Come si prova - senza alcun risultato visibile a occhio nudo – ad avvertire da lustri, il modello commerciale suburbano e di libera concorrenza sul territorio lascia solo macerie ambientali economiche sociali, a brevissimo giro, altro che sviluppo. La Repubblica, 28 maggio 2015, postilla (f.b.)
MESTRE . Dal terrazzo del suo ufficio, nel parco commerciale di Porte di Mestre, Massimo Zanon vede cannibali. «Questo davanti è Auchan, centro commerciale da 39mila metri quadrati con 111 negozi, ampliato da poco più di un anno. Dall’altra parte della strada, a meno di 50 metri, hanno costruito Interspar, che vende le stesse cose di Auchan. Davanti all’Interspar sta aprendo un IperLando. Dietro quel palazzo c’è la Coop e Conforama…». Il presidente di Confcommercio Veneto li indica col dito, recitando un elenco che ormai conosce a memoria. «Decathlon, Pittarello, Mediaworld, Lidl, In’s, Obi, McDonald’s, Aumai ». Tutti qui. Troppi. «Prima hanno fatto chiudere i negozi del centro di Mestre, ora si stanno cannibalizzando tra loro. Non c’è più spazio». E, soprattutto, non ci sono più i clienti di una volta.
Caso unico in italia
Lo chiamano il “triangolo della merce”. E il parco Porte di Mestre ne è uno degli angoli. Nel raggio di dieci chilometri dall’ufficio di Zanon ci sono tre poli — a Mestre, Marghera e Marcon — sorti attorno a quattro enormi centri commerciali. Due, il Nave De Vero (55.000 mq) e il Panorama (12.000mq) di Marghera, distano duecento metri. È un caso unico in Italia. Bastano dieci minuti di macchina, percorrendo svincoli e tangenziali, per passare da uno all’altro. Attorno a questi grandi scatoloni di cemento e vetro sono spuntati una cinquantina di megastore. Altri scatoloni. Sempre le stesse 7-8 insegne delle grandi catene, sempre gli stessi prodotti. Per un bacino di utenza che non supera i 300.000 cittadini. Una densità che non ha eguali e che spinge la media veneta del consumo di superficie occupata dalla Grande distribuzione organizzata a 484,6 mq ogni mille abitanti (in Lombardia è 466,4, in Piemonte è 414,6). Dei 27.668 punti vendita italiani della Gdo (Iper e Supermercati, outlet e libero servizio) 4.791 sono in Veneto. Vanno cercate anche qui le risposte alle domande che gli operatori del settore si fanno da un paio d’anni, da quando hanno visto l’utile netto scendere sotto lo zero (—0,1 per cento nel 2013, — 0,5 per cento nel 2014): ha ancora senso aprire un centro commerciale? Quanto è grave la crisi che ha colpito il luogo simbolo del consumismo, dove si è sfogata l’ansia dell’acquisto compulsivo degli anni Ottanta e Novanta?
Negozi semivuoti
A giudicare dai corridoi semivuoti dell’ipermercato Auchan di Mestre la crisi è forte. Segna un punto di non ritorno. «Provi a contare le casse aperte», suggerisce Paolo Baccaglini, delegato Filcams Cgil impegnato in una vertenza con il gruppo francese che aveva annunciato 1.426 esuberi in 32 dei 49 centri a suo marchio, 65 dei quali a Mestre. Sono le 15 di lunedì: le casse sono 48, di cui 12 automatiche. Quelle in funzione appena 3. Il dato è suggestivo e qualche indicazione la dà. Delle due, l’una: o i clienti sono davvero pochi come sembra, oppure questo enorme contenitore di merce in vendita è fuori scala. Forse anche fuori tempo massimo, visto quello che certificano i bilanci del gruppo francese: dal 2010 al 2014 il giro di affari in Italia si è ridotto da 3,2 miliardi a 2,6 miliardi di euro. «Dopo 25-30 anni di grande sviluppo — spiega Patrick Espasa, presidente e ad di Auchan Italia — assistiamo a una fase di maturità del format ipermercato». Fuor di parafrasi, vuol dire crisi del modello centro commerciale. Dovuta a cosa? «La contrazione dei consumi, l’attacco dei punti vendita “non food”, l’esplosione degli hard discount e la diffusione della spesa via Internet». Insomma, la torta si è ridotta. E le bocche sulla piazza sono troppe.
È il cuore del centro commer- ciale a soffrire. I negozi reggono, c’è movimento soprattutto nei weekend e a pranzo e a cena nei ristoranti e nei fast food onnipresenti. «La visibilità che le mie erboristerie hanno qui — sostiene Doriano Calzavara — è dieci volte superiore rispetto a qualsiasi altro punto della città. Certo, la pago questa visibilità: 8mila euro al mese per l’affitto, la quota per l’aria condizionata, la vigilanza e la pubblicità. I centri stanno cambiando: si allargano le gallerie laterali con i negozi, si riducono gli spazi dell’ipermercato, le cassiere vengono sostituite dagli apparecchi automatici».
