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Edoardo Salzano
Lezione a San Pietro di Casale
20 Febbraio 2005
Lezioni all'università
I materiali per una lezione, dal titolo “Le nuove leggi urbanistiche: l’opportunità per costruire nuove strategie territoriali e nuove relazioni tra istituzioni, cittadini e operatori economici”, che ho tenuto il 31 ottobre 2003 a San Pietro di Casale (allegato il testo integrale)

Premessa

Quelli che seguono sono i materiali di una lezione che ho tenuto al Corso per funzionari pubblici ”Conoscere e ripensare per ripensare e pianificare”, organizzato a San Pietro di Casale dal Dipartimento di pianificazione dell’Università Iuav di Venezia.

Il tema che mi era stato assegnato ha costituito anche - nella ricchezza della sua articolazione – la scaletta della mia lezione. Questa si è sviluppata nei seguenti passaggi.

Ho riassunto prima il breve panorama della recente legislazione regionale (dalla lex Toscana 1995 alla lex Calabria 2002), illustrandone quelli che a mio parere ne sono i principali elementi innovativi, sulla base delle pagine raccolte nella prima parte di questo testo.

Ho cercato poi di ragionare su quali siano le strategie territoriali che le nuove leggi consentono di definire e di praticare e quali siano, a questo proposito, i limiti di una pianificazione urbanistica non correlata agli altri strumenti necessari per il governo del territorio. Su questa parte dei materiali che avevo preparato sono poi tornato successivamente, integrando la seconda parte del testo che segue.

Mi sono infine interrogato su quali siano le nuove relazioni tra soggetti che le nuove leggi prefigurano e in relazione alle quali forniscono strumenti (nuovi o reinterpretati), esaminandoli in rapporto ai diversi tipi di soggetti e alla gerarchia tra di essi. Per questa terza parte della lezione ho utilizzato alcuni paragrafi nei nuovi capitoli del mio Fondamenti di urbanistica, la cui quinta edizione aggiornata sarà in libreria alla fine di novembre 2003..

La recente legislazione regionale

[omissis]

Nuove strategie territoriali

Che vuol dire strategie territoriali

Partiamo dalla parola: Strategia

In Italia, e soprattutto nel nostro mondo, spesso si usano i termini a sproposito, e quindi si deforma il significato, i contenuto e l’obiettivo in relazione al quale quei termini sono stati coniati. Che Bossi adoperi il termine “sussidiarietà” in modo radicalmente diverso da Jaques Delors, suo inventore, non stupisce, ma che anche Bassanini usi quel termine per dire “privato è meglio” turba i suoi estimatori. Che sostenibilità significhi nel linguaggio corrente “bisogna voler bene all’ambiente” scandalizza solo quei pochi che conoscono la definizione ufficiale di “sviluppo sostenibile” coniata dalla Commissione Brundtland dell’ONU, che pochi ricordano nel suo significato reale.

Così per “strategia”. Perciò, vorrei partire dal significato letterale del termine.

Sappiamo che è un termine relativo all’ìarte militare: ce lo ricordano tutti i dizionari. Sappiamo che si oppone all’altro termine dell’arte militare, la tattica. La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia.

La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica).

Leggiamo qualche testo recente, non dell’arte militare ma di quella aziendale.

In termini concreti, occorre sviluppare piani temporali di lungo periodo, da cui ricavare tattiche di medio e breve periodo come guida per l'operatività quotidiana (pianificazione a ritroso). Ad esempio, se un obiettivo di lungo periodo è dato dal passaggio in 5 anni da 250 milioni a 5 miliardi di fatturato sul mercato tedesco, da esso derivano accordi e appuntamenti con strutture distributive, partecipazione a fiere, visite e ispezioni di mercato le quali andranno calendarizzate a partire dal giorno dopo [2].

Mi sembra una definizione chiara, coerente con quella originaria del termine. Ma vediamo anche un’altra definizione, applicata questa volta alla pianificazione: una definizione di “pianificazione strategica”.

Pianificazione strategica: un po’ di confusione

Vediamo una prima definizione, che proviene da un istituto specializzato, il FORMEZ.

La Pianificazione Strategica è "una disciplina che addestra all'impiego di metodi mirati a migliorare la razionalità delle decisioni (o delle azioni) nella gestione sistematica ed integrata degli affari pubblici".

Essa rappresenta un modo nuovo di concepire la gestione degli affari nella Pubblica Amministrazione, basato sulla razionalità delle decisioni. Una decisione è razionale quando è coerente con i suoi obiettivi e compatibile con le possibilità e i vincoli esistenti e/o con i mezzi a sua disposizione.

Essa costituisce il fulcro di quella "riforma" che è alla base di una "nuova gestione pubblica" ("new public management"), che vede l'introduzione nella Pubblica Amministrazione di una programmazione (o pianificazione) "strategica" fondata sulla realizzazione di qualsiasi intervento secondo "programmi"[3].

Questa definizione mi sembra molto più pasticciata. Fa coincidere, sostanzialmente, strategico con razionale. Significa svuotare del tutto il senso.

A Barcellona

Più interessante, e più coerente col significato reale del termine “strategia”, è l’interpretazione della pianificazione strategica che hanno dato a Barcellona.

