europea infatti viaggia regolarmente in aereo): stazioni, centri città, metropolita- ne, ma anche strade e isolati. In Francia, la stazione Saint-Lazare si è trasformata in centro commerciale; a Bodø, nel centro della Norvegia, la strada principale è stata interamente privatizzata.