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Edoardo Salzano
20090622 La formazione del planner in Italia dall’età delle speranze all’età della resistenza
23 Febbraio 2010
Interventi e relazioni
Relazione al convegno “Contemporary Society and Cultural Shifts in Public Policies”, 22-23 giugno 2009. Attached the english text

Il convegno è stato organizzato dell’European Spatial Development Planning Network e si è svollto all’Universidade de Aveiro (Portogallo)

1. DUE CONDIZIONAMENTI DELLA STORIA

Il mestiere dell’urbanista nell’ Italia di oggi è condizionato da due circostanze del passato. La prima è il ruolo economicamente e socialmente rilevante della rendita fondiaria. La seconda è il fatto che la figura dell’urbanista nasce in Italia dalla figura dell’architetto.

Il peso della rendita fondiaria

A differenza che in altri paesi europei in Italia l’unità nazionale e l’affermazione del sistema capitalistico-borghese non avvennero con la vittoria della nuova classe sull’ancien régime, ma con un compromesso tra la borghesia capitalista, promotrice dell’unificazione e della costruzione di uno stato unitario, presente soprattutto nelle regioni settentrionali, e la nobiltà feudale presente soprattutto nell’Italia centrale e in quella meridionale (nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato Vaticano). Secondo l’analisi di Antonio Gramsci (1952) e di Emilio Sereni (1980) le forze che esprimevano le componenti radicali (Mazzini, Garibaldi) della borghesia del Nord rinunciarono a sollevare contro i nemici esterni e interni le masse contadine e il mondo rurale, e furono quindi costrette a subire l’egemonia di quelle moderate (Cavour) e a consentire che si formasse un’alleanza tra la borghesia capitalistica e l’ancien régime.

I gruppi sociali il cui potere era assicurato dalla rendita fondiaria agraria (i grandi proprietari del Sud e la nobiltà vaticana) ebbero perciò assicurato il permanere della loro posizione di privilegio. La rendita fondiaria agraria si traformò rapidamente nella rendita fondiaria urbana, man mano che le città si svilupparono. Italo Insolera ha raccontato questa storia a proposito della capitale del nuovo stato, Roma, documentando il passaggio dei latifondi dalle mani della nobiltà papalina ai “mercanti di campagna” e poi da questi alle neonate società immobiliari:

“E c'erano soprattutto i ‘mercanti di campagna’, costituenti l'unico nucleo di industriali, di borghesi in quella che stava diventando la capitale di uno stato borghese, aperto verso la futura industrializzazione. I mercanti di campagna si insediarono subito in Campidoglio [sede del comune – ndr], come era logico, trattandosi dell'unica élite di borghesi, non compromessa con ‘radicali’ e ‘repubblicani’. Purtroppo in loro le caratteristiche negative della borghesia erano ben più importanti di quelle positive […] I mercanti di campagna diventarono mercanti di terreni fabbricabili e impresari edili. In mancanza di una qualsiasi riforma agraria, una nuova più promettente attività lucrativa era nata: si trattava di fabbricare la nuova Roma" (Insolera, 1971)

Dal latifondo rurale al latifondo urbano: a Roma, nel 1907, il 55% dei terreni che il piano regolatore aveva reso edificabili appartenevano a solo 8 proprietari (Insolera, 1971, p. 95) . I tentativi, nel primo decennio del secolo scorso, di ridurre il peso della rendita urbana con sistemi di tassazione ed espropriazione per pubblica utilità non ebbero successo (Insolera, 1971, p. 87 segg.).

Ancora oggi la rendita fondiaria (e in generale la rendita immobiliare) è molto forte. Ma questo lo vedremo più avanti.

L’urbanista nasce dall’architetto

Le prime esperienze italiane di pianificazione nell’età contemporanea, negli anni tra l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, videro come protagonisti gli uffici municipali spesso assistiti da consulenti tecnici dagli studi di ingegneria o di architettura. Una discussione sulla formazione dell’urbanista, e prima ancora sulla sua natura, si sviluppò in Italia negli anni Venti del secolo scorso, sotto l’influenza delle proposte e delle iniziative in Gran Bretagna e soprattutto in Francia. Si manifestarono due posizioni molto diverse.