Il 9 dicembre 1987 il Comune di Barcellona con una conferenza stampa comunicava ai propri cittadini un progetto per rilanciare il ruolo economico della città. Punti salienti di tale approccio erano l´applicazione di cicli economici alle città, la necessità di affrontare la sfida di un "cambiamento duraturo"e la straordinaria importanza per la città di un evento come le Olimpiadi del 1992. Ma la Barcellona delle Olimpiadi avrebbe continuato a vivere anche negli anni successivi, nel 2000, 2001, 2002 e di conseguenza come sarebbe stato possibile garantire una continuità di sviluppo? [4]

Si trattava, insomma, di vivere gli episodi contingenti (nel caso specifico, le Olimpiadi previste per il 1992) non come evento singolare, ma come tappa di un processo finalizzato a orizzonti più vasti: strategici, insomma. Si trattava di vivere la contingenza non fine a se stessa, ma come evento tattico di una strategia. Per fare ciò, occorreva delineare la strategia prima di affrontare l’episodio tattico. Ecco perchè decisero di utilizzare lo strumento della pianificazione strategica, che “era un concetto noto in ambito militare ed imprenditoriale ma pressoché sconosciuto nella sua applicazione a livello urbano”. In realtà

Prima di quella data esistevano soltanto gli schemi - divenuti obsoleti - della pianificazione indicativa oppure i piani regolatori tradizionali. […] L´aspetto innovativo della pianificazione strategica consisteva nella capacità di far comprendere ai cittadini che il futuro di una città non avrebbe avuto un andamento lineare, bensì sarebbe stato il risultato di un sistema complesso di relazioni tra i cosiddetti agenti economici e sociali presenti sul territorio. Tali relazioni poggiavano da un lato sul consenso necessario per realizzare determinati obiettivi, evitando il libero gioco dell´improvvisazione e le impostazioni aleatorie a fronte dei cambiamenti ambientali, e dall´altro sulla partecipazione e la complicità dei cittadini. In sostanza l´obiettivo si sarebbe potuto realizzare solamente grazie alla definizione di una visione "condivisa" della città, che sarebbe potuta diventare realtà attraverso un piano di obiettivi e azioni [5].

Per concludere su questo punto

Per concludere su questo punto, direi che il concetto di strategia, nel campo del territorio e del suo governo, ha a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro.

Ma assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da ujn regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso.

Al consenso e al modo di costruirlo accenneremo più avanti. Adesso domandiamoci quali scelte scaturiscano dalle recenti legislazioni urbanistiche regionali in termini di contenuti strategici.

I contenuti delle scelte strategiche sul territorio

Le risorse territoriali

Mi sembra che la maggior parte delle leggi urbanistiche regionali attribuiscano un ruolo centrale al’esigenza di impiegare nel modo più razionale le risorse del territorio: quelle elementari e basilari (l’acqua, il suolo, l’energia, l’aria, la vegetazione) e quelle costruite dalla storia (il paesaggio, i centri e i manufatti storici, le riserve archeologiche, l’armatura urbana). Qualche accenno si trova anche alle risorse immateriali.

Il modo più razionale in relazione sia agli impieghi attuali (alle necessità della generazione presente) che agli impieghi futuri (alle necessità delle generazioni future. In questo senso, la maggior parte delle leggi si riferisce alla parola (e, si deve credere, anche al concetto) di sostenibilità.

Evidenti sono le ragioni di ciò.

1. la consapevolezza del loro valore intrinseco delle risorse (per la sopravvivenza biologica, per la salute, per la sicurezza, per la memoria, per la cultura, per il piacere) e dal rischio posto dalla non riproducibilità.

2. la consapevolezza del fatto che il mercato (arbitro esclusivo di tutto ciò che avviene fuori dall’ambito del government) non riconosce quel valore delle risorse, e quindi – ove le risorse siano lasciate sotto il suo esclusivo dominio –quel loro valore rischia di essere distrutto.

3. la consapevolezza del fatto che l’utilizzazione ragionevole e lungimirante delle risorse territoriali esige decisioni regolative e politiche territoriali di lungo periodo, tale essendo l’arco temporale necessario a incidere duraturamente su di esse.

Lo sviluppo economico

Le linee “strategiche” dello sviluppo economico sono ovviamente fondamentali per definire gli scenari territoriali. Le trasformazioni territoriali sono finalizzate agli usi delle sue varie parti, e questi sono in qualche modo funzionali al carattere della vita economica e sociale. Le risorse necessarie alle trasformazioni sono una delle componenti della spesa, pubblica e privata, la cui ampiezza è condizionate dalla situazione economica. E il modo stesso in cui vengono impiegate le risorse territoriali condiziona lo sviluppo economico. Non ci si pensa mai, ma facilitare gli afflussi di investimenti nei settori ad alta intensità di rendita significa scoraggiare gli afflussi nei settori ad alta intensità di profitto.

Ciò detto, la capacità di trovare una sintesi adeguata tra l’esigenza dello sviluppo economico e quella di garantire un uso sostenibile delle risorse territoriali è il vero banco di prova della efficacia delle politiche territoriali omnicomprensive (come la pianificazione strategica ha l’ambizione di essere). Diffiderei fortemente di una pianificazione strategica nella quale si trovi subito, e facilmente, un accordo, una sintonia tra quelle due esigenze. Sospetterei che quella pianificazione strategica si riducesse a una serie di affermazioni generiche.

Il vero problema è che lo sviluppo economico che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli è uno sviluppo che ha divorato risorse territoriali restituendo pochissimo: è stato assolutamente in-sostenibile. (I francesi invece di sostenibile dicono durable, durevole. Possiamo dire che l’attuale sviluppo è non-durevole, destinato a non durare, a spegnersi e morire).

