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Michela Barzi
Urbanistica e assimilazione dei ragazzi
18 Ottobre 2017
Periferie
milleniourbano, 10 ottobre 2017« Jane Jacobs dedicò alla funzione dei marciapiedi in Vita e morte delle grandi città uno riguarda «l’assimilazione dei ragazzi» nella vita collettiva». (c.m.c.)

milleniourbano, 10 ottobre 2017« Jane Jacobs dedicò alla funzione dei marciapiedi in Vita e morte delle grandi città uno riguarda «l’assimilazione dei ragazzi» nella vita collettiva». (c.m.c.)

Una foto di Helen Levitt, tra le grandi street photographer del secolo scorso, ritrae una indicazione tracciata da qualche bambino con un gessetto su una pietra del rivestimento di un palazzo: tre cerchi concentrici e la scritta BUTTON TO SECRET PASSAGE PRESS. Nel labirinto urbano dei marciapiedi, delle scale, dei portoni, dei vicoli, degli spazi pieni di detriti tra un edificio in rovina e l’altro, sui rami di uno striminzito albero solitario, i bambini fotografati da Levitt sanno trovare il passaggio segreto per i loro giochi.

Le sue fotografie, dalla fine degli anni Trenta fino agli inizi degli anni Novanta hanno ritratto nelle strade di New York le attività infantili e quelle quotidiane degli adulti di ogni età, etnia e condizione sociale. Ma sono in particolare i bambini e l’uso della strada come scenario della loro immaginazione i protagonisti per Levitt di ciò che Doris Lessing ha definito il «grande teatro» della città, dove si può stare seduti «per ore in un caffè o su una panchina, solo per guardare»[1]

In un suo racconto la scrittrice newyorchese Grace Paley racconta così la vita della strada «Una volta, non troppo tempo fa, gli appartamenti erano punteggiati fino al quinto piano da donne come me, una finestra ogni tre, che chiamavano i bambini dai giochi per dar loro ordini e direttive». Paley ha dichiarato che per lei «vivere con i bambini era una continuazione della vita della strada. Ne ero affascinata. Sono qui venticinque, trent’anni dopo, e ancora non riesco a dimenticare come è stato interessante vivere con loro»[2]. Questa fiducia in ciò che Walter Benjamin definiva la dimora della collettività si infrange verso la fine degli anni Sessanta. Nel 1968, all’età di otto anni, Jean-Michel Basquiat fu travolto e quasi ucciso da un’auto mentre giocava per strada a New York e ciò segnò simbolicamente il definitivo trionfo dell’auto sul pedone nella vita della strada oltre, naturalmente, all’esistenza dell’artista afro-americano.

L’idea della strada come luogo pericoloso si affaccia in quello stesso racconto di Grace Paley prima citato. «O-op, urlano i bambini e i padri strillano hii hii, come fanno i cavalli. I bambini danno calci sui toraci equini dei padri, gridando O-op o-op e galoppando sfrenatamente verso ovest. Mi sporgo per gridare ancora una volta, Attenti! Ferma! Ma sono già lontani. Oh chiunque amerebbe essere un cavallo libero e fiero e portare un adorato piccolo cavaliere, ma stanno galoppando verso uno degli angoli più pericolosi del mondo. E forse vivono dall’altra parte dell’incrocio, oltre altre pericolose strade. Così devo chiudere la finestra dopo affettuosi colpetti alla tagete col suo rugginoso odor d’estate ravvivata dall’aprile. Poi mi siedo nella bella luce e mi chiedo come essere sicura che galoppino senza correre rischi verso casa attraverso i fantasiosi spaventosi sogni degli scienziati e i voluminosi sogni dei fabbricanti d’auto»[3].

Dei tre capitoli che Jane Jacobs dedicò alla funzione dei marciapiedi in Vita e morte delle grandi città uno riguarda «l’assimilazione dei ragazzi» nella vita collettiva. Jacobs affermava che insegnare ai ragazzi come farne parte è un compito che spetta agli abitanti della città nel loro complesso. «L’educazione alla responsabilità sociale deve venire dalla società stessa; nell’ambiente urbano, essa si svolge quasi unicamente nelle ore che i ragazzi trascorrono giocando liberamente sui marciapiedi».