Secondo la prima (Silvio Ardy, 1926) si doveva formare una figura di “urbanista pubblico”: un civil servant formato “soprattutto sul modello francese delle alte scuole amministrative. […] È un approccio complesso, e per molti versi sorprendente nell’accostare competenze che per il lettore di oggi appaiono difficilmente conciliabili” (Bottini, 2004). Storia, demografia, gestione municipale, edilizia, infrastrutture avrebbero dovuto essere le materie di base, premesse per una specializzazione in due rami: l’uno tecnico e l’altro amministrativo. L’altra proposta (Alberto Calza Bini, 1929) propone il mestiere dell’urbanista come articolazione di quella dell’architetto

La proposta di Ardy si infrange contro la logica del regime fascista (Mussolini si è impadronito dello stato nel 1922 e lo mantiene fino al 1943). Contro la formazione di un planner formato ad hoc per le politiche pubbliche urbane prevale la posizione degli architetti, rappresentata da Alberto Calza Bini, influente esponente dell’accademia romana molto vicino al regime fascista (Calza Bini, 1928). Nelle scuole di architettura si era cominciato a insegnare l’urbanistica (a partire dai primi anni Venti), e questo tipo di formazione era più vicino sia al contesto economico, dove l’attività edilizia aveva un ruolo rilevante, sia alla propaganda del regime. Afferma uno studioso di quel periodo, Paolo Nicoloso:

“La ragione del fallimento della proposta di Ardy –- va colta anche nell’aver voluto egli privilegiare il buon governo della città a discapito della rappresentazione della forma. Viceversa la politica degli architetti, sostiene Calza Bini, considera preponderanti proprio i valori estetici. All’efficienza della forma il regime preferirà la realizzazione di opere auto celebrative più consone alla promozione del consenso” (Nicoloso, 1999, p. 69)

Fabrizio Bottini precisa il riferimento al contesto:

Per Calza Bini l’urbanistica è “il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina”. E la nuova figura professionale è ben diversa da quella dell’ “eletto funzionario comunale” che l’Ardy proponeva a Torino: è un “architetto-urbanista”, un professionista solidamente legato ai diversi interessi (amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari) la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una concezione, quindi, omogenea sia al Regime, sia ad alcune modalità italiane di produzione e funzionamento della città, ciò che indubbiamente giovò al suo successo e durata nel tempo (Bottini, 2004).

Da allora e fino agli anni Settanta del secolo scorso l’urbanistica si insegna soprattutto nelle facoltà di architettura (più marginalmente in quelle d’ingegneria), con una spiccata tendenza per la figura del “libero professionista” più che per quella del civil servant.

2. GLI ANNI DELLE RIFORME, DELLE SPERANZE E DELLE BOMBE (1960-1979)

Emergono i guasti della ricostruzione

Nell’Italia del dopoguerra, passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, la maggioranza parlamentare era aggregata attorno alla democrazia cristiana (DC), un partito moderato su base popolare. A suo contrasto si era costituito un forte blocco di forze di sinistra, con una netta prevalenza del partito comunista (PCI), espressione degli strati operai e contadini e ampiamente egemonico negli strati intellettuali.

L’Italia era stata pesantemente distrutta dalla guerra. Scrive Vezio De Lucia:

“[…] più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di «superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati» attraverso «dispositivi agili e di emergenza”(De Lucia, 2006IV, p. 5)

La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori economici. Da un lato l’attività edilizia privata, come tappa intermedia per il passaggio dall’agricoltura, fino ad allora dominante in Italia, all’ industria. Dall’altro lato l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.

Lo sviluppo dell’industria manifatturiera si era concentrato nel nord-ovest. La sfrenata attività edilizia si era concentrata nelle maggiori città e lungo le coste. Tutto ciò aveva provocato vistosi squilibri territoriali : tra città e campagne, tra coste e regioni interne, tra regioni del nord e quelle del sud.

