Certo, questa volontà e capacità sono necessarie, ma insieme ad esse e forse prima di esse, è necessaria la politica. Poiché la pianificazione della città e del territorio è lo strumento che la politica, pensosa dell’interesse generale e del futuro della comunità, dovrebbe impiegare, coerentemente con le proprie strategie. Come potrebbe la pianificazione non essere in crisi quando in crisi profonda è la politica? E la politica è in crisi proprio perché sono venuti meno i suoi due requisiti essenziali: la capacità di guardare lontano, di saper delineare un progetto di società da costruire pazientemente conquistando il consenso necessario; la capacità di esprimere interessi capaci di rendere migliori le condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione: capaci di divenire “interesse generale” della società.
È vastissima ormai la letteratura che illustra i modi e le regioni (e le devastanti conseguenze) di una politica che si è appiattita sull’immediato e sulla ricerca del consenso attraverso il solleticamento degli interessi più immediati. Di una politica che, anziché guidare l’economia, si è appiattita sull’economia data: quella per la quale l’unico obiettivo è la crescita esponenziale ed irrefrenabile della produzione di merci, il cui principale strumento la privatizzazione e la trasformazione in merce d’ogni risorsa materiale e immateriale, riproducibile e irriproducibile disponibile sull’intero pianeta. Schiava di un capitalismo la cui “manifestazione più evidente”, come ha scritto Piero Bevilacqua, “è la spinta impetuosa a trasformare la società in individui”, la politica ha perso ogni connessione con una società che possa definirsi tale. Non colloquia più con i cittadini, i partecipi di una comunità, né può esprimerli: si rivolge ormai alla “gente”, a una massa di individui ridotti a “clienti”, a meri compratori di merci sempre più “opzionali”, quindi inutili.
Del resto, l’ideologia che tende a costituire il “pensiero unico” di grandissima parte delle formazioni politiche, in Italia a altrove, è basata (come non ci stanchiamo di affermare) sulla dissoluzione dell’equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, sull’appiattimento sull’individualismo, sulla celebrazione come massimi valori del successo individuale, della ricchezza. Mentre per converso concetti come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati tabù da evitare.
In definitiva dobbiamo concludere che, abbandonata dalla politica, l’urbanistica (e il suo strumento, la pianificazione) si è allontanata anche dalla società. Qui, forse, la ragione del suo declino. Ma qui anche, allora, la possibilità del suo riscatto, della sua ripresa. L’urbanistica infatti (ma preferiamo dire le ragioni della città come “casa della società”, come luogo, come prodotto e strumento di una comunità di cittadini) può ritrovare un suo ruolo e una sua utilità se si collega a quelle tensioni e interessi ch ormai si manifestano in quasi tutte le regioni d’Italia e si concretano spesso nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.
In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze). Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale puibblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati (ne ragioneremo nella prossima edizione della Scuola di eddyburg).
I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.
È un lavoro nel quale spetta anche agli urbanisti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. Lo afferma del resto il loro “codice deontologico”, secondo il quale gli urbanisti “esercitano la loro professione esclusivamente per il bene e l'interesse pubblico […]. Il pianificatore territoriale rispetta il territorio come risorsa comunitaria, fragile e limitata, contribuendo, così, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, favorendo lo sviluppo equilibrato delle comunità locali ed apportando miglioramenti alla qualità della vita”.
E più ancora della corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliora o peggiora, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.