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Cosa succede fuori città
28 Maggio 2017
Periferie
«Dalla Brexit ai voti per Trump e Le Pen: radiografia di un mondo diviso tra chi vive nei grandi centri e chi si sente escluso».  Articoli di Marc Augé , Marino Niola e Joseph Rykwert, Carlo Olmo, Ross Douthat, Fabrice Lardreau, Marco Belpoliti, Richard Burnett. la Repubblica, Robinson, 28 maggio 2017 (c.m.c) NON SENTIRSI AL CENTRO di Marc Augé
«Dalla Brexit ai voti per Trump e Le Pen: radiografia di un mondo diviso tra chi vive nei grandi centri e chi si sente escluso».  Articoli di Marc Augé , Marino Niola e Joseph Rykwert, Carlo Olmo, Ross Douthat, Fabrice Lardreau, Marco Belpoliti, Richard Burnett. la Repubblica, Robinson, 28 maggio 2017 (c.m.c)

NON SENTIRSI AL CENTRO

di Marc Augé
«Il mondo diventa una città globale e l’accesso non è uguale per tutti. Ecco perché la vera divisione non è geografica: è tra i privilegiati e gli esclusi»

Oggi usiamo i termini“ CENTRO” E “ PERIFERIA” sia per parlare della città che per riferirci al mondo. In entrambi i casi, questi termini sono estremamente problematici. In relazione alla città, nella sua accezione sociale, la periferia può occupare delle parti del “ centro” e, nello stesso tempo, vediamo che, per quanto riguarda il mondo, compaiono dei nuovi “ centri”. Parallelamente, è spesso nelle “ periferie” urbane che si concentrano delle iniziative culturali ed è lì che vanno a risiedere persone che appartengono alla borghesia benestante. Inoltre, bisogna considerare quella forma di privatizzazione degli spazi urbani da parte delle élite che avviene quando queste si chiudono in cittadelle protette o in quartieri separati. E ancora: da un lato aumentano gli spazi di consumo, di circolazione, di comunicazione, dall’altro non tutti possono usufruirne allo stesso modo.

Per questo la definizione di “centro” e “periferia” è sempre più complessa. Politicamente è stata utilizzata in questo ultimo anno per spiegare la vittoria del “Leave” nella Brexit, il successo di Trump e i milioni di voti a Marine Le Pen: siamo colpiti dal fatto che, in questi tre casi, sono le masse popolari quelle che si sono espresse. Proprio per questo si potrebbe ancora fare riferimento allo schema proposto da Paul Virilio tra il globale che rappresenta l’interno del sistema e il locale che è l’esterno: potremmo dire che è l’esterno del sistema a essersi espresso, il locale che protesta contro il sistema globale votando contro le “élite”.

Per tutte queste ragioni oggi sarebbe meglio evitare un linguaggio unicamente “spaziale” o “geografico” e parlare piuttosto di privilegiati ed esclusi, perché sono categorie che si lasciano scomporre: siamo più o meno privilegiati o più o meno esclusi. In questo senso gli esclusi sono poveri in un mondo che celebra la ricchezza: è l’immagine della città nel suo centro glorioso che nutre l’opposizione città/non città.

Non dobbiamo dimenticarci che la grande città è stata il luogo delle utopie ( per esempio, Le Corbusier) e rimane tale nella misura in cui l’intero pianeta si urbanizza. L’ideale però si è scontrato con la realtà e con le incapacità: la crescita demografica ha condannato i progettisti urbani all’improvvisazione e le politiche ( o le non politiche) sociali hanno lasciato che si creassero delle zone di esclusione. Le città europee hanno generalmente un passato urbano monumentale molto ricco e non hanno mai osato liberarsene. I grattacieli parigini non hanno la bellezza e la forza di quelli di New York o Chicago. Gli esperimenti architettonici più innovativi non si realizzano in Europa, ma in Asia o in Medio Oriente.

Tra un secolo o due il mondo sarà diventato come una sola grande città. Per questo ci serve la definizione di città globale: il pianeta si urbanizza molto rapidamente e i pannelli che consultiamo negli aeroporti evocano sempre più quelli delle stazioni ferroviarie o perfino della metropolitana. Per i privilegiati questo è già accaduto: il mondo è un luogo dove si orientano bene e lo considerano come una città in scala planetaria. Ma non tutti hanno lo stesso accesso alle cose. Dunque da un lato si produce omologazione ma dall’altro diversità. Ed è questo a produrre le contraddizioni che stiamo vivendo.

La sfida che dobbiamo affrontare è proprio questa: il mondo si unirà solo se si democratizza nello stesso momento in cui si urbanizza. Ma il mondo si urbanizza riducendo le diseguaglianze. La storia ci mette il suo tempo, ma progressivamente riguarderà tutti gli esseri umani urbanizzati. Il senso della cosa comune non si è perso, ma deve allargarsi. Nel dirlo, so che sto considerando una scala temporale lunga: forse alcuni secoli, ma la storia corre più in fretta!

