Non vogliamo sostenere con questo che gli urbanisti siano pervenuti a una piena consapevolezza della reale consistenza di quel mutamento, della sua esatta natura, del suo peculiare significato storico. Ma se gli urbanisti adoperano il più delle volte - salvo dunque rare eccezioni - quei termini che abbiamo sopra elencato senza criticare in alcun modo la sostanza ch’essi ricoprono (accettandola, anzi, come un indiscutibile dato di fatto, sociologicamente registrato e subito), ci sembra comunque interessante e significativo che, nell’ambito della cultura urbanistica, si cominci a prendere coscienza del fatto che non ha più senso, oggi, parlare della città del presente come della città del capitalismo borghese, e che ci troviamo di fronte a una città ben diversa da quella con la quale si misurarono, nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro, gli utopisti, i funzionalisti e i marxisti.
È appunto della città di oggi, della città contemporanea, che dobbiamo ora occuparci. Ma prima di entrare decisamente nel merito, ci converrà descrivere le peculiari caratteristiche dell’assetto economico-sociale nel quale oggi viviamo. Crediamo infatti che sia impossibile affrontare il discorso strettamente urbanistico sulla città, se prima non si è acquistata una sufficiente consapevolezza delle fondamentali connotazioni che caratterizzano l’ordinamento sociale, del quale l’insediamento umano costituisce in ultima analisi - come ha sempre costituito - un decisivo aspetto.
2. Tre modelli economico-sociali entro una determinata concezione del lavoro
Sulla base di quella determinata concezione del lavoro che domina universalmente anche ai nostri giorni, è possibile ipotizzare tre distinti modelli - che si sono effettivamente concretati nella realtà della storia - dell’assetto economico-sociale: il modello signorile, quello capitalistico-borghese e, infine, quello che ormai viene generalmente definito come modello opulento. Ci siamo già occupati, nei capitoli precedenti, dei primi due; ma ci sembra utile richiamarne qui le caratteristiche essenziali e di principio, sia per riepilogare brevemente quel tanto delle considerazioni già svolte che ci serve per procedere nella nostra analisi, sia perché un esame parallelo dei tre modelli può consentirci di comprendere più chiaramente quello sul quale dovremo più a lungo soffermarci per affrontare il tema della città contemporanea: il modello dell’opulenza.
Ma dobbiamo preliminarmente precisare qual’è quella determinata concezione del lavoro che si pone alla radice e alla base dei modelli signorile, capitalistico-borghese e opulento, come dei concreti assetti economico-sociali nei quali essi si sono espressi e manifestati storicamente. Riassumendo le tesi sostenute da Claudio Napoleoni, si può affermare in sostanza che quella concezione rispecchia la riduzione del lavoro, da strumento universale per il conseguimento di fini umani via via d’ordine superiore, a strumento particolare per il raggiungimento di un fine circoscritto e definito, stabilito una volta per tutte: quello del soddisfacimento del bisogno di sussistenza fisica dell’uomo.
Però quanto qui si deve soprattutto sottolineare è che, da quando il lavoro è stato innaturalmente ridotto da strumento universale a strumento particolare - ed è stato in tal modo alienato - l’aumento della sua produttività non ha potuto più tradursi organicamente in un arricchimento dei fini. Esso ha dato luogo invece a una “libera” eccedenza, che perdendo ogni relazione con lo sviluppo e la crescita dell’operazione umana, può subire destinazioni diverse, ma tutte in qualche modo arbitrarie e disumane. È appunto la diversa destinazione di tale eccedenza a costituire l’elemento caratterizzante e distintivo dei tre modelli di cui si diceva.
3. Le due “classiche”utilizzazioni del sovrappiù: il modello signorile ...
Decisivo ed essenziale, prima e forse più d’ogni altro, sul piano della storia come su quello dei principi, è il modello signorile. Esso, come abbiamo visto, è caratterizzato dall’operazione sociale ed economica dello sfruttamento, la quale consiste fondamentalmente nel fatto che il lavoro degli uni (i servi)viene violentemente ordinato alla libertà dal lavoro di un altro (il signore). Naturalmente, perché l’operazione dello sfruttamento abbia luogo, è necessario che la produttività del lavoro sia tale da garantire non solo la sussistenza fisica del lavoratore (la ricostituzione e la riproduzione della forza-lavoro), ma la disponibilità di un sovrappiù. È solo nell’atto dello sfruttamento, e attraverso quest’atto, che il sovrappiù - distaccandosi in tal modo dal lavoro e presentandosi per la prima volta nella storia in quanto tale - viene violentemente destinato alla soddisfazione dei bisogni della sussistenza fisica di un altro, che non partecipa al processo produttivo.
