In realtà, anziché venir appropriato dal signore, il sovrappiù può rimanere nelle mani del produttore, può restare in possesso dell’unità produttiva, del nucleo familiare che l’ha prodotto; esso può, insomma, esser sottratto allo sfruttamento signorile ed entrare a far parte del patrimonio amministrato e gestito dal pater familias. Una simile destinazione proprietaria del sovrappiù è ben visibile nell’economia contadina, che sarebbe del tutto approssimativo definire come un’economia riducibile esclusivamente all’autoconsumo. Il contadino, infatti, quando il suo lavoro è giunto - come si è detto - a un determinato livello di produttività, produce un sovrappiù e, in quanto rimanga un libero contadino, un libero proprietario produttore (in quanto, cioè, riesca a non subire lo sfruttamento signorile e a non divenire servo), indubbiamente possiede il proprio sovrappiù, è padrone di tutto il prodotto del proprio lavoro. E nella misura in cui il contadino riesce a liberarsi dall’ideologia dell’autoconsumo, nella ,misura in cui riesce a distinguere il sovrappiù dall’insieme del prodotto e a separarlo dai beni impiegati per la soddisfazione delle necessità del proprio consumo di produttore, nella misura, insomma, in cui il contadino giunge a definirsi come il detentore di un vero sovrappiù, egli è condotto inevitabilmente a uscire dal suo particolarissimo originario. Egli esce dal chiuso della sua famiglia e della sua gens, esce dall’ambiente singolarizzato, localizzato e incomunicabile costituito da quell’unità produttiva e da quell’organismo sociale che sono stati gli unici storicamente capaci di sussistere nel quadro di un’economia di autoconsumo, e diviene simile a ogni altro contadino, a ogni altro libero produttore, a ogni altro pater familias che sia rimasto detentore del sovrappiù.
Il possesso del sovrappiù rende i produttori simili, uguali, comuni: li costituisce in una comunità. Comune, infatti, è la ragion d’essere della loro nuova figura sociale, del loro nuovo posto nella società; comune è il loro avversario, il signore; comune il loro interesse: scambiare il sovrappiù per arricchire, per incrementare le proprie possibilità di produzione, per accrescere quindi il reddito, e la capacità di consumo delle proprie unità produttive, delle proprie famiglie. Sorge così una comunità di liberi e uguali, nel cui ambito le uniche differenze socialmente avvertibili sono quelle, meramente quantitative, costituite dall’ammontare del sovrappiù posseduto da ciascun produttore. Ma sorge allora, organicamente, un luogo, una sede comune in cui i liberi produttori si raccolgono per commerciare il loro sovrappiù, per difendere la loro libertà dalla minaccia dello sfruttamento signorile, per celebrare insieme le ragioni ancestrali, storiche e attuali della loro nuova comunità. Sorge così il borgo, il luogo in cui il contadino esce dal suo particolarismo, si riconosce membro di una comunità, diviene eguale tra eguali, diviene borghese.
Il borgo è dunque una nuova forma di insediamento umano, nata dalla libera associazione degli abitanti delle case e dei villaggi rimasti pienamente padroni di se stessi. Esso si presenta indubbiamente con le caratteristiche peculiari di un insediamento concentrato, ma non si contrappone ancora (come più tardi avverrà), non deforma né distorce né tantomeno elimina l’insediamento sparso, tipico della società contadina: lo protegge anzi, lo completa, si pone al suo servizio. La sua posizione nel territorio, dove si erge sui punti dominanti e centrali o si raccoglie a presidio dei luoghi di transito e d’incontro, le sue fortificazioni ancora rozze ed embrionali (le rustiche torri; le mura impastate di argilla o innalzate in pietra, filare per filare, tra la stagione del raccolto e quella della semina; le rocche erette sommariamente e avaramente dove la natura lo consente e lo rende più agevole), sono determinate e realizzate in funzione della difesa del contado. Il suo mercato ha senso e ragione solo come sbocco del sovrappiù prodotto dal contado; è infatti al servizio dell’eccedenza contadina, ne permette e ne favorisce lo scambio, rende effettuale e concreta la rottura dell’autosufficienza peculiare all’economia dell’autoconsumo, rottura già pretesa dalla natura stessa del sovrappiù. E i suoi fondatori e frequentatori, coloro che godono di uguali diritti al suo interno, infine diciamo pure - ma anticipando la storia - i suoi cittadini, non per tutte le stagioni, né tutti, né in maggioranza vi risiedono; essi vi giungono dal contado e vi soggiornano per operarvi i propri scambi e per celebrarvi le proprie feste; per realizzare e per manifestare dunque, entro le mura del borgo, la propria comunità di interessi e la propria comunità di destini. Dal borgo riprenderanno poi la via del contado, dove inizieranno di nuovo a produrre per la propria sussistenza e per il proprio sovrappiù. Il borgo, indubbiamente, non è ancora la città; esso ne è il segno premonitore, l’incunabolo. Ma per ciò stesso e in tal senso appunto, il borgo comincia a essere la città. Esso è la città che non si è ancora compiutamente distinta dal contado, è il contado che si riconosce e che vive come una comunità.
2. Dal borgo alla città: uno sviluppo decisivo
Per comprendere meglio il significato di questa affermazione, per vedere più chiaramente come, perché e in che senso e misura il borgo costituisca il discrimine e, a un tempo, il punto di passaggio tra l’insediamento sparso - caratteristico dell’economia dell’autoconsumo - e la città, occorre ancora soffermarsi brevemente sulla ragione economica che è senza dubbio alla base dell’origine del borgo, e che ne determina, per così dire, la duplice natura: quella natura, appunto, che, da un lato, deriva dal nascere del borgo, direttamente e spontaneamente, da una economia governata in sostanza dall’autoconsumo, e che, dall’altro lato, pone i1 borgo come luogo nel quale avviene una prima rottura, un primo superamento di una tale economia. In realtà, per un suo verso, il borgo si presenta certamente come il prolungamento naturale e organico, come il necessario completamento di un’economia e di un’organizzazione della residenza, che hanno ancora nell’autoconsumo (e comunque nel mondo contadino), e di conseguenza nell’insediamento disperso, un loro momento fondamentale. Le pagine della classica opera del Mommsen costituiscono indubbiamente una efficace illustrazione di un simile aspetto, colto in una particolare situazione storica; crediamo di aver già sottolineato a sufficienza come le unità produttive in funzione delle quali il borgo si afferma siano ancora sostanzialmente sottoposte alla legge di una produzione per il consumo del produttore, e come quindi l’eccedenza che in quelle si manifesta sia il residuo di un’operazione produttiva volta ancora essenzialmente a soddisfare i bisogni del produttore.