La METAFORA
DEL GRATTACIELO

di Marino Niola e Joseph Rykwert

«Lloyd Wright ne sognava uno alto un miglio. A Jedda sarà “solo” di mille metri La corsa a costruire i giganti urbani, simbolo dello squilibrio»

Una città non è mai una mera realtà fisica. È sempre una forma simbolica che incarna la visione del mondo di chi l’ha costruita nel tempo e di chi continua incessantemente a ricostruirla. Molte città antiche nascevano a immagine di un ordine celeste che veniva tradotto in disegno politico-religioso. Le metropoli contemporanee, invece, sono l’immagine spaziale della speculazione finanziaria, il business che prende forma urbana. Come dire che gli edifici sparati verso il cielo dalle archistar traducono in edilizia il sogno della crescita infinita.

Già la prima archistar moderna, Frank Lloyd Wright, proponeva nel lontano 1957, un grattacielo alto un miglio, la bellezza di 1600 metri. Il solo disegno era lungo sette metri! Ma c’è voluto più di mezzo secolo perché quest’idea diventasse realtà a opera dei finanziatori sauditi, che hanno deciso di investire a Jedda, punto di sbarco per i pellegrini della Mecca. Gli ingegneri, però, hanno ridimensionato quel sogno, limitando l’altezza della torre che buca il cielo a un solo chilometro. Duecento piani, cinquanta già costruiti. Ma la storia ci insegna che spesso queste ambizioni prometeiche hanno le gambe corte. Come è accaduto nel caso del Burj Khalifa a Dubai, che attualmente guida la hit dell’altezza abitabile. I lavori sono iniziati in un clima di ottimismo ma si sono conclusi in piena crisi finanziaria. E ancora prima il celebre caso dell’Empire State Building e del Chrysler di New York, incappati nel terribile crash del 1929. Viene da chiedersi se la torre di Jedda non finisca come quella di Babele, presagio di un altro disastro.

L’ingombrante struttura di questo colosso ostacola qualsiasi rapporto fisico con l’ambiente circostante. Le stesse presentazioni lo mostrano isolato e circondato, a distanza, da edifici infinitamente più bassi. Il mondo intero è tutto un pullulare di grattacieli ipertrofici: come la Torre Shanghai e il vicinissimo World Financial Centre, o le due torri Petronas a Kuala Lumpur e tante altre. Il risultato di questi enormi investimenti edilizi è una pletora di immensi palazzi di vetro e acciaio che fanno da vetrina lussuosa ed esclusiva ai marchi globali. Un’aura urbana scintillante e noiosamente uguale dappertutto. E nel contempo le politiche di molti Paesi, in particolare quelle cinesi, promuovono un’espansione urbana ipertrofica svuotando le campagne mentre delocalizzano l’agricoltura accaparrandosi immense distese di terra in altri continenti, soprattutto in Africa. Di fatto stiamo assistendo a una nuova forma di colonialismo.

In questo modo le città diventano emblemi di una mondializzazione economica e culturale che ha le sue nuove acropoli nei centri sempre più scintillanti e ostaggio delle multinazionali. Gli scarti vengono nascosti in anomici retrobottega della tarda modernità: che sono le periferie degradate e anche i Paesi-margine, discariche dove si concentra la tossicità planetaria, ecologica e sociologica.

In questo orizzonte oscuro si intravedono però barlumi di speranza. Qualche esempio: in Russia il collasso dell’agricoltura collettiva ha stimolato la crescita di imprese locali, persino familiari, dando vita anche a nuovi sistemi di distribuzione. Nei Paesi dell’Africa orientale, soprattutto in Kenya, cresce un’economia agricola di piccola scala, legata a un efficiente sistema di rifornimento delle città. Mentre in Ghana e in alcuni stati dell’America Latina si stanno affermando movimenti di self- help e di self- build. Sono modelli di sharing life che si diffondono anche in Italia. E vengono insegnati persino in certe scuole di architettura.

Flebili germogli di culture locali, eccezioni in uno scenario caratterizzato da una crescente carenza di risorse alimentari, conseguenza diretta dell’aggiotaggio di terre coltivabili da parte delle superpotenze. Forse l’unico antidoto per scongiurare questa minaccia apocalittica sarebbe di ritrovare, dov’è ancora possibile, un equilibro tra le città e i loro territori, prima che la proliferazione urbana diventi un flagello, una no man’s land dell’umano, una città di Caino. Che, non va mai dimenticato, è stato il primo fondatore di città.

CENTO SFUMATURE
DI PERIFERIA

di Carlo Olmo

«La città non è bipolare: il centro è diventato una scena teatrale allestita per il turismo, ma il resto del tessuto urbano è attraversato da molte identità»

Imbottigliato in un pomeriggio qualunque di un qualunque giorno feriale sul Boulevard Périphérique tra Porte de la Chapelle e Porte de Clignancourt, lo sguardo dal taxi si perde tra sedi di compagnie internazionali, residui di un’edilizia povera e simulacri ancora abbandonati di architettura industriale.

Non c’è in quest’esperienza condivisa con migliaia di parigini neanche la rabbia di Corinne e Richard in uno dei più noti piani sequenza del cinema: quello di Week End di Jean- Luc Godard. C’è solo una rassegnata attesa. In realtà di périphérique quell’anello ha solo il nome. Il paesaggio urbano attorno non porta tracce di quella distanza tra centro e faubourgs che fu la prima matrice di una parola, periferia appunto, ormai diventata un contenitore senza patria e genealogia.