Il modello signorile è contrassegnato dal fatto che l’eccedenza che si manifesta alla fine di un ciclo produttivo, grazie all’attività servile dei produttori, è appropriata con violenza da un individuo il quale può, in tal modo, uscire dalla necessità del lavoro e consumare senza produrre. Il genere umano è dunque spaccato per la prima volta in due tronconi; le uniche figure socialmente ed economicamente riconosciute - intorno alle quali pullula la moltitudine indistinta e assolutamente superflua dei poveri - sono costituite dal servo e dal signore. Il primo, ridotto dallo sfruttamento a mero lavoro alienato, diviene lo strumento subalterno della libertà del secondo, mentre quest’ultimo, il signore, poiché è uscito dalla necessità del lavoro, e si è posto anzi come il fine e la ragione del lavoro altrui, è uscito per ciò stesso da qualsiasi legge comune. Tutto l’edificio sociale è pertanto ordinato alla libera attività individualistica del signore; e poiché costui si pone al di sopra e al di fuori della prima e immediata legge comune concretamente operante nell’assetto economico e sociale - quella del lavoro -, il modello signorile è per principio incompatibile con l’organismo comune della città.
Come abbiamo ampiamente dimostrato, se è vero che l’ordinamento signorile dà luogo a un insediamento concentrato, un tale insediamento si configura poi come un mero agglomerato di residenze, servili e cortigiane, nelle quali l’unica legge in qualche modo operante è quella tirannica del soggiogamento alla libera volontà del signore.
4. ... e il modello borghese
Con il modello capitalistico-borghese, la destinazione dell’eccedenza muta radicalmente di segno. Essa non è più sottratta al ciclo produttivo, ma rimane entro quest’ultimo per allargarlo sempre di più; il suo fine cessa di essere costituito dal consumo del signore, e risiede invece nell’indefinita intensificazione dell’accumulazione del sovrappiù. Nella storia, il modello capitalistico-borghese si realizza quando si afferma una nuova classe: la classe dei borghesi, la classe che sorge dagli antichi gestori del sovrappiù signorile e dallo sviluppo di quei patres familias che, usciti dall’autoconsumo, sono rimasti liberi detentori del sovrappiù prodotto dalla propria attività.
La borghesia, però, può affermarsi - e di fatto si afferma nella storia - unicamente interpretando e utilizzando la tensione di rivolta dei servi contro il signore, ed eliminando quest’ultimo in quanto figura economicamente, socialmente e politicamente dominante. Avendo “ucciso il signore”, la rivoluzione borghese esprime soltanto le esigenze e gli interessi delle classi che sono sempre state - i servi - o che sono divenute -i borghesi - le protagoniste dell’attività produttiva; perciò, da una parte, il lavoro viene a porsi come legge universale dell’assetto economico-sociale (la stessa finalizzazione dell’eccedenza all’accumulazione si configura come la garanzia per la sempre più vasta occupazione del lavoro umano), e dall’altra, questo stesso lavoro, questo lavoro affrancato dalla propria subordinazione al consumo e alla libertà signorili e ordinato ormai a sé medesimo, resta pur sempre consegnato entro quella forma nella quale è stato ridotto dallo sfruttamento. Esso resta, insomma, lavoro alienato, lavoro esclusivisticamente concepito e vissuto come strumento per la produzione di una categoria particolare di beni.
