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Luigi Scano
2006. Tutela del paesaggio: imprecisioni e rischi
20 Giugno 2007
Scritti di Gigi Scano
Una puntuale rassegna per eddyburg degli equivoci, incomprensioni, errori e rischi a proposito del Codice del paesaggio, e sulle iniziative in Toscana, Friuli-VG ed Emilia-Romagna

Premessa

Il dibattito dipanatosi negli ultimi mesi a partire dal “caso Monticchiello”, meritoriamente denunciato da Alberto Asor Rosa, e proseguito con le altrettanto meritorie denunce, provenienti dai più diversi soggetti, di numerosissimi altri scempi paesaggistici intervenuti, o paventati e incombenti, e, quasi in parallelo, alimentato dalle notizie circa gli sforzi e i (provvisori? permanenti?) successi del Presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, e dei suoi alleati e collaboratori, istituzionali, politici e tecnici, nel tutelare almeno (per ora) gli strepitosi valori culturali della fascia costiera dell’isola, ha concorso a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica del Paese (anche in un’accezione vasta, a giudicare dalla tiratura, o dell’audience, rispettivamente degli organi di stampa e dei programmi radiofonici e televisivi che vi si sono dedicati) il tema della pianificazione paesaggistica, ovvero, più latamente, di un’attività pianificatoria che assuma come sua finalità centrale la tutela dell’”identità culturale” del territorio.

Per contro, era agevole riscontrare, in larga parte degli interventi che si succedevano, il ricorrere di svariate, e numerose, imprecisioni, nei riferimenti al quadro legislativo, dottrinario e giurisprudenziale che regola, e supporta, la politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio, e ciò anche, talvolta, anzi spesso, nelle prese di posizione e nelle proposte dei fautori della “tutela”, i quali invece, a mio parere, data la delicatezza dei temi trattati, e la tendenzialmente soverchiante potenza degli “avversari”, non si possono in alcun caso permettere di indulgere a formulare affermazioni imprecise.

Era altrettanto agevole riscontrare, compulsando le elaborazioni, e verificando gli intendimenti, della più gran parte delle regioni italiane (di norma rintracciabili nei relativi “siti”), e frequentando convegni e confronti promossi dai più svariati soggetti, un’orientamento diffuso volto a procedere, ancora una volta (anzi, ancor più che in precedenti similari occasioni), eludendo, in termini sostanziali, se non addirittura formali, l’obbligo di ottemperare ai dettati del “Codice dei beni culturali e del paesaggio", approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successivamente modificato e integrato, per quanto di interesse di questo scritto, con decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (in prosieguio per brevità denominato semplicemente “Codice”).

Mi ero di conseguenza accinto a redigere un elaborato che, simultaneamente, puntualizzasse (in termini adeguatamente precisi, quand’anche non totalmente esaustivi) il quadro normativo nazionale vigente in “materia” di tutela dei “beni paesaggistici”, e richiamasse l’attenzione su quelli che oggi sono, presumibilmente, i più incombenti rischi di sviamento della ripresa di una seria, efficace ed efficiente politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio.

Sono stato indotto ad accelerare il mio lavoro, e a (provvisoriamente, magari) concluderlo, dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis intitolato Un patto per la tutela del paesaggio su la Repubblica del 18 novembre 2006, e della postilla (di cui condivido pienamente i contenuti) che eddyburg ha fatto seguire alla sua riproduzione (entrambi qui). Persino nel citato articolo di Settis, infatti, ho riscontrato (come del resto già aveva fatto la predetta postilla) un certo numero di imprecisioni, che ritengo debbano essere chiosate (e corrette) con maggiore dovizia di particolari. Non nascondo di provare un certo imbarazzo nell’accingermi (anche) a “fare le bucce”, per usare un’espressione popolaresca, a un “gigante” come Salvatore Settis, del quale da anni leggo con ammirazione, e gratitudine per gli arricchimenti conoscitivi che ne ricavo, i libri, e gli interventi giornalistici, dapprima in il Manifesto e quindi in la Repubblica. Ma da quand’ero giovanissimo non ho mai saputo frenare l’audacia che mi portava, quand’ero certo delle mie cognizioni, e/o della bontà dei miei argomenti, a “correggere”, e se del caso a contestare, sommi “maestri”, e insigni leader. Dopo parecchi decenni, da un lato non posso certo dismettere tale viziaccio, da un altro lato constato che esso mi ha fruttato sempre il rispetto, spesso la stima, talvolta l’affetto, di coloro, tra quei personaggi, che il tempo abbia confermato essere stati, o essere, davvero “grandi”. Confido che il prosieguio di questo mio scritto non impedisca a Settis di rivolgermi anche soltanto il primo dei suddetti sentimenti.