Una parola che è nata in una cultura e a fronte di politiche che disegnavano e raccontavano una metropoli bipolare, costituita da un centro e da quartieri, borghi, faubourgs distanti, unicamente residenziali e quasi autonomi, ha perso quasi di senso. Quella metropoli forse così non è mai esistita, certamente oggi è profondamente diversa.

Convivono fianco a fianco nella stessa periferia parti progettate e realizzate, spesso nei diffamati anni Venti e Trenta, che recuperate e restaurate sono diventate esempi quasi didascalici di gentrification, capannoni un tempo industriali trasformati in loft che ospitano piccole industrie innovative o variegate forme di art publique, nuclei di emarginazione, povertà e segregazione sociale, possibili germi di radicalizzazione religiosa e politica. Oggi gli immaginari e lo stesso statuto scientifico della periferia sono in discussione. Ed è questa profonda diversità che è necessario indagare e rispetto alla quale mobilitare politiche non banali o superate prima ancora di… iniziare.

Si è periferici rispetto a un centro, ma anche il centro ha mutato la sua natura e le sue funzioni. Anne Clerval ha riassunto nel settembre 2013 questa nuova condizione urbana con un titolo brutale: Paris sans le peuple. E la sua analisi può essere, almeno in Europa, estesa a molte città: da Londra a Bruxelles, da Roma a Madrid, da Francoforte a Stoccolma o a Rotterdam. In questo contesto anche alcuni miti della pianificazione degli anni Venti e Trenta del Novecento hanno subìto, nel porto delle nebbie di una trasformazione urbana vagamente indicata come urban sprawl — le Siedlungen a Francoforte, i quartieri funzionalisti di Paul Hedqvist e David Dahl a Stoccolma — un processo di violenza sociale e simbolica.

Collocati volutamente lontani da centri che erano sinonimi di quella possibilità di incontro casuale che è la vera ricchezza della metropoli, negli ultimi quindici- vent’anni questi quartieri, inizialmente in nome di un altro mito delle politiche urbane rifomiste, la mixité sociale e funzionale, hanno subìto una valorizzazione patrimoniale che ha sfruttato il loro ormai acquisito valore simbolico per mutarne funzione e struttura sociale. L’arrivo di popolazioni più ricche, in grado di investire per riabilitare architetture, da espediente per rigenerare quartieri in abbandono è diventato il fine di operazioni non solo immobiliari. Il caso del quartiere Le Corbusieriano di Pessac nell’allora periferia di Bordeaux, testimonia quali conflitti tra associazioni di proprietari si possano attivare sull’appropriazione di architetture simboliche e sul significato stesso della loro originalità.

E questo avviene mentre i centri delle città diventano sempre più scene di rappresentazione ( della storia della città e dei suoi cittadini illustri) per un turismo globalizzato che trasforma la storia in un valore aggiunto di una narrazione necessariamente semplificata e funzionale a un consumismo turistico che ha in Belleville — nella periferia parigina — e in Kreuzberg, a Berlino, due esempi sin troppo iconici. La patrimonializzazione è allora l’ennesima espressione delle Gorgoni dell’urbanistica contemporanea in epoca neoliberale?Oggi in realtà un’altra, storica funzione urbana sta mutando: il processo di continuo filtering che la città opera nei confronti dei ceti sociali più deboli è entrato in crisi, come per altro tutte le forme di mobilità sociale.

La rigidità di questo nuovo funzionalismo di mercato è in realtà reso più estremo dal consumo turistico e di residenza occasionale dei cosiddetti centri storici: oggi persino il Café de Flore, luogo di incontro preferito di Sartre, Camus, Queneau nel Quartiere Latino è entrato nei tour delle più ricercate agenzie turistiche. Tutta l’architettura che ha una storia (antica o novecentesca) entra nell’orbita di una visione mordi e fuggi della città e di una residenza brutalmente distribuita secondo le regole di un mercato tutt’altro che impersonale e che usa simboli, valori storici, persino architetture autoriali, per differenziarne uso e destinazioni.

La periferia che non entra in questo processo di patrimonializzazione esiste: è la periferia che in Francia si chiama pavillonnaire e nei Paesi anglossassoni della residenza back to back.

Quelle strade costruite da case di un piano fuori terra tutte eguali o da case unifamiliari, divise solo da un muro o da un minuscolo cortile. Proprio quell’architettura che era la forma estrema dell’individualismo Hobbesiano o se si vuole una delle figure fondamentali dell’individualità abitativa, con un paradosso quasi blasfemo resta al di fuori dal nuovo funzionalismo di mercato e contemporaneamente offre alle diverse forme di marginalità ospitalità e protezione. Se a Londra esistono quartieri come Enfield e Ponders End, luoghi privilegiati di disordini sociali e etnici sin dal 2011, questi sopravvivono anche perché in quelle architetture si può scomparire come nelle soffitte della Parigi del secondo Settecento raccontate da Daniel Roche in Le peuple de Paris.

Il nuovo funzionalismo ha bisogno di questi spazi in cui le regole informali non creano solo disagio. Studiando Saint- Denis e Aubervilliers (diventati dopo il Bataclan quasi sinonimo di classes étrangères et lieux dangereuses, facendo il verso a un famosissimo testo dello storico francese Louis Chevalier), Marie- Hélène Bacqué e Yves Sintomer avevano offerto, già nel 2001, le chiavi per decifrare quelle che loro chiamavano affiliations et désafilliations: parole che diversamente declinate diventeranno autentiche ossessioni. Quelle che è improprio persino chiamare periferie generano oggi forme di solidarietà e di condivisione, non solo di esclusione: e richiedono, per poter essere raccontate, immaginari molto diversi.