La scelta di politica economica, se aveva consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie, aveva quindi provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, da un lato, il formarsi di una nuova alleanza politica e, dall’altro lato, una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari.

Programmazione economica e pianificazione urbanistica

Programmazione economica per superare gli squilibri tra i settori economici e tra i territori; pianificazione urbanistica per collaborare a questa impresa e insieme ridurre il peso della rendita fondiaria e la congestione delle città: queste furono due delle principali riforme che la nuova alleanza del centro-sinistra – realizzata promuovendo il distacco del partito socialista da quello comunista –tentò dagli inizi degli anni Sessanta.

Strumento decisivo per la connessione tra programmazione economica e pianificazione urbanistica era stata considerata l’istituzione delle Regioni come anello intermedio tra lo stato nazionale e i poteri locali (soprattutto i comuni). Le regioni erano previste dalla Costituzione del 1948 come una delle quattro istituzioni della Repubblica (insieme a stato, provincia e comune), ma non erano mai state istituite dalla dai governi centristi per timore di ciò che poteva avvenire se le regioni del centro-nord avessero avuto un governo di sinistra, come era del tutto prevedibile.

La riforma urbanistica e il rilancio della pianificazione assumevano quindi un ruolo centrale nel dibattito politico e nelle speranze di trasformazione strutturale del paese. Nemico principale da sconfiggere apparvero subito le forze legate alla rendita fondiaria urbana. Un disegno di legge presentato dal ministro Fiorentino Sullo, che prevedeva l’esproprio preventivo delle aree interessate dai piani di espansione delle città, fu bocciato nel 1963, grazie a una violentissima campagna di stampa, cui DC e socialisti non reagirono. Ma alcuni disastri che si manifestarono a metà degli anni Sessanta, soprattutto nel 1966, ad Agrigento, Firenze, Venezia addebitabili al disordine urbanistico e territoriale, indussero a correre ai ripari: si approvò una legge, considerata come un ponte verso una più completa riforma urbanistica, che consentiva una migliore pianificazione delle città [1].

Si preparava intanto la formazione delle istituzioni regionali.

Un nuovo progetto e un nuovo ruolo per la formazione dell’urbanista

Nuovi orizzonti si aprivano per la professione dell’urbanista. Bisognava avviare un’estesa attività di pianificazione territoriale e urbanistica, nelle regioni e nei comuni cui la legislazione italiana attribuisce la competenza della pianificazione. Regioni e comuni non erano attrezzati, e non era più sufficiente il metodo di pianificazione applicato prima della guerra: nelle poche grandi città pianificate provvedevano generici uffici comunali assistiti da esperti specializzati soprattutto nel progetto urbano.

Bisognava procedere alla formazione di massa di nuovi tecnici, capaci di assistere le amministrazioni pubbliche in tutti gli aspetti connessi alla pianificazione: le competenze dell’architetto-urbanista non bastavano più. Il planner doveva essere dotato di competenze sia nei campi delle nuove tecniche del planning sia nell’economia, nel diritto, nell’amministrazione, nella sociologia.

Giovanni Astengo era un urbanista che aveva già svolto, con la rivista Urbanistica [2], un lavoro di ampliamento della cultura urbanistica italiana alle esperienze e conoscenze elaborate dalla cultura internazionale. Era vicino ai politici socialisti e aveva concorso alla definizione dei programmi del centro-sinistra. Era professore nel prestigioso Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV), forse all’epoca la migliore scuola di architettura italiana. Lì ottenne, con molta fatica, l’istituzione di un corso di laurea in urbanistica, basato su criteri molto vicini a quelli che, trent’anni prima, aveva proposto Silvio Ardy: la formazione di un urbanista che, pur non rinnegando la componente compositiva del progetto urbano, si preparasse a un’attività di planning molto integrata nelle politiche della pubblica amministrazione. Dopo l’esperienza di Venezia analoghi corsi di laurea si costituirono nell’ambito della facoltà di Architettura di Reggio Calabria; più tardi anche nel Politecnico di Milano e, nel corso degli anni Novanta, in molte altre facoltà di architettura. Il corso di laurea di Venezia si è trasformato, nel 2001, in facoltà di Pianificazione del territorio, ma l’esempio non è stato seguito.