Per un altro verso, tuttavia, il borgo nasce indubbiamente - e anche questo lo si è già detto - sulla base della formazione del sovrappiù, e anzi proprio come il luogo direttamente ordinato alla difesa e allo scambio del sovrappiù liberamente posseduto dai produttori (in tal senso si può senz’altro affermare che il borgo, come il castello, è il luogo del sovrappiù). Ma poiché un siffatto sovrappiù non è più ordinato al consumo del produttore né utilizzato per il consumo di un puro consumatore, di un signore, ed è invece diretto essenzialmente e decisivamente allo scambio, è facile riconoscere altresì la seconda natura, il nuovo carattere, la peculiare svolta costituita dal borgo; la rottura ed il superamento, insomma, che esso comincia a rappresentare nell’economia dell’autoconsumo. Il borgo infatti, nella misura in cui è possibile distinguerlo dal contado, dalle unità produttive, dai nuclei familiari, e considerarlo in sé e per sé, è certamente il luogo dove nasce un’economia che non ha più il suo fine immediato, fisico, esclusivo, nel consumo individuale di un consumatore determinato. Non a caso, né senza ragione, gli urbanisti e gli storici della città hanno potuto rilevare spesso che il borgo è essenzialmente un luogo di transito. Il sovrappiù prodotto dal contado non vi giunge infatti allo scopo di rimanervi e di venirvi consumato, né, com’è ovvio, per tornare al contado: ma per essere esportato, per muovere verso tutti gli orizzonti del mondo, alla ricerca dei suoi sbocchi, dei suoi mercati.
Sebbene, dunque, il consumo venga ancora concepito (come sarà d’altronde fino ai giorni nostri) entro la sua forma individuale, pur tuttavia il sovrappiù esce, col borgo, dal suo ordinamento a un consumatore determinato. Sconosciuto, lontano, assente, è infatti, per il produttore, l’uomo che consumerà il sovrappiù; egli appartiene ormai a quell’umanità generica e forestiera che costituisce il mercato, che è dispersa nelle regioni di tutto il mondo, e che è collegata alle unità produttive solo dalla nuova figura sociale del mercante. E la popolazione stabile del borgo è appunto - ormai ne è ben chiara la ragione - quella dei mercanti. Gli amministratori, i soldati, i sacerdoti sono ancora al servizio della libera comunità contadina in quanto tale, sono i depositari, i tutelatori, i celebratori della “rustica virtù del comune”. I mercanti, invece, essendo esclusivamente i funzionari del sovrappiù, sono l’anima economica del borgo. La loro residenza è nel borgo, il loro lavoro è nel mondo. Essi costituiscono quel ceto mobile e girovago, e tuttavia tenacemente attaccato alla propria famiglia, alla propria casa, al proprio luogo, che sempre più verrà a fondare e a consolidare 1’autonomia del borgo dal contado (l’autonomia del sovrappiù dalla sua origine familiare e contadina), e che dunque governerà e presiederà alla transizione dal borgo alla città: al luogo in cui appunto l’economia sarà divenuta puramente economia del sovrappiù, economia in funzione esclusiva del sovrappiù, della sua accumulazione e della sua crescita: economia capitalistica.
La città, difatti, può acquistare tutta la propria autonomia, può nascere e dispiegarsi pienamente solo quando il vincolo che legava il borgo al contado sarà spezzato e capovolto; quando, cioè, sarà scomparso - senza possibilità di ritorno - ogni rapporto, ogni finalizzazione dell’attività produttiva al libero consumo individuale di un consumatore determinato; quando, in definitiva, ogni consumo non direttamente e immediatamente funzionale alla produzione sarà divenuto generico. Evidentemente - e le conseguenze di ciò diverranno subito palesi - perché questo abbia potuto avvenire, perché insomma la duplice natura del borgo abbia potuto risolversi e ridursi, nella città, all’unico aspetto del sovrappiù, non è stato storicamente sufficiente che il sovrappiù abbia potuto formarsi e abbia potuto rimanere nelle mani dei suoi produttori; è stato altresì storicamente necessario che il sovrappiù divenisse non più soltanto un risultato dell’attività produttiva (e cioè il residuo di un prodotto destinato in primo luogo al libero consumo del produttore), ma divenisse invece l’unico fine dell’intero processo economico.
Il valore, il significato, la consistenza medesima del passaggio dal borgo alla città sono, però, incomprensibili nell’ambito di tutte quelle posizioni che, per un verso o per l’altro, patiscono il limite sociologico e si riducono quindi, di fatto, ad una mera descrizione del “fenomeno urbano”. Assolutamente superficiali ed epidermiche, o al massimo inconsapevolmente allusive alla verità, sono quelle definizioni - quelle descrizioni - della città, che individuano la ragione immediata della genesi di quest’ultima nella necessità e negli interessi della difesa, o in quelle del culto, o del commercio, o nell’insieme di questi aspetti variamente intrecciati e disposti. Ben più fondamentali e complesse - ma, nel medesimo tempo, ben più determinate e precise - sono infatti le ragioni del sorgere della città. Non a caso, dunque; quando ci si racchiude e ci si congela entro quel limite sociologico, non si riesce poi minimamente a distinguere tra la città e il borgo (tra la città e il suo incunabolo), e si dà anzi sostanzialmente per processo di genesi e di formazione della città quello che conduce invece al nascere del borgo. Nel borgo come nella città, infatti, gli elementi percepibili da un’analisi di tipo sociologico sono tutti egualmente presenti. Non sussistono invero, nell’uno e nell’altra, le medesime funzioni, forme e strutture, ordinate ai medesimi interessi e alle medesime necessità? Non sono forse presenti, nel borgo come nella città, le figure del mercante, dei sacerdote, del soldato e, ancora, quelle dell’amministratore, dell’artigiano, del bottegaio e così via?