Si è parlato di “riconversione ecologica dell’economia”[6]. Oggi si parla di “modernizzazione ecologica dell’economia”. La illustra Edo Ronchi, a proposito del World Summit di Johannesburg (4 Settembre 2002):

La più importante novità di Johannesburg ritengo sia proprio la rilevanza attribuita al cambiamento dei modelli di produzione e di consumo insostenibili, cambiamento collocato tra i tre obiettivi e presupposti fondamentali dello sviluppo sostenibile.[…] In linea generale viene proposto di “sviluppare politiche di produzione e di consumo che migliorino i prodotti ed i servizi forniti riducendo gli impatti sull’ambiente e sulla salute”, aumentando notevolmente l’ecoefficienza, in modo da poter fare di più e meglio, per far fronte ai bisogni di tutte le popolazioni della Terra, con minor consumo di risorse naturali e minore inquinamento.

Si afferma, inoltre, che occorre “aumentare notevolmente e con urgenza la quota globale delle fonti di energia rinnovabile”, insieme ad “un uso più efficiente dell’energia” e ad “un’accelerazione delle tecnologie ad alta efficienza energetica”.

Per i trasporti, altro settore strategico, il Piano indica la necessità di avere trasporti “accessibili, efficienti e comodi”, con tecnologie veicolari, modalità e destinazioni d’uso del territorio che consentano di migliorare la qualità dell’aria delle città e di ridurre l’emissione di gas-serra, nonché la congestione del traffico.[…]

Il terzo settore nel quale viene posta l’attenzione del Piano di Johannesburg riguarda i consumi di materiali per i quali si richiede di “minimizzare e prevenire gli sprechi e massimizzare il riutilizzo, il riciclaggio e l’uso di materiali ecocompatibili…..per minimizzare gli effetti nocivi sull’ambiente e migliorare l’efficienza delle risorse”. l che comporta, tra l’altro, di “promuovere la prevenzione e la minimizzazione dei rifiuti incoraggiando la produzione di beni di consumo riutilizzabili e di prodotti biodegradabili”, nonché “costruire sistemi di gestione dei rifiuti dando la massima priorità alla prevenzione ed alla minimizzazione dei rifiuti, al riuso ed al riciclaggio….”.

Infine, l’attenzione viene posta sui prodotti chimici ed i rifiuti pericolosi, che vengono generati in grandi quantità e diffusi praticamente in tutto il Pianeta, per i quali si richiama la necessità di applicare il principio di precauzione[7].

Mi sembra che la definizione di “modernizzazione ecologica” che emerge da questa esposizione (certamente corretta) del “piano di Johannesburg abbi però un limite. Parla ci correttivi da applicare all’attuale assetto della catena produzione-consumo. A me sembra che nel mirino si dovrebbe porre anche la questione del che cosa produrre, per quale consumo.

A me sembra che l’unica modulazione del tema dello sviluppo economico nell’ambito di una pianificazione strategica non evasiva né contraddittoria con l’opzione ambientalista sia quella che assume in pieno la tensione implicita nell’espressione “modernizzazione ecologica dell’economia”. Non è una direzione di marcia facile, ma è l’unica coerente con la nozione di lunga durata, che è componente essenziale della dimensione strategica della pianificazione.

Le esigenze urbane

Il territorio è il luogo di una economia, ma è prima ancora il luogo di una società. Allora sono le esigenze della società (dell’uomo in quanto membro di una collettività) che devono comparire con evidenza nei contenuti della pianificazione e nutrire la sua dimensione strategica.

Dell’uomo in quanto membro di una collettività: infatti è questa la dimensione dell’uomo che ha dato luogo alla città, e a quel ramo del sapere che dalla città prende nome. La città è nata per soddisfare bisogni che l’uomo e la sua elementare aggregazione non riusciva a soddisfare (o soddisfare in termini funzionalmente, economicamente e politicamente adeguati). La pianificazione è nata per conferire ordine, funzionalità e bellezza alle trasformazioni necessarie per soddisfare quelle esigenze. Ed essa si è allargata dalla città al territorio (dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione territoriale) quando quelle stesse esigenze hanno richiesto l’impiego di risorse territoriali anche fuori dalla stretta cerchia delle mura urbane.

Tra trutte le esigenze (l’abitazione, la scuola, la salute, la cultura, la ricreazione ecc.) mi sembra che quello che più ponga problemi ed esiga attenzione, nella prospettiva strategica, sia quello della mobilità e dell’accessibilità. Ciò per almeno due buone ragioni.

Perché il modo in cui è oggi soddisfatta l’esigenza della mobilità rappresenta una delle più vistose componenti dell’insostenibile dissipazione di risorse che caratterizza la nostra epoca, e che minaccia la sopravvivenza della nostra civiltà.

Perché modificare questo modo, e costruire un sistema di localizzazioni e di modalità di trasferimento compatibile con l’imperativo di usare parsimoniosamente le risorse e con l’altro imperativo di garantire accessibilità adeguata, richiede un impegno di vastissima portata, quindi veramente strategico.

Quali strumenti per una strategia territoriale

Gli strumenti tradizionali

Fino a non molti anni fa, nel nostro paese gli strumenti che venivano utilizzati per delineare una strategia territoriale erano o gli strumenti urbanistici (e in particolare quelli d’area vasta), o i documenti politici. In generale, esclusivamente regolativi i primi, meramente esortativi i secondi. Con questi due atributi non intendo dare alcun valore negativo né agli strumenti urbanistici né ai documenti politici (rinnegherei quarant’anni della mia vita), solo indicare i limiti di entrambi quegli strumenti.

Una parentesi interessante si è avuta agli albori dell’avvio dell’ordinamento regionale, quando gruppi di esperti, attorno alle sedi decentrate del Ministero dei LLPP (i Provveditorati regionali alle OOPP), in collaborazione con il neonato Ministero della programmazione economica, diedero vita ai Comitati regionali per la programmazione economica (CRPE) con il compito di “articolare territorialmente la programmazione economica. Tra il 1965 e il 1970 i CRPE fecero un consistente lavoro di analisi, di definizione di scenari, di definizione di progetti territoriali. In molte regioni fu i primo tentativo di definire una identità regionale.