Nel 2015 due studiose di Oxford, Juliet Carpenter e Christina Horvath curano un testo — Regards croisés sur la banlieue — esito di ricerche e di un seminario del 2013. Le tesi che quel libro sostiene riguardano la forza delle narrazioni e l’inesistenza di forme narrative che nascano dagli abitanti delle periferie, in grado di mettere in discussione equazioni ormai quasi ossessive, spesso tradotte in politiche profondamente semplificatrici: periferia e degrado, banlieue e marginalità, suburbia e violenza. Gillian Jein racconta invece l’evoluzione dei quartieri parigini lungo il Canal de l’Ourcq che segna la banlieue nord di Parigi, attraverso i volti delle persone che li hanno abitati dal dopoguerra.

Da dove allora ricominciare per parlare di politiche urbane?
Escono in questi anni libri in ogni lingua su quelle aree urbane che con un’immagine che è restata la più affascinante, Sébastien Mercier già nel 1781 chiamava Jardins du Soubise: quelle aree delle metropoli, residuali e interstiziali in cui le regole sociali che gestivano quegli spazi erano del tutto informali. Oggi con l’ennesimo paradosso quelle aree sono indicate come gli spazi pubblici della città contemporanea da cui ripartire con politiche di ricucitura urbana sociale: le aree del nuovo progetto pubblico, come sottolinea nelle sue conclusioni del recente Spazi che contano Cristina Bianchetti.

Paolo Grossi racconta — vale la pena richiamarlo — già nel 1992 come in realtà privato e pubblico siano una costruzione sociale ottocentesca. Oggi forse ripensare quali siano gli spazi che contano potrebbe almeno evitare di farne un sinonimo di spreco, rischio e spesso di corruzione. La scena della riesumazione delle salme dal vecchio Cimitero Flaminio di Prima Porta in Sacro GRAL forse meglio di tutte aiuta a restituire gli scheletri negli armadi che parole come periferia si portano dietro e a iniziare davvero un’altra narrazione. Su questa base, sulla base cioè di una capacità di non ridurre la realtà a immagini semplici e ovviamente comunicative si possono avviare politiche che valorizzino processi già in atto, come quelli che hanno popolato il porto di Marsiglia e quello di Porto, non più di vent’anni fa impraticabili, di una vita sociale impensata. Quelli che erano luoghi in cui non si poteva entrare, oggi sono laboratori sociali, artistici, scientifici.

COM'È INIQUA
LA CITTÀ LIBERAL

di Ross Douthat

«Le metropoli fanno grande l’America o sono isole di privilegio per l’élite?»

L’era di Trump ha spinto alla riflessione la nostra élite — nottate passate a leggere Elegia americana per lo più, — ma ha anche sollevato un’ondata di orgoglio cosmopolita. Alla promessa elettorale di Trump di fare l’America di nuovo grande, Hillary Clinton rispondeva dicendo che l’ « America è già grande » , intendendo dinamica, multiculturale, tollerante e orientata al futuro, tutte caratteristiche che Trump sembra rifiutare e che paiono spaventare i suoi elettori.

Il concetto che l’America sia già grande è stato ribadito in molte sedi dall’élite e la settimana scorsa Will Wilkinson del Niskanen Center, sul Washington Post, ne ha dato una motivazione precisa: a far grande l’America sono le sue grandi, fiorenti città liberali. Secondo Wilkinson, Trump ama denigrare le metropoli americane, dandone immagini da incubo, stile Il giustiziere della notte o Quel pomeriggio di un giorno da cani perché il nostro presidente sente il bisogno di “diffondere l’idea che la metropoli poliglotta sia un pericoloso fallimento”. In realtà invece le nostre città sono effettivamente già grandi: più sicure che mai, ricche culturalmente, dense di innovazione politica, motori del nostro futuro economico. Sono sempre più luogo di aggregazione di immigrati e laureati che, grazie alla cooperazione e allo scambio, associano le competenze producendo innovazione, mentre l’entroterra trumpiano marcisce nell’astio e nella nostalgia.

Mi permetto di dissentire. È vero che per molti dei loro abitanti, in particolare i giovani e i più abbienti, le nostre città progressiste sono luoghi piacevoli in cui lavorare e divertirsi. Ma pur essendo multiculturali sotto certi aspetti, per altri sono segregate, a partire dalle cosiddette whiteopias (utopie per bianchi), a maggioranza di popolazione bianca, come Portland, fino alle città balcanizzate, come la capitale o Chicago. Se sono dinamiche è pur vero che sono talmente ricche — e rigidamente vincolate sotto il profilo urbanistico — che la classe media non può permettersi di abitarvi e all’interno dei loro confini le nascite sono in calo.

La loro rapida crescita è spesso legata ai finanziamenti pubblici e alle tutele garantite secondo il principio del “troppo grande per fallire”; sono capitali di innovazione ma in una forma che genera meno posti di lavoro rispetto allo sviluppo tecnologico del passato. Se producono un certo fermento intellettuale è anche vero che sono il recinto della nostra intellighenzia progressista e in realtà hanno indebolito il liberalismo, concentrandone i voti.