Pochi anni dopo, le elezioni amministrative del 1975 e 1976 videro una forte avanzata dal PCI[3], che condusse alla formazione di amministrazioni di sinistra in molte città; tra le altre, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Perugia Ancona, Roma, Napoli, Cagliari. Giunte regionali di sinistra si formavano, oltre che in Emilia-Romagna, Liguria ed Umbria, anche in Piemonte, Liguria, Lazio, e nel 45% delle province. Un grande entusiasmo riempì di speranza il “popolo di sinistra”, cui apparteneva gran parte del mondo degli urbanisti. E un grande campo di lavoro si apriva, dove l’impegno tecnico e culturale si sposava a un impegno politico volto a giocare un ruolo – sia pure piccolo – a partire dalle trincee delle istituzioni democratiche. Un numero consistente di giovani esperti formati nei corsi quinquennali di pianificazione di queste facoltà ha alimentato gli uffici dei comuni, province e regioni, soprattutto nell’Italia del nord e del centro, dove la gestione urbanistica era più consolidata. Numerosi urbanisti assunsero cariche elettive di rilievo in molte città e regioni.

Riforme e controriforme

Il processo di riforme del governo del territorio avviato dall’inizio degli anni Sessanta proseguì soprattutto dopo il biennio 1968-1969. In quegli anni ci furono, insieme, l’esplosione del movimento studentesco e il divampare di numerose proteste sindacali. Queste ultime ebbero il momento più alto in un grande sciopero generale nazionale. Per la prima volta in Italia l’argomento dello sciopero non era negli aspetti salariali o normativi del rapporto di lavoro, ma sulle questioni della casa, dei trasporti, degli squilibri territoriali e dei servizi: questioni che incidevano tutte sul salario reale e sulle condizioni di vita dei lavoratori.

Si aprì una vertenza dei sindacati, appoggiati da entrambi i partiti di sinistra, il comunista e il socialista, con il governo. I temi centrali furono quelli della casa e, in relazione a questo e ai servizi pubblici, del costo degli espropri. La trattativa tra sindacati e governo ottenne dei risultati positivi, nell’ambito di una dialettica che vedeva succedersi le minacce di sciopero e le crisi di governo[4]. Il tentativo di approdare a riforme serie del governo del territorio aveva in quegli anni basi più solide che nel passato. Scrive in proposito Paul Ginsborg:

“Negli anni 1969-71, le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva, ora, del movimento operaio. Come si è già visto (cfr. p. 43) la parte più ambiziosa della strategia sindacale mirava a usare il diffuso attivismo di questi anni come leva per ottenere riforme fondamentali. I riformisti, dunque, non erano più un gruppo di politici relativamente isolati. Erano invece appoggiati da un forte movimento di massa” (Ginsborg, 1989, p. 445)

Ma alle rivendicazioni sociali delle organizzazioni del movimento operaio rispondevano tentativi occulti di arrestare il processo di riforme con metodi violenti. Scrive Vezio De Lucia a proposito dello sciopero generale del 1969:

“L’indiscutibile successo dello sciopero contribuisce certo ad accelerare le manovre dei poteri più o meno occulti che governano la strategia della tensione. E infatti le bombe di Milano e Roma dei 12 dicembre distraggono l’opinione pubblica dal problema della casa, ma solo per qualche settimana. I primi mesi del 1970 sono di nuovo punteggiati da numerosi dibattiti e i sindacati riprendono l’iniziativa (De Lucia, 2006IV, p. 75)

Con la complicità dei servizi segreti (i “servizi deviati”) gli attentati dinamitardi furono organizzati anche negli anni successivi in numerose città, alternandosi con le azioni dimostrative del terrorismo di sinistra[5]. Essi provocarono morti e feriti, e soprattutto l’impaurirsi dell’opinione pubblica e il rafforzarsi nella maggioranza parlamentare delle forz che volevano interrompere il cammino delle riforme.