Due rilevanti conseguenze comporta allora (come abbiamo già visto) il modello borghese sul terreno dell’insediamento umano. Da un lato, infatti, poiché la legge comune del lavoro è divenuta ormai norma universale della società, poiché il consumo è vigorosamente determinato - per tutti, almeno nel modello - dalla legge della massima intensificazione accumulativa (è stato ridotto a consumo produttivo), poiché infine, sempre nel modello, è stato eliminato lo sfruttamento e tutti sono ormai egualmente alienati, ugualmente servi dell’accumulazione, ecco dunque che la città può trovare una dimensione sociale, comune nella quale sorgere e affermarsi. Ma dall’altro lato poi, dato che la fuoriuscita dall’ordinamento s1gnorile si è realizzata come secca e radicale eliminazione di tutte le qualità, le dimensioni, i valori di cui si nutriva la libera attività individuale del signore, dato che di conseguenza tutto l’assetto sociale e la vita civile sono esclusivisticamente finalizzati all’economia - la quale è ridotta a produzione di sovrappiù da accumulare - ecco che la dimensione produttiva, nell’atto stesso in cui fa sorgere la città, nega contemporaneamente ogni autonomia al suo ordinamento formale e la aliena.
5. La tendenza catastrofica del modello borghese
La descrizione del modello capitalistico-borghese non sarebbe tuttavia completa e esauriente - sia pure nella sua necessaria brevità - se mancassimo di soffermarci su quella che è indubbiamente una sua caratteristica decisiva e di principio. Ci riferiamo a quel tendenziale catastrofismo che è implicito nella struttura medesima del modello capitalistico-borghese, che ha decisivamente condizionato il crollo clamoroso e sanguinoso dell’assetto sociale in cui tale modello si è espresso, e che ci interessa ora particolarmente di sottolineare per un motivo ben preciso: perché è proprio analizzando tale tendenza che si può cogliere più efficacemente la ragione per cui il sistema sociale ha dovuto uscire dal suo assetto capitalistico-borghese e approdare all’opulenza e, insieme, il modo in cui il modello opulento - l’ultimo, dunque, dei modelli ipotizzabili entro quella determinata concezione del lavoro di cui s’è detto -si è venuto a concretare e a manifestare storicamente.
In realtà, il modello capitalistico-borghese, mentre ha il suo essenziale nucleo di principio e il suo peculiare significato storico nell’invenzione e nell’esaltazione del momento accumulativo, incontra poi fatalmente la propria classica contraddizione proprio nell’incapacità di proseguire il processo di accumulazione del capitale: ed è una contraddizione appunto che si manifesta ed agisce nel cuore stesso del modello, nel suo punto decisivo e centrale. Il sistematico sottoconsumo, conseguente al fatto che l’accumulazione è il fine esclusivo e diretto dell’ordinamento capitalistico-borghese; l’individualismo - l’anarchismo - dominante nel meccanismo del mercato, il quale rende praticamente impossibile tener conto di una domanda nella quale la quota per investimenti diviene sempre più decisiva: questi sono i due aspetti, strettamente intrecciati tra loro, nei quali si esprime la contraddizione dell’assetto capitalistico-borghese, già contenuta nel suo modello. Ma converrà ora esaminarli rapidamente nel loro intreccio, poiché è proprio dalla contraddizione che in essi si rivela e dalla carica catastrofica che da essi si sprigiona, che nasce - ove si rimanga, come si è rimasti, entro quella concezione di lavoro di cui s’è detto - la necessità del realizzarsi del modello opulento.
In un ordinamento economico in cui il fine esclusivo e immediato è costituito dall’accumulazione del sovrappiù, il consumo è necessariamente ridotto a consumo produttivo; esso, in altri termini, non può essere visto, non può esser considerato e commisurato, che come consumo strettamente necessario alla ricostituzione e alla riproduzione della forza-lavoro impiegata nel processo produttivo. A mano a mano che l’accumulazione procede e che aumenta la produttività del lavoro, mentre oltretutto diminuisce progressivamente la quantità di forza-lavoro necessaria alla produzione di una determinata quantità di beni, si aggrava sempre più il divario tra merci effettivamente consumabili e merci prodotte. E poiché d’altra parte il processo accumulativo, per potersi concretamente svolgere, ha bisogno che al suo termine vi sia una sufficiente domanda, ecco dunque che si profila il primo dei due aspetti contraddittori di cui sopra si diceva; ecco che si manifesta nell’ordinamento capitalistico-borghese, a contrastare la possibilità di una domanda adeguata, una strutturale insufficienza del consumo: la minaccia della crisi di sottoconsumo.
