L’ombelico del mondo è a Venezia, tra l’Arsenale e i giardini di Castello. Qui è stata allestita la decima edizione della Biennale di architettura che ha per titolo Città. Architettura e società e qui sfilano le megalopoli, le città dove, come ripete in continuazione il direttore, l’inglese Richard Burdett, vive più della metà della popolazione mondiale. E la presentazione è da megalopoli: ai giardini una gigantesca fotografia di Shangai realizzata da Olivo Barbieri avvolge e stravolge magicamente l’intera facciata del Padiglione Italia, alle Corderie, un anfiteatro carico di filmati e di dati bombarda il visitatore (da ieri il vernissage, apertura al pubblico dal 10 settembre al 19 novembre, catalogo Marsilio).
Eppure questa Biennale rispetto alle passate stagioni è meno sensazionalista e visionaria, punta sull’urbanistica, la sociologia, l’economia, la statistica, la ravvicinata visione della città, messe in scena nell’antico corridoio delle Corderie attraverso il continuo confronto tra i dati di San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Il Cairo, Johannesburg, Istanbul, Berlino, Londra, Barcellona, Tokyo, Mumbai, Milano e Torino, Shangai.
Sedici giganti mostrati in sequenza con filmati, grafici, fantastiche fotografie satellitari e foto d’artista. E’ un universo colorato dai rossi e dai gialli delle case, dal verde dei parchi, presentato da grandi didascalie, quasi un National Geographic tridimensionale, con la perfezione e la ricercatezza tipicamente anglosassone. «E’ una Biennale da leggere oltre che da vedere», dice il presidente, Davide Croff, una scelta «un rischio» calcolato. E non mancano le polemiche, più o meno sotterranee, nazionali e internazionali. Su Internet c’è chi raccoglie firme contro il padiglione israeliano perché è dedicato a 15 edifici che commemorano sia l’olocausto sia i soldati israeliani caduti in guerra. Il padiglione americano che espone una serie di progetti per rivitalizzare e ricostruire New Orleans distrutta dall’uragano Katrina (After the flood) viene letto pro Bush e contro Spike Lee, che proprio a Venezia e proprio in questi giorni ha presentato un film di segno opposto. Genova, che l’Herald Tribune ha proposto come simbolo del pessimo futuro europeo, alla Biennale diventa l’esempio di una città che cambia e che riesce a entrare nell’era post industriale con i progetti, in parte realizzati, di ristrutturazione del porto.
La questione più delicata e sottile riguarda però l’architettura italiana del Novecento, soprattutto quella degli anni Trenta, la voglia di separare l’architettura dal fascismo, di dividerne il destino, buona la prima cattivo il secondo, pensiero che attraversa anche la classe politica. Le Artiglierie dell’Arsenale ospitano Città di pietra. Nuove possibilità di impiego strutturale di questo materiale antico con lo spettatore salutato da un obelisco alto 15 metri e da una volta a botte di 6 metri di diametro. Ma una sezione di questa mostra curata da Claudio D’Amato Guerrieri ha per titolo L’altra modernità ed è una rievocazione della stagione d’oro dell’architettura anni Trenta con un occhio di riguardo al Dodecanneso, alle città di fondazione italiana in Albania e in Libia, nonché a Roma, con lo stadio dei marmi.
Ma fu davvero indipendente dal regime l’architettura? Della «specificità» dell’architettura italiana del Novecento è convinto l’architetto Franco Purini, curatore del nuovo padiglione italiano appena costruito alle ex Tese delle Vergini, semplice e funzionale, pulito ed essenziale, dove è esposto il progetto di Vema, la città da edificare tra Verona e Mantova, padiglione destinato poi alle arti visive ma assai più piccolo del Padiglione Italia. Troppo? E’ una questione, come quella dell’architettura fascista, sicuramente destinata a infiammare gli animi. Ma è una questione «locale» di questa Biennale che vuol essere globale, che mette a confronto i modelli di densità delle 16 metropoli, che risponde a mille domande: Londra è una città a bassa densità e può crescere in modo sostenibile, Tokyo con 36 milioni di abitanti è la più grande, gli abitanti del Giappone hanno l’aspettativa di vita più lunga (75 anni), i bambini della Sierra Leone la più bassa, il tasso di crescita del Pil del Turkmenistan è il più alto, 16, 8 per cento.
Sono cifre che narrano la vita delle città, i problemi che i sindaci e i rappresentanti delle 16 metropoli studiate dalla Biennale hanno ieri spiegato e confrontato durante un work shop dove è emerso chiaramente che uno dei più importanti mutamenti strutturali in corso è il progressivo affievolirsi dei confini. Si stanno formando territori dove non v’è separazione tra una cittadina e l’altra. Esiste ormai anche una Grande Venezia, testimoniata dalle foto e dalle ricerche dello Iuav nel Padiglione Italia. E le città italiane sono ben presenti alla Biennale: Milano, con le iniziative di Risanamento per l’ex area Falk e Santa Giulia affidate a Renzo Piano e Norman Foster; Napoli, con la metropolitana carica di opere d’arte. E’una piccola grande meraviglia di questo metropoli show della globalissima Biennale veneziana.
Nota: con maggiore enfasi (e apparente schizofrenia), l'articolo sul medesimo tema di Vittorio Gregotti (f.b.)