Davvero l’apogeo di questi agglomerati meritocratici ha fatto più grande l’America? Secondo me no. Nell’era della città liberale — che coincide, si può dire, con la ripresa urbana degli anni Novanta — la crescita economica si è indebolita, l’inadeguatezza politica si è aggravata, e il progresso tecnologico al di fuori del settore online ha subito un rallentamento. Il liberalismo è diventato più tronfio e fuori dalla realtà; il conservatorismo più anti-intellettuale e buffone.

La genialità della coscienza collettiva prodotta dalla concentrazione delle intelligenze migliori ci ha dato fantastiche app e qualche programma televisivo di cui fare indigestione, ma gli anni 2000 e 2010 non sono esattamente paragonabili al rinascimento fiorentino.

Veniamo a una delle mie proposte inverosimili se non addirittura ridicole: dovremmo trattare le città progressiste come i progressisti trattano i grandi monopoli — non come fonte di crescita, ma alla stregua di concentrazioni di ricchezza e potere che cospirano contro il bene pubblico. E invece di tentare di renderle più egualitarie grazie a vincoli urbanistici meno rigidi e a un’edilizia più accessibile, dovremmo seguire l’esempio di Teddy Roosevelt e cercare di farle a pezzi. Partiamo con la cosa più semplice: prendiamo gli uffici del governo federale, oggi concentrati nel vampiresco agglomerato urbano della Greater Washington D.C., e dislochiamoli in stati più poveri e in città più piccole, che hanno bisogno di essere rivitalizzate.

Ma fare a pezzi Washington servirebbe a poco. Per questo andremo oltre, a partire dalle ricche università d’élite. Tasseremo pesantemente le loro donazioni offrendo invece esenzioni agli atenei che espandono il loro corpo studentesco con sedi satellite in aree dal reddito ben inferiore alla media. Il Mit a Flint suona bene. E lo stesso vale per Stanford-Buffalo, o Harvard sul Mississippi. Una tassazione analoga si applicherebbe alle grandi organizzazioni senza scopo di lucro: per ottenere l’esenzione fiscale totale bisogna dar prova di impiegare personale in stati e città a basso reddito. La Federal Trade Commission (Ftc) dovrebbe considerare la concentrazione geografica di un’impresa come indicatore di monopolio, approvando fusioni nell’ottica di disseminare l’occupazione.
Traduzione di Emilia Benghi

NEL VILLAGGIO DEI “RURBANI”
di Fabrice Lardreau

«Bruère-Allichamps è al centro esatto della Francia: qui è possibile capire il sentimento di abbandono di chi vive in provincia. Parigi è a 275 chilometri: ma per chi ci abita è molto più lontana»

Conoscete Bruère- Allichamps? Probabilmente no. Eppure questo comune di seicento abitanti, nel dipartimento dello Cher, è considerato come l’esatto centro geografico della Francia. L’ho scoperto nel 1976 — all’età di dieci anni — grazie a L’argent de poche di François Truffaut. L’incipit del film ha affascinato la mia mente infantile: lo spettatore scopre un bar e poi una piazza piantata nel bel mezzo di una strada statale, ove troneggia una colonna in pietra sormontata da una bandiera tricolore, a simboleggiare il centro del Paese.

A quarant’anni di distanza, quest’immagine continua ad affascinarmi. Attraverso le sue prospettive e il gioco d’insieme dei suoi elementi, mi sembra dotata di una geometria perfetta, come un qualcosa che trovi la sua collocazione. L’immagine di una nazione? Ma quale? Sono venuto qui per incontrare gli abitanti e cercare di comprendere cosa significhi vivere al “ centro esatto” della Francia… E devo dire, senz’ombra di ironia, che per me questo viaggio di duecentosettantacinque chilometri da Parigi a Bruère-Allichamps è stato, in assoluto, il più istruttivo e toccante che abbia fatto finora.

Al tempo di internet, in un’epoca ricca come mai in passato di mezzi d’informazione e comunicazione, è impressionante scoprire quante cose si ignorano del proprio Paese. I miei incontri con gli abitanti mi hanno permesso di tratteggiare, come in un assemblaggio di dati cartografici e umani, un ritratto di quello che si è soliti definire il “francese medio” — ma preferisco il termine di “mediano”. In contrasto con l’immagine di arroganza — a volte giustificata — che i miei connazionali veicolano all’estero, ho incontrato uomini e donne prudenti, di una profonda semplicità. Un po’ chiusi e inizialmente diffidenti, i miei interlocutori hanno dimostrato un’affettuosa, commovente generosità.

Come hanno sottolineato tutti gli abitanti più anziani, Bruère- Allichamps, che pure possiede un ricco patrimonio storico e un tessuto associativo dinamico, è diventata una «città dormitorio». In questo comune rurale prevale ormai l’anonimato delle grandi città. «Le giovani coppie che vengono a vivere qui non cercano più di integrarsi, bastano a se stesse » , mi hanno spiegato. « Non c’è più l’interesse di prima per la vita del villaggio. Non siamo neanche più veramente in campagna… ». Si tratta di un fenomeno specifico della Francia?

