Marco Boschini e Michele Dotti, L’anticasta. L’Italia che funziona, EMI 2009. Con interventi di : Jacopo Fo, Maurizio Pallante, Alex Zanotelli, Franca Rame, Francesco Comotto, Chiara Sasso, Gianluca Finiguerra, Alessio Ciacci, Andrea Segrè, Luca Falasconi, Ezio Orzes, Rossano Ercolini, Ignazio Garau. Il libro può essere ordinato a Commercio equo
Che si fa per evitare che il territorio venga devastato, cementificato, impermeabilizzato, distrutto nelle sue qualità, invaso da rifiuti d’ogni genere, trasformato da risorsa a rischio per la vita degli uomini, negato nella sua natura di patrimonio comune e ridotto a merce, materia bruta di arricchimenti individuali? In Italia, oggi, poco o nulla.
Pochi decenni fa era diverso, almeno in vaste parti della penisola, in regioni che erano modelli cui tentar di adeguarsi. Ma non serve guardare all’indietro, salvo per imparare che un altro modo di trattare il territorio è possibile: e se lo è stato, può tornare a esserlo. Non serve la nostalgia, serve guardare avanti, e in primo luogo comprendere.
Come sempre nei periodi cupi bisogna cominciare dalle idee: sono le idee che guidano i fatti, e sono le parole che esprimono le idee. Quindi sforziamoci di ragionare su alcune parole del territorio. Poi cercheremo di comprendere che cosa si più fare.
Le ideologie
Intanto sgombriamo il campo da un equivoco. Non è vero che le ideologie siano scomparse. Chi lo sostiene e non è ignorante lo fa strumentalmente: per nascondere il fatto che c’è un’ideologia dominante, che condiziona i nostri pensieri e i nostri atti. Se ce ne accorgessimo, ci comporteremmo diversamente, perché i nostri pensierideterminano le nostre azioni.
Se non pensassimo che l’affermazione individuale è il valore primario e la premessa necessaria della felicità riscopriremmo la felicità dello stare insieme, del lavorare insieme per un comune destino. Se non pensassimo che la civiltà “occidentale” è la migliore dell’universo ci interesserebbe comprendere gli altri, visitare le altre culture con rispetto – e così riusciremmo a comunicare anche la nostra senza sopraffazione. Se non pensassimo che sviluppo significa aumentare la quantità di merci (e quindi di ricchezze materiali) prodotte, scopriremmo che sviluppo può significare invece crescita della capacità di comprenderci, di conoscerci, di amarci, di esplorare nuovi mondi della geografia e della storia, del pianeta e dello spirito, di contribuire allo sviluppo di tutti.
E magari comprenderemmo che, anziché disporre di una casa in proprietà (una per noi, e una per ciascuno dei nostri figli) sarebbe meglio se ci fosse un’ampia disponibilità di case in affitto, di buona qualità edilizia e urbanistica, alla portata dei redditi di ciascuno, nei luoghi dove sono necessarie. Scopriremmo che anziché avere in casa una lavatrice e un asciugatoio, e il piccolo scoperto privato con le panche e il barbecue, e lo stenditoio sul terrazzino di casa, sarebbe più conveniente poter disporre di queste utilità, efficienti e funzionanti, negli spazi comuni del complesso in cui abitiamo, come succede nei paesi più civili del nostro da mezzo secolo a questa parte. Comprenderemmo anche che in Italia ottenere queste cose significa combattere battaglie difficili, sconfiggere nemici potenti, e che quindi abbiamo bisogno di costruire subito le solidarietà necessarie per diventare più forti e più convincenti degli altri.
Il primo passo da compiere per vivere meglio sul territorio (e nella società) è allora comprendere qual’è l’ideologia dominante, saperla criticare in ogni aspetto della nostra vita, saper individuare le sue radici, e collaborare con chi – come noi – si sforza di costruire una “contro-ideologia”. Una ideologia, un insieme di principi, di priorità, di regole, di speranze, alternative rispetto a quelle che ci condizionano (e ci opprimono).
La terra
Chiamiamo terra il territorio vergine, dominato dalla natura. Dobbiamo avere consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono le forme elementari della fauna e della flora. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale. A partire dall’oscuro lavorìo che compiono i vermi e gli altri organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono la terra porosa, permeabile, suscettibile di ospitare e nutrire i germi della vita vegetale.
Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non può essere soddisfatta altrimenti. E bisogna sentire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che ci si deve proporre di risarcire, restituendo alla natura qualche altro frammento del pianeta che non è più necessario all’urbanizzazione.
Il territorio
Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della terra (della natura e del suo oscuro lavorìo). Le civiltà umane hanno aggiunto qualità alla natura: non sempre, e non tutte. A volte, per accrescere la qualità nuova, hanno distrutto qualità preesistenti. Non possiamo ricostruire quello che c’era e oggi non c’è più, ma possiamo imparare a comportarci in modo diverso da quei nostri avi che hanno distrutto invece di proseguire il lavoro dei loro predecessori.