La legge del 1939…

Non è fondato asserire che secondo la legge 29 giugno 1939, n.1497, “la tutela si esprime con atti generici che vincolano sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato”.

Nella relazione svolta dal Ministro dell'educazione nazionale, Giuseppe Bottai, per presentare alla Camera il disegno di legge recante “Protezione delle bellezze naturali” [1], si asserisce infatti che “i piani territoriali paesistici […] si collegano alla protezione delle bellezze d’insieme (paesistiche o panoramiche) e valgono a rivelare che cosa s'intenda per conservazione d'una bellezza panoramica o paesistica”. Infatti, si specifica, mentre “la conservazione d'una bellezza individua quasi si identifica con la sua invariabilità”, non si può né si deve pretendere “l'invariabilità d'una bellezza d'insieme, la quale è composta di molteplici elementi che reciprocamente si influenzano”, per cui “possono alcuni di questi elementi cangiare d'aspetto anche radicalmente senza che la bellezza del quadro naturale sia offuscata o deturpata”. Ma, si afferma, “quello che è essenziale alla conservazione d'una bellezza d'insieme è che le variazioni [...] siano in armonia con un piano preventivo concepito con un'unità di criteri razionali ed estetici. E questo preventivo piano […] è appunto il piano territoriale paesistico [...]; esso, sottraendo le modificazioni al capriccio del singolo che se anche voglia prestare omaggio alle esigenze estetiche non può ispirarsi a una veduta d’insieme soverchiatrice delle sue possibilità, fa sì che una bellezza paesistica o panoramica si conservi come essere vivente, ossia trasferendo nel mutabile o mutato suo volto i segni suoi caratteristici e cioè i lineamenti costitutivi della sua bellezza”.

Pare a me che il Ministro Bottai colga, e voglia esplicitare, l'assunto per cui può aversi efficace tutela dei valori riconoscibili in determinati elementi (o contesti di elementi) territoriali, solamente attraverso una pianificata definizione dei modi d'uso e delle trasformazioni in essi ammissibili, le une e gli altri dovendo essere coerenti con le loro specifiche caratteristiche essenziali e intrinseche, cioè con le "regole" dedotte da tali caratteristiche, al fine di non eccedere le capacità di fruizione e di modificazione tipiche e peculiari dell'elemento, o contesto di elementi, territoriale (o di omogenee loro categorie). Definizione pianificata, per l'appunto, cioè sottratta alla causale successione nel tempo di progetti di intervento ineluttabilmente angusti, in quanto parziali, nonché di altrettanto anguste, in quanto frammentarie, loro autorizzazioni.

Il fatto che, in tutto il periodo di tempo in cui le competenze relative alla formazione dei “piani territoriali paesistici” rimangono esclusivamente statali (dal 1939 al 1972), giungano a vigenza soltanto 14 piani, è certamente deplorevole, ma non inficia la ricchezza, la compiutezza e la bontà delle intenzioni e delle previsioni della legge 1497/1939.

Semmai, facendo un salto temporale, è il caso di rammentare un’innovazione sostanziale introdotta dal “Codice” [2]: quella per cui, relativamente ai beni paesaggistici individuati e “vincolati” con specifici provvedimenti amministrativi [3], sia le “proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico” che le “dichiarazioni di notevole interesse pubblico” devono contenere “una specifica disciplina di tutela, nonché l'eventuale indicazione di interventi di valorizzazione degli immobili e delle aree cui si riferiscono, che vanno a costituire parte integrante del piano paesaggistico da approvare o modificare”.

…e gli eventi successivi

Negli esiti dei lavori delle Commissioni (parlamentari miste, o ministeriali e tecniche) che, nel corso degli anni ’60 del secolo scorso, si succedono nell’impegno di proporre una riforma delle leggi di tutela della fine dei precedenti anni ’30, si può agevolmente rintracciare un indubbio ed esplicito orientamento a ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni culturali (comprensivi di quelli paesaggistici) nell'ambito dell'ordinaria pianificazione territoriale e urbanistica, ma è altrettanto certo e palese il tentativo di disegnare dei percorsi logici, metodologici e procedimentali che rispettino, pur puntando a ricondurla all'unitarietà e alle coerenze del processo di piano, la concorrenza dei poteri locali e statuali in vista della finalità della tutela dei predetti beni, sulla base dell'assunto per cui, essendo essi patrimonio dell'intera collettività nazionale, non sono attribuibili alla piena ed esclusiva disponibilità di istituzioni rappresentative soltanto di parti di tale collettività.