Ma un siffatto tipo di analisi, proprio per le categorie e gli strumenti che peculiarmente gli appartengono (e che costituiscono, d’altronde, i suoi limiti tuttora invalicati), è certamente condannato a restare sulla superficie dei fatti, e non può dunque condurre a riconoscere come la città in quanto tale, nella sua autonomia e distinzione, la città come non-campagna sia stata storicamente postulata e affermata solo nel quadro di una determinata economia: di quell’economia del sovrappiù come fine esclusivo, nella quale appunto, come si è detto, è scomparso anche l’ultimo residuo di un’attività produttiva ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato.
Ecco quindi un’ulteriore conferma di un fatto che ci sembra indiscutibile: se ci si limita a una mera descrizione empirica dell’esistente, non è possibile individuare alcun principio, alcun criterio, alcuna categoria capace di discriminare e di distinguere tra l’una e l’altra forma d’insediamento umano, tra l’uno e l’altro dei modi che gli uomini hanno adottato per organizzare, nella storia, le proprie residenze e la propria vita individuale, familiare e sociale. Babilonia, borgo, città, sono dunque, nell’ambito di una simile posizione, termini equivalenti e interscambiabili.
3. Due conseguenze del legame tra città ed economia del puro sovrappiù
La particolare ragione economica che conduce a superare la fase, intrinsecamente transitoria, del borgo, e a giungere storicamente alla città (quella ragione che abbiamo individuato nell’affermarsi del sovrappiù come fine esclusivo del processo economico) comporta tuttavia, per la città medesima, delle gravi e decisive conseguenze. La prima di tali conseguenze può essere individuata in una fondamentale caratteristica della economia del puro sovrappiù, in funzione della quale la città è sorta. In realtà, nel quadro di una simile economia, e proprio perché il sovrappiù in quanto tale (ossia fuori da ogni suo ordinamento a un fine diverso da sé medesimo), è l’obiettivo esclusivo dell’intero processo economico, tutti gli operatori, qualunque sia il ruolo da essi svolto, sono strettamente subordinati e asserviti alla produzione del sovrappiù.
Servi del sovrappiù sono infatti, evidentemente, gli operai (gli antichi servi liberati dallo sfruttamento signorile, o i contadini estromessi dalle terre acquistate dai mercanti della città e impiegati ormai come forza-lavoro, come capitale), che il mercante, e poi il borghese come tale, il maestro delle corporazioni, il proprietario del sovrappiù - il capitalista infine - organizza in funzione immediata ed esclusiva della produzione di un’eccedenza. Gli stessi consumi di tali produttori - dei salariati - sono coattivamente ridotti a meri consumi produttivi; essi, infatti, poiché debbono essere contenuti entro limiti tali da garantire la formazione di un massimo di sovrappiù, sono determinati ormai soltanto sulla base della necessità di soddisfare i bisogni dei produttori in quanto tali (in quanto appunto produttori di sovrappiù), e servono esclusivamente, qualunque sia il livello della produttività del lavoro, alla reintegrazione e alla ricostituzione della capacità lavorativa occorrente alla produzione del sovrappiù: quei consumi sono dunque divenuti, puramente e semplicemente, dei costi di produzione.
A un sostanziale asservimento al sovrappiù vengono ridotti anche i contadini, gli agricoltori, i produttori ancora legati alle campagne. In realtà, la produzione delle campagne non è mai organicamente ordinata in funzione esclusiva della formazione del sovrappiù: essa conserva sempre (e in modo decisivo nell’economia contadina) un sostanziale e peculiare collegamento con dei valori che non sono riducibili alla genericità del sovrappiù in quanto tale. Ma, d’altra parte, l’economia della pura eccedenza, l’economia del capitale, tende a improntare di sé l’intero universo, a sottoporre alle sue leggi rigorose tutti i momenti e gli aspetti della vita economica. Di conseguenza, al produttore delle campagne sono aperte soltanto due strade. Egli può isolarsi in sé stesso, può rinchiudersi nella sua unità produttiva e nel suo nucleo familiare, può rifiutarsi di essere parte di quell’edificio economico che è dominato dalla legge esclusiva del sovrappiù, e può allora evitare di piegarsi a una regola, a una norma che non sono omogeneamente e pienamente sue; ma egli deve in tal caso accettare il destino di una segregazione sempre più definitiva e insormontabile, nella quale egli resterà fissato e congelato nelle forme, nei livelli, nei redditi, nei consumi peculiari alla fase dell’autoconsumo. Egli diverrà allora una eterogenea sopravvivenza di un’età arcaica, una cellula che non si è voluta o potuta adeguare allo sviluppo delle cose e che pertanto non può che venir emarginata, non può non esser condannata all’impotenza, all’inutilità e infine alla miseria e alla disperazione.
Tuttavia il contadino, il produttore delle campagne, può anche tentar di evitare un simile destino, impegnandosi nella seconda delle due strade di cui si diceva. In tal caso egli deve cercar d’inserirsi nelle leggi dell’economia capitalistica e divenire anch’egli un produttore di puro sovrappiù. Ma allora, ove scelga questa seconda soluzione, il contadino perde la sua libertà di disporre pienamente della propria eccedenza per allargare il proprio consumo presente e futuro, o per uscire dal lavoro, o per scambiare il sovrappiù e commerciare; fuori da qualunque possibile alternativa dall’impiego nell’eccedenza, egli diviene ormai soltanto produttore di un sovrappiù generico, che deve quindi (non può) essere scambiato. Ma poiché la produzione che si svolge nelle campagne è, come si è accennato, irriducibile ad un’economia esclusivamente ordinata alla formazione di un puro sovrappiù, deve allora per principio manifestarsi una sostanziale inefficienza della produzione contadina, e cioè, in concreto, l’impossibilità per quest’ultima di garantire un tasso di formazione del sovrappiù competitivo con quello che si verifica al livello del sistema. Il contadino allora, per sforzarsi di conservare le sue posizione nel mercato, deve tentare di aumentare surrettiziamente la quota di sovrappiù commerciabile, ma può farlo in un unico modo: riducendo, cioè, fino al minimo livello compatibile con le più elementari necessità della sussistenza, i propri consumi, e destinando tutto il resto della produzione allo sbocco sul mercato.