Bruère- Allichamps è emblematica di una mutazione fondamentale della nostra società, iniziata una ventina d’anni fa: questo villaggio fa parte di quella che recentemente il geografo Christophe Guilluy ha definito “ la Francia periferica”. Contrariamente alla Bourgogne in cui sono cresciuto negli anni Settanta, popolata di agricoltori e allevatori, le campagne di oggi sono abitate per lo più da famiglie operaie o provenienti dai ceti popolari. Cacciate dalle città dove il costo della vita è divenuto esorbitante, si sono spostate oltre le banlieue, nelle zone “ periurbane”.

Per questi cittadini di tipo nuovo si è coniato il termine rurbain (rurale e urbano). Il rurbain francese vive nel verde ma lavora in città. Da questo punto di vista Bruère-Allichamps è esemplare. Nel 2012 gli operai rappresentavano il quaranta per cento della popolazione attiva, e gli agricoltori… lo zero per cento. Gli abitanti lavorano per lo più nelle città di Bourges, Montluçon o Vierzon, e si fanno anche centocinquanta chilometri al giorno per recarsi al lavoro.

In questi spazi periurbani vive oggi quasi l’ottanta per cento dei ceti popolari. Si è colpiti dal constatare fino a che punto questa nuova cartografia sociologica coincida con quella elettorale. Di fatto, è in questi territori che da una quindicina d’anni l’estrema destra ha registrato un’avanzata spettacolare. Il primo turno delle presidenziali conferma l’immagine — a somiglianza degli Stati Uniti di Trump o dell’Inghilterra della Brexit — di un Paese scisso tra città e campagna. A Bruère-Allichamps, il 23 aprile Marine Le Pen (il cui partito aveva totalizzato il quaranta per cento dei voti alle regionali del 2015) è arrivata in testa col ventinove per cento; mentre nel mio comune di Bourg-la-Reine, alle porte di Parigi, è rimasta al… cinque per cento.

Come siamo arrivati a questo punto? Per molto tempo ho fatto parte di quella popolazione urbana che non comprendeva, o non voleva comprendere questo fenomeno, immaginando la campagna come l’avevo conosciuta trentacinque anni fa: prospera, agreste e ( relativamente) protetta. Oggi quei ceti popolari, colpiti in pieno dalla crisi della deindustrializzazione, privati di trasporti, strutture commerciali e servizi pubblici, vivono una sensazione profonda di abbandono, che l’estrema destra ha saputo canalizzare.

A Bruère-Allichamps non ho percepito risentimento nei riguardi della capitale, ma un’impressione di distanza. «Parigi è lontana», mi hanno detto, «è all’altro capo del mondo». Come se vivessimo in due Paesi diversi, separati da una frontiera, che non comunicano più tra loro. Credo sia tempo di riprendere il dialogo in Francia. Ci si accontenta troppo spesso di stereotipi riduttivi, a tutto vantaggio dei promotori dello scontro: da un lato i “ bobos intellos”, gli intellettuali radical chic, dall’altro i “ ploucs”, gli zotici ignoranti. L’elezione di Macron deve segnare l’inizio di un lavoro urgente e colossale: riconciliare questi due Paesi — il mio Paese.
Traduzione di Elisabetta Horvat

LA PADANIA VISTA DALL'OBLÒ
di Marco Belpoliti

«Centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati: è la più grande città estesa d’Italia. Racconto di un tour in pullman da Lambrate all’autostrada fantasma, fino a Roncadelle, patria di tutti i megastore: dodicimila metri quadrati ogni mille abitanti. È il record europeo»

Oggi si va a vedere la Padania, conglomerato urbano, città diffusa e metropoli molecolare, composta di centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati. Il pullman ci attende. Sul fianco la scritta “ Brescia Trasporti”. È fermo sul piazzale posteriore della stazione di Lambrate. Una piccola folla s’è radunata intorno: artisti, fotografi, architetti, giornalisti, scrittori. Tutti con lo zainetto. Siamo una quarantina. Appena aprono le porte dell’autobus saliamo e in breve tutti i posti sono occupati. Sono qui per la “Gita aziendale 2017” dei “ Padania Classic”. Mi sono prenotato via internet rispondendo all’email di Filippo Minelli, fotografo: “ 1 aprile 2017, faremo giro turistico in bus alla ricerca di quello che siamo diventati, una giornata paradossale sull’identità partendo dalla lettura del paesaggio contemporaneo”.

Pesce d’aprile? Ho ricevuto il programma del “ Tour del disastro”, “ricognizione collaborativa sul territorio della MacroRegione”. Si va e in breve entriamo nella tangenziale di Milano. Al microfono Filippo illustra il percorso. Ci hanno distribuito shopper con taccuino, penna sponsorizzata, macchina fotografica usa- e- getta, depliant con il percorso. Vi leggo una poesia, Ode al parcheggio: “Grazie parcheggio per essere così ampio,/ per darci la possibilità di scegliere dove stare/ con la certezza di un approdo sicuro”. Eccetera.

Due anni fa Minelli, Federico D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi hanno pubblicato un libro di settecento pagine intitolato Atlante dei Classici Padani ( Krisis Publishing). Contiene un’esplorazione visiva del nuovo paesaggio della Padania, che s’estende dai confini del Piemonte sino alle pendici dei Colli Euganei. Dentro Lombardia, Emilia, Romagna e Veneto.