I formulatori e proponenti di tale impostazione non avrebbero mai accettato che essa fosse disarticolata delle sue due essenziali componenti. Ciò invece avviene nell’evoluzione successiva dell’ordinamento legislativo in argomento, per essere ripresa soltanto in parte dal decreto legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, e quindi più pienamente recuperata dal “Codice”. Quest’ ultimo peraltro sollecita le regioni a provvedere alla formazione della pianificazione regionale e subregionale, per quanto attinente alla tutela dell’”identità culturale” del territorio, d’intesa con le amministrazioni statali specialisticamente competenti, ma sanziona l’eventuale opzione regionale di procedere in assenza di tale intesa soltanto con il mantenimento in essere di forti limitazioni alla possibilità regionale di sub-delegare agli enti locali la “gestione” dei beni “vincolati” (cioè, sostanzialmente, il rilascio delle speciali autorizzazioni a operare modificazioni, fisiche e funzionali, interessanti tali beni), nonché con la preclusione della possibilità di sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento delle predette speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti (comunali) abilitativi delle trasformazioni.

Il “progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle regioni” che lamenta Settis, infatti, non inizia nel 1977, ma cinque anni prima, quando il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n.8, con il primo comma dell'articolo 1 trasferisce alle Regioni a statuto ordinario “le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica”, e, con il successivo quarto comma, precisa che “il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici”.

Il terzo comma dello stesso articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 8/1972 precisa che “il trasferimento delle funzioni amministrative [...] riguarda anche le attribuzioni esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n.765”. Col che vengono soppresse le disposizioni che prevedevano l'attiva partecipazione dell'amministrazione statale preposta alla tutela dei valori culturali e paesaggistici nelle procedure di definizione degli strumenti di pianificazione.

Il successivo decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, detta che “sono delegate alle regioni le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato per la protezione delle bellezze naturali per quanto attiene alla loro individuazione, alla loro tutela e alle relative sanzioni” [4], con particolare riferimento al rilascio delle speciali autorizzazioni di cui s’è detto, e con facoltà, piena e incondizionata, delle stesse regioni, di sub-delegare l’esercizio di tali funzioni ai soggetti che esse ritenessero più opportuni.

E non è esatto asserire, come fa Settis, che viene mantenuto “un finale giudizio di conformità da parte delle soprintendenze”. Nel 1977, infatti, viene piuttosto mantenuto “il potere del Ministro per i beni culturali e ambientali, sentito il Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvati dalle regioni” [5], mentre soltanto con la legge 431/1985 si introduce la possibilità, per il Ministro per i beni culturali e ambientali, di “annullare, con provvedimento motivato, l'autorizzazione regionale [o subregionale, nei casi di sub-delega] entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa comunicazione” [6]. La giurisprudenza, negli anni successivi, si attesta sull’ammissibilità di tali “annullamenti” soltanto per regioni di legittimità, e solamente la riformulazione della disposizione operata dal “Codice” [7] si deve ritenere li renda possibili anche per ragioni di merito.

I prescritti connotati della pianificazione paesaggistica…

Secondo il "Codice”, la dottrina interpretativa in merito sinora conosciuta, e le pronunce della Corte costituzionale, il "piano paesaggistico" (per esso intendendosi sia la figura pianificatoria così denominata e tipizzata che il "piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici") deve essere formato dalla regione e riguardare “l'intero territorio regionale” [8]. Esso, conseguentemente, deve disciplinare sia gli immobili "vincolati" (a seguito di specifici provvedimenti amministrativi, ovvero ope legis) che ogni altro immobile, ivi compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate [9].

Il piano deve riferire le sue disposizioni sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) [10] che ad ambiti (definiti con criteri olistici, in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche pregresse e previste, e soprattutto in relazione all'intensità specifica delle interrelazioni tra gli elementi territoriali in essi ricadenti) [11]. Tutte le categorie di elementi territoriali, nonché tutti gli ambiti, sono disciplinati in ragione delle loro caratteristiche intrinseche, non in ragione di inesistenti "scale di valori".

