Il falso mito della disciplina urbanistica
di Carlo Lottieri
C’è qualcosa di sorprendente nell'ultimo saggio di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, visto che si tratta di un volume sull'urbanistica che sposa una prospettiva liberale. Un dato caratteristico del nostro tempo, infatti, è il permanere in ambito urbanistico del mito del «piano», miseramente fallito in economia e anche nelle altre scienze sociali. Mentre oggi farebbe sorridere proporre piani di produzione quinquennali come quelli della Russia di Lenin o di Stalin, in larga parte dell'Occidente continuiamo a subire piani territoriali o paesaggistici comunque destinati a definire la gestione dei suoli: come se nulla fosse successo nell'ultimo secolo e come se il crollo delle società costruite dall'alto non avesse avuto luogo.
La forza della ricerca di Moroni muove dal suo voler essere un urbanista consapevole della complessità delle interazioni sociali. E non a caso nella sua riflessione egli riserva tanta attenzione a un economista come Friedrich von Hayek e a un filosofo del diritto come Bruno Leoni: entrambi assai netti nel rilevare che la vita produttiva e le relazioni sociali hanno certo bisogno di regole, ma che esse non devono essere il prodotto di una decisione calata dall'alto. Perché questo è l'argomento cruciale di chi, da liberale, si sforza di persuadere il proprio interlocutore della necessità di abbandonare le pretese totalitarie di quanti vogliono «governare la città» dimenticando che essa è veramente tale - lo spazio delle libertà e degli scambi - solo se non è governata da un sovrano o da un tecnocrate. Moroni non propone di abolire i piani regolatori, importando dagli Usa la cultura di quelle città americane (Houston è la più nota, ma ve ne sono molte altre) che non hanno mai accettato la logica della «zonizzazione». Eppure egli riformula la pianificazione delimitandone rigidamente i confini e, in sostanza, affermando che essa può servire «solo per realizzare qualcosa di particolare (servizi o infrastrutture) in un ambito o settore circoscritto, creando obblighi per l'amministrazione stessa piuttosto che per i cittadini». Essa dovrebbe quindi rinunciare alla pretesa di operare come una gabbia «nei confronti delle attività private, focalizzando la propria attenzione soprattutto sulla disciplina delle azioni pubbliche».
Tale riflessione nasce dalla frequentazione degli autori della cosiddetta «scuola austriaca» (da Menger a von Mises, a von Hayek) e dalla convinzione che la rappresentazione del mercato che ancora oggi prevale - quella neoclassica, basata sulla nozione di concorrenza «pura e perfetta» - sia assai deficitaria, soprattutto perché ignora il carattere dinamico (mai prevedibile e per nulla meccanicistico) delle relazioni che hanno luogo nei processi di adattamento spontaneo e interazione volontaria.
In un noto saggio degli anni '40, von Hayek rilevò che la dispersione delle conoscenze, a partire da quelle più «fattuali», è tale da rendere assai spericolato il progetto di una gestione centralizzata della vita economica. È interessante rilevare che oggi Moroni ci dice che esattamente la stessa cosa vale di fronte alle questioni urbanistiche.
Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni, pagg. 208, euro 16).
«Liberiamo la città dai piani regolatori»
di Domizia Carafoli
Quello della pianificazione urbana è uno dei dogmi ereditati dal '900. Intaccabile. La metropoli moderna va pianificata, dall'alto, in una concezione che vede predominante la funzione pubblica, preposta a incanalare tutte le forze attive e le componenti economiche della società verso una meta predefinita e astratta che configura la «città ideale». Il risultato è sotto gli occhi: le metropoli pianificate, lungi dall'essere ideali sono in realtà organismi ipertrofici e disomogenei, comprendono sacche di povertà ed emarginazione, sono farraginose e faticose. Oltre che brutte. Ma la maggior parte degli urbanisti insiste-, o la pianificazione o il caos.
E se provassimo a scegliere il caos? Stefano Moroni, urbanista e docente al Politecnico di Milano e all'Università di Pavia, butta lì la sua provocazione in un libretto smilzo ma esplosivo nel contenuto, La città del liberalismo attivo: «Attenti a pianificare - dice l'insegnante di Etica e Territorio - siamo già in difficoltà a pianificare le nostre vite, figuriamoci se riusciamo a pianificare una città...».
Ma viviamo già nel disordine edilizio, con i risultati che tutti conosciamo. Se aboliamo anche le regole...
«Non ho detto di abolire le regole. Mi esprimo contro un sistema di norme per guidare i comportamenti e le attività dei cittadini in una direzione predeterminata. I piani regolatori tradizionali nascono immaginando uno stato finale sulla base di previsioni: aumento o diminuzione del numero di abitanti, sviluppo di determinate attività economi-che e così via. Ma poi la realtà urbana evolve in tutt'altro modo. Ecco perché i piani regolatori nascono vecchi e necessitano di continue varianti, generando confusione e incertezza. L'Italia è piena di piani regolatori e di relative varianti, in una ressa di norme illeggibili dai cittadini, ma leggibilissime dagli "specialisti", vedi gli speculatori. Aggiungo che i molti tentativi recenti di rendere la pianificazione più flessibile non migliorano affatto la situazione, anzi aumentano la discrezionalità del potere pubblico e gli spazi speculativi. Non si tratta di innovare il piano, ma di metterlo definitivamente in discussione».
La sua città, secondo il titolo del libro, è quella «del liberalismo attivo». Che cosa significa?