Anche le qualità prodotte dalla storia dobbiamo conoscerle, amarle, rispettarle. Non solo ci rivelano spesso bellezza e saggezza, ma ci raccontano la storia, la nostra storia, la storia della civiltà che è parte di noi. Senza conoscenza della storia può esistere il presente, ma non può esistere un futuro migliore
Dobbiamo conoscere, amare e rispettare tutte le qualità presenti nel territorio. Nelle loro parti, e nel sistema che costituiscono nel loro insieme.
Sistema
Il territorio non è un semplice magazzino. Gli elementi che lo costituiscono hanno ordine tra loro, sono connessi in modo che una modifica in un punto, un’azione su uno di essi, modifica tutte gli altri.
Estrarre ghiaia e sabbia dall’alveo di un fiume riduce la quantità di materia inerte che arriva al mare, quindi comporta l’erosione dei litorali. Irrorare con prodotti velenosi un’area permeabile rende pericolosa l’acqua in tutta la regione alimentata dalla sottostante falda acquifera. Rendere artificiali le sponde di un tratto di fiume ne aumenta la velocità e la portata, e può provocare inondazioni e distruzioni a valle.
Non parliamo poi delle trasformazioni provocate dalla cattiva urbanistica. Aprire un supermercato alla periferia della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti. Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico.
La pianificazione
Se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico. L’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme. Il metodo che è stato inventato quando si è compreso che il territorio doveva essere governato è la pianificazione (territoriale e urbana). Essa è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.
L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.
I conflitti
Il territorio è un patrimonio; è un insieme di risorse; è un sistema. Esso è anche l’ambiente nel quale si svolge la vita dell’uomo. Man mano che l’umanità si è sviluppata (in tutti i sensi in cui questo termine può essere adoperato) è diventata sempre più ricca e complessa la rete delle relazioni che legano gli uomini tra loro, che costituiscono la società. Il territorio quindi non è più l’habitat del singolo uomo, ma è divenuto l’habitat della società.
Le trasformazioni indotte da ogni singolo uomo si sommano tra loro e modificano l’intero sistema. Le esigenze di ciascuno non possono essere soddisfatte se non affrontando (e soddisfacendo) le esigenze di tutti. Il territorio è un patrimonio che deve essere utilizzato nell’interesse di tutti.
Ma il territorio, e le risorse che in esso sono depositate, possono essere utilizzati in modi diversi, possono servire interessi diversi. Il territorio è perciò anche il luogo dei conflitti tra diversi gruppi sociali.
La pianificazione è anche il metodo (e il complesso di strumenti) attraverso i quali i conflitti vengono regolati. Di conseguenza la pianificazione non può essere governata da individui o gruppi che esprimano interessi di una parte sola della società: deve essere governate dalle istituzioni e dalle procedure mediante le quali si manifesta la sovranità della comunità nel suo insieme.
La pianificazione è insomma appannaggio esclusivo del potere pubblico.
Le regole
Poiché il territorio è soggetto alle azioni di una pluralità di attori, la pianificazione deve esprimersi mediante un insieme di regole, che costituiscono al tempo stesso i limiti e le opportunità per le azioni che ciascuno ha la capacità e il potere di esercitare.
Le regole devono valere per tutti: in tal senso devono essere eque. Ma esse non sono né oggettive né neutrali. Nella situazione presente (ma in qualche misura in tutte le situazioni) esse premiano alcuni interessi, ne penalizzano altri. È essenziale che sia chiaro a tutti (che sia trasparente) chi dalle regole della pianificazione urbanistica è premiato e chi è colpito.
Nella concreta situazione italiana il conflitto dominante è tra due gruppi di soggetti: (1) quelli interessati alla valorizzazione economica della propria proprietà, cioè quelli che utilizzano il territorio come una macchina per accrescere la loro ricchezza personale; (2) quelli interessati a veder soddisfatte le loro esigenze di cittadini: accesso a un’abitazione a prezzo ragionevole, disponibilità di spazi e servizi pubblici efficaci e comodi, assenza di rischi e di bruttezze, possibilità di godere delle diverse qualità del patrimonio comune.
In questa fase della vita pubblica italiana il primo gruppo di interessi è indubbiamente il più forte. È esso in particolare che domina il processo delle decisioni, che conosce gli strumenti mediante i quali si formano e trasformano le regole.
La prima funzione delle regole è quindi quella politica e didattica: prima di definire le regole tecniche occorre definire un gruppo di regole che costituiscono i principi che la collettività sceglie per governare il proprio territorio.
I principi
Per chiarire ciò che intendo potrà servire un esempio: l’enunciazione dei “principi” che apre le norme del Piano strutturale (”Statuto dei luoghi”) del comune di Sesto Fiorentino (FI). Si tratta di alcune affermazioni abbastanza semplici, che dovrebbero costituire la base delle specifiche regole del piano e dei conseguenti comportamenti.
Città, società, territorio
La città, il territorio dal quale è nata e di cui essa fa parte, gli uomini e la società che la costruiscono, la abitano e la utilizzano, fanno parte di un unico sistema.