Le disposizioni del piano possono avere efficacia sia immediatamente precettiva e direttamente operativa (presumibilmente, buona parte di quelle riferite agli elementi territoriali) che efficacia di direttive necessitanti, per trovare applicazione, della mediazione di uno strumento di pianificazione sottordinato (presumibilmente, la più gran parte di quelle riferite agli ambiti) [12]. In ogni caso, tutte le disposizioni del piano sono tassativamente vincolanti per la pianificazione sottordinata (provinciale e comunale, nonché di qualsiasi altro soggetto, ivi compresi gli enti di gestione dei parchi e delle altre aree protette) [13].

…e gli effetti derivanti dalla sua definizione

Ai sensi del “Codice” le regioni che abbiano provveduto a definire la pianificazione paesaggistica a norma della legislazione in argomento previgente sono tenute a verificarne, entro il 1° maggio 2008, la conformità alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, e a provvedere agli adeguamenti eventualmente necessari [14].

Ed è stabilito che, decorso inutilmente il predetto termine, il Ministero per i beni e le attività culturali provveda in via sostitutiva [15]. Ma non è specificato se, e attraverso quali modi e procedimenti, il suddetto Ministero possa verificare la conformità degli atti regionali di formazione degli strumenti di pianificazione paesaggistica, ovvero del loro adeguamento, ai relativi precetti del “Codice”.

E’ invece inconfutabile la piena discrezionalità, sacrosantamente lamentata da Salvatore Settis, di ogni regione circa il procedere, nella formazione del "piano paesaggistico", ovvero nel loro adeguamento, in base a un’intesa di “copianificazione” con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, oppure del tutto autonomamente [16].

Per contro, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con gli appena sopra citati ministeri è subordinata la possibilità che il medesimo "piano paesaggistico" possa decidere, in buona sostanza, la già accennata sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici” [17], o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi (comunali) delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata, fermo restando che tale decisione può iniziare ad avere effetto soltanto a decorrere dall’adeguamento alla pianificazione paesaggistica di quella comunale [18].

Analogamente, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con i citati ministeri è subordinata la possibilità che le regioni sub-deleghino le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” anche ai comuni (anziché soltanto, eventualmente, alle province o “a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all’uopo definite”), fermo restando che, in tale caso, il parere (endoprocedimentale) della competente soprintendenza resterebbe vincolante (nelle fattispeci, si deve ritenere, in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto) [19].

Infatti, a norma del “Codice”, fino al dianzi ricordato termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, l’ottenimento di speciali autorizzazioni permane necessario per l’effettuazione di tutte le trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, restando il relativo procedimento sostanzialmente analogo a quello definito dalla legislazione previgente, cioè, in estrema sintesi, essendo il rilascio competenza della regione, ovvero del soggetto istituzionale al quale la regione l’abbia sub-delegato, ferma restando la facoltà della competente soprintendenza di “annullare” l’autorizzazione rilasciata, per ragioni, come si è già sostenuto, non soltanto di legittimità, ma anche di merito [20].

Successivamente al termine temporale, ovvero alle date di accadimento degli eventi, appena sopra indicati, le speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sono, sempre in estrema sintesi, parimenti rilasciate dalla regione, ovvero dal soggetto istituzionale al quale la regione abbia sub-delegata la relativa competenza, previa acquisizione del parere della competente soprintendenza, il quale è, ordinariamente, vincolante.

Come già s’è detto, la regione può sub-delegare ai comuni le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” soltanto qualora abbia definito il "piano paesaggistico" d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, fermo restando che, comunque, in tale caso, il parere della competente soprintendenza resterebbe vincolante (ma soltanto, a mio parere, nelle fattispeci in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto dal "piano paesaggistico" formato attraverso la suddetta intesa) [21].

Non è quindi vero che in forza del “Codice”, come afferma Settis, “le soprintendenze perdono il potere di annullare a valle le autorizzazioni”, e “possono solo partecipare, a monte, alla redazione dei piani paesaggistici”. Com’è stato puntualmente ricostruito ed esposto, infatti, le soprintendenze mantengono il potere di annullare le speciali autorizzazioni, potendo finalmente farlo anche per ragioni di merito, fino al 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami del “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, dopodichè acquisiscono il potere di esprimere un parere vincolante relativamente al rilascio, o meno, di tali speciali autorizzazioni, salvo che per quegli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” ope legis (ovvero, a mio parere, dalla stessa pianificazione paesaggistica) relativamente ai quali la pianificazione paesaggistica regionale, formata d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, abbia deciso che la tutela sia adeguatamente garantita dal rispetto delle regole fissate dalla stessa pianificazione paesaggistica, e comunque non prima che a essa si sia adeguata l’ordinaria pianificazione provinciale, e quella comunale.

