Ciò di cui stanno discutendo governo e regioni ha pochissimo a che fare col tema. La questione della casa è del tutto marginale. É un pretesto che Berlusconi ha scelto per rilanciare l’attività economica responsabile della distruzione del territorio fin dagli anni del dopoguerra: l’edilizia senza freni né vincoli. Non è certo consentendo ai proprietari di case e capannoni di ampliare i volumi di cui già dispongono che si ottengono alloggi a prezzi accessibili alle persone che costituiscono oggi la domanda inevasa di case. Questa domanda è costituita dagli immigrati, richiamati dalla richiesta di forza lavoro, dalle nuove famiglie, dai lavoratori precari, da quanti hanno trovato un lavoro distante dal luogo dove lavorano. Si tratta di una domanda, prevalentemente di alloggi in affitto, che l’attuale mercato della casa non può soddisfare: altrimenti, non sarebbe così consistente il numero delle case vuote, in attesa di compratore. Non è certo l’incremento dei volumi esistenti la risposta.
Si parla anche di edilizia sociale realizzata dai costruttori e data in affitto per un certo numero di anni a prezzi contenuti. Ma a quali condizioni? Spesso si tratta di aree destinate alla formazione di spazi pubblici, nelle quali si lascia che i proprietari costruiscano residenze impegnandosi a darle in affitto per qualche anno, oppure di aree agricole nelle quali il comune concede ai proprietari un’opportuna variante urbanistica. Così, dopo qualche anno il proprietario avrà avuto in regalo un’area divenuta edificabile. Intanto, la città cresce a dismisura, e quella esistente si intensifica e appesantisce.
Quello scelto da Berlusconi è certamente un modo per aumentare la quantità di volumi edificati, e quindi il carico urbanistico: la necessità di strade, fogne, altre infrastrutture, servizi scolastici e sanitari, spazi pubblici. Tutti beni che diventano più scarsi via via che gli standard urbanistici sono dimenticati o cancellati, e che le risorse che dovevano servire per realizzarli (gli oneri di urbanizzazione e di concessione) vengono dirottati ad altri fini. Ed è un modo per ottenere un risultato che sta profondamente a cuore agli attuali reggitori della cosa pubblica: liberarsi di quelle insopportabili pastoie costituite dalle regole della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica. Liberarsi dalle regole tese a risparmiare la terra dove non è necessario invaderla con la repellente crosta di cemento e asfalto che sempre più cancella i nostri patrimoni.