La pianificazione è finalizzata a garantire un rapporto equilibrato tra comunità e territorio, nel rispetto dei principi enunciati nel presente Statuto dei luoghi e nei limiti dettati dalle leggi vigenti.
La tutela dell’ambiente
Si attribuisce priorità logica e culturale alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo.
In funzione di tale priorità il piano strutturale subordina le trasformazioni fisiche e funzionali del territorio a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.
I luoghi e la loro identità
Si riconosce che i diversi luoghi che compongono il territorio comunale possiedono ciascuno una specifica identità, derivata dalla loro “biografia” ovverosia dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito.
Il piano strutturale individua come “Unità territoriali organiche” gli ambiti all’interno dei quali possa essere formata o promossa o tutelata la formazione di comunità stabilmente legate al territorio e dotate di sufficienti dotazioni elementari e, sulla base di questo principio, determina l’organizzazione del territorio.
Il piano strutturale inoltre promuove la preservazione delle testimonianze materiali della storia, e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative.
Il territorio come patrimonio per domani
Si riconosce la necessità e la responsabilità, nei confronti delle generazioni future, di non disperdere la straordinaria ricchezza e bellezza del territorio comunale così come ci sono state tramandate attraverso il secolare lavoro della natura e dell’uomo.
Il piano strutturale è volto prioritariamente, pertanto, al recupero e alla valorizzazione dell’esistente e, in armonia con i principi sanciti dalla legge urbanistica regionale, considera prioritariamente il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti rispetto ad ogni ulteriore consumo di suolo.
La città e il territorio più vasto
Si riconosce l’appartenenza di Sesto Fiorentino ad un territorio più ampio di quello comunale e coincidente, a seconda degli aspetti considerati, con l’area della Piana, l’area metropolitana, la provincia, il bacino idrografico e la regione.
Sulla base di questo principio e del principio di sussidiarietà, il piano strutturale stabilisce, in accordo con le previsioni degli altri enti territoriali, la localizzazione e le forme d’uso degli elementi di rilevanza sovracomunale.
La città come casa della società
Si riconosce la città come luogo di massima espressione della vita civile e della vita politica nel quale la convivenza sociale facilita l’esercizio attivo dei diritti individuali.
Il presente piano è volto pertanto a favorire la convivenza sociale attraverso:
- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano la massima diffusione dei diritti primari di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale;
- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinché siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, con particolare attenzione per i cittadini più deboli come i bambini, gli anziani, i portatori d’handicap;
- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini.
In particolare, il piano strutturale si pone l’obbiettivo specifico di formare un “sistema delle qualità”, organizzando la città e il territorio a partire dal pubblico e dal pedonale, in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, i luoghi dedicati alla ricreazione e quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).
La città come costruzione collettiva
Si riconosce la necessità che i vantaggi derivanti ai singoli cittadini dalle trasformazioni urbanistiche siano temperati a favore della qualificazione complessiva della città (prevedendo la cessione di aree per le attrezzature o realizzandone alcune, compensando gli effetti sull’ambiente, e così via).
Il presente piano pertanto stabilisce quali prestazioni debbano essere richieste, nel complesso, alle trasformazioni urbanistiche, demandando agli strumenti attuativi il compito di definire nel dettaglio le modalità attraverso le quali garantirne il raggiungimento e i rapporti fra pubblico e privato.
Lo strumento della pianificazione
Si riconosce l’istituto della pianificazione come lo strumento necessario per garantire la coerenza, nello spazio e nel tempo, dell’insieme delle trasformazioni del territorio, assicurando la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte e la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.
Naturalmente non basta che i principi siano scritti nelle norme: occorre che essi siano posti preliminarmente in discussione, che arrivino a tutti gli abitanti, che costituiscano l’oggetto di molte riunioni nel corso dei quali si illustri, si articoli, si modifichino le formulazioni. Bisogna che questa discussione sia accompagnata dall’illustrazione e il dibattito sul territorio: sulle sue caratteristiche, rischi, problemi, regole che esso stesso pone alle trasformazioni. E bisogna che la fedeltà a questi principi sia il parametro sulla cui base i cittadini verificheranno e valuteranno le scelte degli amministratori.
Uno scoglio: la rendita
Perché, se si vuole che il territorio sia amministrato con saggezza e lungimiranza, sono così importanti le regole? E perché l’urbanistica non può non essere “regolativa” e “autoritativa”? La risposta è semplice: regole forti sono l’unico strumento disponibile per cercar di contenere gli effetti della proprietà privata dei suoli e, nell’ambito del sistema economico sociale italiano, dell’appropriazione privata delle rendite urbane.
Per poter governare efficacemente il territorio la collettività deve avere la piena disponibilità del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà: quindi, avere regole forti adoperate da un potere pubblico autorevole e determinato.
Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deve essere consapevole che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, di per sé non appartiene al proprietario ma alla collettività.
Questa premessa era molto viva, qualche decennio fa, nella consapevolezza della cultura e della politica dei veri liberali e della sinistra. Ora sembra scomparsa: la rendita, anziché una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.