Resta da approfondire il problema se la disposizione del “Codice” relativa ai limiti della sub-delegabilità, da parte delle regioni, delle funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sia immediatamente precettiva, e abrogativa delle previgenti disposizioni legislative statali in argomento, in base al principio della successione delle disposizioni di legge nel tempo. Si dovrebbe propendere per la risposta affermativa riflettendo sulla natura della disposizione, suscettibile di immediata applicabilità, nei limiti del ripristino della competenza al rilascio delle predette speciali autorizzazioni in capo alle regioni, e ascrivibile (secondo gli insegnamenti ricavabili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale) alla categoria dei precetti dettati dal “Codice” con riferimento alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione come riscritto per effetto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), e non alla categoria dei precetti dettati dal medesimo “Codice” con riferimento alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del novellato articolo 117 della Costituzione). Si dovrebbe, invece, propendere per la risposta negativa ponendo mente alla perentorietà dell’affermazione per cui fino al termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, trova applicazione la disciplina dettata “in via transitoria” dianzi sunteggiata [22].

Va considerato che, qualora la risposta al suindicato quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe l’illegittimità di tutte le speciali autorizzazioni rilasciate dai comuni dopo l’entrata in vigore della predetta disposizione del “Codice” [23].

Venendo alla Toscana…

Trattando di tutela del paesaggio, ben comprensibilmente Salvatore Settis finisce con il rammentare, nel suo intervento giornalistico, il “caso Monticchiello” e il dibattito sulla tutela paesaggistica in Toscana. Dibattito che, per potere “volare alto” (si è in molti a pensarlo), senza precludere a qualsiasi soggetto a cui spetti istituzionalmente, o vi abbia interesse, di approfondire ogni aspetto dello specifico “caso”, deve affrontare il nodo dei contenuti e dell’efficacia della futura definenda pianificazione (regionale e subregionale) toscana, e della sua funzionalità all’obiettivo della tutela dell’”identità culturale” del territorio regionale (quanto alla tutela dell’”integrità fisica” se ne parla, magari, un’altra volta, presumibilmente in termini, al di là degli specialismi, non troppo dissimili).

Va detto innanzitutto che il dianzi sunteggiato insieme di precetti del “Codice” (i quali, secondo la Corte costituzionale, costituiscono inderogabili “principi fondamentali” della legislazione dello Stato, in materia – concorrente di Stato e regioni – di “governo del territorio”) relativo ai contenuti e alle efficacie del piano non avrebbe potuto, né potrebbe, trovare traduzione operativa nell’attività pianificatoria della Regione Toscana, e, susseguentemente, in quella, di adeguamento alla prima, degli enti locali subregionali, in assenza di una rivisitazione, magari non estesa, ma certamente profonda, della vigente legge regionale per il governo del territorio, la legge regionale 3 gennaio 2005, n.1.

Tale legge regionale, innanzitutto, definisce in termini alquanto diversi da quelli desumibili dagli obiettivi e dalle intenzionalità del “Codice” i contenuti dello strumento di pianificazione di competenza regionale, il Piano di indirizzo territoriale (e ciò al di là di talune stucchevoli trascrizioni letterali di parti di norme dello stesso [24]). E soprattutto ne determina in modo tutt’affatto diverso le efficacie. Secondo la suddetta legge regionale, infatti, gli strumenti di pianificazione sovraccomunali (nonché il piano strutturale comunale) non hanno, sostanzialmente, mai efficacia immediatamente precettiva, e direttamente operativa. Né tampoco efficacia realmente cogente nei confronti della pianificazione sottordinata, secondo quel “modello rigidamente gerarchico” che, secondo la Corte costituzionale, costituisce un “principio fondamentale” in materia di “governo del territorio”, quantomeno per quanto afferisce ai contenuti della pianificazione riguardanti la tutela dell’”identità culturale” del territorio stesso. Ciò in quanto la legge regionale toscana 1/2005 è interamente e rigidamente improntata all’assunto per cui, a seguito dell’entrata in vigore del novellato Titolo V della Costituzione, comuni, province, città metropolitane, regioni, e Stato sarebbero soggetti “equiordinati”, e altrettanto “equiordinati” sarebbero gli strumenti di pianificazione di competenza di tali livelli e soggetti istituzionali. Con la conseguenza che il rimedio esperibile nei casi di strumenti di pianificazione comunali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione della provincia territorialmente competente (o dalla pianificazione regionale), ovvero di strumenti di pianificazione provinciali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione regionale, consiste nel rivolgersi a una “conferenza paritetica interistituzionale”, alle cui pronunce il soggetto pianificatore responsabile della formazione degli strumenti difformi può peraltro non adeguarsi, residuando al soggetto responsabile dello strumento di pianificazione contraddetto la potestà di approvare “specifiche misure di salvaguardia” che comportano la “nullità di qualsiasi atto con esse contrastanti”.

