Una simile sensazione - che conduce alcuni a ripiegate sull’amaro isolamento di un’attività professionale sterilmente tecnicizzata o formalistica, altri a gettarsi in un’azione politica che si deforma spesso in impaziente tecnocratismo - è poi resa ancor più acuta e insofferente dalla consapevolezza dell’esistenza di una sempre più vivace “sollecitazione dal basso”, di una spinta sempre più forte dei cittadini per un rinnovamento profondo dell’organismo urbano. Ci sembra invero fuor di discussione che oggi l’utente, il consumatore di beni e servizi urbanistici - in una parola, il cittadino - è sollecitato e sospinto ad avvertire, in misura sempre maggiore, la decisiva importanza che ha per lui una corretta soluzione dei problemi del traffico, dei servizi pubblici, delle attrezzature sociali, del verde, della conservazione, utilizzazione e sviluppo del patrimonio naturale e di quello artistico. L’opinione pubblica comincia insomma a rendersi conto, via via più chiaramente e con sempre più viva impazienza, come l’anarchico disordine e l’ormai antiquato individualismo, che ancora presiedono alla crescita della città, incidano profondamente sulla stessa vita privata e familiare degli uomini, aumentando i pesi che gravano su di essa e mortificando le sue virtualità di sviluppo.
I numerosi convegni e incontri organizzati o promossi dalle associazioni popolari e dagli “organismi di massa” sui problemi del traffico, degli orari di lavoro, delle attrezzature scolastiche e per la prima infanzia, del verde, dei servizi pubblici, della casa; le molteplici inchieste della stampa di informazione sui medesimi argomenti; il nuovo interesse dei sindacati per i fattori extra aziendali che incidono sui salario reale; lo stesso più ampio rilievo dato dai quotidiani e dai settimanali a rotocalco alle questioni e agli “scandali” connessi alla salvaguardia del patrimonio naturale e artistico, non sono forse, tutti questi, più ancora che sintomi, chiari ed espliciti riconoscimenti di un’accentuata partecipazione popolare ai differenti aspetti dell’assetto urbanistico?
E tuttavia, da questo manifestarsi e sprigionarsi di esigenze, da questo affiorare di una nuova coscienza urbanistica degli italiani, non sembra che gli urbanisti abbiano ancora saputo - o potuto - trarre un sufficiente alimento per la propria azione, ma sembra anzi, come dicevamo, che essi ne siano stati ribaditi nella sensazione di una loro forzosa impotenza. Così si deve ancor oggi riconoscere che se la cultura urbanistica ha certamente accumulato un patrimonio non solo di soluzioni tecniche, ma anche di intuizioni teoriche e di iniziali - sebbene ancora timide - affermazioni di principio, resta comunque il fatto che tutto ciò non ha fino ad oggi condotto, nella concretezza della vita sociale e politica, a una piena e matura consapevolezza dei reali termini della questione urbanistica, e non ha quindi portato l’insieme delle forze che agiscono nella società ad affrontare, in modo sufficiente, il complesso problema della città.
Tra la polis e gli urbanisti esiste insomma, indubbiamente, una cesura. Ma quali sono le sue origini ? Quali le sue cause ? Quali le vie da percorrere per superarla? Non credo che sia sufficiente, né giusto, addebitare tutta la colpa d’una simile cesura - come spesso si suol fare - all’incomprensione o al “tradimento” del personale politico; alle sue possibili insipienze, confusioni e compromessi, o magari ai suoi interessati intrighi. Una siffatta soluzione, di sapore qualunquistico, ci consentirebbe, in quanto urbanisti, solo di scaricarci a buon mercato la coscienza. Né ovviamente - non foss’altro che per quella nuova coscienza urbanistica cui più sopra si accennava - sembra possibile accettare la tesi di una qualche immaturità della coscienza civile degli italiani, dalla quale il nostro paese dovrebbe magari sollevarsi mediante una semplice imitazione di frigidi - e comunque incongrui - modelli di importazione anglosassone o scandinava.
