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Antonio Padellaro
Quel che Matteotti ci ricorda
6 Dicembre 2005
Scritti 2004
Una impressionante descrizione degli anni in cui si preparava il regime scorso, magistralmente redatta utilizzando un bel libro di Claudio Fracassi sul delitto Matteotti. Su l'Unità del 7 agosto 2004

Cosa c’entra il delitto Matteotti con la realtà politica dei nostri giorni? Veramente poco, se non fosse che qualche settimana fa, il 10 giugno, si è celebrato l’ottantesimo anniversario dell’assassinio del parlamentare socialista per mano dei sicari fascisti. Così come, figuriamoci, non c’è né potrebbe esserci relazione alcuna tra il nascente regime di allora e l’Italia nella quale tutti noi possiamo, fortunatamente, vivere e prosperare. A nessuno, poi, salterebbe in mente di accostare la figura del presidente del Consiglio, e non ancora dittatore, del 1924 con il presidente del Consiglio del 2004. E chi si sognerebbe di tracciare paragoni tra le progressive, drammatiche restrizioni a cui la liberta di stampa e di parola venivano sottoposte in quegli anni e le questioni dell’informazione e della concentrazione di potere mediatico con cui abbiamo a che fare?. Questa premessa è a beneficio di quanti a sentire parlare di regime di oggi sono pronti a insorgere scandalizzati per un possibile accostamento con il regime di ieri; paragone che massimamente considerano ingiusto, sbagliato, offensivo oltre che storicamente indecente. Se, dunque, nelle righe che seguono citeremo ampi brani di un libro che molto c’è piaciuto e che tratta degli eventi di ottant’anni or sono, cercheremo di farlo evitando che al lettore possano subdolamente essere suggeriti collegamenti impropri e congiunzioni innaturali (lasciando naturalmente al lettore medesimo il sacrosanto diritto di collegare e congiungere quanto più gli garba).

Ciò precisato, il titolo del libro, fresco di stampa, è: «Matteotti e Mussolini» (editore Mursia, pagine 492). Ne è autore Claudio Fracassi che, nelle prime pagine, ci spiega come, pur in un clima di crescente violenza squadristica e con un parte consistente dei poteri forti (industriali, agrari, alta burocrazia) che si andavano accodando al nascente regime, e tuttavia, in quel 1924, né la società né lo Stato erano fascistizzati: «Non pochi tra i magistrati erano gelosi dell’indipendenza solennemente garantita loro dalle leggi. La libertà di sciopero era difesa dai sindacati, così come la libertà di stampa dai giornalisti». A proposito di giornali, tuttavia, non mancavano gli apologeti del presidente del Consiglio che un cronista più incantato degli altri descriveva di abitudini frugali, di carattere chiuso ma portato al romanticismo: «È per esempio, assai amante dei fiori, e, tra questi, preferisce la rosa: spesso è veduto con questo fiore tra le labbra, mentre cavalca, e ne aspira anche spesso la viva fragranza mentre siede al tavolo di lavoro».

Nelle relazioni internazionali e con i potenti emergeva il carattere contraddittorio del personaggio che, stando alla testimonianza di un futuro ambasciatore a Londra «quando parlava alla folla era un leone, e nei dialoghi a quattr’occhi, soprattutto con stranieri, diventava una pecora», poiché, «egli aveva soprattutto sviluppatissimo il dono di sapersi adeguare al sentimento dei suoi ospiti, precedendoli, anzi, nel giudizio».

Secondo un grande oppositore, Piero Gobetti, «la lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa, ma è pronto sempre a tutti i trasformismi». Quanto alla grande stampa, essa vede progressivamente ridotta la sua libertà anche perché si lascia intimidire come dimostra la lettera che, nel giugno ’23 l’editore del «Corriere della Sera», Mario Crespi, manda al direttore Albertini: «...pare a noi che il “Corriere”, ben lungi dall’accodarsi agli adoratori del nuovo idolo, potrebbe, ripigliando l’antica sua tradizione di giudice pacato ed obiettivo, prestare al fascismo quella serena attesa che ormai gli è offerta dagli uomini più rappresentativi d’ogni colore politico affine al nostro, senza infliggergli continui colpi di spillo...».

Quanto al’opposizione, pur consistente nel numero dei parlamentari eletti e radicata nel paese, in essa le rivalità prevalgono sulla comune contrapposizione al fascismo. Commenta il leader dei socialisti Turati in una lettera: «I comunisti fanno da sé, quindi anche i massimalisti, e i popolari sono sempre oscillanti ed equivoci...». Scrive Fracassi che lo stesso Turati assisteva desolato non solo alle manifestazioni di trasformismo politico, ma anche ai comportamenti quotidiani di quei suoi colleghi di partito che, nei rapporti con gli esponenti della maggioranza, sembravano muoversi come se quello fascista al potere fosse un normale movimento democratico e parlamentare: «Troppi nostri sono stanchi di stare di continuo con i pugni tesi e non domandano di meglio che un po’ di détente (distensione ndr.)...Quando vedo Gonzales a braccetto con Terzaghi o sento Modigliani scherzare coi i vari Ciano e Finzi e Corbino, mi sento venir male. Non abbiamo forse che un’arma: dare sempre la sensazione del nostro irreducibile disprezzo, e mi pare che, se questa ci è tolta di mano, siano finiti». Alla fiera ma scoraggiata impotenza di Turati, spiega Fracassi, Giacomo Matteotti opponeva la convinzione che la battaglia per la democrazia potesse ancora essere condotta e vinta, a tre condizioni: che l’opposizione fosse unita, che non ci fossero cedimenti nei confronti del governo, che il regime nascente in Italia - in quanto alla lunga contagioso e pericoloso per l’intera Europa - fosse combattuto non solo a Roma ma in ambito continentale.