A ogni buon conto, fattualmente, né il documento preliminare al Piano di indirizzo territoriale, divulgato dall’assessore regionale competente, né gli elaborati, in corso di perfezionamento, destinati a costituire tale piano, per quanto attendibilmente oggi li si conosca, configurano uno strumento regionale di pianificazione che, per quanto attiene, quantomeno, i suoi contenuti di tutela dell’”identità culturale” del territorio, abbia una sia pur vaga parentela con il "piano paesaggistico" il cui profilo si è dianzi voluto desumere dai precetti del “Codice”. Essi configurano, piuttosto, per usare la splendida espressione della postilla che eddyburg ha fatto seguire alla riproduzione dell’articolo di Salvatore Settis, un piano di chiacchiere.

La cosa è, del resto, sostanzialmente, seppur nebulosamente, ammessa e riconosciuta da uno degli elaborati fondamentali del medesimo Piano di indirizzo territoriale, laddove, all’articolo 37 delle norme, si afferma che “la Regione provvede a implementare la disciplina paesaggistica contenuta nel presente statuto, attraverso accordi di pianificazione e relative intese con il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, con i contenuti di maggior dettaglio propri degli strumenti di pianificazione provinciali e comunali” [25].

Poiché dianzi si sono trattati anche i profili “gestionali” della “tutela” dei “beni paesaggistici”, non si può mancare di segnalare che la Regione Toscana ha preteso di definire il procedimento di rilascio delle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati”, e di attribuire la relativa competenza ai comuni, oltre che agli enti-parco, totalmente a prescindere dalle condizioni alle quali il “Codice” subordina tali scelte [26]. La cosa non ha costituito, a suo tempo, e nei termini, oggetto di ricorso governativo presso la Corte costituzionale, così come altri profili della legge regionale toscana 1/2005 che sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi. Il che non toglie che la questione possa essere sollevata, in via incidentale, da chiunque vi abbia interesse.

…e a qualche altra regione

La Regione Friuli – Venezia Giulia, che già, con la legge 13 dicembre 2005, n.30, recante “norme in materia di Piano Territoriale Regionale”, aveva prefigurato, in termini addirittura eversivi del proprio precedente ordinamento in materia di “governo del territorio”, la formazione di un piano di chiacchiere, si sta accingendo a trasfondere, sostanzialmente, gli stessi precetti in una nuova legge organica, trasmessa dalla Giunta all’esame del Consiglio, pomposamente denominata “Riforma dell’urbanistica e disciplina dell’attività edilizia e del paesaggio”.

Si tenga presente che, pur rientrando la Regione Friuli – Venezia Giulia tra quelle “a statuto speciale”, a norma del suo specifico statuto, in materia di “tutela del paesaggio” essa ha soltanto “facoltà di adeguare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e di attuazione” [27] (mentre in materia di urbanistica “ha potestà legislativa […] in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato” [28]). Ciononostante il disegno di legge, sottoposto al Consiglio regionale, dianzi indicato, non si esime dal proclamare, a ogni pie’ sospinto, e del tutto infondatamente (eccettuate forse, in parte, le disposizioni afferenti alla “gestione” delle “tutele”, meno clamorosamente difformi di quelle toscane) la sua perfetta aderenza ai dettati del “Codice”.