Potrebbe a prima vista sembrare che, anche rimanendo entro un quadro strettamente capitalistico-borghese, sia tuttavia possibile sfuggire a una simile crisi. E in effetti, a quanto abbiamo fin qui sostenuto si potrebbe obiettare che quel che conta perché l’accumulazione possa proseguire, è che vi sia al suo termine una adeguata domanda globale, sicché, in definitiva, seppure la domanda per consumi decresce in senso relativo, basta - perché l’accumulazione possa svilupparsi - che aumenti in proporzione la domanda per investimenti. poiché quest’ultima condizione è certamente soddisfatta in un sistema caratterizzato, come quello borghese, dal fine dell’espansione accumulativa, non avrebbe senso parlare, entro un tale sistema, di crisi di sottoconsumo.
A questo punto, contro una siffatta obiezione, si inserisce tuttavia il secondo aspetto della contraddizione insita nel modello capitalistico-borghese. Invero l’unico strumento, pienamente compatibile con quel modello, mediante il quale è possibile misurare l’entità della domanda (e dunque tenerne concretamente conto), è il mercato concorrenziale. Ma quest’ultimo, per definizione, è caratterizzato dall’individualismo, e per ciò stesso, se è in grado di registrare la domanda di beni di consumo, è del tutto inefficiente - com’è d’altronde ormai largamente dimostrato - per valutare la domanda di beni d’investimento, la quale richiede capacità di previsione e d’attesa ben diverse da quelle di cui possono essere dotati i singoli e individuali imprenditori che compongono il mercato, e che per di più sono mossi essenzialmente e principalmente dalla prospettiva di un profitto immediato e diretto.
Da tutto questo consegue che, se il processo accumulativo rimanesse ancora intieramente gestito - a un certo stadio del suo sviluppo - dalla classe borghese, esso perderebbe catastroficamente ogni possibilità di proseguire. La contraddizione, di cui abbiamo ora descritto ambedue i termini, mina alle sue stesse radici, nella sua basilare funzione economica e sociale, la figura medesima del borghese. Costui infatti, da un lato, se vuole poter proseguire - in quanto membro della classe dei gestori del capitale - il processo accumulativo, deve consentire e anzi sollecitare e promuovere l’allargamento del consumo; e dall’altro lato però, poiché - in quanto individuale e privato proprietario del capitale - non può nemmeno concepire una riduzione del proprio profitto e una distrazione di risorse dal fine esclusivo e immediato cui è ordinata tutta la sua attività, un simile allargamento gli ripugna in modo invincibile.
6. Sconfitta del dominio borghese su scala mondiale
Eludere la minaccia della crisi di sottoconsumo, evitare il tendenziale catastrofismo dell’ordinamento capitalistico-borghese, è dunque possibile solo a condizione di uscire dalla rigorosa logica del modello. Difatti, quando Malthus, svelando per la prima volta l’intima, insanabile contraddizione già in atto nel capitalismo dei suoi anni, proponeva alla classe borghese di utilizzare, per sopravvivere, il sostegno fornito dal consumo improduttivo dei ceti parassitari, egli - con malizioso e lucido pessimismo - altro non faceva, in ultima analisi, che ammonire sull’illusorietà delle loro speranze e sulla vanità dei loro tentativi quanti ritenevano possibile proseguire ad infinitum lo sviluppo di un capitalismo borghese ferreamente fedele al proprio modello.
La linea malthusiana era, indubbiamente, l’unica linea che poteva consentire alla borghesia di tamponare gli effetti della crisi di cui era la portatrice, e di conservare al tempo stesso la propria egemonia. Non erano forse già definitivamente battuti -politicamente, socialmente ed economicamente - quei ceti parassitari ai cui consumi oziosi bisognava far ricorso? E però, proprio perché erano già battuti e virtualmente liquidati, proprio perché non costituivano ormai che delle pure sopravvivenze del passato - la polvere della storia -, essi dovevano venir perdendo via via (solo che la classe borghese potesse esprimere con pienezza la sua funzione egemonica) ogni consistenza e persino ogni parvenza di realtà: anche il sostegno meramente passivo ch’essi potevano fornire allo sviluppo del sistema, mascherandone e coprendone la natura contraddittoria, doveva rapidamente vanificarsi.
