È negli stessi anni in cui inizia la prassi delle deregolamentazione e dell'emergenza - è agli inizi degli anni 80 - che si colloca anche il più dispiegato contributo alla delegittimazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico.
Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formulazioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una controllata sanatoria dell'abusivismo pregresso.
Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Governo decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perseguito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [1]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, come una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzionalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di sinistra, aperta anche al futuro. Se non la legge, che per l'abusivicmo nuovo costituirebbe un deterrente notevole se fosse applicata con rigore, il dibattito politico e culturale che l'hanno accompagnata hanno costituito in definitiva un incentivo all'abusivismo anziché un deterrente [2].
È una vicenda sciagurata, quella che si apre. Molti la denunciano, richiamano l'attenzione dell'opinione pubblica, fanno appello alla responsabilità dei "decisori". Molti sostengono che la scelta dell'abusivismo come occasione da cogliere (e da spremere) per impinguare le casse della finanza pubblica altro non è, sul piano morale, che la legittimazione (e l'utilizzazione monetaria) di un reato contro la collettività e il suo futuro, ed è poi, sul piano pratico, la contraddizione palese di qualunque impegno di difesa dell'ambiente, del territorio, del paesaggio e della risorsa che questo rappresenta, e infine dell'ordine nell'assetto territoriale e della certezza del diritto.
Inutili i richiami alla responsabilità. La svendita della giustizia e del territorio per una manciata di soldi (e un pugno di voti) prosegue, la legge per l'abusivismo continua il suo cammino. Ma per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianificazione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella pianificazione. È proprio questo ciò che avviene, nel corso del primo quinquennio degli anni 80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnano la discussione della legge.
In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". Il termine vuol suonare ingiurioso. Ma la ricorrenza della rivoluzione borghese del 1789 chiarirà che, dietro l'intento offensivo, si nasconde una verità. A Lucio Caracciolo che gli chiede quali siano "le radici del pensiero" degli uomini del Terrore, lo storico Lucio Villari risponde che sono uomini per i quali "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". E aggiunge: "è questo, solo questo, il fondamento della democrazia moderna" [3].
L'urbanistica, sostengono i fautori della deregulation, è un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo è nato e si è sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [4] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti è nato e si è rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.
Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato". Una parte consistente dell'opinione pubblica considerava ormai l'abusivismo come qualcosa che non era un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pagare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a saldarvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abusivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. Sicché, in definitiva, l'abusivismo è potuto apparire come qualcosa di assimilabile a una "disobbedienza civile" nei confronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si è proposti di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica.
Tutti dovrebbero riflettere con maggiore attenzione sui nessi tra la vicenda del condono dell'abusivismo e la più vasta questione della delegittimazione dell'autorità politica e amministrativa, dei partiti e delle istituzioni: soprattutto quanti ai nostri giorni pervicacemente ripropongono ulteriori sanatorie [5]. È indubbio infatti che il radicarsi della "cultura dell'abusivismo condonato" ha provocato un sostanziale e profondo indebolimento della credibilità della politica e del principio stesso dell'autorità dei pubblici poteri. Torniamo così al circolo vizioso tra abusivismo, opere pubbliche realizzate nella prassi dell'emergenza, degrado del territorio e dell'azione pubblica. Adoperiamo ancora una volta, per commentarlo, le parole dei magistrati della Corte dei Conti:
È di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici ed alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio[6].
[1] Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.
[2] Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La dimensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1992; cfr.p.240).
[3] Intervista di Lucio Caracciolo a Lucio Villari, in:1789-1799, I dieci anni che sconvolsero, il mondo, n. 4, supplemento a La Repubblica, s.d.
[4] Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denominato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci. Libertini si é adoperato con tenacia per promuovere scelte devastanti soprattutto in materia di condono dell'abusivismo e di infrastrutture. Le sua attività provocarono, oltre a indignati articoli di ambientalisti come Antonio Cederna e Giuliano Cannata, due argomentate lettere di protesta ai massimi dirigenti del Pci, firmate da una quarantina di urbanisti di area comunista la prima, da un centinaio la seconda.
[5] E' il caso dell'on Monello, animatore della "marcia su Roma" degli abusivi siciliani ai tempi della discussione della legge. Ancor oggi eletto nelle liste del Pds, egli ha recentemente presentato una proposta di legge per la sanatoria delle costruzioni abusive realizzate in varie fasi, fino alla data odierna e, per alcuni aspetti, anche per l'abusivismo prossimo futuro.
[6] Corte dei Conti, cit., p.523.