Su questi bei fondamenti, direbbe il Manzoni, la Regione Friuli – Venezia Giulia ha predisposto, e sta facendo circolare, un documento preliminare al Piano Territoriale Regionale, zeppo di previsioni di linee viarie e ferroviarie, di porti, interporti e altre “pesanti” attrezzature, di elettrodotti, e via infrastrutturando, e che, per quel che riguarda il paesaggio e la sua tutela, non contiene molto più che l’intenzione di “offrire sostegno alla zootecnia e al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini, che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a fare paesaggio)”. Ed è con riferimento a un siffatto documento preliminare che la Regione Friuli – Venezia Giulia ha proposto al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio di stipulare un’ intesa interistituzionale per “l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici” [29].

Nella Regione Emilia – Romagna, che a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1985 aveva formato uno dei due (in tutta l’Italia) strumenti di pianificazione paesaggistica regionali pregnanti, incisivi, e, in una parola, degni dell’appena usata denominazione, e ciò a norma della legislazione regionale della fine degli anni ’70 del secolo scorso [30], e che successivamente (secondo una prassi ricorrente nell’empirismo politico-amministrativo emiliano-romagnolo) aveva modellato i profili attinenti alla tutela paesaggistica nella pianificazione (innanzitutto regionale) della nuova legge organica in materia di “governo del territorio” [31] sull’esperienza pianificatoria compiuta e (si doveva supporre) consolidata, è stato avviato ai primi di ottobre l’esame di un disegno di legge di revisione della legislazione regionale che, per quel che riguarda la pianificazione regionale in genere, e quella volta alla tutela paesaggistica in particolare, configura anch’esso piani di chiacchiere.

Si potrebbe proseguire esaminando, più o meno dettagliatamente, sia le normative regionali, vigenti e/o in esame, afferenti la pianificata definizione delle tutele dell’”identità culturale” del territorio, nonché la gestione della tutela dei “beni paesaggistici”, sia le concrete attività pianificatorie pregresse o in essere, con riferimento a molte altre regioni italiane, o a tutte. Ma questo scritto ha già superato di molto i limiti quantitativi propri di un elaborato del suo tipo. Mi si passi, quindi, l’apoditticità dell’asserzione (peraltro agevolmente verificabile, e, se ne si rinvengono i presupposti, falsificabile) con cui termino l’esposizione su questo tema: nessuna regione italiana dispone di un apparato legislativo pienamente aderente ai dettami del “Codice”, né con riferimento alla pianificazione paesaggistica, né con riferimento alla gestione della tutela dei “beni paesaggistici”; molti di tali apparati legislativi presentano, soprattutto sotto il primo profilo, distonie impressionanti; tali distonie verrebbero, spesso, rilevantissimamente accentuate dalle proposte, presentemente all’esame, di integrazione e modificazione degli apparati legislativi precedentemente, o tuttora, vigenti; le non numerose iniziative, in essere, di pianificazione regionale, o di aggiornamento di tale pianificazione, non manifestano, ictu oculi, pressoché alcuna parentela con la configurazione della pianificazione paesaggistica regionale ricavabile dalla lettera e dallo spirito del “Codice”.

Conclusione provvisoria ma preoccupata

Essendo, come credo, il quadro complessivo che ho appena delineato del tutto rispondente alla situazione reale in essere, se ne deve dedurre che non v’è alcuna prospettiva che entro il termine del 1° maggio 2008, e meno che mai antecedentemente a esso, si completi anche soltanto una operazione di pianificazione paesaggistica regionale conforme ai dettati del “Codice”, e cioè efficacemente capace di avviare una pianificata definizione delle misure di tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio regionale.

E si rammenti che fino a quando ogni regione non abbia definito un “piano paesistico” conforme ai dettami del “Codice”, e per di più formato d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, la medesima regione non potrà né sub-delegare ai comuni (ove lo voglia fare) le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, né tantomeno decidere la sottrazione di larga parte degli elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata (realizzando così una straordinaria, colossale semplificazione, consistente anche in un rilevantissimo snellimento temporale, dei procedimenti ai quali debbono, giustamente, sottostare i cittadini promotori di trasformazioni di immobili).

Sarà sgradevole, magari drammatico, ma certamente non tragico: non sarebbe, infatti, spazzata via la ragionevole speranza che si addivenga, in un futuro ancora una volta un po’ differito, a porre in essere un generalizzato sistema di efficace ed efficiente tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio nazionale.

