Dato per scontato che una personalità come quella dell'autore intervenga su questo aspetto della “questione periferie”, lascia sgomenti però l'assenza di contributi di tipo scientifico o politico esterni al progetto spaziale. Corriere della Sera, 5 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Gli scontri nelle periferie delle città italiane hanno fatto riemergere alla fine del 2014 la questione sociale generale della vita nelle periferie. È certo una questione che nelle forme che conosciamo ha inizio soltanto duecento anni or sono. Prima dell’età della meccanizzazione, non senza ragione, esse si definivano borghi o sobborghi o banlieues; e dopo invece slums, o bidonvilles nei Paesi in via di sviluppo. La questione delle periferie è stata oggetto (nelle vicende della società europea) di dibattiti, studi e proposte molto articolate e, da parte dell’architettura, di molte proposte strutturali, come le garden cities e le new towns. E, prima ancora, delle utopie di Fourier oppure in quanto «ripresa» del modello insediativo rurale (come nel Movimento Moderno) o ancora in quanto «risposta» razionale e moralmente doverosa dell’abitazione operaia: il tutto secondo diverse interpretazioni degli ideali socialdemocratici del welfare state, ma pur sempre in quanto «risposta» di soccorso urgente di un problema abitativo a basso costo di costruzione, di terreno e di servizi. Tutto questo anche con progressivi interventi di miglioramento delle loro connessioni con le parti centrali e storiche della città accanto alla quale erano collocate e la cui espansione le avrebbe poi travolte e riassorbite in quanto categoria insediativa e sociale diversa e separata.
Nello stato di incertezze culturali, di forte scarsità economica e di richiesta di attenzione nell’aumento della povertà e delle emergenze sociali dei nostri ultimi anni, mi rendo conto, forse è possibile rispondere solo con l’idea di «rammendo» e di «aggiustamento»; tuttavia questo non dovrebbe far dimenticare la necessità di indirizzare le opere nuove o di modificazione verso una concezione strutturale che deve proporre una discussione di fondo sulla nozione stessa di periferia, anche in relazione alla tensione in aumento verso l’abitare urbano e, quindi, verso un’organizzazione nuova dell’espansione delle città. Le città, almeno quelle europee, grandi e piccole, di fondazione, o come ingrandimento di un villaggio, come polis o come «città coloniale», con tutte le loro stratificazioni hanno conservato nella storia (pur con le loro modificazioni, rifacimenti, ristrutturazioni, aumenti e diminuzioni di popolazione) il carattere irrinunciabile della loro mescolanza sociale e funzionale e della presenza di servizi essenziali. Ma anche di monumenti di riferimento all’identità della città stessa e della sua cultura delle sue parti.
Nonostante le rilevanti differenze della vita collettiva e singolare dei nostri anni, l’espansione delle tecnologie e delle comunicazioni (e nonostante la presa di coscienza della globalità e delle differenze culturali dell’abitare del nostro intero pianeta) il fatto urbano deve offrire ovunque il proprio carattere fondamentale di mescolanza sociale, di lavoro, di cultura e di servizi che caratterizza da sempre l’idea di città: contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di gated community di poveri, di ricchi o di diversi. Questo non significa negare il carattere dei quartieri che costituiscono l’insieme urbano ognuno dei quali nasce in una particolare occasione economica e di costume storico, con regole insediative, densità, eccezioni e principi diversi di costruzione delle forme architettoniche, e degli spazi aperti. Quindi anche il «rammendo», l’emergenza, il soccorso dovuto, non dovrebbero mai dimenticare l’obbiettivo di modificazione strutturale di qualunque parte urbana costituito dalla coltivazione progressiva della mescolanza funzionale, sociale, di lavoro. Ma anche della presenza di elementi eccezionali (un’università, un teatro, un museo, ecc.) a servizio dell’intera città che favoriscano l’interscambio necessario delle parti alla costituzione dell’identità urbana.
postilla
Per chiarire forse meglio il senso di questo articolo, il suo inserirsi organico in un filone di dibattito sostanzialmente architettonico e progettuale (quindi parziale) sul tema periferie, basta ripercorrere il modo in cui si citano i riferimenti: le città giardino sia nella versione originaria che nello sviluppo novecentesco della new town, o prima ancora alcuni portati spaziali delle utopie classiche ottocentesche, sono riproposti coerentemente nell'interpretazione dello spazio fisico mediata dagli architetti. Tutto bene, se non fosse che, come praticamente da sempre provano a ricordare tanti, tantissimi quanto inascoltati critici di questo approccio, si confonde non solo la parte col tutto, ma si ribalta per così dire l'iceberg logico, ponendo gli aspetti spaziali alla base di tutto quanto. Mentre invece, come ben sanno ad esempio gli studiosi del movimento legato a Howard, la centralità dello strumento città giardino nella promozione del “sentiero pacifico verso la riforma sociale” finisce già da subito per schivare il punto centrale, ovvero quella riforma. La stessa cosa vale per ogni contenitore fisico, che è un prodotto delle idee di giustizia e progresso, al massimo uno strumento adeguato per perseguirle, non certo l'unico e altrettanto certamente non quello centrale e indispensabile. E concludendo questa nota di postilla al tempo stesso troppo lunga e troppo breve: possibile che le discipline storiche, sociali, politiche, nulla abbiano da dire se non accodarsi a questa o quella cordata di progettisti, o rivendicando una fettina di visibilità e prestigio, nel dibattito sulle periferie aperto sinora solo fra architetti? Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale (f.b.)
Riferimenti
Alle periferie eddyburg ha riservato molta attenzione. Si vedano, tra l'altro, i materiali raccolti nella cartella Periferie.