Uno spazio fotografato palmo a palmo: cantieri, cave, discariche, monumenti, villette, supermercati, cartelloni, insegne, cascine, condomini, giardini, trattorie, bar, paninoteche volanti, luna park, centri sportivi, parchi acquatici, discoteche, centri massaggi, sexy shop, night club, chiese, e altro ancora. Spazio devastato e insieme vitale, dove abita quasi un terzo della popolazione italiana, dove le case monofamigliari s’alternano agli stabilimenti e ai villaggi artigiani, dove abbondano cavalcavia, viadotti, raccordi autostradali, il tutto tra filari di viti e campi di granoturco, mentre intorno appaiono discariche abusive, inceneritori, fabbriche abbandonate, muraglioni di cemento, gru, pannelli antirumore.

Il pullman procede sicuro lungo la colonna portante della Macro Regione: la A4, la Grande Madre della Padania. Fatto qualche chilometro, dopo aver superato il torracchione con i ripetitori di Mediaset, usciamo a Vimercate. La prima tappa è il Centro commercicale Mega degli anni Ottanta, precursore di questa tipologia di sviluppo. Siamo in una zona di condomini e il superstore è in realtà una piccola costruzione intorno a una cupola centrale. Colgo brani della conversazione tra due partecipanti, probabilmente architetti: « Questo è uno dei primi centri commerciali. Sembra minuscolo in confronto a quelli che sono venuti dopo. Hai notato la cupola e le colonne? Tutti questi supermercati hanno qualcosa del tempio classico o della chiesa. Passeggiare e fare acquisti».

Si va a Zingonia, città utopica fondata da Renzo Zingone, imprenditore romano, in provincia di Bergamo. Cinquantamila gli abitanti previsti. Hanno edificato capannoni industriali, torri residenziali, villette, un centro sportivo, cinema, hotel, ospedale, chiesa. Sono arrivate solo poche migliaia di persone. Oggi le torri giacciono in uno stato di degrado, abitate da una popolazione multicolore d’immigrati. A breve saranno demolite. Puntiamo sulla chiesa bunker con lunghi scivoli d’ingresso in cemento. Seguo i due architetti. Commentano: « Non è poi male. Un progetto di Vittorio Sonzogni. Le Corbusier in salsa padana».

Tutti in corriera. Si riparte. Di nuovo imbocchiamo l’autostrada. Siamo nel cuore pulsante del Paese, a destra e a sinistra una fila ininterrotta di fabbriche, impianti industriali, aziende, depositi. Qui si produce. All’improvviso compare la colonna di Giuseppe Gambirasio, torre dell’acqua a forma di colonna dorica che svetta nella campagna di Osio. I due architetti dietro di me: « Conosci la Colonna Desman che stanno per costruire vicino a Mira? Alta trecentodieci metri, quattordici di meno della Torre Eiffel. Un progetto pazzesco. Dovrebbe servire a rilanciare il turismo nella zona » . M’intrometto: « Perché la costruiscono? A cosa serve? » . « Alla gente piace salire in alto», mi risponde quello con la barba.

Il pullman ha raggiunto Orzinuovi e il centro commerciale che visiteremo. L’ingresso al paese è desolante. Sembra vi sia stata un’esplosione. Molti edifici sono abbandonati. La cattedrale è Ocean Park, progetto abortito. Dietro al centro commerciale ancora in funzione, c’è una sorta di gemello colorato: rovina piranesiana in stile neomodernista. Entriamo passando da un varco nella rete e qui, davanti al rudere, risultato di un crac immobiliare, posiamo per la rituale foto di gruppo. Ho perso di vista i due architetti, e non posso ascoltare la loro conversazione. È ora di pranzo e siamo diretti al Sushi Wok, ristorante a gestione orientale, dove ci accomodiamo. La sala non ha alcuna finestra che permetta di guardare fuori. La compagnia è allegra; il cibo mette tutti di buon umore. Mi siedo al tavolo con Filippo e uno studioso catalano, un fotografo, forse un architetto, che a Barcellona sta mappando il territorio. Si mangia e si beve piatti ibridi cucinati nel rituale tegame: cucina padano- cinese.

Ci attende lo Strip di Roncadelle, comune alle porte di Brescia: novemila abitanti con centri commerciali enormi. Annunciano al microfono i dati: dodicimila metri quadrati di megastore ogni mille abitanti. Record europeo. I due architetti si sono seduti in fondo al torpedone. Non riesco a raggiungerli. Converso con un giovane studioso. Riflettiamo su questo territorio. « Sembra un campo subito dopo la battaglia » , mi dice. « Quale? » , chiedo. « Quella che si è combattuta negli anni dell’inarrestabile sviluppo economico veneto- lombardo » . « Cosa resterà di tutto questo? » , chiedo. « Piuttosto: cosa descriverà lo zeitgeist padano di questi anni irripetibili? » , dice lui.

Andiamo dritti verso l’Autostrada Fantasma, com’è chiamata sul depliant del viaggio, un tratto autostradale detto l’Elastico, che doveva raccordare la circonvallazione di Brescia e l’autostrada A4. Scendiamo e abbracciamo ritualmente i piloni di cemento che si ergono solitari nel vuoto di questa campagna.