Si può quindi affermare, in definitiva, che la città, poiché è divenuta il luogo di un’economia che tende a improntare tutto di sé, impone per ciò stesso le sue leggi - 1e leggi rigorose della sua economia - a quel medesimo contado da cui, attraverso la forma transitoria del borgo, aveva tratto le sue lontane origini. E quei canali che univano il contado al borgo e costituivano quest’ultimo nel luogo posto a completamento, a soccorso, a servizio del contado, divengono, ora che la città ha sostituito il borgo, i tramiti per asservire il contado all’economia della città.
L’economia del sovrappiù come fine, l’economia della città, così come sfrutta gli operai e tutti coloro che operano diretta- mente entro le sue regole, così sfrutta i produttori delle campagne: anche i consumi di costoro tendono a ridursi a consumi produttivi, anche la loro produzione viene finalizzata, in modo sempre più esclusivo, a mera produzione di un sovrappiù. E poiché il sovrappiù ha nelle campagne solo un punto d’origine (nelle città si viene infatti allargando sempre più tumultuosamente quella produzione che diverrà poi industriale), mentre viene poi accumulato e gestito nelle città, quest’ultima si discosta in modo via via più accentuato dal contado, distinguendosene sempre più radicalmente. Comincia a determinarsi così quel contrasto tra città e campagna che costituirà, ancora ai nostri giorni, una delle più vistose antinomie presenti nell’assetto urbanistico, come, più in generale, nell’intero assetto della società e dell’economia.
Ma come gli operai, e a lor modo i contadini, servi del sovrappiù sono infine gli stessi mercanti, i borghesi, i proprietari del sovrappiù. Sebbene essi siano gli unici realmente liberi di disporre delle proprie sostanze, e dunque gli unici capaci di uscire dal consumo produttivo, pur tuttavia essi tendono a non uscirne, ne possono concretamente desiderar d’uscirne, poiché “il grande obiettivo della loro vita è di risparmiare una fortuna”; anche i loro consumi devono esser perciò contenuti (nel quadro di un’austerità che, per esser psicologicamente vissuta come libera, non è perciò meno oggettivamente necessitata) a quel livello che consente di accumulare, nella misura più ampia possibile, il sovrappiù. E in effetti la loro ragion d’essere, l’essenza della loro figura sociale, la loro stessa potenza economica (indispensabile per affermarsi, per continuare a produrre, per sopravvivere sul mercato) son tutte condizionate alla loro capacità di realizzare e di investire, sulla base delle risorse disponibili, il massimo possibile ammontare di sovrappiù.
Tutti coloro i quali in qualche modo partecipano all’attività produttiva sono dunque, nell’economia del puro sovrappiù, asserviti e dominati dalle leggi di tale economia: e lo sono sia per quanto riguarda la loro attività di produttori, sia - in modo altrettanto decisivo - nella loro situazione di consumatori. Ma allora, se la città, che pure ha avuto storicamente bisogno di una siffatta economia per costituirsi, avesse poi preteso di ordinarsi strettamente secondo il rigore delle 1eggi di quella medesima economia, essa sarebbe dunque venuta, inevitabilmente, a conformarsi come una comunità di non liberi. La svolta che la città, come si è detto, ha costituito rispetto alla sua prima radice - al borgo - si sarebbe perciò trasformata in un rovesciamento puro e semplice, di un’antitesi radicale, in una negazione senza scampo del proprio e necessario incunabolo.
Una seconda conseguenza scaturisce da tutto ciò, e le sue implicazioni sono, sul terreno urbanistico, talmente vaste e decisive, che riteniamo di essere giunti, così, a un punto nodale della nostra argomentazione. La città può organizzarsi, può trovare un suo ordine, una sua disciplina, una legge peculiare e propria sufficiente a darle una configurazione pienamente umana, solo fuori dalle regole e dai meccanismi caratteristici di quell’economia che le ha dato storicamente origine, e che in tal senso è stata necessaria alla sua formazione. Ma dove trovare allora, dove assumere dei valori capaci di conferire alla città quell’ordine, quella regola, quella disciplina - indispensabili alla sua esistenza in quanto tale - che la nuova dimensione economica dell’ordinamento al puro sovrappiù non può offrire? L’insediamento signorile, come si è visto, non ha potuto trovare al suo interno dei valori siffatti, e appunto per questo abbiamo dovuto definirlo come la non-città; se dunque anche per la città borghese dovessimo arrivare a una simile constatazione, dovremmo poi paradossalmente concludere che una città vera e propria non è mai esistita: il che potrebbe anche in linea d’ipotesi essere postulato, però contrasterebbe senza dubbio non solo con quello che è il nostro convincimento profondo, ma anche con la stessa realtà delle cose.
E di fatto, poi, la città non è nata dal nulla, ne è sorta immediatamente dall’autoconsumo, ne si è formata direttamente sulla base di un atto di sfruttamento (e dunque di una iniziale operazione alienatrice). Essa ha avuto nel borgo, come si è visto, la sua forma d’origine; si è costituita perciò e si è affermata sulla base delle esigenze e degli interessi di una comunità di liberi e di uguali, si è conformata attorno ai luoghi e agli edifici che esprimevano appunto la materializzazione di quelle esigenze e di quegli interessi: o, a1meno, in presenza e in connessione a essi. È dunque appunto nella memoria, nella continuità, nella persistenza e nello sviluppo dei valori già presenti nel borgo che la città ha potuto trovare le radici del suo ordinamento. E nel concreto, infatti, storicamente la città si è poi organizzata e ordinata proprio in funzione di quegli interessi, di quei bisogni, che, se sono comuni a tutti gli operatori dell’attività produttiva che ,si svolge nell’ambito urbano, non sono avvertiti da costoro in quanto produttori, bensì – nel senso più stretto e specifico del termine - in quanto cittadini, in quanto cioè liberi soggetti di eguale diritto. La città, insomma, ha potuto strutturarsi, definirsi, riconoscersi nella sua autonomia, solo quando si è raccolta e conformata attorno agli interessi e ai bisogni che scaturivano dalle esigenze di convivenza civile, e cioè appunto della vita comune dei cittadini. Essa ha potuto stabilizzarsi nella sua forma specifica solo quando - e nella misura in cui - i suoi abitanti non si sono sentiti esclusivamente produttori, e si sono riconosciuti cittadini; solo quando, infine, si è manifestata e si è affermata la necessità di amministrare una res publica, distinta e autonoma dall’attività economica dei singoli produttori di sovrappiù (anche se, nel tempo medesimo, garante di questa); quando, cioè, dalla polis e nella polis è nata la nuova dimensione della politica, che sostiene, protegge, tutela gli interessi dei produttori e però, nell’atto medesimo, non solo li trascende, ma li limita, li vincola, li subordina a un interesse comune: quello della cittadinanza.