L’intero corso degli anni Settanta può essere definito come il conflitto tra i tentativi di riforma e quelli di controriforma. Ma negli anni Ottanta tutto cambiò. Non in meglio.

3. DENTRO UN NUOVO REGIME

La svolta

Siamo oggi in un mondo molto lontano da quello nel quale il mestiere del planner era socialmente importante, e la formazione universitaria aveva un obiettivo chiaro e definito cui orientarsi. Non c’è una interpretazione largamente condivisa del perché questo è accaduto, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Credo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si possa collocare nella metà degli anni Ottanta il momento principale della svolta., perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.

Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi, il quale mantenne il suo ruolo fino all'aprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. In Italia un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984) aveva aperto l’attacco alla scala mobile: cioè al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto. Il PCI promosse, nel 1985, un referendum per difenderlo, ma non raggiunse la maggioranza dei votii[6]. Nello stesso anno si svolgono in Italia le elezioni amministrative: cadono quasi tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi città.

Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune.

“Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce ad ottenere l'ammissione dell'Italia in quello che era allora il Club dei Cinque, organismo di concertazione della politica economica formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta” (Della Seta and Salzano, 1993).

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva Paul Ginsborg

“crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti” (Ginsborg, 2007).

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali di affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato.

Berlusconi e il berlusconismo

L’ideologia di cui Craxi fu il veicolo politico ha trovato la sua più piena e devastante espressione nel nuovo premier italiano, Silvio Berlusconi. Spiace che il discredito internazionale che avvolge il nostro premier sia causato più dagli incredibili aspetti del suo comportamento personale che dalla conoscenza della reale sostanza della sua politica.

Dire soltanto che quella di Berlusconi è una politica di classe significherebbe nobilitarla. In realtà essa esprime al massimo grado la volontà proterva di far trionfare gli interessi personali e quelli dei gruppi di potere che è riuscito ad aggregare attorno a sé contro tutti gli altri, calpestando gli strumenti della democrazia (dalla legalità alle procedure di garanzia degli interessi pubblici, dalla libertà d’informazione alla pianificazione del territorio, dal rispetto delle minoranze a quello della verità dei fatti.

Per raggiungere il consenso popolare, il premier ha saputo utilizzare i vizi nascosti nell’ animus dell’italiano medio: la difesa del privatismo individuale e familiare contro la comunità più larga e lo stato, la diffidenza nei confronti delle autorità costituite, la forte propensione a non pagare le tasse e ad eludere o evadere dagli obblighi sociali. Vizi che hanno probabilmente fondamenti anche nella storia del paese, ma che il grande potere mediatico di Berlusconi ha sapientemente provveduto a legittimare fino a renderli pensiero comune.

In ciò Berlusconi è stato indubbiamente aiutato dall’appannarsi della coscienza critica nelle altre componenti culturali e politiche. Non c’è oggi, in Italia, un’alternativa credibile sul terreno politico, e sullo stesso piano della cultura allo sgretolamento delle ideologie della sinistra ha corrisposto una pesantissima azione di corruzione nei confronti di larghe porzioni dell’intellettualità. Accanto a Berlusconi si è sviluppata una nuvola di quasi-berlusconismo, o di “berlusconismo ben temperato“, che condivide alcuni pilastri della sua ideologia. La stessa sinistra ancora comunista aveva del resto cominciato, fin dagli anni Ottanta, a utilizzare slogan come “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “via i lacci e lacciuoli che ostacolano la libertà d’iniziativa economica”. Anche nella sinistra (o almeno nella sua area maggioritaria) si era privilegiata di fatto la governabilità alla democrazia.

L’urbanistica del berlusconismo

Tre sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: programma di grandi opere infrastrutturali, spesso prive di qualsiasi utilità, a volte pericolose, e comunque non prioritarie; libertà per i privati di costruire ovunque infrangendo ogni regola; privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.