Mentre il pullman cerca l’imbocco di un’altra autostrada fantasma, la BreBeMi, uno dei viaggiatori, uno sconosciuto seduto proprio dietro di me, racconta la storia della ragazza fantasma. « Nel dicembre del 1999 alle 5.20 del mattino una ragazza bionda fu investita su uno svincolo autostradale dalle parti di San Pelagio, verso Venezia, A13. La stessa ragazza fu vista in altri luoghi autostradali: uno svincolo della A1 vicino a Parma, poi a San Giuseppe nei pressi di Brescia. Le fu dato un nome: Melissa. I guidatori che credevano d’averla travolta, s’incontrarono in una trattoria della zona di Brescia, per parlare dell’apparizione». Di colpo sono dentro le storie dei Narratori delle pianure di Gianni Celati, lo scrittore che negli anni Ottanta ha raccontato quello che oggi appare un luogo comune: le campagne appaiono simili alle periferie urbane delle città, luoghi abbandonati, devastati, sfigurati.

Siamo prossimi alla fine del viaggio. Tardo pomeriggio. Percorriamo la BreBeMi, superstrada che collega la campagna bresciana a quella milanese.
Non c’è nessuno. Solo qualche rara automobile. Non un distributore di benzina, non un punto di ristoro. Siamo nel nulla, un nulla che a forza di percorrere questa landa m’è entrato dentro. Cado preda del sonno. Mi risveglio quando arriviamo nel piazzale della stazione di Lambrate. Sarà stato tutto un brutto sogno?

VIVERE AI CONFINI
DELLE MEGALOPOLI
intervista di Francesco Erbani a Richard Burnett

«Richard Burdett spiega il caso sudamericano: aree vastissime e prive di tutto»

Richard Burdett, urbanista, insegna alla London School of Economics, ha curato i progetti per le Olimpiadi del 2012 e, ancor prima, la Biennale architettura del 2006 che, come l’ultima di Alejandro Aravena, ha raccontato che cosa si fa nelle periferie di tutto il mondo per alleviare disagio, diseguaglianze, esclusione sociale. « Negli ultimi quindici anni è cresciuta la sensibilità di architetti e urbanisti verso questi temi. Parlo, ovviamente, di architetti e urbanisti che non si preoccupano solo di allestire quartieri di villette. Inoltre si è sviluppata una proficua collaborazione con amministratori locali ».

Dove accade tutto questo?
« In molte aree del mondo, da Lagos a Mumbai, dove il fenomeno dell’urbanesimo galoppa. In alcune grandi città africane come Kinshasa si calcola una crescita di 50, 60 persone ogni ora ».
E queste vanno a ingrossare le periferie?
« In gran parte sì. Ma attenzione: sono stato a Nairobi un mese fa e ho visitato Kibera, gigantesca baraccopoli di quasi 200 mila abitanti. Kibera è a dieci minuti dal centro direzionale. Se si allunga lo sguardo si vedono gli alberghi a cinque stelle ».
Vuol dire che le periferie non sono solo le zone ai margini delle città?
«Sì, le periferie sono anche in centro, come sosteneva anni fa il sociologo Guido Martinotti. Non è una storia recente. In diverse città anche europee nelle zone centrali distrutte dai bombardamenti della guerra sono sorti insediamenti popolari che nei decenni sono diventati luoghi di povertà e marginalità. Quindi lo schema centro/periferia può valere ancora in qualche misura per Parigi, ma non più per Londra, dove di centri ce ne sono almeno tre. E dove ci sono periferie povere, ma anche ricche.
In generale direi che la crescita delle città non ha più la dinamica di un tempo, quando dal centro ci si espandeva verso l’esterno. Questo meccanismo lo ritroviamo in parte per le grandi città sudamericane. Ma in ogni caso i temi più scottanti investono la qualità della vita di queste aree ».
Vale a dire?
« Megalopoli come San Paolo, Rio de Janeiro o Città del Messico hanno conosciuto un’espansione quattro o cinque volte superiore alla crescita di popolazione. Questa espansione è sempre più diradata a mano a mano che si va verso l’esterno. Ed è qui che trovano sistemazione gli ultimi arrivati in città, qui dove, a causa della bassa densità, mancano trasporto pubblico, sistemi fognari, scuole: è troppo costoso raggiungere questi brandelli di città con i servizi ».
Quindi la parola periferia può designare tanto le bidonville dove si vive ammassati, quanto i luoghi dove si vive sparpagliati?
«In entrambi i casi la qualità del vivere e dell’abitare è scadente. A San Paolo s’impiegano in media quattro ore al giorno per raggiungere i luoghi di lavoro. E dire che in Sudamerica l’urbanesimo, impetuoso fino ad alcuni decenni fa, ora è più lento. Ma non così in Africa e in Asia. In entrambi i casi, inoltre, queste zone sono invisibili alla politica ».
Eppure in alcuni casi c’è collaborazione fra architetti e amministratori pubblici.
«Sì e ci tengo a sottolinearlo. Sono ormai tanti i casi di città resilienti, in grado cioè di adattarsi e di fronteggiare situazioni drammatiche. Quel che è accaduto in due città colombiane, Bogotà e Medellin, è noto.Lì si è intervenuti soprattutto sul sistema dei trasporti e si è capito che facilitando le connessioni e l’accessibilità si potevano abbattere i tassi di criminalità. Episodi simili per fortuna si moltiplicano. E lì l’architettura dà il meglio di sé».
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