Siamo convinti invece - ed è questa la tesi, la premessa sulla quale si basa questo lavoro - che se la cultura urbanistica avesse una reale, chiara, profonda consapevolezza dei propri principi e del proprio ruolo peculiare e specifico, non solo quella cesura di cui si diceva sarebbe assai facilmente colmata, ma accadrebbe addirittura che, dall’incontro tra le virtualità della disciplina urbanistica e le nuove (e le antiche) esigenze dei cittadini, verrebbe a scaturire un potenziale capace di sollecitare l’intera società civile a un reale e dispiegato sviluppo. Ciò che allora ci compete soprattutto di ricordare (ogni qual volta ci sentiamo sospinti, dalla sensazione della sterilità del nostro operare, all’amaro e orgoglioso isolamento, o all’intervento surrettizio in campi che non appartengono alla nostra specifica azione di urbanisti) è che la nostra disciplina non ha tutte le carte in regola, e che è dunque di essa, in primo luogo ed essenzialmente, che ci corre l’obbligo e la responsabilità di occuparci.
Per conto nostro, tenteremo in questo scritto di trovare - aiutandoci con quel tanto di luce che una sommaria analisi della storia può gettare sul presente - almeno alcune premesse sulla cui base sia possibile lavorare per affrontare correttamente e, in prospettiva, per risolvere l’odierno problema dell’urbanistica. E se l’esigenza di individuare i principi che determinano l’autonomia, le leggi, il ruolo della disciplina e dell’operazione dell’urbanistica, condurrà talvolta a descrivere e a interpretare i diversi assetti della società cogliendoli soprattutto nel loro aspetto di sistema (e cioè nella loro medesima configurazione di principio), il lettore attento comprenderà facilmente - così almeno speriamo - come non ci sfugga il fatto che ogni concreta realtà sociale non si identifica, non si sovrappone completamente, non viene necessariamente a coincidere nel suo insieme e in ogni sua parte con quel determinato sistema sociale che, volta a volta, ne definisce e ne sintetizza gli elementi essenziali. Ed è anzi proprio dalla circostanza che praticamente mai nella storia - e neppure oggi, nel moderno sistema dell’ opulenza - un determinato sistema sociale ha potuto pienamente soddisfare le esigenze della città e dell’urbanistica, né tutte quelle della società civile, che scaturisce la necessità - e la possibilità - di giungere oggi a un più comprensivo ordinamento sociale e, insieme, a un più armonico assetto urbanistico.
2. Insufficienza delle consuete definizioni di “città”
Come spesso avviene, l’etimologia può offrire anche in questo caso una utile traccia di partenza per avviare la ricerca. E infatti, quali che siano le connessioni e le complicazioni, quali che siano le forme e i contenuti che si vogliano attribuire alla scienza urbanistica, è indubitabile che tale scienza è in primo luogo - come appunto l’etimologia suggerisce - la scienza della città. Per cominciare a comprendere allora che cosa sia l’urbanistica, occorre domandarsi anzitutto che cosa sia la città.
Un simile modo di affrontare la questione può risultar oggi particolarmente necessario e fruttuoso, poiché ci sembra che le attuali difficoltà, incertezze, contraddizioni, entro le quali la disciplina urbanistica si muove, abbiano appunto la loro radice in una scarsa consapevolezza di quel che la città rappresenta, costituisce ed esprime. Ci sembra, in altri termini, che la mancanza di una definizione sufficiente di “scienza urbanistica” derivi proprio dall’attuale incapacità di formulare una definizione pienamente accettabile della città.