E’ una responsabilità che deve essere ripartita tra tutto il corpo sociale e non svolgersi «sotto il segno del matriarcato», dando per scontato che l’assimilazione dei ragazzi nella vita collettiva sia un compito esclusivamente femminile. Quale dimostrazione di quanto sia decisivo che i ragazzi partecipino alla vita della strada, Jacobs decise di inserire nel suo libro la paradigmatica affermazione di uno dei suoi figli: «Conosco il Greenwich Village come le mie tasche». E così dicendo egli la condusse «a vedere il passaggio segreto da lui scoperto sotto una strada, tra due rampe di scale della metropolitana, e il nascondiglio tra due edifici, largo una ventina di centimetri, dove deposita i tesori che racimola tra i rifiuti mentre si reca a scuola, per poi recuperarli tornando a casa»

A differenza dei padri del racconto di Paley, che riportano a casa da scuola i loro bambini issandoli sulle spalle e galoppando senza paura «verso uno degli angoli più pericolosi del mondo», l’urbanistica che ha determinato la vittoria dell’auto sul pedone non prevede, secondo Jacobs, il contributo maschile alla assimilazione dei ragazzi nella vita collettiva. «Benché la maggior parte degli urbanisti e degli architetti urbani siano uomini, i loro piani e i loro progetti sembrano fatti per escludere gli uomini come personaggi della normale vita diurna. I bisogni quotidiani che essi si preoccupano di soddisfare nei loro progetti di ambienti residenziali sono i bisogni presuntivi di una popolazione di massaie assolutamente insignificanti e di bambini di età prescolare; in poche parole essi lavorano esclusivamente per una società matriarcale».

L’urbanistica concepita degli uomini sotto il segno del matriarcato è quella che situa «le attività produttive e commerciali nei pressi delle abitazioni ma isolandole da queste» e ponendole «a distanza di chilometri dai luoghi di lavoro e dagli uomini che lavorano». E’ l’urbanistica antiurbana che traspone il modello insediativo suburbano dentro la città, quello descritto in Revolutionary Road di Richard Yates e denunciato da Betty Friedan in The Feminine Mystique: le donne a casa a curare i figli, i quali non giocano più nelle pericolose strade dominate dalle auto ma negli spazi verdi di pertinenza delle residenze o nelle aree a loro dedicate nei parchi pubblici.

Questo tipo di urbanistica, nel caso degli insediamenti di edilizia popolare, è diventata anche strumento di segregazione sociale ed etnica . All’interno dei confini, segnati da tre strade e dall’Harlem River, entro i quali James Baldwin aveva trascorso la sua infanzia newyorchese, sono poi sorti ciò che nel gergo odierno delle gang si chiamerebbe “il territorio”[4]., ovvero il turf, che rappresenta anche i tappeti erbosi sui quali si innestano le caserme multipiano dell’edilizia popolare.

La sostituzione della strada con lo spazio verde recintato è uno dei principi dell’urbanistica moderna maggiormente criticati da Jacobs, in quanto i progetti di ristrutturazione delle aree degradate per ambiti territorialmente separati finiva per favorire da una parte la possibilità che le bande criminali giovanili si identificassero su base territorialmente delimitata e dall’altra che i complessi residenziali avessero bisogno di accrescere la propria sicurezza con barriere sempre più invalicabili. La «barbarie dei turf» sopprime una delle «funzioni essenziali della strada urbana», quella di garantire la libertà di movimento e l’assimilazione sociale dei cittadini, a cominciare dai ragazzi che nella strada imparano ad essere tali.[5]

Se ci guardiamo intorno vediamo che la città contemporanea, pur con tutte le diversità rispetto a quella descritta da Jacobs a distanza di quasi sessant’anni, non ha affatto risolto il problema dell’integrazione dei ragazzi nella collettività. Quanto ha che fare la segregazione nelle periferie, dentro e fuori la città, e nei turf dei complessi residenziali in genere con ciò che, con espressione semplicistica, si definisce “disagio giovanile”? L’urbanistica ha ancora molto da interrogarsi e da riflettere a questo riguardo.

Riferimenti

La foto di copertina è tratta da Helen Levitt, Lírica Urbana, Madrid, La Fábrica Editorial, 2010, p.39.

Note

[1] Doris Lessing, Temporali, in Racconti londinesi, Milano, Feltrinelli, 1993-2008, p.116.

[2] Fernanda Pivano, Introduzione a Grace Paley, Più tardi nel pomeriggio Milano, La Tartaruga, 1996, p.19.

[3] Grace Paley, Ansietà, in Più tardi nel pomeriggio, cit., pp.100-102.

[4]Cfr. James Baldwin, Fifth Avenue, Uptown, in Esquire, luglio 1960, disponibile all’indirizzo web: www.esquire.com/news-politics/a3638/fifth-avenue-uptown/. La frase in corsivo è stata tradotta dall’autrice dell’articolo.

[5] Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi, 1969, pp.46-78.

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