Ciò che preoccupa, veramente, è l’orientamento, formalizzato da una sola regione (pare, per ora), ma presente in molte altre (e, ove alle prime andasse a buon fine, di certo, un domani, in tutte), a proporre (pretendere?) la sottoscrizione di “intese interistituzionali” al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, per la formazione congiunta di piani di chiacchiere.

E ciò che angoscia è il pensare ( male, certamente, con il che si fa peccato, ma come diceva quel politico italiano “di lungo corso”, ci s’azzecca) sia possibile che i suddetti ministeri si acconcino a tali sottoscrizioni, vuoi perché consapevoli dello stato disastrato dei propri apparati tecnici, oggi del tutto inadeguati alla prospettiva di partecipare attivamente e incisivamente a una grandiosa operazione di ripianificazione dell’intero territorio nazionale, e dell’infame esiguità delle risorse messe a disposizione, vuoi perché incapaci di resistere alle lusinghe, o alle pressioni, dei vertici delle regioni, nella stragrande maggioranza appartenenti allo stesso schieramento politico che esprime l’attuale esecutivo centrale (e non potendo di certo, poi, negare l’identica acquiescenza alle eventuali pretese dei pochi vertici regionali appartenenti allo schieramento avverso).

In quest’ultimo caso sarebbe definitivamente uccisa anche la speranza, che ha animato per più di un settantennio alcune delle migliori menti (e dei più generosi cuori) di questo Paese, di vedere, un giorno, tutelata la sua bellezza.

Allora si moltiplicherebbero gli “schifi” di Monticchiello, e le colate di cemento sulla riva del lago Inferiore di Mantova, e si riprodurrebbero i “mostri” di Fuenti, per non dire dell’ auditorium di Ravello, e resterebbero e si riproporrebbero i complessi di Punta Perotti e i “Villaggi Coppola”, e via enumerando teratologie varie.

Ma consoliamoci: in qualche quadrato residuo di prato, tra un capannone e l’altro, pascolerebbero ancora parecchie carinissime vaciutis furlanis.

[1] Camera dei fasci e delle corporazioni - Documenti - Disegni di legge e Relazioni -XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - disegno di legge n. 221.

Il dibattito alla Camera è riportato in: Camera dei fasci e delle corporazioni -Commissioni legislative - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 22 maggio 1939 – XVII. Il dibattito al Senato è riportato in: Senato del Regno - Commissione educazione nazionale e cultura popolare - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 5 giugno 1939 - XVII.

[2] Con il comma 2 dell’articolo 138, e con il comma 2 dell’articolo 140.

[3] Secondo i procedimenti di cui agli articoli da 136 a 141.

[4] Articolo 82, primo comma.

[5] Articolo 82, primo comma, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977.

[6] Con il nono comma dell’articolo 82 del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977, aggiunto per effetto dell’articolo 1 della legge 431/1985.

[7] Con il comma 3 dell’articolo 159, ai sensi del quale “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […] può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione”.

[8] Articolo 135, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[9] Articolo 143, comma 1, lettera g), del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[10] Articolo 135, comma 3, lettera a), articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[11] Articolo 135, comma 2 e passim, articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[12] Articolo 142, comma 2, articolo 145, commi 3, 4 e 5, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[13] Articolo 145, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[14] Articolo 156, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio". Nulla peraltro è detto relativamente alle regioni che non abbiano affatto adempiuto agli obblighi pianificatori con finalità di tutela del paesaggio posti dalla previgente legislazione.

[15]Ibidem.

[16] Articolo 143, comma 3, articolo 156, comma 4, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[17]Per essere precisi, limitatamente ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi.

[18] Articolo 143, commi 5 e 6, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[19] Articolo 146, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[20] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[21] Articolo 146, con particolare riferimento ai commi 3 e 8, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[22] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[23] Per il vero, introdotta per effetto dell’articolo 16 del decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157.

[24] Si veda, per esempio, il comma 3 dell’articolo 33 della legge regionale 1/2005.

[25] Il riferimento è agli elaborati sottoposti dall’assessorato regionale competente al cosiddetto “tavolo di concertazione”, ed è quindi suscettibile di successive modificazioni.

[26] Articoli 87, 88 e 89 della legge regionale toscana 1/2005.

[27] Articolo 6.

[28] Articolo 4.

[29] Deliberazione della Giunta regionale del Friuli – Venezia Giulia del 28 luglio 2006, n.1873.

[30] Per la precisione, della legge regionale 7 dicembre 1978, n.47.

[31] Legge regionale 24 marzo 2000, n.20.

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