Abbandonata la programmazione economica (prima a livello nazionale, poi nelle regioni) un nuovo tentativo di saldare tra loro i vari momenti e le varie dimensioni di una prospettiva strategica del territorio può essere considerata l’Agenda 21 Locale. Parte dall’esigenza di fare i conti con l’ambiente, ma è passibile di sviluppi interessanti.

L’Agenda 21

Vi parlerò dell’Agenda 21 utilizzando un testo molto chiaro e intelligente[8].

L’Agenda 21 nasce in una sede internazionale

Nel giugno del 1992 il grande Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), ufficializza definitivamente la concezione dello sviluppo sostenibile a livello internazionale, sottoscrivendo un ampio documento definito “Agenda 21” (un Agenda di azioni per il 21° secolo) dove, in 40 capitoli, vengono tratteggiati gli elementi essenziali per far imboccare a tutte le società umane la strada di una sostenibilità del proprio sviluppo economico e sociale.

L’Agenda 21 è un programma d’azione per tutta la comunità internazionale ma non contiene obblighi giuridici.

L’Agenda 21 è ispirata al principio di integrazione delle politiche ambientali con quelle economiche e sociali e tende a tradurli in pratica in più di un centinaio di aree di programma che spaziano dall’atmosfera ai suoli, alle montagne, alle acque del pianeta ed in numerosi altri campi quali la scienza, la tecnologia, l’informazione ecc

Interessanti sono, ai nostri fini, le ricadute locali della direttiva delineata a Rio De Janeiro.

Secondo il documento di base “ogni autorità locale, dovrebbe dialogare con i cittadini, le organizzazioni locali e le imprese private ed adottare una propria Agenda 21 locale. Attraverso la consultazione e la costruzione del consenso, le autorità locali dovrebbero apprendere ed acquisire dalla comunità locale e dal settore industriale, le informazioni necessarie per formulare le migliori strategie”. In sostanza,

L'Agenda 21 Locale è il processo di partnership attraverso il quale gli Enti Locali (Comuni, Province, Regioni) operano in collaborazione con tutti i settori della comunità locale per definire piani di azione per perseguire la sostenibilità a livello locale.

Non è un documento, nè una serie di documenti, è

uno strumento difficilmente codificabile, considerata la diversa natura dei problemi affrontati e le differenti priorità che contraddistinguono le autorità locali nella loro articolazione gerarchica e nella loro distribuzione territoriale. Un processo, dunque, e non (solo) un prodotto. Non ha senso pensare ad un’Agenda 21 Locale come un Piano d’azione predisposto da un referente esterno all’Amministrazione, senza un confronto con la comunità locale. Non si tratta neanche di un semplice processo di animazione sociale al cui termine si tratti solo di scrivere una carta o un documento di buone intenzioni, senza aver definito, anche dal punto di vista tecnico, gli strumenti per la sua attuazione.

Più precisamente, l’Agenda 21 locale è

un processo di programmazione partecipata, capace di avviare strategie di sviluppo sostenibile, rispondenti alle caratteristiche locali, capaci di guardare al medio- lungo periodo e strutturate in modo integrato.

Secondo gli autori del testo che sto utilizzando, l’Agenda 21 locale ha, tra i suoi requisiti, quello di riguardare “l’integrazione degli aspetti ambientali, sociali, economici e culturali nonché la qualità della vita della popolazione locale”.

I “requisiti minimi” necessari alla costruzione efficace d’una Agenda 21 locale non sono pochi, né facili da ottenere nella maggioranza delle situazioni italiane. Essi sono:

Il coinvolgimento dei diversi attori.

La volontà e motivazione del governo e delle strutture pubbliche locali.

La strutturazione di forme di progettazione partecipata.

La consultazione permanente.

La disponibilità di informazione e l'attività di diagnosi.

La visione strategica e i Target.

La costruzione di un Piano d'azione integrato, da attuarsi sulla base del principio di sussidiarietà.

La capacità di attuazione e di monitoraggio.

Interessanti mi sembrano le valutazioni che nel documento si enunciano a propostio delle debolezze della pianificazione ordinaria.

i diversi strumenti mantengono un carattere “settoriale” e parziale e raramente ricercano epraticano le opportunità di integrazione e di potenziamento reciproco;

le analisi ambientali preliminari sono scarsamente sviluppate e limitate dalle carenze nei datidisponibili;

gli strumenti metodologici per l’analisi ambientale (gli indicatori, i metodi di elaborazione) eper la valutazione (tecniche previsionali, obiettivi di riferimento) sono poco noti e applicati;

il coinvolgimento degli uffici e dei servizi incaricati della protezione ambientale è spesso marginale o attuato solo nella fase finale di approvazione dei piani;

il coinvolgimento di soggetti sociali è limitato ai soggetti più tradizionalmente riconosciuti e non coinvolge in modo allargato il mondo più vasto delle associazioni no-profit e dei comitati locali;

la partecipazione è praticata più come ricerca di consenso che non come coinvolgimento “alla pari”, nella determinazione di obiettivi e nella assunzione di responsabilità;

i piani hanno speso carattere scarsamente operativo ed è poco sperimentata la pratica della costruzione di partenariati e di affidamento a soggetti non istituzionali (no-profit) con procedure basate sul principio di sussidiarietà;

non è ancora consolidata la capacità di progettare soluzioni innovative e azioni positive,l’ambiente è considerato essenzialmente come vincolo da rispettare e non come opportunità di sviluppo;

manca tuttora un approccio di lungo termine nella pianificazione.