A mano a mano allora che le posizioni parassitarie e di rendita, sopravvissute all’ ancien regime, tendevano a scomparire; a mano a mano che il capitalismo, con la sua logica inconsapevole, dissolveva i puntelli che gli consentivano di procrastinare l’esplodere della propria contraddizione, quest’ultima doveva per ciò stesso ripresentarsi con tutta la virulenza della sua carica distruttrice. Ed è appunto per tutto questo che è divenuto a un certo momento inevitabile - seppur non si voleva, nelle condizioni storiche date, giungere alla paralisi del processo economico e, di conseguenza, alla catastrofe dell’intero ordinamento sociale - il manifestarsi di una nuova linea: è divenuto addirittura necessario che il dominio di classe della borghesia venisse negato e sconfitto, e che determinate carte, peraltro decisive, passassero nelle mani dell’avversario storico del borghese: nelle mani del proletariato. Il proletariato, infatti, costituisce a ben vedere l’unica classe che, forzando e mutando a suo favore il meccanismo distributivo, pretendendo dosi sempre più larghe di beni di consumo, lottando contro le rigorose barriere del consumo produttivo, può - seguendo la propria stretta logica di classe condurre a quell’allargamento del consumo che è indispensabile per sostenere e proseguire il processo accumulativo capitalistico. È evidente che in tale modo, mentre si esce dalla tendenza catastrofica dell’assetto borghese e dalla logica del suo modello, si esce anche dal dominio di classe che è loro omogeneo: è chiaro, insomma, che il dispiegarsi dell’azione proletaria ha condotto a una svolta di portata storica.
Senza dubbio - e non certamente a caso, ma proprio perché la logica dei principi si realizza puntualmente nella concretezza delle cose - l’affermazione di classe del proletariato e la sconfitta del dominio borghese si sono verificate attraverso un succedersi di crisi e di lacerazioni profonde, in cui si è riflessa e si è ripercossa la disperata volontà della borghesia di non perdere il proprio dominio sulla società mondiale, e si è manifestato il segno, si è determinata la misura, dell’entità della svolta che si veniva producendo. Tuttavia, come abbiamo visto, quel drammatico passaggio di poteri dalle mani della classe borghese a quelle del suo storico antagonista, non era semplicemente il portato di una soggettiva volontà del proletariato e delle sue avanguardie: esso era anche preteso dal tendenziale catastrofismo implicito nel modello capitalistico-borghese.
Così infatti, nella storia, alla fine rovinosa del capitalismo borghese come sistema mondiale maturatasi appunto attraverso una guerra (quella del 1914-1918), ha corrisposto subito - in una parte del globo - il sorgere e l’ affermarsi di un assetto sociale a piena egemonia proletaria che poteva quindi proporsi, quale proprio fine, “l’abbondanza per tutti i lavoratori”. Così - nell’altra parte del mondo - attraverso tutta una serie di nuove crisi culminate nella II guerra mondiale, si è avuto il progressivo estendersi di una prassi politica, sociale ed economica sempre più condizionata dall’azione proletaria e che, proprio per questo, ha finito per trovare nella “democrazia del benessere” il suo più caratterizzante obiettivo. Da un lato e dall’altro di quella linea di frattura il cui manifestarsi, dividendo il mondo in due schieramenti contrapposti, ha segnato la definitiva scomparsa del dominio "borghese sul piano mondiale, si è venuto insomma a sviluppare via via un nuovo assetto, nel quale la prospettiva (o l’immediato realizzarsi) di un allargamento del consumo, si presenta come la diretta conseguenza del ruolo nuovo e determinante che ormai giocano le classi lavoratrici.