Con il discorso parlamentare di venerdì 30 maggio 1924, culminato nell’accusa di brogli elettorali sbattuta sulla faccia di un Mussolini stravolto, Matteotti firma la sua condanna a morte. Turati non nasconde che quel drammatico intervento, se aveva entusiasmato e trascinato molti dei suoi, aveva anche suscitato critiche tra coloro che, a sinistra, aspiravano a una qualche normalizzazione dei rapporti col fascismo al governo: «Non mancano fra noi i cacadubbi che trovano che si è fatto male, che il discorso di Matteotti era inopportuno...». Il presidente del Consiglio coglie il disorientamento nel fronte avversario e con il discorso del 7 giugno tende all’opposizione un ramoscello d’ulivo avvelenato: «L’opposizione ci deve essere!... L’opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa. Ma allora ci si domanda: perché siete così irrequieti, così insofferenti? Non è l’opposizione che ci irrita. È il modo dell’opposizione». Mussolini propone agli avversari, per adeguarsi al nuovo clima, di seguire i suoi consigli: «Qualche volta l’opposizione è opposizione piena di rancori che si mette in un angolo... Poi accade talvolta che l’opposizione si dà delle arie cattedratiche che ci indispongono: pare che là ci siano dei pozzi di sapienza, delle arche di dottrina, uomini che recano lo scibile ambulante! Altro vizio dell’opposizione: è sempre in attesa dello sfascio».

Nel frattempo il parlamento viene esautorato, come osserva Turati: «I bilanci non si discutono più se non in quei capitoli che importino variazioni al bilancio precedente! Gli emendamenti di qualche importanza non si posono votare, ossia è inutile neppure presentarli e sostenerli se non sono previamente accettati dal governo! Insomma, è la sostituzione effettiva del governo al parlamento».

Dopo l’assassinio di Matteotti, il ritrovamento del suo corpo alla Quartarella e la pubblica denuncia del ruolo e delle responsabilità avute nell’omicidio dal governo fascista e dal suo capo, il regime nascente conosce i suoi giorni peggiori. Mussolini è alle corde. L’opposizione si prepara alla spallata finale. Scrive Gobetti: «Alla Camera le minoranze non dovranno porre questioni di competenza tecnica,ma provocare battaglie pregiudiziali, differenziarsi in modo così reciso e violento da costringere gli avversari alle reazioni più sincere. Nessuna illusione costruttiva: nessun pensiero di tregua e di normalizzazione».I giornali di regime reagiscono scompostamente e se la prendono con i commentatori esteri che al delitto Matteotti danno, ovviamente, enorme rilievo. Commenta il filogovernativo “Messaggero” : «Ancora una volta... con infinita voluttà la stampa di vari paesi ha colto il pretesto per assalirci e per tentare di gettare il discredito sull’intera Nazione... Si distingue, in tale campagna antitaliana, la stampa francese». Il presidente del Consiglio viene chiamato direttamente in causa dal “Corriere della sera”: «Di fronte a certe imputazioni si ha il dovere di mettersi a disposizione della giustizia rinunciando alle prerogative e all’immunità che il potere accorda di fatto...». Sull’orlo del baratro, Mussolini fa appello all’Italia che chiede ordine, e ricorda i suoi meriti di normalizzatore: «Bastava il minimo presteto perchè i ferrovieri sospendessero la marcia dei treni... C’è stato uno sciopero dei maestri. Immaginate se si può pensare a qualcosa di più paradossale di uno sciopero di maestri... Siccome c’era un sindacalismo di magistrati siamo stati a un solo pelo dall’avere lo sciopero della giustizia...». Ai suoi, Mussolini così illustra la strategia del contrattacco: «La battaglia è difficile e delicata. Bisogna cloroformizzare le opposizioni e anche il popolo italiano. Lo stato d’animo del popolo italiano è questo: fate tutto, ma fatecelo sapere dopo. Non pensateci tutti i giorni dicendo che volete fare i plotoni di esecuzione. Questo ci scoccia. Una mattina quando ci svegliamo diteci di aver fatto questo e saremo contenti, ma non uno stillicidio continuo».

Malgrado il sacrificio di Giacomo Matteotti, il fascismo, come sappiamo, riuscirà purtroppo a cloroformizzare l’Italia. Persa l’occasione storica di rovesciare il regime, l’opposizione verrà definitivamente sconfita, dispersa, perseguitata. Come racconta Fracassi al termine del ’24 si aprì la fase delle «leggi eccezionali». Il 14 gennaio 1925 la Camera approvò in una sola seduta oltre duemila decreti-legge presentati dal governo. I deputati dell’opposizione furono dichiarati formalmente «decaduti» dal parlamento nel novembre del 1926. Prima che fossero espulsi dal parlamento, agli esponenti dell’Aventino Mussolini aveva posto, intervenendo alla Camera dai banchi del governo, la seguente condizione: «Chiunque dell’Aventino voglia ritornare, semplicemente tollerato, in quest’aula, deve solennemente e pubblicamente riconoscere il fatto compiuto della rivoluzione fascita, per cui un’opposizione preconcetta è politicamente inutile, storicamente assurda...».

Quale ragione ci spinge a parlare di Matteotti e Mussolini, ottanta anni più tardi, in un sabato di estate inoltrata? Nient’altro che una semplice associazione di idee.

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