Gli autori rilevano che

“queste difficoltà di integrazione della sostenibilità nella pianificazione locale in Italia, possono, almeno in parte, essere affrontate proprio attraverso l’Agenda 21 locale che può cioè cercare di colmare gli spazi ancora vuoti e di innovare questo sistema, interagendo direttamente con esso”.

Anche l’attuazione italiana dell’Agenda 21 non è priva di debolezze. Ma mi sembrano interessanti soprattutto le osservazioni su alcune “intrinseche debolezze concettuali”.

“Sostenibilità, spesso e volentieri, ha dimostrato di contenere troppi margini di genericità e ambiguità; fino ad apparire una parola passpartout che giustifica politiche le più disparate. Troppo spesso nel tentativo di coniugare economia e natura è stato assunto il solo punto di vista dell’economia. Così molte politiche ambientali in realtà sono risultate essere un tentativo di forzare i limiti degli ecosistemi naturali adattandoli alle necessità degli insediamenti umani e ai bisogni delle attività economiche. Molto spesso le politiche ambientali si limitano ad intervenire a valle delle attività di trasformazione dell’ambiente con operazioni di sola mitigazione, di compensazione, di internalizzazione monetaria delle esternalità negative. Quasi mai, invece, partendo dalla necessità della protezione delle risorse naturali si giunge a mettere in discussione processi e prodotti economici. Per indorare la pillola a chi detiene il cordone della borsa si sono dette e ripetute frasi farisaiche del tipo: l’ambiente è una opportunità e può essere trasformato in ricchezza; investire in protezione ambientale è un affare economico. Con questo atteggiamento di ossequioso rispetto delle convenienze economiche molto spesso si evita di affrontare problemi quali quelli della limitatezza delle risorse, dell’entropia e della termodinamica globale, della capacità di carico degli ecosistemi, del “valore” economico dei servizi degli ecosistemi indipendentemente dal loro utilizzo. In definitiva spesso si evita di riconoscere la questione culturale centrale messa in luce dal pensiero ecologico: l’economia è un sottosistema dipendente dal mondo biofisico (ecosfera) e dai processi vitali generati dai flussi di materia e di energia. Le scienze della vita usano unità di misura fisiche, che non sempre è possibile, né utile, contabilizzare in quantità di denaro equivalenti.”

“Il problema della scala territoriale (locale) più opportuna per comprendere le interazioni tra economia e ambiente naturale dovrebbe essere risolto a favore dell’unità eco-geografica fisica che definisce gli ecosistemi omogenei, del bacino idrografico, ad esempio, da una parte, e dell’ecosfera dall’altra. Ma questa semplice constatazione presuppone la capacità di agire una riforma politico-istituzionale non da poco. Senza di ciò l’ambito operativo delle Agende 21 rischia di risultare eccessivamente limitato alla dimensione dei servizi ecologici urbani e – anche nei migliori dei casi – le azioni locali hanno poche possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese ai “piani alti” del sistema politico nazionale e internazionale”.

Tutta la procedura d’azione del processo immaginato dalla Agenda 21 è attraversata dall’idea (a dire il vero un po’ illuministica) di poter avviare un dialogo alla pari e una cooperazione volontaria tra “attori sociali” generici ed equivalenti (associazioni, imprese, cittadini, ecc.) ritenuti interessati ad assumere una visione condivisa di lungo periodo e su un larghissimo spettro di questioni. Non solo, l’accordo dovrebbe riguardare anche le modalità e le azioni necessarie a realizzare il futuro atteso. In una parola attraverso le procedure dell’Agenda 21 si giungerebbe ad una coesione sociale della comunità locale e ad un consenso sull’azione di governo. Siamo alla “joined-up governance”, al governare insieme in nome di un futuro condiviso. Se ciò accadesse sarebbe un vero miracolo, in un’epoca di crisi della rappresentanza politica degli interessi e di caduta della partecipazione democratica. Il rischio invece è che si tratti di una illusione, per un verso, e di una trappola, per un altro”

Tradizione e innovazione

Quel poco di esperienza personale che ho a proposito di Agenda 21, e quel molto di esperienza personale che ho a proposito di amministrazione locale dell’urbanistica, mi inducono a una duplice riflessione: l’una sull’Agenda 21 nel contesto italiano, l’altra, più generale, sul rapporto tra tradizione e innovazione.riflessione.

La possibile missione dell’Agenda locale 21 è quella di porre la questione ambientale al centro delle politiche locali, ispirandone e verificandone le scelte sia sul piano delle trasformazioni del territorio sia su quello dell’allocazione delle risorse finanziarie: condizionando quindi la politica di bilancio e la politica urbanistica degli enti locali. All’utilità generale derivante da questa missione la prassi dell’Agenda 21 locale ne aggiunge un’altra, altrettanto rilevante: essa può arricchire politica urbanistica e politica di bilancio di alcuno nuovi strumenti, capaci di rinsaldare il rapporto dialettico tra governanti e governati, decisori e “decisi” (rinvio alle parole: ascolto, partecipazione, consenso, monitoraggio, verifica).

Questo nella teoria. Ma in realtà, nel calarsi nel contesto reale, le cose stanno andando diversamente. L’Agenda 21 è il compito (e l’ornamento) dell’Assessore all’ambiente, il quale di fatto opera nel modo più separato possibile dall’Assessore al territorio e dall’Assessore al bilancio (così come una volta Assessore all’urbanistica e Assessore ai lavori pubblici nelle giunte degli anni 60, 70 e 90 del secolo scorso). E in genere le competenze sono affidate ad assessori di orientamento politico diverso (come del resto avveniva una volta). Esito finale: nonostante le sue potenzialità, l’Agenda 21 diventa la chiusura in uno scrigno separato delle esigenze di tutela dell’ambiente e di partecipazione dei cittadini.

