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Eddytoriale 127 (13 settembre 2009)
13 Settembre 2009
Eddytoriali 2008-2009

Il secondo tassello è stato l’avvio di una operazione di aumento del volume (e del relativo valore commerciale) delle costruzioni esistenti, in deroga ai piani e ai vincoli; la proposta è stata raccolta da tutte le regioni, di destra e sinistra, nel timore di perdere il consenso dei proprietari di case e della imprese edilizie. Il terzo tassello è la proposta di realizzare in Italia un centinaio di “new towns”, da costruire su aree demaniali e su quelle dove sorgono quartieri Iacp. Sulla privatizzazione (poiché di questo si tratta) delle aree demaniali ho già scritto la settimana scorsa denunciando il furto, che in tal modo si compirebbe, di un patrimonio che è di tutti. Ma vorrei fare una riflessione più ampia.

L’insieme delle proposte rivela – nella più ottimistica delle ipotesi – la più profonda ignoranza di come si ponga in Italia il problema della casa. In primo luogo, non è un problema quantitativo. In Italia ci stanno già più abitazioni che famiglie, e gli sportelli dei comuni continuano a sfornare permessi di costruire a più non posso. Le periferie delle città sono piene di case invendute. Il fatto è che in Italia c’è una quantità di abitanti (ivi compresi gli immigrati chiamati in Italia dalle imprese e dalle famiglie indigene) che non trovano alloggio da condurre in affitto, o da comprare, a prezzi compatibili con i loro redditi. Non si tratta solo di forestieri ma anche di coppie giovani e non più giovani che non vogliono più, o non possono, vivere ancora con i loro genitori. Si tratta di persone che lavorano in luoghi diversi da dove abitano, e che vorrebbero lasciare un alloggio che li obbliga a fare ore di viaggio scomodo e costoso. Si tratta di persone che hanno perso il lavoro, o non l’hanno ancora trovato, e che non godono di reti protettive parentali.

Chi pensa a questi abitanti del nostro paese? Certamente non le norme che favoriscono l’aumento di volume delle case esistenti. In misura assolutamente irrisoria quei 350 milioni già stanziati dal governo Prodi. E le cento “nuove città”, che si affiancheranno agli 8mila comuni e alle decine di migliaia di città e paesi che già esistono? Serviranno a chi ha i soldi per contrarre un mutuo per l’acquisto di quelle case. Non se ne potranno certo giovare le 650mila famiglie che, avendone i requisiti, hanno chiesto di accedere all’edilizia popolare, e neppure gli immigrati o i lavoratori precari. Quello che è certo che guadagneranno le imprese cui saranno cedute le aree demaniali e quelle degli Iacp: aree, come ho scritto la settimana scorsa, che sono un bene di tutti, di cui il governo è solo amministratore e non proprietario, perché è patrimonio di tutti noi.

Come urbanista non posso poi non indignarmi quando sento parlare di “new towns”. Si vuole evocare la politica applicata nel dopoguerra in Gran Bretagna, quando si avviò la realizzazione di nuove città dopo un attento studio e una rigorosa pianificazione territoriale e urbanistica, collegata a un vasto programma di sviluppo economico. Leggete il recente articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della sera (4 settembre), ripreso in eddyburg.it, per comprendere tutta la differenza tra le “new towns” e le lottizzazioni tipo Milano Due, che costituiscono il modello di riferimento dell’attuale governo.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali l’11 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti. L'immahine è la new town (di quelle vere) di Milton Keynes, G.B.

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