Non per caso, dunque, ma per una inderogabile necessità di principio, gli interessi, i bisogni (e quindi, ma analogicamente e lato sensu, i consumi) attorno ai quali la città si è potuta ordinare, sono stati quelli della gestione della cosa pubblica, della difesa delle attività familiari ed economiche degli abitanti della città, dello sviluppo di alcune esigenze civili dei cittadini, e, infine, del culto comune della divinità: i medesimi interessi e bisogni che abbiamo visto affermarsi nella nascita del borgo. E la città, poiché si nutre degli stessi valori, si conforma poi e si modella intorno agli stessi elementi urbanistici che già avevano costituito la struttura del borgo: sono gli edifici e i luoghi dell’attività politica e civile, del potere militare, del culto. E l’agorà o il foro o l’arengo, l’acropoli o la rocca, le mura, il tempio, infine, o la chiesa, formano il primo grande schema urbanistico, l’unico a tutt’oggi, di cui riconosciamo immediatamente la bellezza.
Ma nella città appunto gli elementi di un simile schema acquistano un carattere e un valore estetico radicalmente nuovi. Ciò deriva - come non è difficile intendere - proprio dal fatto che, mentre nel borgo quegli elementi sono direttamente e strettamente funzionali alle esigenze produttive (e sono perciò concepiti e realizzati con la parsimonia, con l’avarizia, con la stessa limitatezza di prospettive inevitabilmente connaturate a produttori ancora sostanzialmente legati all’ideologia dell’autoconsumo ), nella città invece essi si manifestano nella loro più specifica e dispiegata autonomia. Nella città, insomma, quegli elementi costituiscono il segno visibile, la testimonianza materiale, la concreta e solida rappresentazione di un ordine che nelle condizioni dell’epoca può nascere solo fuori dalle esigenze, dalle leggi, dai meccanismi dell’economia. Essi sono quindi, per così dire, delle creazioni meta-economiche; sono liberi dalle regole dell’attività produttiva; sono, in definitiva, essenzialmente gratuiti. Ma bisogna aggiungere subito che un tale schema, se rappresenta ed esprime la città, se ne definisce dunque, indubbiamente, l’autonomia, viene a rivelare altresì, nel tempo medesimo, la fragilità. peculiare a ogni prodotto dell’operazione umana che si affermi storicamente fuori dell’economia, e anzi pesando seccamente su di essa.
4. La città: una “spesa”per il borghese
Già nel sorgere della città si può coglier dunque la radice di un singolare contrasto; esiste insomma, sin da allora, una effettiva e complessa dialettica, una contraddizione tanto più significativa quanto più ambigua, tra la città (quale storicamente si è ordinata) e l’attività produttiva (quale si è storicamente sviluppata presiedendo alla nascita della città); e di conseguenza - quasi come un riflesso della realtà effettuale sullo specchio razionale della teoria - tra le esigenze, i principi, gli ideali dell’urbanistica e le formulazioni storiche in cui è rimasta racchiusa la scienza dell’attività produttiva, l’economia.
Si è visto infatti che il processo economico - così come viene storicamente a svilupparsi e a definirsi - una volta giunto al momento critico, alla svolta qualitativa della formazione del sovrappiù, può postulare l’esigenza della città, e deve, poi, pretendere a sua fondazione, deve anzi oggettivamente condurvi, se il sovrappiù viene sottratto allo sfruttamento signorile e rimane nelle mani dei suoi produttori. Ma nello stesso momento, nell’atto medesimo in cui lo sviluppo dell’attività produttiva determina il passaggio dal borgo alla città, contemporaneamente la forma storicamente determinata di tale sviluppo tende ad alienare la città stessa, poiché appunto conduce da una comunità di liberi a una comunità di asserviti all’economia. È proprio a causa di tutto ciò che sul piano delle strutture urbanistiche, ove la città si ordini secondo quel contesto economico, ove insomma la città rimanga passivamente coartata dal peculiare processo economico storicamente in atto, essa tende a divenire un indistinto coacervo e ad assomigliare sempre più a quel mero insediamento concentrato, a quell’aggregato disorganico e informe che è peculiare alla economia signorile. In altre parole, l’economia capitalistica ha avuto senza dubbio bisogno della città ed ha preteso che sorgesse: ma nel tempo medesimo ha teso a distruggerla.
D’altro canto e parallelamente, anche la città, per parte sua, ha avuto bisogno di quell’economia, poiché appunto nello sviluppo di questa ha trovato la sua origine storica, ossia, in concreto, la ragione della sua necessità oggettiva; e tuttavia, essa ha potuto costituirsi, prender forma, assumere una propria realtà autonoma (e dunque acquisire un valore estetico) soltanto nella misura in cui si è sottratta al rigore di quelle leggi storiche della dimensione economica, che non a caso rendono quest’ultima esclusivistica e disumana. Di fatto, la città ha potuto raggiungere un ordine, un’armonia, ha potuto svilupparsi come un’espressione organica e autonoma dell’operazione umana, solo quando è riuscita ad imporre alle ferree regole dell’attività economica dei vincoli: quelli, in concreto, che si risolvono nell’affermarsi - all’interno della città - di “consumi” non individuali e non legati alla produzione. In altre parole, essa ha potuto costituirsi come tale solo individuando il suo peculiare compito nella soddisfazione di quei “consumi” che non a caso non insorgevano direttamente dal processo produttivo storicamente dato, e che non potevano venir ricondotti e appiattiti a una funzione immediata di quest’ultimo, poiché appunto erano “consumi” della comunità, “consumi” non individuali ma comuni, pubblici.