Tra le Grandi opere vorrei segnalare:

- il Ponte sullo stretto di Messina, che tra l’altro sorge in un sito soggetto ad altissimo rischio sismico, e che è alternativo al rafforzamento dei traffici marittimi (la Sicilia come cul de sac del sistema traportistico italiano invece che come cerniera tra l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo);

- il MoSE, un gigantesco e pericoloso sistema di opere fisse e dighe mobili tra la Laguna di Venezia e il mare, già in corso di realizzazione benché non sia stato sperimentato e non siano neanche redatti i progetti esecutivi delle componenti più delicate e incerte;

- la realizzazione di una serie di autostrade e altre arterie stradali, soprattutto al nord, realizzate mistificando la strategia europea dei “corridoi”, che dovrebbero avere come asse linee ferroviarie e trasporti acquei, e sono ridotti in Italia a grovigli di.

Oltre a quelle decise dal governo, anche ogni comune cerca di inventare (e pagare) una Grande opera, affidata a una firma dell’architettura internazionale, che renda più dfamosa la sua città rispetto alle concorrenti. E queste grandi opere (anche quelle utili, come gli ospadali) sono realizzate con il sistema del project financing all’italiana, che affida la gestione delle opere agli stessi finanziatori/realizzatori, scaricando così i debiti contratti oggi sulle generazioni futuri.

A proposito della liberalizzazione dell’attività edilizia dalle regole della pianificazione voglio ricordare il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi. Con esso si utilizza l’alibi della domanda di case in affitto a prezzi ragionevole (in Italia da dieci anni non c’è una politica per la residenza sociale) non per realizzare edilizia sociale, ma per disporre che ogni proprietario possa ampliare il proprio edificio (residenza, capannone industriale, albergo o centro commerciale che sia) in deroga alle regole della pianificazione e della tutela del paesaggio.

Una nuova ondata di cemento minaccia la penisola, ancora peggiore di quella che devastò città e coste negli anni Cinquanta. Le poche regioni ragionevoli sono riuscite a introdurre (basandosi sulle loro competenze costituzionali) dei limitati miglioramenti, ma le regioni dominate dalla destra stanno peggiorando ancora, con le loro leggi, l’impostazione di Berlusconi.

Infine, la spinta alla valorizzazione economica, all’alienazione del patrimonio pubblico, alla trasformazione del cittadino in cliente, congiunte all’appello alla sicurezza contro i diversi, stanno producendo la riduzione degli spazi pubblici e la loro privatizzazione.

Sta scomparendo dalle legislazioni nazionale e regionali l’obbligo di provvedere a realizzare servizi sociali e attrezzature pubbliche insieme alle costruzioni. Sempre più forti sono le spinte verso privatizzazione delle istituzioni collettive pubbliche (dalla scuola alla sanità). Nella stessa gestione dell’università prevalgono sempre più concezioni e pratiche aziendalistiche.

Conseguenze della strategia berlusconiana

Nel quadro di questa strategia il ruolo del planner diventa sempre più marginale: quasi scompare al cospetto del ruolo delle Star dell’architettura, cui spesso i sindaci affidano le strategie urbane (e le grandi realizzazioni celebrative). La pianificazione territoriale e urbanistica viene emarginata: è concepita come un ostacolo agli interessi di “fare affari” con le trasformazioni territoriali, alla discrezionalità del potere politico e amministrativo, alla miopia che caratterizza le nostre attuali classi dirigenti, alle improvvisazioni dell’oggettistica degli Architetti.

I saperi accademici, che governano i processi formativi, si rivelano incapaci di offrire agli studenti prospettive diverse, e perfino di stimolarli ad esercitare un pensiero critico. Del resto, gran parte dei nostri professori sono anche professionisti. Una buona parte dei loro introiti viene dai compensi che percepiscono dalle amministrazioni pubbliche e dalle aziende private, e questo incide sui loro comportamenti. Raramente nelle università, e nelle stesse istituzioni culturali come l’INU, si discute criticamente della politica urbanistica di Berlusconi. Nella mia università, nella recente elezione del rettore, ha avuto un inaspettato successo un candidato che denunciava il fatto che nella passata gestione non si era mai aperto un dibattito critico sui peggiori provvedimenti del goveno, come il “piano casa” di Berlusconi, il MoSE o le autostrade.