Sta avvenendo anche in questo caso ciò che avviene in moltissimi altri casi, per moltissime innovazioni proposte (dai “programmi complessi” alla “pianificazione strategica”, dalla “VIA” all’”Agenda 21”. Ci si divide in due categorie di pensatori e operatori.

Da una parte, quelli che, appena una novità appare all’orizzonte, l’abbracciano e vedono solo quella. Trascurano le permanenze, il contesto, le tradizioni e le loro ragioni. Si astraggono dalla realtà, o ne vedono solo la parte che giustifica la loro innovazione. Naturalmente, alla lunga rimangono impaludati nell’odiato contesto, e la sterilità diventa il loro destino. Questa schiera brulica di pensatori.

Dall’altra parte, quelli che in ogni innovazione proposta vedono un rischio e un’intenzione malevola, e quindi restano abbarbicati al contesto, alle tradizioni, alle permanenze, trascurando le loro insufficienze e le possibilità – magari limitate e parziali – offerte nalle innovazioni. Ma finiscono per essere travolti, o emarginati, dall’audience che esse comunque garantisono. In questo partito militano ovviamente più operatori.

Come spesso avviene, la verità è nella sintesi: nella capacità di introdurre le innovazioni in un contesto di cui si siano comprese le regole: sia quelle che meritano di essere conservate e vivificate, sia quelle che meritino di essere cambiate o cancellate. Ma è certo un’operazione più complessa sia della semplice resistenza al nuovo sia della rozza distruzione del passato.

Governance: significato e limiti d’un termine nuovo

La governance, come nasce

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati[9]. Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[10].

“[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale” [11]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

“un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti” [12]

altri come

“le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica” [13].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

“la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali” [14].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Non è vero che tutti gli attori sono uguali

Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.

Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Gli interessi privati

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

E la partecipazione?

Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale [15]. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti

“se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia” [16].

Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,

“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione” [17].

Per concludere che

“a partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza” [18].

Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.

Che fare?

Pianificare si può

Nuove procedure di pianificazione, nuovi strumenti più adeguati ai problemi nuovi e alle esigenze dei tempi nostri sono stati introdotti non da una palingenetica riforma urbanistica, ma dai legislatori regionali: con norme dove più, dove meno soddisfacenti ed efficaci, ma comunque ormai sottoposte al solo vaglio dell’esperienza. La questione dei vincoli urbanistici, cioè della capacità dell’autorità pubblica di dettare le sue regole nell’interesse della collettività (naturalmente, dove tale interesse voglia e sappia esprimere) è almeno fortemente sdrammatizzata: non occorre infrangere un tabù se si vogliono tutelare spazi per le utilizzazioni pubbliche, se si vogliono risparmiare estese porzioni di campagna dall’invasione edilizia.

Insomma, la pianificazione urbanistica e territoriale si può fare. Che la si faccia bene o male, questo dipende da due sole condizioni: dalla capacità degli urbanisti di fare il loro mestiere, e dalla volontà della concreta società locale per la quale essi lavorano di governare il territorio in modo avveduto e sostenibile[19].E la questione più rilevante mi sembra proprio questa: come realizzare l’incontro tra la capacità tecnica e la volontà politica, tra urbanistica e polis.

La questione del consenso

È probabilmente necessario costruire un processo di pianificazione in cui la tessitura del consenso sia parte integrante. Dove, naturalmente, il consenso non sia il compromesso raggiunto sottobanco tra interessi forti, con la copertura culturale dei tecnici. Dove non accada, per adoperare le parole di Luigi Mazza, che “indagini, trattative, negoziati, conflitti si [svolgano] al di fuori delle procedure normali e [vengano] formalizzati a valle attraverso la registrazione nel piano urbanistico”, talché “il piano regolatore, che istituzionalmente è una legge, diviene soprattutto la registrazione di un contratto redatto sulla base di rapporti negoziali tra soggetti di natura diversa”[20].

Un processo di pianificazione, invece, che rappresenti la sintesi tra esigenze e interessi diversi, culturali e sociali ed economici, i quali trovino il criterio di valutazione in un interesse generale: una sintesi costruita con trasparenza ed attuata con efficacia.

A individuare e praticare un simile processo di pianificazione le tecniche dello strategical planning, quelle più antiche dell’advocacyplanning e quelle più recenti della visionofcities, possono fornire utili suggerimenti. A condizione che non si dimentichi che si tratta di esperienze e tecniche costruite in un paese (gli Usa) dove la pianificazione non ha nessuna cogenza, e quindi la sua efficacia è interamente affidata alla preventiva formazione del consenso: una debolezza intrinseca del processo di pianificazione, rispetto alla quale il modello europeo ha certamente molte più carte da giocare.

Se l’innovazione nei procedimenti della pianificazione non vuol essere una fuga verso nuove utopie o nuove dissipazioni essa deve necessariamente farei conti con le nostre radici, con la nostra storia. Deve quindi, in primo luogo, fare i conti con la politica.

La politica

Più volte ho sottolineato il nesso tra politica e urbanistica, e la sua importanza non solo semantica. L’urbanistica è uno strumento della politica, forse una sua dimensione. Quale politica è allora necessaria perché l’urbanistica possa svilupparsi, agire, essere socialmente utile nell’immediato (cioè come azione, non solo come riflessione)? È una domanda che è lecito porsi; anzi, vitale, se ci si propone di lavorare per un rilancio e uno sviluppo della pianificazione della città e del territorio.