7. Consumo opulento dei produttori e tempo libero
Fine del dominio borghese e affermazione proletaria; progressivo allargamento del consumo dei produttori: questi sono dunque gli aspetti che caratterizzano, sul piano della storia, la fuoriuscita dall’ordinamento borghese e l’approdo all’assetto opulento del sistema economico-sociale. Ma possiamo provarci ormai a definire il modello dell’opulenza nelle sue connotazioni essenziali e di principio. È chiaro intanto, in primo luogo, che, come il modello capitalistico-borghese costituisce il rovesciamento di quello signorile, così il modello opulento rappresenta una svolta radicale, e quasi una puntuale antitesi, del modello capitalistico-borghese. Mentre quest’ultimo ha infatti nella produzione il suo momento centrale e decisivo, e mentre in esso la massima quota possibile di sovrappiù viene reinvestita nel processo accumulativo per allargarne sistematicamente le basi, il modello opulento è invece decisivamente caratterizzato dalla destinazione di quote sempre più larghe di eccedenza all’allargamento del consumo dei produttori, il quale diviene la realtà dominante. Si rovescia dunque il rapporto tra accumulazione e consumo; quest’ultimo non è più rigorosamente definito e contenuto entro i limiti del consumo produttivo, in modo da consentire la massima possibile formazione di sovrappiù accumulabile; è invece il processo accumulativo medesimo che viene a pretendere e a sollecitare - per poter concretamente aver luogo - la destinazione di una parte crescente di sovrappiù all’allargamento del consumo.
Poiché tuttavia il lavoro è rimasto alienato, e poiché quindi, nel trapasso dal capitalismo borghese all’opulenza, il bisogno umano ha continuato a restar racchiuso nella cerchia dei bisogni della vita fisica, ecco che l’allargamento del consumo può avvenire solo attraverso la progressiva e indefinita complicazione dei modi in cui viene soddisfatta quella particolare categoria di bisogni, cui è stata ridotta e cristallizzata tutta la dimensione e la realtà del bisogno umano: ecco, insomma, che il consumo diviene appunto opulento.
Il consumo opulento, proprio per questa sua connotazione definitoria, proprio perché è un consumo contrassegnato e definito dall’essere un modo via via più complicato e arbitrario di soddisfare il medesimo bisogno, se può crescere in modo indefinito, non può svilupparsi però al di là di ogni limite, in modo infinito. Esso, in altri termini, poiché non ha alcuna legge interna che ne determini lo sviluppo - è infatti un consumo superfluo - si accresce, è vero, e si espande progressivamente senza che si possa in alcun modo prevedere quando il suo ampliarsi incontrerà il suo limite; e tuttavia un siffatto limite indubbiamente deve, a un certo punto, essere raggiunto, perché la soddisfazione di un determinato bisogno, per quanto ci si possa studiare di presentarla in modo via via più artefatto e complicato, deve necessariamente giungere al momento della propria saturazione. Accade allora, inevitabilmente, che a mano a mano che si arriva al limite, al punto di saturazione opulenta dei vari particolari bisogni che compongono, nel loro assortimento, il bisogno di sussistenza dell’uomo, si giunge per ciò stesso all’indebolirsi e al contrarsi e, via via, allo spegnersi definitivo del processo di allargamento del consumo opulento. Poiché d’altra parte l’aumento della produttività del lavoro rende necessario un ammontare progressivamente decrescente di forza-lavoro, per assicurare il soddisfacimento di quel bisogno che ha ormai raggiunto la propria saturazione opulenta, ecco che il problema dell’accumulazione perde di continuo la propria rilevanza e si manifesta indispensabile la contrazione dell’impiego produttivo del lavoro umano. Ecco che si afferma, con evidenza sempre più ampia e dispiegata, la necessità del tempo libero.
Come il consumo opulento, così anche il tempo libero non può estendersi però, in quanto tale, all’infinito. E difatti, dal momento in cui il bisogno dell’uomo è rimasto fissato e congelato nel modo che più volte si è detto, risulta impedito il processo naturale e organico di sviluppo dell’operazione umana: quel processo di cui il lavoro, il consumo, il bisogno costituiscono, in linea di principio, i momenti successivi tra loro correlati e via via progressivamente crescenti. Inaltre parole, l’uomo non ha trovato nello sviluppo dei propri bisogni i fini, di tipo via via superiore, ai quali ordinare il proprio lavoro, mentre l’aumento della produttività di quest’ultimo, d’altra parte, non si è tradotto - attraverso il consumo - in un continuo e parallelo arricchimento del bisogno.