Ma l’aggressione agli spazi pubblici e la devastazione dei paesaggi e dell’ambiente, provocati dalle grandi opere e dall’ondata di cemento, insieme all’irrisolta questione della casa, stanno suscitando molte reazioni di gruppi di cittadini, comitati, associazioni. Interessanti episodi di protesta e resistenza si sono manifestati soprattutto in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, In queste regioni il movimento si sta organizzando in “reti” che, spesso partendo da logiche Nimby, tentano di contrastare la strategia della destra a livelli più alti e cominciano a svolgere un ruolo politico.

Quale formazione per una nuova speranza

In che direzione muoversi in una situazione quale quella che si è determinata in Italia? In particolare, che ruolo può svolgere la formazione per contribuire a uscire dalla situazione attuale? Le risposte sono già implicite nell’analisi che ho tentato di fare. Sarò perciò molto schematico.

Bisogna prendere atto che la politica dei partiti è oggi del tutto inefficace: una parte consistente dei partiti (sostanzialmente tutti quelli rappresentati in Parlamento) sono subalterni rispetto alla visione della destra e condividono, più o meno pienamente e consapevolmente, il “pensiero unico”. I gruppi residui della grande sinistra del PCI non riescono a trovare una convergenza tra loro, e neppure con i gruppi che esprimono posizioni critiche nei confronti del neoliberalismo (verdi, ecologisti ecc.) o dell’immoralità pubblica e privata di Berlusconi (parti del mondo cattolico e di quello liberale).

Bisogna ugualmente prendere atto che la destra ha il consenso di una parte molto ampia dell’elettorato[7]. Il lavoro fatto nei decenni scorsi con i mass media (soprattutto con la televisione e la pubblicità) ha esaltato i vizi e depresso le virtù di grandissima parte della popolazione italiana e creato un pensiero comune che si accontenta delle prospettive indicate dal Potere. Neppure la crisi economica ha modificato questo orientamento, e forse lo ha invece accentuato.

Bisogna perciò in primo luogo comprendere che il lavoro da fare è di lunga lena, che deve proporsi dal modificare la testa degli italiani e far nascere in loro la capacità di guardare criticamente la realtà. Bisogna convincerli – a partire dalle generazioni più giovani – che il mondo così non va bene, che le tendenze sono preoccupanti, ma che la storia non è ancora scritta e spetta a loro farlo.

Bisogna ugualmente comprendere che l’unica realtà sociale che mostra dinamismo e capacità di opposizione è costituita dai movimenti di protesta per le condizioni della città, del territorio, dell’ambiente, per una condizione sempre più precaria e incerta del lavoro, per la privatizzazione del processo formativo e al degrado della scuola pubblica.

Bisogna infine comprendere che i movimenti rimangono sterili se non trovano delle ragioni comuni, se non assumono consapevolezza dei caratteri generali del disagio che vivono, se non diventano capaci di generare una nuova politica. Questa non può nascere che da uno sforzo di analisi e di organizzazione nel quale i saperi esperti si mescolino a quelli che nascono dalla società.

La formazione dell’urbanista deve perciò essere finalizzata a far assumere (o riassumere) all’urbanista due nuove connotazioni:

1. la capacità di analizzare il trend culturale, sociale e politico, di criticarlo nel suo immediato e nelle sue prospettiva, di diffondere la sua critica negli strati che subiscono il potere dominante;

2. la capacità di aiutare, con il loro sapere e con la loro umiltà, i movimenti che tendono a contrastare la tendenza in atto e a costruire un’alternativa.