Ma in questo, precisamente, viene a rivelarsi quella fragilità che costituisce, come si è accennato, l’altra faccia, il contrappeso, il prezzo di una simile autonomia della città. Diventa, a questo proposito, sommamente significativo un fatto, un atteggiamento psicologico - o, più esattamente, una posizione di classe che l’esperienza storica ha registrato, che la memoria letteraria ha sottolineato spesso e di cui ancora ai giorni nostri possiamo facilmente riscontrare la sopravvivenza. Il fatto, cioè, che le opere del culto, quelle della difesa, della politica, della comunità, della città in quanto tale, hanno acquistato un ben determinato carattere agli occhi dei mercanti, dei maestri delle corporazioni artigiane, dei tenitori di fondaci, banchi, botteghe e officine, di tutti i proprietari del sovrappiù: agli occhi, insomma, dei borghesi. Quelle opere hanno assunto palesemente il carattere di spese. Né potevano d’altronde assumere carattere diverso, nel quadro della concezione economica data: esse comportano infatti un esborso di moneta causato da necessità che non sono legate direttamente e immediatamente alla produzione, ma che gravano su di essa, sul capitale. Esse non sono mai un investimento, sono perciò accettate e sopportate come un gravame, come un tributo. Il grande schema urbanistico della città antica (che si prolungherà poi in quella medievale), quello schema di cui abbiamo più sopra sottolineato la bellezza, è dunque una spesa, è un limite alla possibilità di realizzare il massimo del sovrappiù. È la città medesima, in quanto realmente tale, a presentarsi come una spesa per il sistema; essa, perciò, potrà sussistere col massimo di pienezza e di organicità compatibili con i rapporti dialettici che la legano al quadro economico dato, soltanto fino a un punto determinato e preciso: fino a quando, cioè, potrà venir considerata una spesa necessaria.
5. Necessità sociale e politica della “spesa urbana”per ilborghese in lotta contro il signore
Ma fino a quando il sistema economico ha bisogno di una città che si racco1ga e si ordini entro un preciso -e meta-economico -schema urbanistico? Fino a quando, in altri termini, l’economia del sovrappiù come fine può e deve sostenere una simile città, può e deve accettare, cioè, la spesa che essa costituisce e comporta? La risposta, dopo quanto abbiamo scritto fin qui, non è davvero difficile, e può essere ritrovata nel carattere che ha assunto, sul terreno storico-sociale, la svolta borghese: nel carattere che di necessità ha dovuto acquistare il rapporto tra la società borghese e quella signorile. In realtà, mentre nel passaggio dall’economia dell’autoconsumo a quella signorile da un lato, e, dall’altro, a quella borghese e capitalistica, vi è stata, sul piano dello sviluppo sociale ed economico, una sostanziale continuità, il rapporto tra ordinamento borghese e ordinamento signorile si configura invece, inevitabilmente, come un rapporto antinomico e di negazione reciproca.
L’economia capitalistica e l’economia signorile si presentano, invero, come due economie, come due sistemi, come due ordinamenti fondati entrambi sulla stessa base storico-naturale - il sovrappiù - e tuttavia finalizzati a due utilizzazioni radicalmente diverse, e anzi seccamente opposte e antitetiche, della loro medesima base. Nell’economia signorile, infatti, il sovrappiù è destinato, essenzialmente e per principio, al consumo del signore; nell’economia borghese esso è destinato invece, in modo esclusivizzato e decisivo, alla “riproduzione allargata” di sé medesimo, al proprio accrescimento, all’accumulazione, e dunque, in definitiva, alla produzione.
Composizione, compromesso, o anche soltanto convivenza tra i due sistemi (quello borghese e quello signorile), sono dunque, per principio, impossibili. L’antinomia, e quindi la lotta tra signore e borghese, tra l’una e l’altra forma di utilizzazione del sovrappiù, hanno dovuto manifestarsi perciò, nella storia, con l’inevitabilità dei fatti oggettivi. E in effetti abbiamo già osservato che il borgo ha potuto affermarsi solo nella misura in cui i produttori sono riusciti a sottrarre il proprio sovrappiù allo sfruttamento signorile, e dunque alla sua destinazione al consumo dello sfruttatore. Già nel borgo, allora, già con l’incunabolo della città, l’antagonismo tra le due forme di utilizzazione del sovrappiù comincia a manifestarsi; ma con la città, il contrasto diventa lotta aperta, scontro inevitabile e dichiarato. È nella città, infatti, che il sovrappiù diviene l’unico fine cui è ordinata l’attività produttiva e, contemporaneamente, l’esclusiva base economica della vita sociale; è, dunque, solo quando la città si libera dal guscio del borgo, quando, cioè, l’economia perde ogni residua finalizzazione al consumo individuale d’un consumatore determinato, che l’irriducibile antagonismo tra l’ordinamento signorile e quello borghese e capitalistico divampa e informa di sé l’intera vicenda della storia umana.
Può allora divenir chiaro perché un ordinamento autonomo della città sia stato, agli occhi del borghese, una spesa necessaria. Sono, infatti, appunto le esigenze di quella lotta secolare, drammatica e senza quartiere, ingaggiata dal borghese contro il signore non solo sull’originario terreno economico, ma anche e soprattutto su quello sociale e politico, che hanno giustificato la spesa dell’autonomia cittadina, che l’hanno resa concretamente sopportabile al parsimonioso rigore del borghese, che l’hanno presentata, in definitiva, come necessaria.
6. L’esempio medievale: la città come macchina bellica
Per comprendere tutto questo con la più evidente perspicuità, ci si soffermi, ad esempio, sul modello illustre della città dell’ultimo medioevo. È proprio in tale periodo che la lotta tra i due ordinamenti, tra le due concezioni, tra i due sistemi - quello signorile e quello borghese - diviene più aperta e dichiarata. È appunto nell’ultimo medioevo che la classe borghese si rivela pronta a cogliere il frutto del proprio progresso storico e a ai quali si è costituita, si è conformata, e si è ordinata storicamente la dimensione autonoma della città. Quegli elementi, infatti, quei luoghi e quegli edifici nei quali si manifestavano e potevano venir soddisfatti gli interessi e i bisogni comuni della cittadinanza, potevano facilmente (e vorremmo dire organicamente, per la loro stessa peculiare e profonda natura) esser visti e utilizzati come elementi della macchina bellica, dello strumento politico e militare che la città costituiva. Quei luoghi e quegli edifici, infatti, erano appunto caratterizzati - come si è visto dal fatto che in essi avveniva un consumo che, essendo totalmente estraneo ai meccanismi economici del sistema (e proprio per questo sopportato come una spesa) era libero e autonomo dalla dimensione produttiva, ed era dunque paragonabile al consumo signorile e a questo politicamente, socialmente e militarmente opponibile. Nella città, insomma, il borghese ha visto, ha incoraggiato - e ha pagato - un nuovo signore, che potesse servire alla lotta contro il signore antico.
