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Eddytoriale 105 (10.06.2007)
10 Giugno 2008
Eddytoriali 2007

Per adoperare ancora le parole di Giorgio Ruffolo, oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.

Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo.

Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene (si veda la recensione di Ilaria Boniburini) che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla.

È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.

Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza e Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra (Massimo Morisi) ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.

Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di perdita di competitività di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.

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