In Italia l’urbanistica è stata storicamente una disciplina legata alle formazioni politiche della sinistra. Così è stato all’inizio del secolo (il sindaco della capitale, Ernesto Nathan, è iscritto nell’Albo d’oro degli urbanisti italiani[21]), così è stato nell’ultimo mezzo secolo, così è stato perfino nel ventennio fascista, quando la legge del 1942 fu promossa e portata all’approvazione per opera delle componenti “di sinistra” di quel regime. Non è così in altri paesi europei, e non è neppure stato sempre così nella nostra penisola. Eppure, il quasi-regime che governa attualmente a sud delle Alpi sembra il più lontano dall’urbanistica tra quanti si sono succeduti. Il che sembrerebbe smentire la tesi – che mi sembra di dover condividere – per cui le formazioni politiche omogenee a una corretta urbanistica non sono necessariamente di sinistra. Quali sono allora i requisiti di una politica omogenea all’urbanistica?

Se quanto ho fin qui raccontato ha un senso, della storia dell’urbanistica fa parte il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo soggetto. Si tratta, mi sembra, di un vero e proprio principio della civiltà europea: della civiltà basata sull’invenzione e sull’affermazione della città come luogo proprio dello sviluppo creativo della società. Una formazione politica che sappia costituire il quadro di riferimento dell’urbanistica, che sappia adoperare i suoi strumenti in relazione ai propri specifici obiettivi sociali, che ne abbia bisogno per la realizzazione del suo proprio specifico progetto di società, è quindi una formazione politica (di sinistra o di destra che sia) che abbia il suo punto di riferimento nell’interesse comune (e sia pure nella sua interpretazione dell’interesse comune). Che perciò abbia un profondo senso dello Stato, non come sua proprietà (questa concezione è stata sconfitta in Europa tra la fine del XVII e la fine del XVIII secolo), ma come luogo di un governo interprete dell’intera società. Qualcosa, quindi, ben diverso da quella particolare destra oggi al potere in Italia.

Le affermazioni che ho svolto più sopra a proposito della scarsa “sostenibilità” della democrazia richiedono però di precisare ulteriormente i requisiti di una politica adeguata. Questa deve avere in sé qualcosa che aiuti a superare quel limite della democrazia che consiste nel suo ridursi all’immediatezza della scadenza elettorale: deve possedere un condiviso progetto di società, capace di indicare un futuro nel quale anche i cittadini non ancora nati abbiano i diritti di cittadinanza, possano disporre dei beni di cui gli attuali cittadini già dispongono. In Italia, oggi, una simile formazione politica non ha ancora dato segni di vita. Significa forse questo che non si possa far altro che chiudersi in una disperata rassegnazione? Certamente no. L’esigenza di un progetto di società (e di città) solidale e sostenibile non è un’invenzione astratta o una raffinata teoria, è un’esigenza del cittadino. Occorre stimolarne la percezione, occorre aumentarne la consapevolezza e trasformarla in atto: canalizzarla in azioni collettive capaci di modificare la politica e, attraverso essa, la società. Ciò che spetta a ciascuno di noi, in quanto cittadino, ma soprattutto a quelli di noi che hanno la città al centro dei propri interessi.

Gli urbanisti

Oggi si tende a sottolineare che è necessario parlare dei mestieri dell’urbanista, poiché questa figura professionale trova impiego in una gamma di occupazioni che non si riduce a quella del progettista di città[22]. È una sottolineatura utile, poiché costituisce una implicita critica, e una tensione al superamento, di una impostazione tradizionale, limitata e non più sufficiente.

A differenza che in altri paesi in Italia l’urbanista è nato come una specializzazione della figura dell’architetto: un architetto che, invece di progettare edifici, progetta città. Quasi con le stesse tecniche (magari integrandole con scienze irrimediabilmente ausiliarie, quasi servili), quasi con la stessa impostazione al cospetto della realtà: il prevalere dell’“idea progettuale”, il ruolo dell’Autore del piano (simile a quello dell’Autore del progetto), la fiducia di poter dominare da solo l’insieme del progetto (del piano), anticipandone nella sua previsione l’intera realizzazione. È interessante osservare (a riprova del fatto che la storia che conosciamo non è l’unica storia possibile) che per giungere a questa soluzione si discusse a lungo tra due proposte alternative. A quella dell’Architetto-Urbanista si contrapponeva infatti la proposta dell’Urbanista come esperto della gestione urbana, e quindi versato non nelle belle arti, ma soprattutto nelle discipline dell’amministrazione e dell’ingegneria civile[23].

Certo è che, nelle successive vicende, il ruolo e la formazione dell’urbanista si sono notevolmente divaricate rispetto all’impostazione originaria. Oggi l’impiego diretto nella amministrazioni pubbliche, o la collaborazione con queste dall’esterno, costituiscono il campo d’applicazione più vasto degli urbanisti. Alla loro formazione è dedicato, a partire dal 1971, uno specifico corso di laurea nelle facoltà di architettura e, a partire dal 2001, una facoltà di pianificazione del territorio[24]. E nella preparazione dei documenti di panificazione nei quali le amministrazioni sono impegnate il ruolo del “progetto di città” appare sempre meno rilevante rispetto a quelli dell’attuazione, della valutazione, del monitoraggio, della ricerca del consenso e delle energie necessarie per la sua implementazione. Un ricorso sempre più largo all’interdisciplinarità, una capacità sempre maggiore di coordinare e finalizzare a un’operazione complessa equipe articolate, una sensibilità alle nuove tecnologie, un’attenzione ai moti della società: questi sono tra i principali requisiti del mestiere (o dei mestieri) dell’urbanista.