Bisogna allora concludere che l’ordinamento autonomo della città è un onere al quale il proprietario del sovrappiù capitalistico è disposto a piegarsi finche esiste la minaccia del “castello”. Quando il secolare antagonismo sarà infine superato, quando il signore (in quanto figura non solo economicamente, ma anche socialmente e politicamente condizionante il sistema sociale nel suo insieme) sarà “ucciso”; quando le mura non solo di questo o quel castello, ma dell’intero “edificio signorile”, saranno diroccate; quando non solo questo o quel possesso feudale sarà appropriato dal fittavolo o dal mercante, non solo i tesori dell’uno o dell’altro saranno dispersi o fruttuosamente investiti, ma quando l’intero sistema economico e sociale sarà sottratto, su ogni piano, al condizionamento del consumo signorile e sottoposto all’unica norma dell’accumulazione capitalistica, allora la spesa che la città comportava potrà finalmente esser ridotta, e anzi tendenzialmente annullata.
La città, in quanto dimensione autonoma e specifica, non troverà, a questo punto, più alcun sostegno nell’interesse della borghesia; l’antinomia tra economia del puro sovrappiù ed economia del sovrappiù come mezzo per il consumo signorile sarà, infatti, storicamente superata e risolta: la macchina bellica non sarà più necessaria, la città non servirà più il sovrappiù capitalistico. Essa allora dovrà cercare in sé stessa il proprio sostegno e la forza indispensabile ad affermare la propria autonomia oppure, come storicamente è avvenuto, dovrà cristallizzarsi o decadere.
7. Tendenza all’alienazione nella città borghese
Nel momento stesso in cui il borghese trionfa sul signore si verifica dunque, nella storia della città, un reale e profondo passaggi qualitativo. Ciò, peraltro, non significa evidentemente ( come crediamo sia ormai ben chiaro) che nella città si manifesta, con la sconfitta dell’ordinamento signorile, l’inizio di una crescita organica e dispiegata, di una positiva evoluzione, e, insomma, di un reale sviluppo in termini di valore ma, anzi, tutto l’opposto. Invero, nella misura in cui il capitalismo celebra sempre più pienamente il suo trionfo, la città medesima viene a perdere ogni ragione che giustifichi la spesa che essa costituisce per un’economia finalizzata in modo esclusivo al sovrappiù. Gli elementi, i valori, i”consumi” attorno ai quali la città si era ordinata e aveva acquisito una forma e acquistato un’autonomia, divengono ormai una pura spesa, una parvenza meramente gratuita, un tributo che non è più necessario, e che dunque sarebbe folle pagare.
La città, allora, poiché non serve più al sistema (sempre più asservito e piegato alle leggi ferree dell’economia del puro sovrappiù), deve necessariamente tendere ad alienarsi. Ogni senso, ogni ragione, ogni storica rilevanza, ogni oggettiva necessità, hanno perso infatti, nel mondo borghese, quei valori urbanistici che soli avevano potuto conferirle una forma. La città tende infatti ad assomigliare sempre più a un mero aggregato, a una concentrazione informe, a un insieme caotico e disordinato di residenze. Non a caso tutti gli sforzi che si sono compiuti, volti a dare (o a ridare) un ordine alla città della borghesia trionfante, si sono dovuti rivelare o immediatamente impotenti e vani, o arbitrari, demiurgici, titanici - e dunque alla fine sempre egualmente impotenti.
Quali che siano insomma gli sforzi per ricomporre, per disciplinare, magari per imprigionare entro le maglie di un “piano” autoritario la realtà dello “sviluppo” cittadino (di quello “sviluppo” quantitativamente smisurato, che nell’età borghese ha condotto la città dalle migliaia ai milioni di abitanti), quella realtà sfugge comunque per ogni verso, essa è dominata da leggi che non trovano più, che non possono più trovare alcun legame con le leggi proprie della città. Parzialmente commisurata, definita, pianificata, disegnata, resa estetica, in questa o in quella delle sue parti, in questo o in quello dei suoi aspetti, la città continua a vivere, a espandersi, a ingigantire con l’estemporaneità, con la casualità, con l’anarchia peculiari a ogni fenomeno immediatamente naturale e refrattario all’azione ordinatrice dell’uomo. È in tal modo, insomma, che si presenta la fase della città borghese. Tuttavia, se ci limitassimo a definirla in questi termini, non riusciremmo davvero a dar compiutamente ragione di essa; infatti, se concludessimo ponendo esclusivamente in rilievo gli aspetti di alienazione, di disgregazione, di inevitabile caoticità, che essa indubbiamente rivela nell’età del capitalismo trionfante, non potremmo riuscire a individuare quel tanto di positività, di ordine inconsapevole e dissimulato, di implicita capacità di conseguire un vero sviluppo, che essa, come ci sembra, possiede e conserva. Ci sfuggirebbe insomma, inevitabilmente, il fatto che la città del capitalismo è purtuttavia (a differenza del “villaggio”, del “castello” e del “borgo” medesimo) una reale città, e che dunque in essa certamente sopravvive la condizione della sua rinascita, e il segno fecondo della speranza di un suo rinnovato e organico sviluppo, omogeneo alle leggi, alle forme, alle esigenze che in essa si sono già manifestate, e che non sono completamente spente e inaridite.
Per proseguire la nostra analisi, dovremo quindi soffermarci con maggiore ampiezza sulla città della borghesia trionfante; è in quest’ultima, infatti, che affonda oltretutto le proprie immediate radici la città d’oggi. E non certamente a caso, ma proprio perché nella città della piena affermazione borghese si possono individuare le origini dirette della città contemporanea –e perché dunque la soluzione del problema di quest’ultima non può essere individuata se si prescinde dall’esame della realtà urbanistica dell’Ottocento - numerosi urbanisti italiani hanno dedicato, in questi ultimi anni, gran parte della loro attenzione appunto alla città ottocentesca.