«È un'evoluzione del liberalismo classico che, come noto, pone l'individuo al centro come un fine in sé, senza attribuire alcun valore intrinseco a gruppi, collettivi, comunità. In questa prospettiva solo gli individui contano e ogni individuo conta. Fra gli elementi costitutivi del liberalismo attivo, uno, fondamentale, è la ripresa della più netta distinzione tra la sfera del giusto e la sfera del bene. Diciamo che la sfera del giusto riguarda le regole di base universali, imposte dalle istituzioni, dallo Stato; la sfera del bene riguarda invece le insindacabili concezioni individuali relative a cosa sia una vita buona o desiderabile. Ciò che devono fare le istituzioni è garantire, attraverso le regole di base, le più ampie libertà individuali, perché ciascuno possa scegliere o. perseguire la concezione della vita buona che preferisce senza ledere pari diritti altrui. Il pluralismo delle concezioni del bene è provvidenziale per la società e la città».
Però le regole ci vogliono... «Certo, e chiare. Una delle basi del liberalismo attivo è l'ideale della rule of law che potremmo tradurre con l'espressione "supremazia del diritto" e che implica l'imparzialità più rigorosa delle norme nei confronti dei destina-tari e la certezza complessiva del sistema giuridico. Questo vale anche per la città. Poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno. Il resto sia lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato. Non il mercato falsato che conosciamo, ma realmente concorrenziale».
Sì, ma vorrei tornare alla speculazione edilizia. Se non interviene la mano pubblica a stabilire dove e come costruire, dove non farlo, forse non avremmo nemmeno un giardinetto. A questo servono i piani regolatori.
«Le periferie più brutte sono figlie dei più bei piani regolatori. Non è detto che i piani d'uso del suolo, tradizionali o rinnovati, siano l'unica forma di regolazione dello sviluppo di una città. Non è detto che una maggiore libertà e concorrenza non potrebbe migliorare la città, una volta stabilite le già menzionate e inderogabili regole di base. Sa perché da noi leggi e regole non sono rispettate? Perché sono troppe, poco chiare e cambiano in continuazione. Il rispetto per il diritto è diminuito per il modo in cui i soggetti pubblici se ne sono serviti, ossia come strumento sempre modificabile al servizio della maggioranza del momento».
Una proposta concreta? «Un'ipotesi che potrebbe meritare attenzione è quella dell'indice unico di edificabilità».
Sarebbe?
«I piani regolatori tradizionalmente differenziano gli indici da area ad area e indicano appunto dove e come costruire o non costruire, e quanto. Ne consegue, tra l'altro, che molti cercano di influire sulle istituzioni pubbliche per ottenere un indice più alto; premono perché i loro terreni ottengano un trattamento privilegiato, si avvalgono della politica. Se invece si attribuisce un indice unico a tutti e si consente di scambiare liberamente le quote edificatorie - ossia di acquistare e vendere tali quote sul mercato - verrebbe a cadere uno dei motivi di corruzione, da cui nasce la speculazione edilizia. Inoltre l'edificazione si sposterebbe - stanti le regole di base da rispettare - ove di volta in volta più richiesta. Ovviamente l'applicazione concreta dell'indice unico richiederebbe vari correttivi e adeguamenti, ma il punto importante è se si è pronti ad accogliere l'idea dell'uguale trattamento di tutti i cittadini e a rinunciare all'assurda convinzione che qualcuno sia in grado di stabilire a priori, dove, come e quanto si debba costruire».
Ma se il pubblico collabora col privato, non si potrebbe avere una città migliore?
«Ritengo la commistione tra pubblico e privato uno dei mali del nostro tempo. Le amministrazioni svolgano il loro compito che è quello di garantire ai cittadini uguali condizioni di base. E basta. Il pubblico, cioè, badi alle regole e il privato lavori, costruisca, guadagni, se e quando ne è capace, senza chiedere continuamente al pubblico interventi di sostegno. In quest'ottica, se certe iniziative private - ad esempio certe trasformazioni urbane - sono possibili solo con la compartecipazione del pubblico, allora significa che non sono affatto richieste, altrimenti si sosterrebbero da sole».
Resta il fatto che, a parte qualche città medio-piccola o città del nord Europa, i grandi agglomerati urbani appaiono tutti infelici, sia dal punto di vista estetico, sia da quello della vivibilità. La città è in crisi.
«La città resta comunque il luogo dove la maggior parte delle persone vuole vivere e forse riusciremmo a renderla migliore se smettessimo di considerarla un insieme di edifici, strade e attrezzature da coordinare diligentemente tramite un disegno unitario che solo il pubblico dovrebbe essere in grado di concepire e garantire. La città è invece, prima di tutto, un insieme variegato e dinamico di individui, ossia di aspirazioni, competenze, iniziative, diritti, proprietà. È una realtà socio-economica viva, in continuo e imprevedibile mutamento. Le possiamo imporre una cornice giuridica, non una forma urbanistica. Una città desiderabile è quella formata da un insieme di persone con le più diverse concezioni di vita buona e con le più diverse idee su come liberamente ottenerle. L'unica cosa su cui possiamo cercare la convergenza collettiva è un "codice urbano", un elenco di regole di base che definiscano un'idea di giusta convivenza e stabiliscano solo la disciplina dell'uso dei mezzi, senza pretendere di stabilire anche i fini. Regole a cui eventualmente aggiungere pochi strumenti di "pianificazione di servizio" che vincolino la stessa amministrazione nella realizzazione di ben definite infrastrutture. Detto in una battuta: se proprio l'amministrazione vuole pianificare, pianifichi le proprie attività, non quelle dei cittadini».