Oggi, infatti, o si dà di quest’ultima una definizione assolutamente generica, e perciò del tutto inutilizzabile; o se ne esprime un’interpretazione permeata da una carica d’utopismo visionario, asservita a una astratta prospettiva escatologica, e perciò sostanzialmente distorta e inservibile sul piano della riflessione scientifica; oppure, infine, anche quando la ricerca sembra approfondirsi e articolarsi e pretendere a un più meditato rigore, non si riesce mai a superare il piano di una mera descrizione empirica della città.
Nella letteratura urbanistica quest’ultima posizione si manifesta in due versioni diverse e anzi apparentemente opposte. Da un lato, infatti, è chiaro che ci si limita a una elementare descrittiva del “fenomeno urbano”, quando, nella scia della tradizione positivistica, si assumono i ,moduli scolastici di un’analisi da manuale e ci si esercita, quindi, nell’enumerazione pedissequa dei vari “tipi” di insediamenti concentrati, delle diverse “funzioni” svolte nell’ambito urbano, o delle differenti “forme” nelle quali la città si è incarnata. Ma, dall’altro lato, è quasi altrettanto palese che una posizione puramente descrittiva è anche quella in cui approda necessariamente allorché, pur criticando come astratta e sterilmente accademica l’intenzione erudita di classificare i vari aspetti (tipologici, funzionali, o formali) della città, si tenta di capovo1gerla semplicemente: allorché insomma, esclusivamente sollecitati dalla preoccupazione di evitare ad ogni costo d’esser “tagliati fuori dalla realtà dei fatti”, ci si propone, proprio per questo, di restar strettamente e tenacemente attaccati alle cose, di aderire al loro sviluppo senza mai discostarsene, di razionalizzare gli ostacoli via via incontrati sul cammino univocamente determinato dall’evoluzione spontanea.
Nessuna legge di principio, nessuna caratteristica di base della città può venir individuata e stabilita - o anche soltanto ricercata - nell’ambito di una posizione siffatta, la quale anzi non può che negare l’esistenza di qualunque legge, di qualunque ordine, di qualunque principio che non siano quelli del processo storico in atto. Ci si riduce allora, necessariamente, all’“accettazione passiva e incondizionata - alla mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze di cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla”. Anzi, quanto più ci si sforza nel tentativo di conservare almeno il fantasma di una presenza urbanistica distinta dalla spontaneità del processo evolutivo, tanto più si finisce poi, inevitabilmente, per teorizzare l’esistente, per “costruire”un modello di città che è lo specchio fedele delle esigenze del moderno capitalismo, per erigere, infine, un siffatto modello di città a valore assoluto e archetipo universale e permanente.
D’altra parte, poiché, sul terreno dei fatti, l’aspetto dell’attuale città capitalistica che più immediatamente ed evidentemente può venir colto è quello di un dinamismo urbanisticamente imprevedibile, è quello della mobilità, del dialettico modificarsi delle situazioni e dei rapporti, dell’irrequieto mutare di tutte le grandezze coinvolte nello sviluppo del sistema, un solo “modello” può venir teorizzato nell’ambito della posizione anzidetta: quello, appunto, per cui si concepisce la nuova città come “una relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città tradizionale”, come “il luogo di situazioni omogenee in continua mutazione, dove ogni parte si integra alle altre secondo un rapporto che si modifica a ogni fase dello sviluppo”. Ma una formulazione siffatta non esprime forse il destino cui si è condannati ove si accetti di rinchiudersi nella posizione che abbiamo tentato di delineare? È un destino, infatti, che comporta il perpetuo inseguimento di una realtà in movimento perenne, la quale - come la filosofica tartaruga di Achille - precederà sempre di un passo l’urbanista, i suoi tentativi di incidere sulle cose e le sue illusioni di distinguersi da esse.
Ma allora, se è vero che la scienza della città non si è finora mostrata capace di individuare con esattezza quello che costituisce il suo oggetto specifico, è evidente che proprio questo punto deve essere inizialmente affrontato da ogni ricerca che voglia darsi ragione delle condizioni presenti della disciplina urbanistica.