8. Un primo insegnamento della storia
Da quanto abbiamo potuto fin qui vedere già emerge un primo insegnamento d’indubbia rilevanza, che scaturisce dalla storia della città e dal quale si dovrà prendere le mosse per cercare di capire quali siano le condizioni e le tappe per una ripresa, a un tempo, della disciplina urbanistica e della stessa città. A veder bene, se la città del capitalismo si è anarchicamente ribellata, si è caparbiamente e quasi irrazionalisticamente rifiutata di piegarsi a qualsiasi forma mutuata o dedotta o gelidamente distillata dagli antichi schemi urbanistici; se, parallelamente, hanno finito per fallire in sostanza tutti quegli uomini che si sono adoperati nei ricorrenti tentativi di imporre un ordine alla città mediante un mero ammodernamento - geniale quanto si voglia - delle forme e delle strutture nelle quali essa, ai suoi inizi, era pur riuscita ad ordinarsi e a configurarsi nel suo insieme; se, insomma, non è stato possibile utilizzare positivamente, per organizzare e conformare l’intera città, nessun prolungamento, nessun aggiornamento formale, nessuna rinnovata trascrizione di quello schema urbanistico che era stato sufficiente alla città del mondo classico come a quella del mondo medioevale, ciò non solo non può essere ritenuto casuale, ma va anzi attentamente meditato. Ciò, in effetti, ci sembra costituire non soltanto la chiara dimostrazione, ma la prova concreta dell’insuperabile fragilità di quegli schemi medesimi.
E in realtà, come si è già sottolineato, i valori intorno ai quali la città aveva potuto ordinarsi per raggiungere, storicamente, una sua autonomia, avevano potuto nascere ed esprimersi solo come valori meta-economici, e appunto perciò avevano vissuto sotto il segno di una intrinseca fragilità. Quella fragilità, tuttavia, aveva potuto rimanere implicita e sottesa finché i valori comuni della città erano gli unici esistenti (e dunque gli unici utilizzabili dalla borghesia nella sua lotta al signore) e finche, soprattutto, il modo capitalistico di produzione non aveva sottoposto alle sue leggi esclusive tutta la vita economica come, al limite, quella dell’intera società. Ma quando il processo iniziato con l’uscita del libero produttore dall’autoconsumo giunge alle sue conclusioni, e la produzione diventa interamente capitalistica, quella fragilità deve manifestarsi in modo aperto e invincibile. Col capitalismo, infatti, la produzione esce dall’individualismo e diviene sociale: tutti sono universalmente coinvolti nella produzione; tutti - dovunque producano, dovunque consumino, dovunque risiedano - sono universalmente sottoposti alle sue leggi e ai suoi meccanismi; tutti sono universalmente interessati alla sua espansione, poiché appunto nella crescita del sistema produttivo risiede, per tutti, la garanzia della stabilità del lavoro, della sussistenza, della vita.
Ma d’altra parte, la proprietà del capitale, l’appropriazione del sovrappiù, restano consegnate entro la forma peculiare alla struttura, alla prassi, all’ideologia del sistema borghese: entro la forma, insomma, dell’individualismo proprietario. Appunto per questo, la dimensione sociale inevitabilmente comportata dal modo capitalistico di produzione non può esprimersi in quanto tale, non può rispecchiarsi e vivere nell’intero edificio dell’umanità associata, e deve perciò restar confinata e racchiusa nell’ambito della produzione. Ogni possibile socialità si appiattisce, dunque, al momento produttivo, con esso si identifica, e in esso soltanto può essere in qualche modo concretamente vissuta.
Nella città della borghesia trionfante, in definitiva, la fragilità dello schema urbanistico viene a manifestarsi e a risolversi in una contraddizione di principio: quella, appunto, tra l’individualismo peculiare al mondo borghese e la dimensione pubblica, comune, sociale essenziale alla città. Ma poiché ogni possibile socialità è nell’economia, e poiché d’altra parte l’economia è dominata dall’individualismo, quella contraddizione non può risolversi a sua volta che in un modo soltanto: essa può risolversi, e si risolve di fatto, solo come morte della comunità in quanto tale, e dunque a secco e inevitabile danno della città. Ed ecco, allora, che la città moderna tende continuamente ad alienarsi; ecco che l’economia capitalistico-borghese - l’economia del sovrappiù per il sovrappiù, dell’interesse privato, dell’accumulazione produttiva - si impadronisce, pezzo a pezzo, della città. Non vi è più una parte, una molecola, un aspetto, un momento della città che non siano divenuti privati. Le stesse parti che la borghesia, ogni qual volta si sforza d’incidere soggettivamente sulle cose (come avviene, ad esempio, ai tempi di Napoleone III e di Haussmann), ancora riesce a dominare e a comporre, a sottrarre all’anarchia ormai dominante, non costituirono altro, in definitiva, che il tentativo di unificare formalmente luoghi ed edifici ordinati in funzione di interessi divenuti esclusivamente individualistici e privati.
E l’opera di disgregazione posta in atto dall’individualismo borghese non tarda a investire, in modo primario e decisivo, la stessa base materiale sulla quale la città è fondata: investe, insomma, in primo luogo ed essenzialmente, il suolo sul quale la città sorge e si espande, e determina così l’insorgere di quella questione delle aree che è indubbiamente il simbolo e, insieme, la manifestazione più grave, più limitante e oppressiva, di quella vera e propria attività divoratrice che il privatismo individualistico, connaturato all’ideologia borghese, ha esercitato sulla necessaria dimensione comunitaria della città. Quando le leggi borghesi dell’economia del capitale diventano le uniche leggi vigenti, allora non vi è più un posto in cui la comunità possa possedere terre, per coltivarvi, e per costruirvi le opere civili della città; il suolo, ormai, può essere soltanto suddiviso, spezzettato, individualisticamente appropriato, rigidamente recinto; da virtualmente pubblico, comune, indiviso, esso diventa inevitabilmente privato, e la fitta trama dei confini proprietari - quasi come una rappresentazione fisica, come una traduzione in termini morfologici delle leggi e degli interessi dell’individualismo borghese - costituirà appunto la camicia di Nesso entro cui la città moderna sarà obbligata a svilupparsi e a estendersi. La persistenza del reticolo proprietario diverrà insomma la regola ferrea ed esclusiva, che vanificherà e sostituirà quella legge comunitaria in cui la città non solo affondava le proprie radici storiche, ma in cui essa trovava le stesse ragioni pratiche e di principio della specificità e dell’autonomia della propria esistenza.