Accade lo stesso negli altri due poli del “triangolo della merce”. Alla Coop di Nave de Vero una cassa aperta (con sei persone in fila) su 22 totali alle 17.30 di lunedì, al Carrefour del ValeCenter di Marcon 4 casse aperte su 34 alle 18.30. Accade lo stesso un po’ ovunque, in Italia.
Lo spazio è saturo
A Cinisello Balsamo, per dire, si incontrano 17 centri commerciali in un’area che si copre in 20 minuti di macchina. Nel 77 per cento dei casi le insegne si ripetono, sono sempre le stesse: Bluvacanze, Fiorella Rubino, Intimissimi, Kasanova, Salmoiraghi, Wind, etc. Ma di clienti ce ne sono pochi in giro. Daniela Ostidich, sociologa dei consumi e dirigente della M&T, la spiega così. «Le grandi superfici di shopping funzionavano perché massificavano la merce, ma i consumatori del dopo crisi comprano solo quello che reputano giusto per prezzo, utilità e valore intrinseco: adesso vanno i mercatini online o a chilometro zero, le botteghe, i gruppi di acquisto». Dunque si frena, è inevitabile. Nel 2005 in Italia si aprivano 57 centri commerciali, nel 2014 appena 5 e siamo a quota 870. I punti vendita della grande distribuzione negli ultimi decenni crescevano sempre, sono arrivati a 29.366 nel 2011. Poi il calo, fino ai 27.668 di oggi. L’utile netto è passato dall’1,4 per cento del 2006 a - 0,1 per cento del 2013 e nel 2014 le vendite si sono ulteriormente ridotte dello 0,4 per cento. Si parla di migliaia di esuberi a Carrefour, MediaWorld, CoopEstense. «Speriamo nella ripresa. Nel Mezzogiorno per incentivare nuovi investimenti è necessario combattere la concorrenza sleale, intervenendo sull’evasione e il lavoro irregolare », è l’opinione di Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione. Il format va rivisto, e alla svelta.
Sempre più grandi
Anche perché quasi mai i centri commerciali che non tirano più, chiudono. Al massimo cambiano marchio. Alle amministrazioni comunali fa comodo averli sul proprio territorio: un ipermercato di grandi dimensioni a Milano paga di Imu e tasse per i rifiuti qualcosa attorno al milione di euro all’anno. Da quando il settore è stato liberalizzato, nel 1999, le licenze edilizie sono state date a pioggia. Si è fatto costruire ovunque, anche in zone già ingolfate. E ora ci sono migliaia di contratti con i negozianti interni da rispettare. Dunque non chiudono, ma sono costretti alla metamorfosi per sopravvivere. Diventando sempre più grandi. «In futuro aumenteremo le dimensioni — è la ricetta di Patrick Espasa, numero uno di Auchan — offriremo servizi alternativi, zone wi-fi, i nostri punti vendita saranno sempre di più luoghi dove socializzare, integrandosi con lo shopping online. Non temiamo la concorrenza, ma non ci va bene la concorrenza non organizzata». Quella dei grandi scatoloni di cemento ammassati in pochi chilometri quadrati, che diventano cannibali.
Non stupiscono leattese di tutti quanti perché «una volta superata la crisi contingente» tuttotorni felice e cretinamente suicida come prima. Non stupisce, neppure, chesicuramente anche strofinando sul muso degli amministratori le centinaia diarticoli scritti tanto tempo fa, che avvertivano esattamente di questoincombente ovvio destino, la risposta sarebbe «certo all’epoca noi non potevamosapere». Quello che stupisce davvero è che non si colga – da parte di chidovrebbe rappresentarci - la logica consequenziale di un certo andamento dellecose. I pensosi manager che rispondono evasivi e settoriali alle interviste, daattenti lettori quali sono della stampa specializzata internazionale, erano benconsapevoli di cavalcare una piccola onda (quella della crescita indefinita edella polarizzazione suburbana) già ampiamente esaurita altrove, e destinata afar lo stesso anche qui. E però rivendevano ai soliti gonzi scenari di crescitainfinita, posti di lavoro a valanghe, e naturalmente un territorio dove la«esperienza dello shopping» diventava weltanschauung onnivora, sia in terminidi aspirazioni che di risorse territoriali. E poco importava che, come giàavvenuto altrove, prevedibilmente, le stesse risorse si esaurissero, in un modoo nell’altro: l’importante era incassare, e andare a raccontare ballepromozionali al prossimo sprovveduto. Tanto per timbrare il cartellinotecnico-scientifico, vorrei concludere questa postilla con lo slogan, facilefacile, del quartiere urbano multifunzionale, che è in ogni senso l’oppostoassoluto dello scatolone introverso monouso posato su spazi aperti extraurbani.Ecco: distinguere fra queste due distinguibili entità, sarebbe piccolo segno dibuona fede, perlomeno di «non potevamo sapere, ma ci siamo mossi con prudenza».Oppure avanti così, alla prossima sorpresa che non è tale, di crisi ciclica delcentro commerciale (f.b.)