È appunto per questo motivo, in ultima analisi, che il lavoro - cessata inevitabilmente la deformatrice mediazione del signore - è rimasto ordinato a sé medesimo, e che il mondo umano si è risolto esclusivamente nel lavoro dell’uomo, mentre l’uomo si è racchiuso e ridotto entro la figura dell’homo faber. L’uomo, insomma, può ancora sussistere e riconoscersi come tale solo nella propria dimensione di lavoratore: in una dimensione, tuttavia, che si presenta come inevitabilmente alienata, poiché è sottratta a ogni organica relazione con gli altri decisivi momenti della sua vita. Da tutto ciò consegue altresì che all’uomo - sebbene egli debba, nell’ordinamento dell’opulenza, allargar di continuo il proprio consumo, e tale allargamento non richieda più ulteriori dosi di lavoro - è rimasto un unico titolo per poter continuare a esistete in quanto soggetto economico, e per poter fruire del consumo opulento: quello d’esser, almeno formalmente, un lavoratore.
Ecco perché, nel concreto della vita sociale, il tempo libero non può estendersi oltre ogni limite; ecco perché si presenta, sempre più spesso, nella forma del lavoro superfluo, di un’attività umanamente ed economicamente priva di scopo e di significato. L’espandersi, oltre ogni necessità e ragione, delle “attività terziarie”; l’ipertrofico gonfiarsi degli “intellettuali integrati”, dei “tecnici della persuasione”, dei professionisti della “mediazione culturale”; il progressivo complicarsi degli apparati distributivi e pubblicitari; il medesimo ripiegamento verso forme individualistiche di produzione artigianale nell’ambito di un processo produttivo altamente socializzato e industrializzato (il bricolage, il build it yourself); non sono forse, tutti questi fenomeni e aspetti della vita contemporanea, anche la prova evidente di una vera e propria mistificazione del tempo libero, di una dissimulazione di quest’ultimo nelle forme coperte e surrettizie di un lavoro privo di qualunque reale contenuto e concreta necessità economica? Non trovano forse, queste varie incarnazioni del lavoro superfluo, la loro vera ragione di fondo nella necessità per l’uomo di conservare -sia pure soltanto formalmente, sociologicamente o addirittura psicologicamente la qualifica di produttore?
8. Novità del modello opulento
Possiamo ritenere a questo punto di aver sufficientemente sintetizzato, nelle sue caratteristiche essenziali, il modello dell’opulenza e il relativo assetto del sistema sociale. Quest’ultimo dunque - vogliamo sottolinearlo conclusivamente - è fondamentalmente caratterizzato e definito, nella sua fase opulenta, dall’intreccio di due realtà assolutamente nuove nella storia: il consumo opulento dei produttori, e il tempo libero, diretto o mascherato che sia. E si deve allora convenire che l’uomo, nel quadro della società opulenta, anziché esser visto come un lavoratore che consuma per poter continuare a produrre (che consuma, cioè, solo nella misura necessaria ad assicurare la libertà dal lavoro del signore, o a fornire quelle risorse che il borghese gestirà nel senso di garantire la massima esplicazione possibile del processo accumulativo), è visto come un consumatore che deve consumare sempre di più, lavorando sempre di meno. Questo è il modello, l’assetto del sistema economico-sociale, cui gli urbanisti di fatto si riferiscono o a cui alludono quando parlano di “società dei consumi” o di “opulentismo” o di “terziarizzazione”, o quando adoperano altre consimili espressioni. E crediamo che sia ormai chiara la ragione per cui, nell’iniziare questo capitolo, abbiamo sottolineato l’interesse del fatto che l’attuale cultura urbanistica comincia ad avvertire il mutamento che si è prodotto nell’ambito del sistema sociale.
Quel mutamento, infatti, si configura nei termini di una svolta radicale, profonda, irreversibile, che investe e trasforma tutti gli aspetti, le dimensioni, i valori, le categorie della vita della società e dell’uomo. Essa non può dunque mancar di riflettersi, in modo decisivo, sulla condizione e sui destini della città. Questa è certamente divenuta - poiché vive in un nuovo orizzonte sociale, politico, economico - una realtà che non può più esser compresa ne sviluppata mediante il semplice prolungamento di operazioni e ragionamenti pedissequamente ancorati alle posizioni anteriori alla svolta dell’opulenza.