Questa non può nascere da chi ha un’esperienza limitata alla propria esperienza “locale”, ma ha bisogno dello sguardo largo dell’intellettuale: sempre che questo sia realmente tale.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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A. CALZA BINI, Per la costituzione di un Centro di Studi Urbanistici in Roma cura di) "Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani ", Roma, 1928.

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P. DELLA SETA, and E. SALZANO, L'Italia a sacco. Come, negli incredibili anni '80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Roma, Editori riuniti, 1993

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E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, Einaudi, 1980 (tit.orig.:1947)

[1] Legge 765/1967. La legge prevedeva tra l’altro: la generalizzazione a tutti i comuni dell’obbligo di formare un Piano regolatore generale; l’obbligo di prevedere nei piani urbanistici determinate dotazioni minime di spazi pubblici o d’uso pubblico (standard urbanistici); una disciplina dei piani di lottizzazione privati, che garantissero la presenza di dotazioni urbanistiche adeguate.

[2]Urbanistica era la rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica, un’associazione che raggruppava gli urbanisti italiani. Astengo la diresse dal 1952 al 1978 e ne fece uno strumento importantissimo eper la formazione della cultura urbanistica. I fascicoli della rivista, dotati di un ricchissimo apparato di immagini, dedicava ampi dossier alla documentazione di importanti eventi o luoghi concernenti soprattutto progetti di piani urbanistici e territorialio, ma non mancava l’attenzione ad altri aspetti del planning e degli studi urbani. Era ben conoscita negli ambienti specializzati anche all’estero; mi è capitato di vederne una copia, negli anni Sessanta, sul tavolo dell’ufficio tecnico di Costanza, in Romania.

[3] Il dato elettoralmente più significativo delle elezioni amministrative fu la crescita del Pci, che passò dal 27,9% delle precedenti elezioni regionali al 33,4, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi cresceva dell’1,6% e la Dc perdeva il 2,5%.

[4] Con la legge 22 ottobre 1971, n. 865 si ottennero un rafforzamento della legge 167/1962, che sollecitava i comuni (obbligandone alcuni) a realizzare quartieri di edilizia residenziale pubblica e privata convenzionata, dotata di tutti i necessari servizi, forte riduzione delle indennità d’esproprio, che assumevano come valore di riferimento quello legato all’utilizzazione agricola. Leggi successive disposero il controllo dei canoni di locazione del patrimonio edilizio privato (legge 29 luglio 1978 n. 392) e la programmazione decennale dell’intervento finanziario dello stato per l’edilizia residenziale, comprendente la possibilità di realizzare interventi per il recupero dell’edilizia esistente (legge 5 agosto 1978 n. 457). Cfr Edoardo Salzano, Fondamenti Di Urbanistica. La Storia E La Norma, IV ed., Grandi Opere (Roma-Bari: Editori Laterza, 2007IV), 171-85.

[5]Gli attentati principali avvennero nelle seguenti date: 12 dicembre 1969, Milano, Piazza Fontana; 8 agosto 1969, otto città; 22 luglio 1970, Gioia Tauro, deragliamento del treno Nord-Sud; 31 maggio 1972, Peteano (Gorizia); 17 maggio 1973, Milano, Questura; 28 maggio 1974, Brescia, Piazza della Loggia; 4 agosto 1974, treno Italicus; 16 marzo 1978, Roma, Via Fani, rapimento del premier Aldo Moro; 2 agosto 1980, Bologna, stazione ferroviaria. La maggior parte di essi sono attribuibili a organizzazioni legate alla destra. Come si vede, particolarmente intenso fu il periodo 1969-1972, mentre si discutevano le leggi di riforma.

[6] A favore dell’abrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi, che raggiunsero il 46%; contrari il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprirà più tardi che la campagna referendaria era stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo la scala mobile viene completamente abrogata.

[7] Il consenso reale è molto minore di quanto la destra voglia far credere. Si basa largamente su una legge elettorale truffaldina (il parlamentare che le ha dato il suo nome l’ha definita “una porcata”), e su un astensionismo molto più ampio del solito, generato da una sfiducia generale per la politica e in particolare per l’impotenza della sinistra.

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