Ma qual è il nocciolo del suo ruolo sociale? Diamo uno sguardo fuori d’Italia. “Bisogna sempre ricordare che l’urbanistica è di ordine pubblico e d’interesse pubblico” (“Il convient toujours se rappeler que l'urbanisme est d'ordre public et d'intérêt public”), scrive il documento fondativo del Conseil Français des Urbanistes. “Il primo dovere di un urbanista è di servire il pubblico interesse” (“A planner’s primary obligation is to serve the public interest”), afferma il codice deontologico dell’American Institute of Certified Planners. L’urbanista deve “agire sempre nell’interesse del proprio cliente o committente”, ma con la “consapevolezza che l’interesse pubblico deve restare preminente”, decretano le “Norme di deontologia professionale” del Consiglio Europeo degli Urbanisti. Poiché il concetto di pubblico interesse è oggetto di elaborazione e dibattito, il documento dell’American Institute of Certified Planners si preoccupa di definire i paletti entro i quali l’urbanista deve comunque inscrivere la propria azione. Ne sono elementi essenziali la consapevolezza del carattere sistemico e della lunga portata temporale delle decisioni sul territorio, la completezza e la chiarezza dell’informazione fornita al pubblico, l’attenzione agli interessi delle categorie più svantaggiate, all’integrità dell’ambiente naturale e alla tutela del patrimonio culturale[25].

La stella polare

Quando le tecnologie della comunicazione erano meno sviluppate di adesso un riferimento essenziale per i naviganti erano le stelle e, tra queste, nell’emisfero boreale, la stella polare (che è anche l’ultima ruota del carro, dal nome della costellazione cui appartiene). La stella polare è anche una metafora potente: suggerisce che, quando i riferimenti sono labili, le certezze difficili da individuare, la confusione sovrana e il futuro incerto, diventa vitale cercare un punto di riferimento sicuro, magari lontano e al di sopra delle traversìe del quotidiano e del terrestre.

A me sembra che le indicazioni che emergono dal panorama internazionale della professione dell’urbanista confermino una tesi che è certamente emersa spesso, nella lettura di queste pagine. La tesi che della nostra storia (e dunque anche del nostro presente e, in nuce, del nostro futuro) fa parte il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo “attore”,vero e proprio principio della civiltà europea. Dalla implicita consapevolezza di questo principio, e dalla sua necessità, nascono del resto l’oggetto primario della nostra attenzione, e la disciplina della quale ci occupiamo: la città, e l’urbanistica. È ad esso che occorre allora guardare, come alla stella polare.

Questo capitolo è tratto da E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, nuova edizione novembre 2003.

[2]"Competitività aziendale, personale, organizzativa: strumenti di sviluppo e creazione del valore". Autore Daniele Trevisani. Copyright Studio Trevisani; Copyright: Franco Angeli Editore, Milano.

[3] Formez, http://ambiente.formez.it/)

[4] “Barcellona: la pianificazione strategica compie tredici anni”, da http://www.torino-internazionale.org/Page/t08/view_html?idp=1589

[5] Ibidem

[6] Achlle Occhetto, nel suo intervento al Congresso nazionale del PCI, 1987.

[7] Edo Ronchi, La modernizzazione ecologica dell’economia nell’era della globalizzazione, dal sito www.dsonline.it.

[8]Un’ introduzione all’ Agenda 21 locale, a cura di Gabriele Bollini, Gianfranco Bologna, Andrea Calori e Michele Merla

[9] Si veda: P.L.Crosta, La politica del piano, Franco Angeli, Milano 1995; L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio, Franco Angeli, Milano 1996.

[10] N. Holec, G. Brunet-Jolivald, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[11] Ibidem.

[12] A. Bagnasco e P-J. Le Gales, cit in Holec, Brunet, op. cit.

[13] G. Marcou, F. Rangeon e J-L. Thiebault, cit. ibidem.

[14] Ibidem

[15]Si veda R. Lorenzo, La città sostenibile: partecipazione, luogo, comunità, Eléuthera, Milano 1998; La costruzione sociale del piano, a cura di P. Bellaviti, in Urbanistica n. 103/1995.

[16] S. Bassetti, Urbanistica partecipata, in: “Atlas - Rivista quadrimestrale dell’INU Alto Adige”, n. 22, dicembre 2001.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Insisto: adopero questo attributo nel senso preciso in cui lo ha definito la Commissione Brundtland dell’Onu (cfr. cap. 9).

[20] L. Mazza, Trasformazioni del piano, Franco Angeli, Milano 1997, p. 105 e segg.

[21] Ernesto Nathan fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Il programma del Blocco del popolo, di cui Nathan era il leader, era centrato su quattro punti: “incremento dell’istruzione elementare, tutela dell’igiene pubblica, politica edilizia limitatrice della speculazione e del monopolio sulle aree e a favore dell’edilizia popolare, partecipazione della cittadinanza all’amministrazione comunale” (si veda: I. Insolera, Roma capitale cit., pp. 94-96).

[22] Si veda: A. Balducci, Come cambiano i mestieri dell’urbanista in Italia, in: “Territorio”, fascicolo 7/1998.

[23] Negli anni tra il 1922 e il 1926 sostenitore della prima proposta, poi vittoriosa, era l’architetto romano Alberto Calza Bini, libero professionista e accademico, propugnatore della seconda Silvio Ardy, funzionario comunale in Liguria e in Piemonte. Materiali su questo dibattito sono in corso di pubblicazione da parte di Giulio Ernesti e Fabrizio Bottini, e sono comunque consultabili in http://eddyburg.it.

[24] Il corso di laurea è stato istituito nel 1971 presso l’Istituto universitario di architettura di Venezia, a opera di Giovanni Astengo, poi trasformata in facoltà; hanno poi seguito analoghi corsi presso le facoltà di architettura di Reggio Calabria, Milano e poi numerose altre sedi universitarie.

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